2005

L'ammissibilità del ricorso alla forza armata a fini umanitari e la guerra del Kosovo (*)

Giuseppe Palmisano

Sommario: 1. Premessa: il diritto internazionale, le nuove guerre e la guerra "umanitaria" del Kosovo. - Sezione I: L'uso della forza armata per la tutela dei diritti umani nella recente prassi internazionale: 2. Le operazioni di peace-building, peace-keeping e peace-enforcement condotte dalle Nazioni Unite. - 3. L'uso della forza a fini umanitari autorizzato dal Consiglio di Sicurezza. - 4. Gli interventi armati umanitari decisi e attuati al di fuori del quadro delle Nazioni Unite. - 5. La crisi del Kosovo e l'intervento dei Paesi della NATO: i fatti. - Sezione II: Le possibili argomentazioni a sostegno della legittimità della guerra del Kosovo alla luce del diritto internazionale vigente: 6. Un intervento autorizzato o approvato dal Consiglio di Sicurezza? - 7. Un intervento legittimo in quanto non rientrante nel divieto di cui all'art. 2, par. 4, della Carta ONU? - 8. Un intervento giustificato da uno "stato di necessità"? - 9. Un intervento consentito da una norma consuetudinaria ad hoc sull'intervento d'umanità? - 10. Un tipo di intervento giustificabile a titolo di contromisura per la grave violazione di obblighi erga omnes? - 11. Conclusione de lege lata. - 12. L'intervento in Kosovo in una prospettiva de lege ferenda.

1. - La guerra sta prepotentemente tornando al centro dei dibattiti sul diritto internazionale. E vi sta tornando non come pratica da mettere definitivamente al bando, come modalità aggressiva e violenta usata dagli Stati per affermare i propri interessi, come flagello da scongiurare e reprimere (1). Vi sta tornando, al contrario, come strumento di cui verificare, in certi contesti, la legittimità, l'ammissibilità giuridica o, addirittura, l'utilizzazione come mezzo di attuazione del diritto, di garanzia del rispetto della "legalità internazionale". "Guerra al terrorismo", "guerra preventiva", "guerra agli Stati-canaglia": non si tratta più di mere metafore retoriche, come "guerra alla povertà" o "guerra all'analfabetismo e all'ignoranza". Si tratta invece di realtà in atto o incombenti, con le quali la cosiddetta comunità internazionale è chiamata a confrontarsi concretamente e che l'umanità tutta è costretta a prendere molto sul serio.

Ognuna delle "nuove guerre" dell'ultimo decennio - dalla prima guerra del Golfo, alla guerra del Kosovo, alla guerra dell'Afghanistan, alla nuova guerra minacciata e già sommessamente cominciata contro l'Iraq - rappresenta evidentemente una sfida al diritto in genere, e al diritto internazionale in ispecie. Ma fra tali guerre è probabilmente quella del Kosovo (marzo-giugno 1999) a porre al giurista - e non solo a lui - i dubbi e i problemi più delicati.

Essa si presenta infatti come la più "morale", come la più "giusta", di queste guerre: un intervento umanitario, attuato dai Paesi membri della NATO al fine di evitare un'altrimenti certa strage di innocenti, per fermare il genocidio perpetrato da un regime oppressivo e da un tiranno sanguinario (2).

Sia così oppure no per il Kosovo, l'angosciosità del dilemma che effettivamente si pone quando non sembrano esservi altre vie per salvare intere popolazioni da gravissime violazioni dei loro diritti fondamentali, se non quella del ricorso alla forza armata contro il governo che calpesta tali diritti, è innegabile. Nell'esprimere le proprie considerazioni su casi di questo genere, il giurista non può dimenticare la gravità della posta in gioco: se infatti una valutazione che affermi la conformità al diritto vigente di un intervento armato "umanitario" può equivalere a fornire una facile giustificazione a politiche egemoniche e aggressive, ad atti di indebita e violenta ingerenza di uno o più Stati negli affari di altri Stati e di altri popoli, a bombardamenti micidiali e invasioni militari, d'altra parte una valutazione che, al contrario, stigmatizzi senza appello la contrarietà al diritto degli interventi in questione può fornire un comodo alibi all'inerzia, all'indifferenza della c.d. comunità internazionale di fronte a un pericolo reale di tragedie umanitarie, contribuendo così ad abbandonare al loro destino di sofferenza e morte intere popolazioni sottoposte a regimi razzisti e dittatoriali. L'equilibrio e la prudenza sono quindi come non mai d'obbligo per l'analisi giuridica, e così anche la diffidenza da qualsiasi cedimento a scontati moralismi di stampo "umanitario" o, viceversa, "pacifista".

Sezione I
L'uso della forza armata per la tutela dei diritti umani nella recente prassi internazionale

Per tentare una valutazione della guerra del Kosovo, e in generale dell'intervento militare umanitario, alla luce del diritto internazionale attuale, è indispensabile ricostruire il quadro più ampio delle varie ipotesi concrete in cui nell'ultima dozzina di anni si è fatto ricorso a un qualche uso internazionale della forza armata a fini di tutela dei diritti umani.

2. - Un primo, cospicuo, gruppo di casi è ricollegabile al sistema delle Nazioni Unite e, in particolare, alle operazioni di mantenimento (o ristabilimento) della pace attuate o autorizzate dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU.

Procedendo per livelli di crescente magnitudo nell'uso internazionale della forza armata, è possibile articolare questo primo gruppo in tre distinti modelli.

a) Innanzitutto, un uso - per quanto molto limitato - della forza armata a fini umanitari può essere previsto e si è talvolta verificato nel contesto di operazioni di peace-keeping in senso stretto (invio di "caschi blu" in uno Stato o in zone di confine, come forze destinate a dividere le parti in conflitto o a garantire la sicurezza e l'ordine pubblico in situazioni di gravi disordini interni), o di post-conflict peace-building (invio di personale militare e civile "per assistere paesi distrutti da lunghe e tormentate guerre civili, ricostruire il tessuto connettivo della società civile e delle istituzioni politiche, [...] promuovere la riconciliazione nazionale e il rispetto dei diritti umani" (3)). In entrambi i casi ci riferiamo a operazioni decise dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU (più raramente dall'Assemblea Generale), condotte sotto la direzione e il controllo del Segretario Generale, ed attuate con il consenso dello Stato territoriale in cui la missione deve essere effettuata. In operazioni di questo tipo l'uso della forza da parte del personale militare o di polizia inviato viene in genere consentito oltre che, ovviamente, per legittima difesa personale, anche nella misura strettamente necessaria per realizzare i fini umanitari assegnati alla missione: ad esempio per difendere da attacchi violenti le popolazioni in questione, impedire che vengano perpetrate gravi violazioni dei loro diritti fondamentali, proteggere l'attività umanitaria di organizzazioni non governative, garantire la sicurezza di corridoi umanitari o di zone protette (perché destinate, ad es., a gruppi di una certa etnia o a campi profughi) (4).

Tra gli altri, possono ricondursi a questo modello gli interventi decisi dalle Nazioni Unite in Salvador (ONUSAL, 1991), Cambogia (UNTAC, 1992), Mozambico (ONUMOZ, 1992), Angola (UNAVEM III, 1995), Sierra Leone (UNAMSIL, 1999) e il primo intervento di "caschi blu" in Somalia (UNOSOM I, 1992) (5).

L'uso della forza a fini umanitari non suscita, in questo tipo di operazioni, particolari problemi di ammissibilità dal punto di vista del diritto internazionale. Tali operazioni si realizzano infatti col pieno consenso sia dello Stato territoriale, sia delle altre eventuali parti in conflitto presenti nella zona in cui la missione deve avvenire (gruppi organizzati di insorti, fazioni etniche organizzate). Esse non implicano dunque alcuna violenza nei confronti dello Stato territoriale, né di altri soggetti internazionali: non configurano perciò una coercizione militare internazionale. In aggiunta, se si prescinde dall'individuazione precisa della loro base giuridica, le operazioni in questione vengono comunque decise da un organo - il Consiglio di Sicurezza - che dispone del potere di utilizzare la forza a fini di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, e vengono poi condotte da contingenti militari ceduti dagli Stati alla direzione e al controllo del Segretario Generale delle Nazioni Unite, a garanzia dell'imparzialità dell'intervento e della sua corrispondenza ai fini formalmente stabiliti per la missione.

b) Una maggiore intensità nell'uso "umanitario" della forza armata si riscontra nell'ipotesi in cui tale uso, pur verificandosi nel contesto di un'operazione di peace-keeping del tipo di quelle rientranti nel modello precedente, sia posto in essere senza tener conto del consenso del sovrano territoriale, e non sia limitato alla dimensione meramente "passiva" della legittima difesa e della salvaguardia delle popolazioni o delle località affidate alla protezione della missione. Ciò può avvenire, ad esempio, in presenza di una situazione di "anarchia", ossia di totale collasso dell'organizzazione di governo dello Stato teritoriale e quando, a causa dell'aggravarsi dei pericoli per le popolazioni da proteggere o per l'incolumità dei contingenti militari e civili impegnati nella missione, si renda indispensabile procedere al disarmo di gruppi ostili presenti nel territorio circostante. In questi casi il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite estende il mandato originario della missione, attribuendo ai contingenti inviati compiti non solo di peace-keeping ma anche di peace-enforcement, di attuazione con la forza di alcuni obiettivi indispensabili alla realizzazione, nel territorio della missione, di una situazione e di un ambiente sicuri (6).

Gli episodi in cui si è verificata l'ipotesi in questione sono per la verità pochi. In particolare hanno assunto un certo rilievo i mandati di peace-enforcement attribuiti alla Forza di protezione delle Nazioni Unite nella ex Iugoslavia (UNPROFOR, 1992), alla seconda Forza delle Nazioni Unite operante in Somalia (UNOSOM II, 1993) e alla Forza delle Nazioni Unite inviata in Ruanda (UNAMIR, 1992).

Per quanto riguarda questo tipo di interventi, va notato che essi, prescindendo dal consenso sia dello Stato territoriale sia delle altre eventuali parti in conflitto, e richiedendo una vera e propria coercizione militare, sono stati sempre decisi dal Consiglio di Sicurezza sul presupposto della loro necessità al fine di mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale, in presenza di una minaccia per la pace o di una pace già violata. Ciò ne fonderebbe per l'appunto la legittimità dal punto di vista del diritto internazionale, dal momento che, com'è noto, spetta al Consiglio di Sicurezza, ai sensi del Capitolo VII della Carta dell'ONU (e in particolare dell'art. 42), intraprendere, mediante forze militari, ogni azione che ritenga necessaria al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, in presenza non solo di un atto di aggressione ma anche di una violazione della pace o di una semplice minaccia alla pace.

3. - c) Il terzo tipo di azioni armate "umanitarie", ricollegabili al sistema delle Nazioni Unite, comprende quegli interventi che non vengono organizzati e condotti direttamente da organi dell'ONU, ma che sono invece soltanto autorizzati dal Consiglio di Sicurezza, per essere poi attuati in concreto da singoli Stati, gruppi di Stati o organizzazioni c.d. regionali (7).

