2011

La conquista neocoloniale della Libia

Danilo Zolo

La guerra contro la Libia, decisa nel marzo 2011 dagli Stati Uniti d'America, con la collaborazione della Francia, dell'Inghilterra e dell'Italia, è stata ed è tuttora una delle molte guerre volute dalle potenze occidentali. E si è trattato di guerre del tutto illegali. Sarebbe del resto molto ingenuo aspettarsi che le grandi potenze rispettino le norme del diritto internazionale, in particolare le prescrizioni della Carta delle Nazioni Unite e delle Convenzioni di Ginevra. L'aggressione bellica e l'uso delle armi contro le popolazioni civili sono una pratica che ormai potremmo chiamare ironicamente "umanitaria".

La bandiera che è stata sventolata dai leader politici occidentali è nota a tutti. Essi hanno dichiarato che intervenivano per difendere e sostenere gli insorti dell'area orientale della Libia che intendevano liberarsi dal regime della Jamahiriya di Gheddafi. Era loro dovere - hanno proclamato - schierarsi con chi era costretto a usare le armi contro un regime illiberale e antidemocratico. Ma è tuttavia il caso di domandarsi se gli Stati Uniti e i loro alleati ritenevano moralmente doveroso il loro intervento o se invece intervenivano per ragioni di interesse politico ed economico.

Ovviamente non si possono negare le buone intenzioni di almeno una parte degli insorti cirenaici, meritevoli di solidarietà e di aiuto quanto gli altri popoli del Maghreb e del Masrek che si erano ribellati ai regimi che li opprimevano. Ma che cosa poteva fare la cosiddetta "comunità internazionale" per sostenere legalmente la causa degli insorti? Dal punto di vista del diritto internazionale - vigente almeno sul piano formale - tutto si poteva fare meno che intervenire tout court con la forza delle armi contro una delle due parti impegnate nella guerra civile. A questo proposito deve essere considerato fondamentale il ben noto comma 7 dell'articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite:

Nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno Stato, né obbliga i Membri a sottoporre tali questioni ad una procedura di regolamento in applicazione del presente Statuto; questo principio non pregiudica però l'applicazione di misure coercitive a norma del capitolo VII.

È indiscutibile che il comma 7 dell'art. 2 consente l'intervento militare all'interno di uno Stato solo in applicazione degli articoli 39 e 42 della Carta delle Nazioni Unite. L'intervento potrebbe essere perciò considerato lecito solo nel caso di una guerra civile che metta a repentaglio "la pace e la sicurezza internazionale" e cioè la pace e la sicurezza fra gli Stati membri delle Nazioni Unite. Che il Consiglio di Sicurezza debba svolgere il ruolo di garante della "pace" fra gli Stati non può essere messo in discussione. Ma questo non significa affatto che le potenze che fanno parte stabilmente del Consiglio di Sicurezza - anzitutto gli Stati Uniti d'America - abbiano il diritto di intervenire militarmente all'interno di uno Stato semplicemente perché vi è in corso un contrasto politico che implica in qualche modo l'uso della forza.

Non va dimenticato, fra l'altro, che l'articolo 39 della Carta delle Nazioni Unite stabilisce che il Consiglio di Sicurezza può autorizzare l'uso della forza militare soltanto dopo aver accertato l'esistenza di una minaccia internazionale della pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione (da parte di uno Stato contro un altro Stato). Questa è dunque un'ulteriore ragione che rende inaccettabile la strage di persone innocenti che gli Stati Uniti e i loro alleati europei hanno fatto in Libia. E copre d'infamia il governo italiano impegnato con i suoi aerei militari a versare il sangue di un popolo di cui si era dichiarato enfaticamente amico sino a poco tempo prima.