Anche per questa ipotesi gli esempi non sono molti. Si pensi, in particolare, all'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza agli Stati membri "ad usare tutti i mezzi necessari" per ripristinare un ambiente sicuro per lo svolgimento delle operazioni umanitarie in Somalia [ris. 794(1992) del 3-12-1992], autorizzazione cui ha fatto seguito l'operazione Restore Hope, condotta dalla forza multinazionale UNITAF, a composizione prevalentemente statunitense. O si pensi all'autorizzazione all'uso di tutte le misure necessarie per la difesa delle "zone protette" in Bosnia [ris. 836(1993) del 4-6-1993], cui hanno fatto seguito, tra l'altro, le operazioni aeree della NATO denominate Air Strikes, nell'aprile '94, e Deliberate Force, nell'agosto/settembre del '95. Si pensi, infine, all'autorizzazione ad usare tutti i mezzi necessari per proteggere le masse di sfollati, rifugiati e civili in pericolo in Ruanda [ris. 929(1994) del 22-6-1994], cui è seguita l'operazione Turquoise, condotta da sei Stati, sotto il comando della Francia, che ha cercato di realizzare una zona di sicurezza umanitaria dal giugno all'agosto del '94.

La conformità con il diritto internazionale di questo genere di interventi non è, per la verità, scontata. La Carta delle Nazioni Unite non prevede infatti espressamente che il Consiglio possa, oltre ad esercitare direttamente un certo uso della forza armata mediante contingenti militari propri, anche autorizzare singoli Stati membri o coalizioni di Stati a ricorrere a misure armate per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Un'autorizzazione di questo tipo è espressamente prevista soltanto, all'art. 53 della Carta, in favore di "organizzazioni regionali". Ad ogni modo, se anche si ritenesse ampliata - in virtù di una prassi consolidata e non contestata dagli Stati membri dell'ONU - la facoltà autorizzativa del Consiglio di Sicurezza in favore di singoli Stati, gruppi di Stati (od organizzazioni non del tutto conformi ai requisiti previsti per le "organizzazioni regionali" di cui all'art. 52 della Carta), ciò non toglie che il ricorso alla forza armata in questo "contesto autorizzato" dovrebbe nondimeno rispondere, per essere legittimo, a condizioni e requisiti precisi e piuttosto rigorosi.

Innanzitutto, l'autorizzazione dovrebbe necessariamente presupporre - come è avvenuto nei casi concreti prima ricordati - la sussistenza di una situazione di grave pericolo, qualificata chiaramente dal Consiglio di Sicurezza come minaccia alla pace o violazione della pace.

Inoltre, il ricorso alla forza (ellitticamente inteso dall'espressione "ogni mezzo necessario") dovrebbe essere esclusivamente destinato e limitato al conseguimento dell'obiettivo ritenuto indispensabile dal Consiglio per ristabilire o mantenere la pace e la sicurezza nella regione: nel nostro caso, quindi, per ripristinare un ambiente sicuro per le popolazioni minacciate, ovvero una situazione in cui sia possibile impedire gravi violazioni dei diritti fondamentali di tali popolazioni.

Infine, l'enforcement action dovrebbe essere condotta sotto l'attento e costante controllo del Consiglio di Sicurezza, eventualmente per il tramite del Segretario Generale dell'ONU, a ciò appositamente delegato dal Consiglio.

Soprattutto quest'ultima condizione, funzionale a quella precedente, ben difficilmente si realizza in concreto, e certo non si è sempre realizzata in modo soddisfacente nei casi prima richiamati. Sicché più di un dubbio resta sulla conformità al diritto delle Nazioni Unite dell'utilizzazione della forza armata verificatasi in quegli episodi.

A prescindere dalla valutazione dei singoli episodi, può però affermarsi, in linea di principio, che il ricorso alla forza a fini umanitari autorizzato dal Consiglio di Sicurezza, nella misura in cui soddisfi i requisiti ora evidenziati, sia ammissibile per il diritto internazionale attuale, e in particolare per il diritto delle Nazioni Unite. È importante tuttavia ribadire che per essere legittimi, l'autorizzazione e il conseguente uso della forza, devono essere giustificati dalla loro necessità in vista di mantenere o ripristinare una situazione di pace e sicurezza, ossia di eliminare o ridurre quel tipo particolare di violazione della pace o minaccia alla pace consistente nel fatto che vengano perpetrate gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani più fondamentali (ad es. il diritto alla vita, all'integrità fisica e psichica, a non essere ridotti in stato di schiavitù, a non essere discriminati e segregati in ragione della razza, dell'etnia o del credo religioso).

Una volta realizzato un "ambiente sicuro" - una situazione in cui tali diritti fondamentali non rischino di essere impunemente calpestati -, la coercizione militare a fini umanitari non ha però più ragione di essere, nel sistema delle Nazioni Unite, né autorizzata, né attuata. È questo infatti il limite sostanziale inerente ad ogni intervento coercitivo messo a disposizione del Consiglio di Sicurezza in base al Capitolo VII della Carta dell'ONU: in quanto "tutore dell'ordine pubblico internazionale" (o, se si preferisce, "poliziotto internazionale"), tale organo ha senz'altro il diritto-dovere di mettere lo Stato o il gruppo organizzato che violi gravemente i diritti umani in condizioni di "non nuocere" (ossia di non continuare nella sue barbare efferatezze), ripristinando così la sicurezza ed eliminando questo tipo di minaccia alla pace; ma non ha il diritto di fare altro o di andare oltre.

Il Consiglio non potrà dunque legittimamente "giudicare", "sanzionare" o "punire" lo Stato o il gruppo responsabile, né tanto meno procedere nella coercizione violenta per imporre un cambiamento di regime, o per conseguire una vera e propria debellatio. Un ricorso alla forza armata, anche se motivato in parte da fini di protezione umanitaria, che andasse nel senso ora evidenziato sarebbe del tutto contrario al diritto delle Nazioni Unite, e a nulla varrebbe, per renderlo conforme al diritto internazionale, un atto autorizzativo del Consiglio di Sicurezza. Si tratterebbe infatti di un atto illegittimo nella sostanza, anche se adottato nel rispetto delle norme procedurali della Carta dell'ONU (8).

4. - Passiamo adesso al secondo gruppo di casi - meno numeroso del primo - in cui negli ultimi anni si è verificato un uso internazionale della forza armata a fini "umanitari". Si tratta degli interventi posti in essere al di fuori del sistema decisionale delle Nazioni Unite, tra i quali rientra per l'appunto la guerra del Kosovo (9).

Anche nell'ambito di questi casi è opportuno operare una distinzione.

a) Una prima tipologia è data dagli interventi realizzatisi con il consenso dello Stato territoriale. Gli esempi sono rari. Potrebbe in parte ricondursi a questo modello l'operazione attuata dall'ECOWAS ("Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale") in Liberia nel 1990-1991, che ha inviato - con il consenso del governo allora in carica (ma contro la volontà del maggiore gruppo insurrezionale lì presente) - una forza di circa 10.000 uomini (ECOMOG), a composizione prevalentemente nigeriana, al fine - almeno dichiarato - di mantenere l'ordine pubblico e impedire le gravissime violazioni dei diritti umani che gli scontri di carattere etnico tribale avevano causato e stavano ancora causando. E potrebbe anche richiamarsi il caso dell'IFOR (Implementation Force), la Forza multinazionale, composta in prevalenza da contingenti forniti dai Paesi della NATO, prevista negli accordi di Dayton del 1995 e dislocata in Bosnia ed Erzegovina col consenso di tutte le parti interessate (Bosnia, Croazia, Federazione iugoslava, Federazione croato-musulmana e c.d. Repubblica Srpská), al fine - tra gli altri - di garantire, se del caso con l'uso della forza, la realizzazione del piano di pacificazione e una situazione di pieno rispetto dei diritti dell'uomo.

Nella misura in cui il consenso prestato dallo Stato territoriale, e/o dalle varie entità indipendenti di governo interessate, sia un consenso credibile ed effettivo (sia cioè dato liberamente dai centri di potere effettivamente responsabili in quel momento, e non sia invece prestato da governi "fantoccio" o costruito ad arte, come quello a suo tempo invocato a giustificazione degli interventi sovietico in Afghanistan e statunitense a Grenada), e nella misura in cui l'intervento si mantenga nei limiti accettati dalle parti che vi hanno consentito, un simile ricorso alla forza militare a fini umanitari non solleva particolari problemi di ammissibilità dal punto di vista del diritto internazionale. Esso infatti, come già si è osservato per le operazioni di peace-keeping e di peace-building decise nel quadro delle Nazioni Unite, non comporta una coercizione militare nei confronti né dello Stato territoriale né di altri soggetti internazionali.

b) Ben diverso è il caso in cui l'intervento armato "umanitario", da parte di Stati o di coalizioni di Stati, avvenga senza il consenso dello Stato territoriale, o addirittura apertamente contro tale Stato. È proprio a questa categoria che va ricondotto l'intervento dei Paesi della NATO in Kosovo. E nella stessa categoria rientra anche un altro noto episodio del decennio trascorso: l'operazione Provide Comfort nel Kurdistan iracheno.

Quanto a quest'ultima, va ricordato che l'intervento umanitario vero e proprio, destinato cioè a consentire l'attività umanitaria delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative a favore delle popolazioni curde sottoposte al regime repressivo di Saddam Hussein, per quanto non previamente autorizzato da alcuna decisione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, è stato molto circoscritto nel tempo e limitato nell'intensità. Le forze di terra e gli aerei dei paesi della coalizione "interveniente" (Usa, Francia, Regno Unito, Italia, Spagna, Olanda e Australia) sono penetrati in Iraq il 17 aprile 1991, creando alcune enclavi sicure nel Kurdistan (c.d. safe havens) e istituendo una zona di interdizione al volo (c. d. no-fly zone), al di sopra del 36° parallelo, senza tuttavia dover ricorrere ad alcuna violenza bellica, ma limitandosi ad attuare una minaccia dell'uso della forza. Già il giorno successivo (18 aprile), l'Iraq è peraltro addivenuto ad un accordo (integrato dal successivo accordo del 25 maggio), con il quale consentiva non solo allo svolgimento delle operazioni di soccorso umanitario nella zona e all'istituzione dei safe havens, ma anche al dislocamento di 500 "caschi blu" dell'ONU. Realizzatosi tale dislocamento, le truppe di terra della coalizione si sono ritirate nel luglio successivo. È invece rimasta la no-fly zone, a cui se n'è anzi aggiunta un'altra, al di sotto del 32° parallelo, per decisione unilaterale degli Stati Uniti. È appena il caso di sottolineare, tuttavia, che l'imposizione e il mantenimento di entrambe queste zone di interdizione al volo non hanno nulla di "umanitario" e dunque, oltre ad essere illegittime, fuoriescono dall'ambito d'interesse di questa analisi.

5. - Rispetto all'operazione Provide Comfort, l'intervento in Kosovo ha avuto una portata e una risonanza ben diverse: è infatti proprio a seguito di tale intervento che si è drammaticamente posto all'attenzione dell'opinione pubblica mondiale il problema dell'intervento c.d. umanitario, in tutte le sue implicazioni.

Prima di tentarne una valutazione giuridica, è opportuno ricordare brevemente i fatti (10).

È nella primavera-estate del 1998 che prende avvio una vasta campagna di repressione della popolazione di etnia albanese da parte dell'esercito e della polizia iugoslavi, innescata anche dall'intensificarsi della guerriglia e dell'attività terroristica dell'UÇK, l'"esercito" indipendentista kosovaro. Nell'autunno inoltrato si contano già, secondo stime dell'Alto Commissariato ONU per i rifugiati, oltre 200.000 profughi. Una parte consistente di questi (circa 100.000) si convince tuttavia a tornare nei propri luoghi d'origine a seguito dell'intesa raggiunta tra Holbrooke - inviato degli Stati Uniti - e Milosevic, relativa al ritiro di buona parte delle forze armate iugoslave dalla zona, sotto il controllo di una missione internazionale istituita dall'OSCE.

Nel gennaio del 1999 la situazione (guerriglia albanese e repressione iugoslava) peggiora nuovamente, fino al gravissimo episodio di Racak (dove - per motivi e in condizioni mai ben chiariti - vengono uccise e mutilate 45 persone di etnia albanese) e al fallimento della missione OSCE.

Nel febbraio falliscono anche i negoziati intrapresi a Rambouillet tra una delegazione albanese e una delegazione iugoslava, in presenza e sotto la pressione degli Stati membri del c.d. Gruppo di contatto (Stati Uniti, Regno Unito, Russia, Francia, Germania e Italia). La proposta di accordo viene infatti respinta sia dalla delegazione albanese (perché non sanciva chiaramente la futura indipendenza del Kosovo), sia da quella iugoslava (perché prevedeva il dispiegamento sul territorio iugoslavo di una forza militare internazionale a comando NATO). Nel marzo, però, la parte albanese - convinta dalle rassicurazioni statunitensi - dichiara di accettare la proposta di Rambouillet. La Iugoslavia persiste invece nel rifiuto, forse nella convinzione di riuscire a sconfiggere la guerriglia dell'UÇK nonostante l'ormai probabile intervento militare della NATO e, anzi, di cogliere l'occasione di un più ampio e intenso conflitto per epurare definitivamente gran parte del Kosovo dalla popolazione di etnia albanese ed arrivare, nell'eventualità di una spartizione della regione, a tenersi una parte del Kosovo etnicamente "sicura" e controllabile.

Il 20 marzo comincia così una nuova, durissima, campagna repressiva da parte della Repubblica federale iugoslava in Kosovo che, nel giro di pochi giorni, provoca ben 15.000 profughi.

Il 24 marzo i Paesi NATO cominciano i bombardamenti, che si protraggono sino al 9 giugno. La strategia seguita dall'Alleanza dimostra da subito e chiaramente che l'obiettivo immediato non è quello di evitare un'incombente tragedia umanitaria e proteggere la popolazione albanese in pericolo. Questo è piuttosto l'obiettivo "mediato" e "indiretto", che s'intende conseguire mediante il raggiungimento dell'obiettivo immediato consistente nella sconfitta della Iugoslavia di Milosevic, imponendo cioè a quest'ultimo l'abbandono del Kosovo come contropartita della non distruzione della Serbia, ovvero - se necessario - procedendo ad una vera e propria debellatio del regime iugoslavo.

Vengono così attaccate dapprima le forze militari iugoslave e distrutte le difese aeree; ma poi, visti gli scarsi risultati di questa operazione, i bombardamenti si estendono a obiettivi non militari: impianti industriali, raffinerie di petrolio, oleodotti, ponti, ferrovie e strade, sino al bombardamento di Belgrado e di obiettivi quali la sede della televisione iugoslava, i quartier generali e le residenze di Milosevic e della sua famiglia.

Nel frattempo - e prevedibilmente - si inasprisce la repressione serba in Kosovo. Aumentano e si aggravano a dismisura le violazioni dei diritti umani, si procede a una campagna di "pulizia etnica" che determina in soli due mesi un esodo di massa della popolazione di etnia albanese soprattutto verso l'Albania e la Macedonia (l'Alto Commissariato ONU parla di oltre 800.000 nuovi profughi in due mesi) (11).

All'inizio di giugno, a seguito dell'accettazione da parte della Iugoslavia del piano di pace elaborato dai Paesi del G8 (piano sottoposto anche ad un'approvazione di massima della Cina), e dell'incorporazione di tale piano nella ris. 1244 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, i Paesi della NATO mettono ufficialmente fine ai bombardamenti, il 10 giugno 1999.

Dal giugno al novembre dello stesso anno si realizza il rientro della quasi totalità dei fuoriusciti albanesi, ma contemporaneamente, con l'ingresso della Forza multinazionale a prevalente composizione NATO (la KFOR, Kosovo Force) e la ripresa delle azioni intimidatorie ad opera della fazione più estremista dell'UÇK, comincia la diaspora dei serbi kosovari. Circa 200.000 serbi lasciano i loro luoghi di origine. Ne restano in Kosovo circa 60.000, concentrati in alcune zone "a pelle di leopardo", continuamente bisognose di protezione da vendette e atti di violenza. La speranza di un Kosovo multietnico sembra così, almeno per il prossimo futuro, definitivamente pregiudicata.

Sezione II
Le possibili argomentazioni a sostegno della legittimità della guerra del Kosovo alla luce del diritto internazionale vigente

Ricordati i fatti rilevanti, resta da affrontare il punto cruciale: se cioè la guerra del Kosovo, e - più in genere - un intervento armato umanitario, unilaterale e "non autorizzato", possa o meno considerarsi legittimo secondo il diritto internazionale attuale (12).

Nel valutare la questione converrà procedere prendendo in esame le varie argomentazioni giuridiche che sono state proposte a possibile giustificazione dell'intervento della NATO in Kosovo.

6. - Una prima serie di argomentazioni configura l'intervento della NATO come rientrante o comunque "aggangiabile" al sistema di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale operante nell'ambito delle Nazioni Unite.

È stato così ventilato che il ricorso alla forza contro la Iugoslavia risultasse autorizzato da precedenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza: precisamente dalle risoluzioni 1199 del 23 settembre 1998, e 1203 del 24 ottobre del medesimo anno (13).

In realtà, se si leggono le due risoluzioni, è agevole constatare che esse, pur inquadrando la situazione creatasi in Kosovo come una situazione di minaccia alla pace, non lasciano affatto trasparire alcuna, sia pur ambigua, autorizzazione all'uso della forza armata. Al contrario, quegli atti del Consiglio si contraddistinguono, com'è stato osservato, per una sostanziale equidistanza rispetto alle parti del conflitto in atto: entrambe le parti vengono infatti sia riprovate per gli atti di violenza già perpetrati, sia richiamate ad evitare il rischio di catastrofe umanitaria (14). Inoltre, le risoluzioni citate ribadiscono sempre l'obbligo per tutti gli Stati membri dell'ONU di rispettare la sovranità e l'integrità territoriale della Federazione iugoslava, sottolineando altresì la responsabilità principale del Consiglio di Sicurezza per quel che attiene al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.

La tesi della previa autorizzazione è pertanto del tutto infondata.

In modo diverso, e senza negare che i bombardamenti della NATO fossero formalmente "viziati" nel momento in cui si sono verificati (a causa della mancata autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza), si è sostenuto - alla luce di una lettura molto "libera" della risoluzione 1244 del 10 giugno 1999 - che lo stesso Consiglio avrebbe sanato a posteriori il vizio insito nei bombardamenti della NATO, approvando e facendo propria, implicitamente, l'azione militare condotta dai Paesi dell'Alleanza (15).

Anche questa giustificazione è da respingere.

Innanzitutto, per quanto "generosamente" si vogliano intendere i poteri attribuiti al Consiglio di Sicurezza dalla Carta dell'ONU, o formatisi in capo a quest'organo in virtù della subsequent practice, è del tutto improprio ritenere che le pronunce del Consiglio possano produrre l'eccezionale alchimia giuridica di rendere ex post lecito ciò che era illecito. Non bisogna infatti dimenticare che al Consiglio sono attribuiti poteri giuridici vincolanti soltanto per il fine specifico di porre in essere, in momenti di crisi, le misure necessarie a ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionale, e non invece per fini generali di governo del mondo o accertamento e "ricambio" del diritto (16).

Ma a prescindere da considerazioni di carattere generale, basta leggere la citata risoluzione 1244 per accorgersi che essa non lascia intendere alcuna approvazione dell'avvenuto intervento armato. In tale risoluzione, piuttosto, il Consiglio parte dalla situazione determinatasi a seguito di quell'intervento - ossia dall'accettazione del piano di pace da parte della Iugoslavia - per basare, sui termini di tale piano, i passi successivi da compiere per giungere ad un pieno ristabilimento della pace e della sicurezza nella zona ed avviare un regime temporaneo di amministrazione civile per il Kosovo, organizzato e gestito dalle Nazioni Unite. In altre parole, la risoluzione 1244 guarda al futuro e non va a sindacare sul passato (17).

Oltretutto, non può trascurarsi il fatto che due importanti Membri permanenti del Consiglio - la Russia e la Cina -, alcuni giorni dopo l'inizio dei bombardamenti, abbiano votato per l'adozione di una risoluzione di dura condanna dell'azione militare della NATO (18): è ben poco verosimile che gli stessi Stati abbiano in poco tempo - e mentre i bombardamenti crescevano d'intensità - mutato diametralmente opinione, sino a convincersi ad adottare una risoluzione di approvazione, di "benedizione giuridica", dell'operato della NATO!

La realtà è che il silenzio sull'intervento militare, nel testo di quella risoluzione, era l'unica via diplomaticamente percorribile per riportare la crisi del Kosovo nella mani delle Nazioni Unite, per affidare all'organizzazione modiale il compito di gestire il "dopoguerra", di impostare e controllare una ricostruzione pacifica della zona, nel rispetto dei diritti dell'uomo, dell'autodeterminazione dei gruppi etnici lì presenti e, finché possibile, dell'integrità territoriale della Repubblica federale iugoslava.

Se si vuole parlare, in questo senso, di un "ritorno alla legalità internazionale" è un'affermazione sostanzialmente condivisibile. Ma il "ritorno alla legalità" implica la consapevolezza dell'"illegalità" precedentemente commessa dai Paesi membri della NATO con il loro intervento, e va inteso come volontà di chiudere la "parentesi di illegalità", e non invece come una "sanatoria" o addirittura una "benedizione" di quanto avvenuto (19). Insomma: con il silenzio della risoluzione 1244 non si è affatto approvato o condonato implicitamente l'intervento armato; si è soltanto steso un velo pietoso su di esso.

7. - Un altro genere di argomentazione, proposta per spiegare l'ammissibilità dell'intervento in Kosovo alla luce del diritto delle Nazioni Unite, sposta l'attenzione dalla dimensione "procedurale" della necessaria autorizzazione (o approvazione) del Consiglio di Sicurezza, alla dimensione "sostanziale" del contenuto del divieto del ricorso alla forza armata affermato nella Carta ONU.