La guerra civile fra le milizie fedeli a Gheddafi e gli insorti cirenaici di tutto poteva essere imputata meno che di mettere a repentaglio la pace nel mondo. Ed è altrettanto ovvio che la guerra civile interna alla Libia non rappresentava una grave violazione dei diritti fondamentali dell'umanità, come del resto cinque membri importanti del Consiglio di Sicurezza (Russia, Cina, India, Germania, Brasile) avevano di fatto sostenuto sia rifiutando di votare a favore della risoluzione 1973, sia deplorando l'aggressione che Francia, Inghilterra e Stati Uniti stavano organizzando contro la popolazione libica.

Questo è il punto decisivo e questo è l'argomento che rende giuridicamente illegittima la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza del 17 marzo 2011: una risoluzione con la quale gli Stati Uniti hanno deciso prima il No-Fly Zone contro la Libia - già un grave, illegale atto di guerra - e subito dopo l'intervento militare della NATO. È dunque fuori dubbio che il superamento della guerra civile non era una finalità legittima dell'intervento militare delle potenze occidentali. Un intervento legittimo e molto probabilmente efficace sarebbe stato di ben altra natura: il ricorso agli strumenti della diplomazia preventiva, l'intermediazione politica, l'interposizione consensuale di milizie di pace, ed eventualmente l'embargo e le sanzioni economiche, coinvolgendo anche la Lega Araba e l'Unione Africana.

Sarebbe grave chiudere questa breve analisi della vicenda libica senza un riferimento specifico all'intervento militare della NATO. Mentre un tempo la NATO era l'apparato difensivo dell'Occidente contro il Patto di Varsavia, oggi è la potente organizzazione militare agli ordini degli Stati Uniti che unisce ben 28 Stati e non ha la minima dipendenza dalle Nazioni Unite. A partire dal 19 marzo e fino ad oggi, la NATO ha organizzato oltre 26mila missioni aeree in Libia. Di queste circa 9.600 erano dirette contro obiettivi specifici che nulla avevano a che fare con la protezione dei civili e che invece hanno fatto strage di persone innocenti: non meno di 6mila vittime fra morti e feriti gravi. Fra queste vittime occorre inserire anche Muammar Gheddafi, che ha pagato le sue gravi colpe nel modo più crudele: è stato sottoposto ad un linciaggio spietato che le autorità della NATO avevano sicuramente previsto e che i rappresentanti delle potenze occidentali hanno subito approvato, a cominciare dal Presidente Barack Obama.

Quale può essere la ragione di questa carneficina? Non è difficile individuarla. La guerra scatenata dagli Stati Uniti contro la Libia aveva un obiettivo preciso: il controllo delle preziose risorse libiche di petrolio e di gas naturale. Le riserve di petrolio della Libia sono stimate in 60 miliardi di barili e sono notoriamente le più importanti dell'Africa, mentre i costi di estrazione sono i più bassi del mondo. E le riserve di gas naturale sono stimate in circa 1.500 miliardi di metri cubi. Ma nel mirino dei "volenterosi" che hanno impugnato le armi contro la Libia c'erano anche i "fondi sovrani" libici: si trattava dei capitali gestiti dalla Libyan Investment Authority, stimati in oltre 150 miliardi di dollari, che sono stati prontamente "congelati" dalle potenze occidentali prima di decidere l'attacco militare.

La guerra che gli Stati Uniti hanno scatenato è la prova della loro volontà di porre sotto il proprio controllo l'intera area mediterranea, che essi già controllano in larga parte, da Israele alla Giordania, all'Egitto, al Marocco, all'Italia, alla Grecia. L'atlantismo neo-imperiale degli Stati Uniti intende cancellare definitivamente l'autonomia del Mediterraneo, fingendo di accogliere le rivendicazioni delle nuove generazioni arabe. In realtà gli Stati Uniti, nascondendo la loro vocazione coloniale sotto il mantello dell'ennesima humanitarian intervention, puntano al controllo della Libia intera e non solo allo sfruttamento delle sue ricchissime risorse. Questo sarà il risultato della "guerra umanitaria" voluta da Barack Obama, Premio Nobel per la pace, e della sua pacifica collaboratrice, Hillary Clinton.