Si è in particolare sostenuto che l'intervento della NATO non avrebbe violato tale divieto, in quanto questo riguarderebbe soltanto un uso della forza armata incompatibile con i fini delle Nazioni Unite. E siccome i Paesi membri della NATO avrebbero bombardato la Repubblica federale di Iugoslavia per tutelare i diritti dell'uomo - in particolare i diritti fondamentali della popolazione albanese del Kosovo -, la loro azione sarebbe stata legittima in quanto in linea, appunto, con uno dei fini principali dell'ONU (20).

L'argomentazione è totalmente inaccettabile.

Come risulta dalla lettera dell'art. 2, paragrafo 4, della Carta dell'ONU, dai lavori preparatori di quel testo, dall'interpretazione datane da molte Dichiarazioni dell'Assemblea Generale, dagli studi condotti dalla larga maggioranza della dottrina più autorevole, il divieto per gli Stati di ricorrere alla forza armata nelle relazioni internazionali (divieto che costituisce, com'è noto, uno dei pilastri dell'intero sistema giuridico delle Nazioni Unite) riguarda non solo - sempre e comunque - qualsiasi uso della forza diretto contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di un altro Stato, ma anche ogni uso della forza che sia incompatibile con una delle varie finalità che le Nazioni Unite si prefiggono. Si tratta, in altre parole, di un divieto assoluto (fatta salva l'eccezione della legittima difesa individuale e collettiva, nonché l'ipotesi in cui l'uso della forza sia legittimamente attuato o deciso dal Consiglio di Sicurezza) (21). Come può mai infatti il ricorso alla violenza militare, che pure non miri a pregiudicare l'indipendenza politica o l'integrità territoriale di uno Stato, essere compatibile con il fine di "sviluppare relazioni amichevoli fra le Nazioni" (art. 1, paragrafo 2 della Carta ONU), o di "risolvere pacificamente le controversie internazionali" (art. 1, paragrafo 1), o ancora di "conseguire la cooperazione internazionale, risolvendo i problemi internazionali d'ordine economico, sociale, intellettuale o umanitario" (art.1, paragrafo 3)?

A prescindere dalla compatibilità dell'intervento armato in Kosovo con i vari fini delle Nazioni Unite, è incontestabile poi che tale intervento, nella sua modalità oltre che per i suoi obiettivi, sia apertamente andato contro l'indipendenza politica e, in fondo, contro l'integrità territoriale della Repubblica federale iugoslava. Esso perciò rientra senza alcun dubbio nel genere di violenza bellica condannato e bandito espressamente dalla Carta delle Nazioni Unite.

8. - Una seconda serie di argomentazioni avanzabili a fondamento dell'ammissibilità, nel diritto internazionale, dell'azione militare della NATO si pone sul piano non già del sistema delle Nazioni Unite, bensì del diritto internazionale c.d. generale (o consuetudinario).

Sono queste, in effetti, le argomentazioni da prendere in più seria considerazione, sia in ragione del contenuto meno chiaro e forse più permissivo - rispetto al diritto delle Nazioni Unite - delle regole internazionali non scritte concernenti l'obbligo per gli Stati di astenersi dall'uso della forza armata (e quindi in ragione della maggiore plausibilità dell'esistenza di norme che consentano un intervento del tipo di quello verificatosi per il Kosovo), sia perché l'ammissibilità sul piano del diritto consuetudinario dell'intervento "umanitario" viene in linea di principio riconosciuta, in presenza di certe condizioni, anche da quanti non esitano poi a definire invece gravemente illecita l'azione specifica condotta, nella primavera del 1999, dai Paesi della NATO.

Una prima argomentazione fa riferimento al concetto di "stato di necessità", da intendersi quale causa di esclusione del fatto illecito ammessa dal diritto internazionale generale.

Com'è noto, questa causa di giustificazione esclude il carattere illecito del comportamento di uno Stato nel caso in cui porre in essere tale comportamento sia l'unico modo per lo Stato stesso di salvaguardare un interesse essenziale da un pericolo certo, grave ed imminente. Potrebbe dunque sostenersi che, poiché la tutela dei diritti umani fondamentali di qualsiasi individuo e di qualsiasi gruppo, a prescindere dalla nazionalità o dal territorio di appartenenza - e a fortiori l'impedire in ogni dove il compimento di "catastrofi umanitarie" - costituisce ormai per l'intera comunità internazionale (e quindi per ogni Stato) un interesse, una preoccupazione essenziale, allora l'intervento di uno o più Stati nei confronti dello Stato in cui stesse compiendosi la tragedia umanitaria, per quanto illecito se considerato oggettivamente, sarebbe per l'appunto giustificato qualora costituisse l'unico modo per salvaguardare un simile, essenziale, interesse "umanitario" (22).

Una serie di motivi lasciano tuttavia seriamente perplessi su questo tipo di spiegazione e, soprattutto, sulla sua idoneità a fondare l'ammissibilità giuridica di un intervento armato come quello per il Kosovo.

In primo luogo, e per partire dal problema più generale, è molto dubbio che salvaguardare i diritti umani fondamentali, e impedire catastrofi umanitarie in qualsiasi parte del mondo, possa attualmente considerarsi alla stregua di un interesse davvero essenziale per uno Stato (per quanto "civile" e sensibile ai problemi umanitari esso sia); alla stregua cioè di un interesse che lo Stato stesso non può permettere sia pregiudicato, pena - ad esempio - la propria esistenza, la propria indipendenza politica, l'integrità territoriale, la piena disponibilità delle proprie risorse naturali o economiche, il rischio per la propria popolazione di essere privata dei mezzi di sussistenza. Sono questi i soli tipi di interessi - concreti ed essenziali per uno Stato - la cui salvaguardia può credibilmente essere invocata a titolo di giustificazione di un comportamento che altrimenti costituirebbe una violazione del diritto internazionale. Si pensi, ad esempio, per alcuni paesi in via di sviluppo, al mancato pagamento dei debiti nei confronti dei paesi industrializzati: mancato pagamento che, pur configurando una violazione degli impegni giuridici assunti dai primi nei confronti dei secondi, rappresenta nondimeno l'unica possibilità per i paesi poveri di evitare il totale collasso economico e l'affamamento del proprio popolo.

Inoltre, non va dimenticato che devono sussistere alcune importanti condizioni affinché lo "stato di necessità" possa giustificare il compimento di un fatto illecito internazionale. Come risulta dal Progetto di codificazione sulla responsabilità degli Stati recentemente completato dalla Commissione delle Nazioni Unite per il diritto internazionale a conclusione del suo lungo e accurato lavoro di ricostruzione giuridica (23), uno Stato può invocare a giustificazione la "necessità", soltanto se il proprio comportamento non pregiudichi seriamente, a propria volta, un interesse essenziale dello Stato contro cui è rivolto (art. 25 del Progetto). Ora, è incontestabile che un intervento come quello della NATO per il Kosovo pregiudichi molto seriamente l'interesse essenzialissimo - concreto e giuridicamente tutelato - dello Stato contro il quale si rivolge: l'interesse... a non essere bombardato! Ovvero, per essere più precisi, l'interesse a non subire forme di coercizione armata contro la propria indipendenza politica, integrità territoriale, per non dire contro il diritto alla vita dei propri cittadini. In aggiunta, lo "stato di necessità" non sarebbe comunque idoneo - stando sempre al Progetto di codificazione poc'anzi richiamato - a giustificare la violazione di obblighi derivanti da norme internazionali cogenti (art. 26 del Progetto). Orbene, l'azione armata della NATO - considerata dal punto di vista oggettivo delle modalità di conduzione, della portata e dell'intensità - configura un chiaro esempio di attacco armato contro uno Stato, un comportamento cioè che senza dubbio è in contrasto con il nucleo "cogente" dell'obbligo posto dalla norma di diritto internazionale generale che impone agli Stati di astenersi dal ricorso alla forza armata nelle loro relazioni. Nessuna "necessità", umanitaria o d'altro genere, sarebbe pertanto idonea a giustificare un simile comportamento.

Per questa serie di ragioni, il concetto di "stato di necessità" risulta insomma sia inadeguato a giustificare il caso specifico dell'intervento NATO in Kosovo, sia difficilmente utilizzabile, in generale, per fondare l'ammissibilità giuridica di interventi armati umanitari.

9. - Secondo un altro genere di argomentazione, il ricorso alla forza a fini umanitari sarebbe permesso da una norma consuetudinaria ad hoc, formatasi prima dell'entrata in vigore della Carta di San Francisco e della costituzione dell'ONU, sopravvissuta sino ai nostri giorni al divieto di uso della forza affermatosi nel sistema delle Nazioni Unite, e della cui esistenza la decisione dei paesi NATO di intervenire in Kosovo costituirebbe un'importante manifestazione e conferma (24).

Anche questa spiegazione non convince. A prescindere dal fatto che la dottrina della legittimità dell'intervento umanitario viene sostenuta da una parte minoritaria della dottrina internazionalistica (in genere di cultura anglosassone) (25), sono i dati della prassi e le convinzioni ripetutamente espresse dalla maggior parte degli Stati a smentirla.

Sul periodo precedente alla fine della seconda guerra mondiale non vale la pena di soffermarsi più di tanto. È noto infatti che sino ad allora il ricorso alla forza armata nelle relazioni internazionali, e alla guerra come mezzo a disposizione di uno Stato per affermare i propri interessi, era ammesso, nel diritto internazionale, in termini molto più ampi di quanto non lo sia nell'"era giuridica" contemporanea (quella cominciata - per intendersi - con la costituzione delle Nazioni Unite). Va peraltro rilevato che, anche nel passato meno recente, la prassi di interventi armati umanitari è stata decisamente scarsa, a meno di non risalire alla metà del secolo XIX e, in particolare, agli interventi delle Potenze del "Concerto europeo" nella c.d. questione d'oriente. Ciò si comprende bene, del resto, se si considera che l'ampia libertà allora esistente per gli Stati di ricorrere a misure armate non rendeva necessario il ricorso a più o meno credibili motivazioni umanitarie per giustificare gli interventi coercitivi posti in essere contro altri Stati o all'interno di questi.

Quanto all'ultimo mezzo secolo, e sino all'intervento in Kosovo, neppure è possibile riscontrare, com'è stato ampiamente illustrato (26), l'esistenza di una prassi generalizzata, accompagnata da una chiara opinio iuris o necessitatis, che consenta di ritenere sopravvissuta o formatasi ex novo una norma consuetudinaria permissiva dell'intervento armato d'umanità, in deroga al più generale divieto di uso della forza nelle relazioni internazionali.

I casi d'intervento motivati prevalentemente da fini umanitari e posti in essere in presenza di una situazione di effettiva emergenza umanitaria sono stati davvero pochi e quasi tutti, per un motivo o per l'altro, scarsamente significativi nella prospettiva della rivelazione di una norma consuetudinaria.

Si richiamano di solito, tra i pochi esempi di qualche rilievo:

  • l'intervento degli Stati arabi, nel 1948 (dopo l'autoproclamazione dello Stato d'Israele), motivato - tra l'altro - con il fine di proteggere la popolazione araba presente in Palestina, al quale fecero però subito seguito le forti proteste di molti Stati, tra cui sia gli Stati Uniti sia l'Unione sovietica;
  • l'intervento, nel 1971, dell'India contro il Pakistan per la questione del Bangladesh, per il quale l'India invocò però soprattutto motivi di legittima difesa e tutela del diritto all'autodeterminazione;
  • gli interventi, nel 1978-1979, del Viet-Nam del nord in Cambogia contro il regime di Pol-Pot, e della Tanzania in Uganda contro il regime di Amin; ma anche in questi casi le motivazioni addotte per gli interventi fecero sostanzialmente riferimento alla legittima difesa o a questioni di sovranità territoriale contesa, e svelavano le reali intenzioni degli Stati intervenienti di creare o consolidare a proprio favore una zona d'influenza regionale (tali interventi suscitarono, comunque, la diffusa e vibrata riprovazione di molti Stati, e soprattutto di alcuni Stati europei);
  • gli interventi degli Stati Uniti a Grenada (nel 1983) e a Panama (nel 1988); in questi casi, tuttavia, oltre a non esservi alcuna evidenza di un'emergenza umanitaria, gli USA fecero riferimento non tanto a motivazioni umanitarie, quanto all'esigenza di tutelare i propri connazionali in pericolo all'estero e/o alla sussistenza di un consenso all'intervento da parte dello Stato territoriale;
  • può infine richiamarsi, come forse unico precedente di un certo peso giuridico, la già ricordata operazione Provide Comfort del 1991, nel Kurdistan iracheno. Tuttavia, non può non rilevarsi - per quanto riguarda la valutazione di questo episodio - il fatto che esso sia sopravvenuto in un contesto di ampio e diversamente giustificato uso della forza in atto contro l'Iraq, in assenza del quale è assai poco verosimile che l'intervento umanitario in questione, a favore degli altrimenti "abbandonati" Curdi, si sarebbe egualmente realizzato.

Insomma, se anche si stimasse il divieto di ricorso alla forza, vigente sul piano del diritto consuetudinario, meno esteso - meno assoluto - di quello sancito espressamente nella Carta delle Nazioni Unite, non sarebbe comunque corretto ritenere esistente, almeno al momento dell'intervento in Kosovo, una deroga consuetudinaria a tale divieto, permissiva di interventi armati destinati a proteggere i diritti umani e ad impedire "catastrofi umanitarie" (27).

10. - Una linea di ragionamento ancora diversa, seguendo la quale potrebbe risultare dimostrata l'ammissibilità di interventi armati umanitari, sul tipo di quello in Kosovo, fa riferimento alla teoria degli obblighi c.d. erga omnes (28).

Tentando di sintetizzare senza troppe imprecisioni: tale teoria parte dalla constatazione della crescente importanza, nel diritto internazionale, di un nucleo ristretto di norme, poste a tutela di valori fondamentali per l'intera comunità internazionale, da cui deriverebbero per l'appunto a carico di ciascuno Stato obblighi erga omnes, obblighi cioè nei confronti di tale comunità considerata nel suo insieme (ovvero, secondo una differente versione della teoria in esame, nei confronti di tutti e di ciascuno Stato (29)). Tra queste norme rientrerebbero, ad esempio, il divieto di aggressione, il rispetto dell'autodeterminazione dei popoli, il divieto di gravi violazioni dei diritti umani. La violazione da parte di uno Stato degli obblighi derivanti da tali norme darebbe titolo a qualsiasi altro Stato, o gruppo di Stati, di agire per far valere la responsabilità dello Stato autore della violazione. Ciò avverrebbe a prescindere dal fatto che lo Stato che agisca sia stato o meno colpito "personalmente" dalla violazione, abbia cioè subito un danno diretto o la lesione di un proprio diritto soggettivo. Piuttosto, gli Stati avrebbero titolo ad agire nei confronti dello Stato responsabile, come suol dirsi, uti universi: "in nome e per conto" dell'intera comunità internazionale, o - se si preferisce - a tutela del valore d'interesse fondamentale per tale comunità, pregiudicato dalla violazione commessa. Ciascuno Stato o gruppo di Stati potrebbe pertanto pretendere dallo Stato responsabile: la cessazione del comportamento illecito che fosse ancora in corso, la riparazione (in senso lato) dei danni materiali e morali prodotti, nonché garanzie contro la ripetizione in futuro della violazione commessa. E, soprattutto, ciascuno Stato avrebbe titolo, per ottenere l'adempimento di questi obblighi da parte dello Stato responsabile, a ricorrere nei suoi confronti, se necessario, a "contromisure": ossia a comportamenti sanzionatori che, considerati di per sè, costituirebbero una violazione dei diritti dello Stato responsabile, ma che perdono il loro carattere di illiceità per il fatto di essere tenuti in reazione ad un illecito già commesso. Quest'ultima facoltà si estenderebbe sino a consentire - in caso di violazioni molto gravi degli obblighi erga omnes - il ricorso unilaterale da parte di uno o più Stati (agenti sempre uti universi) alla forza armata contro lo Stato responsabile. Ciò sarebbe ammissibile, in particolare, allorché il sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta dell'ONU e incentrato sui poteri coercitivi del Consiglio di Sicurezza risultasse, per così dire, paralizzato: ossia, a causa del veto posto da questo o quel Membro permanente, non fosse in grado di funzionare adeguatamente e di attuare, se necessario, un uso della forza militare per sanzionare lo Stato responsabile e garantire la tutela del valore fondamentale violato dal comportamento di tale Stato.

Un'ipotesi del genere si darebbe per l'appunto in presenza di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani da parte di uno Stato, alle quali il Consiglio di Sicurezza non fosse in grado di porre un termine mediante il ricorso alla forza autorizzato a Stati o ad organizzazioni regionali. Il caso del Kosovo fornirebbe un chiaro esempio di questo genere di situazione (30).

Non è ovviamente questa la sede per approfondire la teoria degli obblighi erga omnes. Basti dire che essa, nel suo nucleo essenziale, fornisce una possibile chiave di lettura della dinamica internazionale conseguente alla violazione di certe importanti norme del diritto internazionale. Essa ha inoltre trovato - sempre nel suo nucleo essenziale - alcune autorevoli conferme "ufficiali": a partire da un famoso dictum della Corte internazionale di giustizia nella sentenza del caso Barcelona Traction del 1970 (31), sino al recente Progetto sulla responsabilità degli Stati adottato dalla Commissione delle Nazioni Unite per il diritto internazionale, che tiene conto della particolare situazione giuridica derivante dalla violazione di obblighi erga omnes negli articoli 48 e 54 (32).

E neppure è il caso di soffermarsi qui a discutere gli sviluppi della teoria in questione che suscitano maggiori perplessità. Tali perplessità riguardano, in particolare, l'interpretazione del sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite come meccanismo idoneo ad ottenere l'attuazione degli obblighi di responsabilità da parte dello Stato autore di gravi violazioni del diritto internazionale, nonché la considerazione del ruolo del Consiglio di Sicurezza, inteso quale "organo materiale" utilizzabile dalla c.d. comunità internazionale per comminare vere e proprie sanzioni nei confronti dello Stato responsabile (33).

V'è tuttavia almeno un punto che merita di essere affrontato nella prospettiva che qui interessa: e, precisamente, il punto secondo il quale per garantire il rispetto di obblighi erga omnes, in caso di una loro grave violazione, sarebbe lecito il ricorso da parte di Stati o gruppi di Stati, uti universi, a contromisure implicanti persino l'uso della forza nei confronti dello Stato responsabile.

Questo corollario - per la verità non indispensabile in una teoria generale degli obblighi erga omnes - non può essere condiviso.

Innanzitutto, non risulta suffragata da convincenti elementi logico-interpretativi l'idea secondo cui già il riferimento al diritto di legittima difesa collettiva, inserito nell'art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, andrebbe originariamente inteso non come parte dell'unica eccezione consentita all'obbligo per gli Stati di astenersi dall'uso della forza, bensì come riconoscimento di una facoltà, sancita dal diritto internazionale generale, di reazione collettiva unilaterale armata ad una tipica violazione di un obbligo erga omnes (quale sarebbe la guerra d'aggressione) (34).

In secondo luogo, l'evoluzione del diritto internazionale generale, nel periodo successivo alla costituzione delle Nazioni Unite e al bando della forza armata contenuto nell'art. 2, paragrafo 4, della Carta, è progressivamente andata nel senso di far assumere al divieto "assoluto" per gli Stati di ricorrere alla forza armata nelle loro relazioni, lo status giuridico di norma consuetudinaria, per di più dotata di forza cogente. A sostegno di questa conclusione vanno una serie consistente di dati, sin troppo noti perché via sia bisogno di richiamarli in dettaglio.

Basti pensare alle immancabili condanne e proteste, provenienti dalle più diverse componenti della comunità internazionale, ogni qual volta uno Stato, non vittima di un attacco armato, abbia fatto ricorso all'uso della forza armata contro un altro Stato. O alla continua invocazione del diritto di legittima difesa da parte degli Stati accusati di aver violato il divieto dell'uso della forza: chiaro sintomo della convinzione che la legittima difesa costituisca l'unica eccezione giuridicamente ammessa ed ammissibile al divieto stesso. Per non dire delle innumerevoli occasioni di "codificazione" del diritto internazionale in cui la stragrande maggioranza degli Stati si è sempre espressa nel senso di ritenere di fondamentale importanza il pieno rispetto dell'obbligo di astensione dalla forza armata, nei termini in cui esso è previsto dalla Carta dell'ONU: dalla Conferenza che ha condotto alla firma della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, alla Dichiarazione c.d. sulle "relazioni amichevoli", adottata nel 1970 dall'Assemblea Generale dell'ONU, all'Atto finale di Helsinki del 1975, alla Dichiarazione dell'Assemblea Generale sul rafforzamento dell'efficacia del principio del non ricorso alla minaccia o all'uso della forza, del 1988, alla elaborazione del più volte menzionato Progetto sulla responsabilità degli Stati, conclusasi nel 2001, solo per citare alcuni esempi.

Da tutti questi dati risulta in modo evidente sia che il divieto dell'uso della forza, nei termini in cui è sancito nella Carta ONU, è assurto a norma del diritto internazionale generale, sia che esso non è venuto meno, né è suscettibile di venir meno, per il fatto che il sistema di sicurezza collettiva, previsto dal Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, non si è mai realizzato compiutamente, non funziona in modo adeguato e, talvolta, risulta "paralizzato" (35).

Ma, soprattutto - per quel che qui interessa -, risulta chiaro da tali dati che il divieto in questione riguarda anche le contromisure adottabili per reagire ad un fatto illecito internazionale, per quanto grave esso sia. Fatto salvo il diritto alla legittima difesa (individuale e collettiva) di fronte ad un attacco armato, neppure la violazione gravissima di obblighi considerati d'interesse fondamentale per l'intera comunità internazionale - quali sono il genocidio o la violazione sistematica e su larga scala dei diritti fondamentali di un certa collettività - renderebbe pertanto lecito il ricorso unilaterale alla forza armata da parte di uno Stato, o gruppo di Stati, contro lo Stato responsabile (ovvero, se si preferisce una terminologia più "classica", giustificherebbe il ricorso alla rappresaglia armata in tempo di pace). E ciò sia che tale Stato o gruppo di Stati intervengano - uti singuli - a tutela di un proprio diritto soggettivo violato, sia che pretendano di intervenire - uti universi - a tutela di valori fondamentali per la comunità internazionale considerata nel suo insieme.

L'esistenza nel diritto internazionale di un simile limite inderogabile per tutte le contromisure - ivi comprese quelle adottabili in reazione alla violazione di obblighi erga omnes - è stata del resto ribadita di recente dai due più autorevoli organismi mondiali deputati all'accertamento del diritto internazionale: la Corte internazionale di giustizia, che nel parere del 1996 sulla Liceità dell'uso delle armi nucleari ha espressamente negato ogni liceità alle contromisure armate in tempo di pace (36), e la Commissione per il diritto internazionale delle Nazioni Unite, che all'art. 50 del suo Progetto sulla responsabilità degli Stati ha inserito al primo posto tra le contromisure vietate dal diritto internazionale le contromisure in contrasto con l'obbligo di astenersi dalla minaccia o dall'uso della forza come sancito nella Carta delle Nazioni Unite (37).

In breve: per quanto si ritenga ammissibile che uno o più Stati reagiscano unilateralmente a gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani commesse da un altro Stato - come quelle perpetrate contro la popolazione di etnia albanese del Kosovo - violando a loro volta diritti dello Stato responsabile a titolo di contromisura per la violazione di obblighi erga omnes, tale reazione non potrà mai legittimamente consistere nel ricorso alla violenza armata nei confronti di quello Stato, come è avvenuto, invece, con l'azione militare della NATO contro la Repubblica federale iugoslava.

11. - Se si condivide l'analisi sin qui condotta sulle varie argomentazioni proposte o proponibili per ricondurre la guerra del Kosovo nell'ambito della "legalità internazionale", ne consegue dunque:

  1. sul piano generale, che l'intervento armato a fini d'umanità intrapreso unilateralmente da uno Stato o gruppo di Stati era, al momento dell'azione militare della NATO, una fattispecie vietata dal diritto internazionale;
  2. sul piano particolare e concreto, che i paesi della NATO, non avendo avuto (né prima, né durante, né subito dopo l'intervento) alcun titolo o valida giustificazione giuridica per la loro azione, hanno violato tanto l'art. 2 paragrafo 4 della Carta delle Nazioni Unite, che obbliga gli Stati membri dell'ONU ad astenersi dalla minaccia e dall'uso della forza nelle relazioni internazionali, quanto la grosso modo corrispondente norma generale che vieta l'uso della forza armata.

Non v'è dunque bisogno, per affermare l'illiceità di tale azione, di verificare e sindacare, per un verso, le intenzioni o le reali motivazioni degli Stati che sono intervenuti né, per altro verso, le modalità di esecuzione dell'intervento. Non è necessario, in altre parole, andare a vedere se vi sia stata o meno una "buona fede umanitaria" nei paesi della NATO, se l'intervento armato unilaterale fosse o meno l'unica soluzione possibile della crisi (vista la "paralisi" del Consiglio di Sicurezza), se l'azione militare sia stata o meno proporzionata agli obiettivi da raggiungere, o funzionale all'"effetto umanitario" che avrebbe dovuto giustificarla (38). Anche se fosse stato determinato da motivazioni più genuinamente umanitarie, o condotto in modo umanitariamente efficace e meno devastante, quell'intervento avrebbe comunque violato il diritto internazionale: forse meno gravemente, ma l'avrebbe comunque violato.

Oltretutto, i giuristi sanno bene che quando si comincia a discutere sulla base di parametri così relativi, soggettivi e flessibili (come la "buona fede", la "proporzionalità" o la "necessità"), è sempre possibile trovare, nella valutazione della situazione concreta - dei fatti veri e presunti, delle dichiarazioni e delle contro-dichiarazioni -, facili appigli a favore di una conclusione e del suo esatto contrario. In questo senso il caso del Kosovo non fa eccezione (39).

12. - Detto questo, la riflessione giuridica sulla guerra del Kosovo non può tuttavia considerarsi conclusa. Essa non può cioè fermarsi alla valutazione, come suol dirsi, de lege lata.

Resta infatti da chiedersi, de lege ferenda, se l'intervento in Kosovo, e il modo in cui è stato accolto nella cosiddetta comunità internazionale, non rappresentino un elemento importante, un precedente significativo, nel contesto di un processo di ricambio del diritto vigente, ovvero - se si preferisce - agli effetti della formazione di una norma consuetudinaria che consentirebbe, a certe condizioni, l'intervento armato a fini umanitari (40).

In questa prospettiva vanno in effetti segnalati alcuni dati non trascurabili.

In particolare, è rilevante il fatto che la posizione ufficiale della NATO (e anche quella dell'Unione europea), a giustificazione dell'intervento, sia stata quella di appellarsi prevalentemente (anche se non esclusivamente) alla necessità di impedire una catastrofe umanitaria incombente (41). Tale posizione è stata inoltre sviluppata e precisata in termini giuridici da alcuni Stati membri dell'Alleanza, principalmente dal Regno Unito, che ha sostenuto a più riprese, mutando il proprio precedente orientamento, la liceità internazionale di interventi umanitari unilaterali, anche in assenza di un'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza (42).

Né può essere trascurata l'assenza di qualsiasi riprovazione espressa dell'azione della NATO negli atti degli organi delle Nazioni Unite contestuali o successivi all'intervento.

Tuttavia, esiste anche una diversa serie di dati che merita di essere evidenziata.

Ad esempio, è significativa (ed è stata rilevata dalla stessa dottrina americana) la totale mancanza di giustificazione dell'intervento in termini giuridici - de lege lata e de lege ferenda - da parte del Governo statunitense (43).

Ancor più significative sono le forti riserve sulla legalità dell'intervento, avanzate espressamente da alcuni dei Membri della NATO: in particolare dalla Francia e, soprattutto, dalla Germania, che senza mezzi termini ha affermato sia l'eccezionalità dell'intervento, nel senso della sua inidoneità a costituire un precedente valido, sia l'estrema pericolosità e illegittimità di qualsiasi prassi interventista "umanitaria", posta in essere al di fuori del sistema autorizzativo dell'uso della forza facente capo al Consiglio di Sicurezza dell'ONU (44).

Infine, non può dimenticarsi che la "comunità internazionale" non comprende i soli Stati membri o amici della NATO. E allora non possono sottacersi le numerose condanne e proteste ufficiali, relative alla grave contrarietà al diritto internazionale dell'azione della NATO, provenienti dalle più varie aree geopolitiche del mondo: dalla Russia all'India, dalla Cina ai 12 Paesi latino-americani del "Gruppo di Rio", ai 114 Stati del "Movimento dei non allineati" (45).

A questi dati, reali, ne va tuttavia aggiunto ancora uno, per così dire, "virtuale": virtuale, sì, ma - a ben vedere - difficilmente contestabile.

Si pensi alla situazione della Palestina. Essa presenta con quella del Kosovo più analogie di quante non possa sembrare. Come e più che in Kosovo, vi è alla base una pretesa, fondata e insoddisfatta, di autodeterminazione. V'è una situazione di grave e sistematica violazione dei diritti individuali più elementari, oltre che di diritti collettivi, negati dalla perdurante politica israeliana di insediamento di "coloni", e da un regime di segregazione etnica assimilabile all'apartheid. V'è, in Palestina come in Kosovo, una recrudescenza nella repressione della popolazione locale, causata dall'intensificarsi della micidiale attività terroristica delle frange oltranzistiche palestinesi. V'è un problema di esodi di massa e di "pulizia etnica" del territorio, che va avanti da oltre quarant'anni e che ha già prodotto, non centinaia di migliaia di profughi - come in Kosovo -, ma mezza dozzina di milioni di profughi. V'è una serie continua e insistita di risoluzioni dell'Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza dell'ONU che esigono da Israele e dai Palestinesi di porre fine a questa tragica situazione, di rispettare i diritti umani delle popolazioni coinvolte, di cessare dalla violenza terroristica e di pervenire ad una soluzione concordata nel rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli e del diritto ad esistere di Israele. V'è chiaramente, come per il Kosovo, una "paralisi" del Consiglio di Sicurezza, per quanto riguarda la possibilità di imporre o autorizzare misure coercitive nei confronti di Israele, data la ben nota opposizione di almeno uno dei Membri permanenti a qualsiasi misura coercitiva contro Israele, o all'invio di "caschi blu" o forze multinazionali d'interposizione senza il pieno consenso di questo Stato.

Ve n'è insomma a sufficienza perché un gruppo di Stati (arabi, per esempio) possa decidersi, sulla scorta della stessa posizione che è stata propria degli Stati NATO nel caso del Kosovo, di intervenire militarmente contro Israele per impedire un'incombente e alrimenti inevitabile "catastrofe umanitaria".

Se ciò avvenisse - e a prescindere dal possibile esito militare e politico dell'operazione -, come verrebbe valutata giuridicamente la dottrina dell'ammissibiltà dell'intervento armato umanitario dagli stessi Stati che l'hanno messa in pratica nel caso del Kosovo, o da quanti hanno allora preferito commentarla con il silenzio?

In cosiderazione di tutti questi dati (reali e virtuali), e per concludere tornando al problema de lege ferenda, non ci sembra in definitiva che al momento attuale - e nonostante l'intervento in Kosovo - vi siano elementi decisivamente probanti di un processo in corso di ricambio del diritto vigente, destinato a consolidare, entro breve tempo, una norma consuetudinaria permissiva, in deroga al divieto generale di uso della forza, di interventi armati umanitari unilaterali al di fuori del sistema di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale previsto dal diritto delle Nazioni Unite.

Parafrasando il titolo di uno scritto di Antonio Cassese, dedicato proprio all'intervento in Kosovo (46), potrebbe in questo senso affermarsi che, almeno per ora, ex iniuria ius non oritur: una guerra "umanitaria", come quella condotta dalla NATO, oltre a non trovare alcun asilo nel diritto internazionale vigente, neppure è riuscita a peggiorare questo già così inadeguato e primitivo sistema giuridico.


Note

*. Il presente scritto è una versione riveduta della relazione tenuta alla 31ª Sessione del Tribunale Permanente dei Popoli, organizzata della "Fondazione internazionale Lelio Basso per il diritto e la liberazione dei popoli", svoltasi a Roma, in Campidoglio, dal 14 al 16 dicembre 2002.
In corso di pubblicazione su La Comunità Internazionale, 2003, n. 1.

1. È bene non dimenticare che, nel 1945, gli Stati fondatori delle Nazioni Unite affermarono solennemente, come incipit della Carta che si apprestavano a sottoscrivere, la loro comune determinazione "a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all'umanità".

2. Sull'intervento in Kosovo come guerra "giusta" o "morale", basti richiamare l'articolo del Presidente Clinton su The New York Times del 24 maggio 1999 ("My Just War"), o il discorso del Primo Ministro Blair all'"Economy Club of Chicago" del 22 aprile 1999. O si ricordi l'opinione espressa in un primo momento da Cassese in "Le cinque regole per una guerra giusta", in AA. VV., L'ultima crociata?, "Reset", Roma, 1999, 74 ss. (e già nell'intervista a De Giovannangeli su L'Unità del 9 aprile 1999, 4); o le osservazioni proposte, ancora recentemente, da Brutti, in "Guerra giusta o guerra utile? Le norme, l'esperienza, gli interessi", in Italianieuropei, 2002, n. 3, 165-169.

3. Così Marchisio, L'ONU. Il diritto delle Nazioni Unite, Bologna, 2000, 260. Sul peace-building vedi altresì Marchesi, I diritti dell'uomo e le Nazioni Unite, Milano, 1996, 100-124 nonché la bibliografia ivi citata.

4. Sulle operazioni di peace-keeping delle Nazioni Unite la bibliografia è vastissima. Nella letteratura più recente cfr., tra gli altri, Le développement du rôle du Conseil de Sécurité: peace-keeping and peace-building (Colloque de l'Académie de Droit International de La Haye), a cura di Dupuy (R.-J.), Dordrecht, 1993; New Dimensions of Peace-Keeping, a cura di Warner, Dordrecht-Boston-London, 1995; Ratner, The New UN Peacekeeping: Building Peace in Lands of Conflict After the Cold War, New York, 1995; Nazioni Unite, The Blue Helmets. A Review of United Nations Peace-Keeping, New York, 1996; Picone, Il peace-keeping nel mondo attuale: tra militarizzazione e amministrazione fiduciaria, in RDI, 1996, 5 ss.; Pineschi, Le operazioni delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace, Padova, 1998; Cellamare, Le operazioni di peace-keeping multifunzionali, Torino, 1999; Gargiulo, Le Peace Keeping Operations delle Nazioni Unite. Contributo allo studio delle missioni di osservatori e delle forze militari per il mantenimento della pace, Napoli, 2000.

5. Per un'analisi di alcuni fra i più importanti interventi delle Nazioni Unite, rientranti tanto nel modello qui considerato che nei modelli considerati di seguito nel testo, si vedano i saggi contenuti nel volume Interventi delle Nazioni Unite e diritto internazionale, a cura di Picone, Padova, 1995.

6. Su questo tipo di interventi delle Nazioni Unite si vedano, oltre alle opere citate nelle due note precedenti, Corten e Klein, Action Humanitaire et Chapitre VII: la redéfinition du mandat et des moyens d'action des forces des Nations Unies, in AFDI, 1995, 105 ss.; Fink, From Peacekeeping to Peace-Enforcement: The Blurring of the Mandate for the Use of Force in Maintaining International Peace and Security, in Maryland JIL Trade, 1995, 1 ss.; Marchisio, The Use of Force by Peace-keeping Forces for the Implementation of Their Mandate: Recent Cases and New Problems, in Italian and German Participation in Peace-keeping: From Dual Approaches to Co-operation, a cura di De Guttry, Pisa, 1997, 75 ss.; Lattanzi, Assistenza umanitaria e intervento d'umanità, Torino, 1997, 56-67. Vedi anche Magagni, L'adozione di misure coercitive a tutela dei diritti umani nella prassi del Consiglio di Sicurezza, in CS, 1997, 655 ss.

7. Sull'uso della forza armata autorizzato dal Consiglio di Sicurezza si vedano, tra gli altri, Freudenschuss, Between Unilateralism and Collective Security: Authorizations of the Use of Force by the UN Security Council, in EJIL, 1994, 492 ss.; Gaja, Use of Force Made or Authorized by the United Nations, in The United Nations at Age Fifty, a cura di Tomuschat, Dordrecht, 1995, 39 ss.; Lattanzi, op. cit., 71 ss.; Österdahl, By All Means, Intervene! (The Security Council and the Use of Force under Chapter VII of the UN Charter in Iraq, in Bosnia, Somalia, Rwanda and Haiti), in Nordic JIL, 1997, 241 ss.; Sarooshi, The United Nations and the Development of Collective Security. The Delegation by the Un Security Council of its Chapter VII Powers, Oxford, 1999.

8. Per questo tipo di interpretazione (a nostro sommesso avviso pienamente condivisibile) dei poteri spettanti al Consiglio di Sicurezza in base al Capitolo VII della Carta vedi soprattutto Arangio-Ruiz, On the Security Council's 'Law Making', in RDI, 2000, 609 ss.

9. Per una valutazione della prassi rilevante in questo contesto si vedano, tra gli altri, Ronzitti, Uso della forza e intervento di umanità, in NATO, conflitto in Kosovo e Costituzione italiana, a cura di Ronzitti, Milano, 2000, 1 ss. e Lattanzi, op. cit., 68 ss.

10. Per una ricostruzione dei fatti rilevanti della crisi del Kosovo e dell'intervento dei Paesi della NATO, si veda Pretelli, La crisi del Kosovo e l'intervento della Nato, in Studi Urbinati, 1999/2000, pp.295 ss. Per un'accurata raccolta della documentazione rilevante si veda il volume L'intervento in Kosovo - Aspetti internazionalistici e interni, a cura di Sciso, Milano, 2001, 189 ss.

11. Sui dati e sulla situazione relativi agli esodi di massa verificatisi durante la crisi del Kosovo cfr. Lo Savio, Esodi di massa e assistenza umanitaria nella crisi del Kosovo, in L'intervento in Kosovo, cit., 99 ss.

12. Sulla valutazione dell'intervento in Kosovo dal punto di vista del diritto internazionale la bibliografia è molto nutrita. Tra gli autori che, con argomentazioni differenti, si sono pronunciati a favore della legittimità dell'intervento - o comunque di una sua qualche giustificazione giuridica - ricordiamo: Balanzino, NATO's Actions to Uphold Human Rights and Democratic Values in Kosovo: A Test Case for a New Alliance, in Fordham ILJ, 1999, 364 ss.; Bermejo Gracía, Cuestiones actuales referentes al uso de la fuerza en el derecho internacionál, in An. Der. Int., 1999, 3-70; Zanghì, Il Kosovo fra Nazioni Unite e diritto internazionale, in I diritti dell'uomo - cronache e battaglie, 1998, n. 3, 57 ss.; Henkin, Kosovo and the Law of 'Humanitarian Intervention", in AJIL, 1999, 824 ss.; Reisman, Kosovo's Antinomies, ibid., 1999, 860 ss.; Wedgwood, Nato's Campaign in Yugoslavia, ibid., 1999, 828 ss.; Frank, Lessons of Kosovo, ibid., 858; Vigliar, La crisi dei Balcani nell'odierno ordine europeo ed internazionale, in questa Rivista, 1999, 13-28; Ipsen, Der Kosovo-Einsatz - Illegal? Gerechtfertig? Entschuldbar?, in Der Kosovo Krieg, Rechtliche und rectsethische aspekte, a cura di Lutz, Baden Baden, 1999-2000, 101 ss.; Delbrück, Effektivität des UN-Gewaltverbots, ibid., 11 ss.; Tomuschat, Völkerrechtliche Aspekte des Kosovo-Konflikts, ibid., 31 ss.; Condorelli, La risoluzione 1244(1999) del Consiglio di Sicurezza e l'intervento NATO contro la Repubblica Federale di Iugoslavia, in NATO, conflitto in Kosovo e Costituzione italiana, a cura di Ronzitti, Milano, 2000, 31 ss.; Leanza, Diritto internazionale e interventi umanitari, in Rivista della cooperazione giuridica internazionale, dicembre 2000, 9 ss.;Momtaz, L'intervention d'humanité de l'OTAN au Kosovo et la règle du non-recours à la force, in RICR, 2000, 89 ss.; Sofaer, International Law and Kosovo, in Stanford JIL, 2000, 1 ss.; Weckel, L'emploi de la force contre la Yougoslavie ou la Charte fissurée, in RGDI.P, 2000, 19 ss.

Tra gli autori che invece hanno valutato, pur con argomentazioni diverse, come "irrimediabilmente" contraria al diritto internazionale l'azione della NATO, ricordiamo: Bernardini, Jugoslavia: una guerra contro i popoli e contro il diritto, in I diritti dell'uomo - cronache e battaglie, 1998, n. 3, 33-40; Saulle, Il Kosovo e il diritto internazionale, ibid., 53-54; Charney, Anticipatory Humanitarian Intervention in Kosovo, in AJIL, 1999, 834-841; Falk, Kosovo, World Order, and the Future of International Law, ibid., 847-857; Ferraris, La NATO, l'Europa e la guerra del Kosovo, in Aff. Est., 1999, 492-507; Cassese, Ex iniuria ius oritur: Are We Moving towards International Legitimation of Forcible Humanitarian Countermeasures in the World Community?, in EJIL, 1999, 23-30, e A Follow-Up: Forcible Humanitarian Countermeasures and Opinio Necessitatis", ibid., 1999, 791-799; Krisch, Unilateral Enforcement of Collective Will: Kosovo, Iraq and the Security Council, in Max Planck YUNL, 1999, 59 ss.;Nolte, Kosovo und Konstitutionalisierung: Zur humanitären Intervention der NATO-Staaten, in ZaöRV, 1999, 941-960; Starace, L'azione militare della NATO contro la Iugoslavia secondo il diritto internazionale, in Filosofia dei diritti umani, 1999, paragrafi 4-6;Villani, La guerra del Kosovo: una guerra umanitaria o un crimine internazionale?, in Volontari e terzo mondo, 1999, n. 1-2, 26 ss.; Kühne, Humanitäre NATO-Einsätze ohne Mandat?, in Der Kosovo Krieg, cit., 73-99; Lutz, Wohin treibt (uns) die NATO?, ibid., 111-128; Preuß, Zwischen Legalität und Gerechtigkeit, ibid., 37-51; Weber, Die NATO-Aktion war unzulässig, ibid., 65-71; Mégevand Roggo, After the Kosovo conflict, a genuine humanitarian space: A utopian concept or an essential requirement?, in RICR, 2000, 31-47; Picone, La 'guerra del Kosovo' e il diritto internazionale generale, in RDI, 2000, 309-360; Ronzitti, Uso della forza e intervento di umanità, in NATO, conflitto in Kosovo, cit., 1-29; Thürer, Der Kosovo-Konflikt im Lichte des Völkerrechts: von drei - echten und schinbaren Dilemmata, in AVR, 2000, 1-22; Marchisio, L'intervento in Kosovo e la teoria dei due cerchi, in L'intervento in Kosovo, cit., 21 ss.; Sciso, L'intervento in Kosovo: l'improbabile passaggio dal principio del divieto a quello dell'uso della forza armata, ibid., 47 ss.; Joyner, The Kosovo Intervention: Legal Analysis and a More Persuasive Paradigm, in EJIL, 2002, 597-619. Più ambigua la posizione di Simma, (NATO, the UN and the Use of Force: Legal Aspects, in EJIL, 1999, 1-22), il quale pur riconoscendo la contrarietà alla Carta delle Nazioni Unite della minaccia (poi effettivamente attuata) della violenza armata da parte della NATO, arriva tuttavia a giustificarla quale eventualità del tutto eccezionale, quale ultima ratio per fronteggiare la drammatica situazione del Kosovo, non idonea pertanto a costituire sul piano giuridico un valido precedente.

Un ampio studio sulla crisi del Kosovo nella prospettiva della dottrina dell'intervento umanitario è infine quello di Pretelli, La crisi del Kosovo e l'intervento della NATO - 2: L'azione della NATO nell'evoluzione della dottrina dell'intervento umanitario, in Studi Urbinati, 2000/01, 61-135.

13. Si vedano, ad es., le dichiarazioni del Segretario Generale della NATO, Solana, al momento dell'adozione dell'Activation order, riportate da Pretelli, op. cit., supra nota 10, 332-333. In dottrina l'azione della NATO è stata interpretata come un'attuazione legittima delle precedenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza da Delbrück, op.cit., 28; Leanza, op.cit., 28; Momtaz, op. cit., 98; Weckel, op.cit., 21-25.

14. Sciso, L'intervento in Kosovo, cit., 57. Sul punto si veda anche precisamente Gargiulo, La guerra: profili di diritto internazionale, in La Guerra - Profili di diritto internazionale e diritto interno, Quaderni dell'Istituto di studi giuridici dell'Università di Teramo, n. 3, Napoli, 2002, 88-89.

15. Così Condorelli, La risoluzione 1244(1999), cit.,36-41. Un accenno nel medesimo senso si trova pure in Henkin, op.cit., 826. Ronzitti ipotizza invece, in modo parzialmente diverso, che la risoluzione in parola possa leggersi come una sorta di "amnistia" (Uso della forza e intervento di umanità, cit., 20-21).

16. Si veda in merito Arangio-Ruiz, op. cit., supra nota 8.

17. Nello stesso senso cfr. Sciso, op. ult. cit., 60.

18. Per il progetto di risoluzione di condanna (presentato da Russia, India e Bielorussia), cfr. UN doc. S/1999/328. In Consiglio di Sicurezza, tale progetto ha ottenuto i soli voti favorevoli di Russia, Cina e Namibia. Sul punto si veda Zappalà, Nuovi sviluppi in tema di uso della forza armata in relazione alle vicende del Kosovo, in RDI, 1999, 980.

19. Nello stesso senso Gargiulo, op. cit., 92.

20. Ipsen, op. cit., 102-103; Leanza, op. cit., 27-29; Sofaer, op. cit., 12 ss.; Weckel, op. cit., 31-33.

21. In tal senso, per tutti, Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, Torino, 2001, 30-34.

22. Per un'applicazione della teoria in questione al caso specifico del Kosovo si veda ad esempio Ipsen, op.cit., 104. In linea generale, e senza riferimento alla vicenda del Kosovo, anche Lattanzi ritiene che lo "stato di necessità" possa operare quale causa di giustificazione di interventi armati umanitari, in presenza di una situazione di emergenza umanitaria qualificata dal Consiglio di Sicurezza come minaccia alla pace e, al contempo, di un'inoperatività del sistema armato di sicurezza collettiva previsto dal Capitolo VII della Carta ONU (Assistenza umanitaria, cit., 93 ss.).

23. Per il testo definitivo del Progetto di articoli e per il relativo commento, si veda il Rapporto della Commissione del Diritto Internazionale (CDI) all'Assemblea Generale dell'ONU, 53a sessione, NU doc. A/56/10, Capitolo IV, paragrafi 30-77.

24. In questo senso, in una linea di ragionamento a metà strada fra lex lata e lex ferenda, Bermejo Gracía, Cuestiones actuales, cit. supra nota 12, specie 62-67, e Zanghì, Il Kosovo fra Nazioni Unite e diritto internazionale, cit. supra nota 12, specie 61-62.

25. Si pensi, ad es., alle posizioni di Lillich e di Reisman-McDougal in Humanitarian Intervention and the United Nations, a cura di Lillich, Charlottesville, 1973, rispettivamente 58 ss. e 177 ss.

26. Si veda per tutti (e in commento proprio ad una possibile applicazione della dottrina dell'intervento d'umanità al caso del Kosovo) Ronzitti, Uso della forza e intervento di umanità, cit., 3 ss. e la bibliografia ivi citata. Vedi pure, più in generale, Brownlie, International Law and the Use of Force by States, Oxford, 1963, 338 ss., e Sicilianos, Les réactions décentralisées à l'illicite. Des contre-mesures à la légitime défense, Paris, 1990, 484 ss.

27. Si ricordino a tal proposito le affermazioni della Corte Internazionale di Giustizia, nella sentenza del caso Nicaragua (1986), quando - respingendo le argomentazioni degli Stati Uniti che sostenevano, tra l'altro, di essere stati giustificati, nella loro azione di sostegno ai "Contras" e di cooperazione nella guerriglia condotta da tale gruppo, dal motivo di favorire la cessazione delle violazioni dei diritti umani commesse dal regime sandinista - ebbe modo di osservare: «In any event, while the United States might form its own appraisal of the situation as to respect for human rights in Nicaragua, the use of force could not be the appropriate method to monitor or ensure such respect. With regard to the steps actually taken, the protection of human rights, a strictly humanitarian objective, cannot be compatible with the mining of ports, the destruction of oil installation, or again with the training, arming and equipping of the contras» (ICJ Rep., 1986, par. 269).

28. Sugli obblighi erga omnes si vedano, tra gli scritti più recenti, Annacker, Die Durchsetzung von erga omnes, Verpflichtungen vor dem Internationalen Gerichtshof, Hamburg, 1994; Picone, Interventi delle Nazioni Unite e obblighi erga omnes, in Interventi delle Nazioni Unite e diritto internazionale, cit., 517 ss.; De Hoog, Obligations Erga Omnes and International Crimes. A Theoretical Inquiry into the Implementation and Enforcement of the International Responsibility of States, The Hague/London/Boston, 1996; Baptista, Jus Cogens em Direito Internacional, Lisbon, 1997; Ragazzi, The Concept of International Obligations Erga Omnes, Oxford, 1997. Per una "teoria generale" degli obblighi erga omnes vedi soprattutto, nella dottrina italiana, il saggio di Picone, Obblighi reciproci ed obblighi erga omnes degli Stati nel campo della protezione internazionale dell'ambiente marino dall'inquinamento, in Diritto internazionale e protezione dell'ambiente marino, Milano, 1983, ss.

29. Così, ad es., Lattanzi, Garanzie dei diritti dell'uomo nel diritto internazionale generale, Milano, 1983, 125 ss.

30. Per l'applicazione di questo modello interpretativo alla crisi del Kosovo vedi soprattutto Picone, La 'guerra del Kosovo', cit., 309 ss., specie 343 ss.

31. ICJ Rep., 1970, paragrafi 33-34.

32. Secondo l'art. 48 del Progetto (intitolato "Invocation of responsibility by a State other than an injured State"): "Any State other than an injured State is entitled to invoke the responsibility of another State in accordance with paragraph 2 if: (a) The obligation breached is owed to a group of States including that State, and is established for the protection of a collective interest of the group; or (b) The obligation breached is owed to the international community as a whole". Secondo l'art. 54 (intitolato "Measures taken by States other than an injured State"): "This Chapter [on countermeasures] does not prejudice the right of any State, entitled under article 48, paragraph 1 to invoke the responsibility of another State, to take lawful measures against that State to ensure cessation of the breach and reparation in the interest of the injured State or of the beneficiaries of the obligation breached".

33. Su queste perplessità vedi, ad es., Iovane, La tutela dei valori fondamentali nel diritto internazionale, Napoli, 2000, 417-420.

34. Sul punto si veda sempre Iovane, op. ult. cit., 417-418.

35. In tal senso è appena necessario richiamare il noto dictum della Corte Internazionale di Giustizia nel caso Nicaragua, ICJ Rep., 1986, par. 188. Sul punto vedi per tutti Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, cit., 33-34.

36. ICJ Rep., 1996, par. 46.

37. Secondo l'art. 50 del Progetto: "Countermeasures shall not affect: (a) the obligation to refrain from the threat or use of force as embodied in the Charter of the United Nations".

38. In tal senso si veda invece Picone, La 'guerra del Kosovo', cit., 344 ss.

39. Valutando "oggettivamente" le vittime causate e, più in genere, le modalità e gli effetti dell'azione dei Paesi della NATO, è ad esempio possibile ritenere come "assai probabile che la campagna aerea contro la Repubblica federale di Iugoslavia sia stata la più scrupolosa della storia contemporanea". Anche "autorevoli organismi non governativi internazionali quali Human Rights Watch ed Amnesty International" hanno del resto riconosciuto "una certa scrupolosità nella condotta delle operazioni militari". Secondo la medesima ottica "oggettiva", si può dunque riscontrare da parte della NATO "una sostanziale adesione alle regole fondamentali del diritto di guerra e del diritto internazionale umanitario", nonché "affermare pacificamente, mettendo a confronto la quantità di raids aerei effettuati .. ed il numero delle vittime civili dall'altro, come sia mancata l'intenzionalità da parte della NATO di colpire deliberatamente vite umane". Per queste affermazioni, vedi Petrovic, Il rispetto del diritto internazionale umanitario da parte delle forze dell'Alleanza atlantica nel Kosovo, in L'intervento in Kosovo, cit., 135-138.

40. Com'è noto, il problema è stato posto e affrontato soprattutto da Cassese, in due ravvicinati articoli sull'EJIL, v. supra nota 12.

41. Per le dichiarazioni e i documenti della NATO e dell'Unione europea in tal senso, cfr. Pretelli, La crisi del Kosovo e l'intervento della Nato, cit. supra nota 10, 330-332.

42. Sulla posizione del Regno Unito vedi Ronzitti, Uso della forza e intervento d'umanità, cit., 14 ss. Tra gli Stati partecipanti all'azione armata, anche il Belgio si è pronunciato nel senso della sua conformità con il diritto internazionale, intendendola quale misura eccezionale adottata per prevenire una catastrofe umanitaria incombente (così nell'oral pleading di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia nel caso della Legalità dell'uso della forza, International Court of Justice, verbatim record, 10 may 1999, 13).

43. Tale mancanza è stata opportunamente rilevata, tra gli altri, da Cassese, A Follow-Up, cit. 792, Sofaer, op. cit., 2 e Frank, Lessons of Kosovo, cit., 859.

44. Si vedano le dichiarazioni all'Assemblea Generale dell'ONU del Primo ministro francese Jospin (GA/9595, 20 settembre 1999, 7), e del Ministro degli esteri tedesco Fischer (il 22 settembre 1999), secondo il quale "the intervention in Kosovo, which took place in a situation where the Security Council had tied its own hands after all efforts to find a peaceful solution had failed, was intended to provide emergency assistance and, ultimately, to protect, the displaced Kosovo Albanians. [...] However, this step, only justified in this special situation, must not set a precedent for weakening the UN Security Council's monopoly on authorizing the use of international force. Nor must it become a licence to use external force under the pretext of humanitarian assistance. This would open the door to the arbitrary use of power and anarchy, and throw the world back to the 19th century" (il corsivo è aggiunto).

45. Per la documentazione attestante la posizione critica di tutti questi Stati, cfr. Pretelli, op.ult. cit., 336-338. Vedi anche Zappalà, op. cit., 975 ss.

46. Ex iniuria ius oritur: Are We Moving towards International Legitimation of Forcible Humanitarian Countermeasures in the World Community?, cit., supra nota 10.