2007

Alle radici della guerra santa
Dal dialogo alla violenza: un itinerario agostiniano (*)

Luciano Cova

A mio padre
primo maestro di libertà

Parlare oggi di «guerra santa» non significa, purtroppo, fare mera archeologia. E non alludo soltanto ai diversi movimenti che, spesso superficialmente, si usa raggruppare sotto l'etichetta di «fondamentalismo islamico», o ad altri fondamentalismi, di segno religioso diverso. In realtà la nostra stessa cultura occidentale - benché condanni, a livello giuridico e ideale, la violenza inferta per motivi religiosi - appare (anche) a tale riguardo l'erede, per certi aspetti, della cultura medievale.

Nel suo libro recente sulle guerre sante del Cristianesimo e dell'Islam Peter Partner osservava: «Una ricostruzione ragionata della guerra santa rende chiaro come il movimento delle crociate abbia avuto una persistenza postuma molto più prolungata di quanto generalmente si pensi e come certi atteggiamenti mentali cristiani, ritenuti da tempo sepolti, siano in grado di esercitare, sulla nostra visione delle cose, un'influenza maggiore di quanto immaginiamo» (1).

Avvenimenti come la guerra mossa dalla NATO alla Jugoslavia nel 1999 hanno fornito, a mio giudizio, una precisa conferma di queste considerazioni, a due anni soltanto dalla loro formulazione. Nella martellante propaganda (a favore di una guerra che stracciava carte costituzionali e patti internazionali...) si affacciavano slogan ispirati all'idea di lotta del bene contro il male che sembravano rinverdire i toni di predicatori vissuti novecento anni prima.

Certo, la nostra cultura ci fornisce anche, fortunatamente, una notevole varietà di strumenti (a partire dalla critica dell'ideologia) per indagare la complessità del fenomeno «guerra» - di tutte le guerre. Le motivazioni esplicite etiche e religiose, pur non essendo a priori e sempre mero paravento costruito per sostenere la guerra e legittimarla, ma spesso molla effettiva, certamente non ne costituiscono l'unica causa e, soprattutto, restano in ogni caso uno dei modi maggiormente praticati nel corso dei secoli per giustificarla.

Per citare ancora Partner, «la storia delle guerre sante, dagli ebrei della Bibbia fino ai nostri giorni, è una storia di testi che appartengono a religioni scritturali; ma è anche una storia di comportamenti umani. Le violenze che commettono, gli uomini tentano di giustificarle. Richiamarsi a Dio, o agli dei, è solo uno dei modi per giustificare una guerra...» (2). Ebbene, ciò che in questa sede mi propongo è di esaminare (o almeno di enucleare nelle sue linee fondamentali) questo tipo di motivazioni considerate in se stesse, a prescindere dal loro ruolo effettivo nella storia e perciò anche dal loro oscillare tra ideologia come indeliberato orizzonte mentale di gruppi e ideologia come reale volontà di contraffazione.

Si tratta dunque di mettere a fuoco alcune strutture basilari di quella teorizzazione della guerra in nome di Dio che percorre tutto il medioevo latino: bellum propter Deum che, come insegna già Sant'Agostino, gli uomini eseguono (gerunt) ma è opera del Signore (auctore Deo), secondo il prototipo descritto nel libro dell'Esodo, lì dove la sconfitta di Amalec e l'eccidio del suo popolo per mano di Giosuè sono letti, appunto, come bellum Domini (3).

Anzitutto va notato che il medioevo è caratterizzato da una visione profondamente religiosa e unitaria del mondo. Esiste un unico disegno divino di salvezza e un unico organismo in cui esso si attua: la chiesa. Il medioevo è l'età in cui diviene mito operante la città di Dio agostiniana, da tradurre in termini concreti e politici. Non si distingue, fondamentalmente, il religioso dal politico, lo spirituale dal temporale, ma contrapposizioni di questo tipo si collocano soltanto ad un livello secondario: i due poteri, le due «spade», si situano all'interno dell'unica cristianità, in ecclesia. In un'ottica teocratica e ierocratica che vede tutti i poteri partecipi del Cristo nelle sue dimensioni regale e sacerdotale, anche imperatori e principi possono rivendicare il proprio ruolo di fronte alla gerarchia ecclesiastica come espressione di un ordine divino (4).

In questa cornice l'affermazione e la difesa dei valori della fede cristiana non possono non costituire una priorità politica assoluta, che vede la convergenza delle gerarchie ecclesiastiche e delle autorità civili. L'infidelitas, quella per cui «maxime homo a Deo elongatur» (5) e che coinvolge pagani, giudei, eretici, scismatici e apostati, è peccato degno di eterna dannazione e, insieme, reato da estirpare con il rigore della legge temporale. Ciò vale in linea di principio, anche se poi la prassi repressiva del religiosamente «diverso» non è uniforme nel corso del medioevo, lasciando di volta in volta alcuni margini alla tolleranza soprattutto in relazione alle differenze tra nemico esterno e nemico interno, nuovo e antico, aggressivo e pacifico, ecc., sicché la stessa teorizzazione teologica e giuridica riflette questa varietà di situazioni e di atteggiamenti (6).

Sarebbe sbagliato, a mio giudizio, misconoscere la comune radice culturale e mentale di fenomeni come le crociate e l'inquisizione, enfatizzando oltre il lecito il fatto che la conversione forzata di non cristiani fu più praticata che teorizzata (7), e a livello dottrinale veniva normalmente riservato ai cattolici deviati quel «compelle intrare» della parabola degli invitati (Lc. XIV, 23) che già sant'Agostino aveva interpretato come legittimazione della violenza nella lotta contro gli eretici (8).

In realtà, com'è ampiamente documentabile anche attraverso l'ampia letteratura di decretisti e decretalisti (9), guerra santa e repressione del dissenso religioso sono elementi che all'interno della cultura medievale si intersecano e si integrano, nella prospettiva di una doverosa azione armata con cui l'autorità legittima coopera all'azione redentrice di Cristo colpendo tutte le minacce all'integrità della fede e della società cristiana. A seconda delle circostanze, la violenza istituzionale in nome della «verità» (chiesa e potere civile, o chiesa attraverso il potere civile laddove si neghi l'opportunità che i chierici partecipino direttamente ad azioni armate) si esercita in azioni di polizia interne come in campagne belliche esterne. La crociata - anche in un senso tecnico, quella promossa dal papa con concessione di indulgenze - non è soltanto il pellegrinaggio armato a conquista e difesa del santo sepolcro ma è intervento in armi per difendere o imporre la fede cattolica dove si ritenga necessario: dalla riconquista della penisola iberica alla guerra contro gli Albigesi, dalle spedizioni dei cavalieri teutonici con cui vengono sterminati i pagani di Prussia e del Baltico alle guerre contro gli Hussiti in Boemia (10).

Bernardo di Clairvaux: il «malicidio»

A conferma di ciò sarà sufficiente qui ricordare una figura emblematica nella teorizzazione medievale della militia Christi: quel Bernardo di Clairvaux, grande organizzatore del monachesimo cistercense, personaggio tra i più influenti del XII secolo, che fu chiamato da Papa Eugenio II a propagandare, dopo la caduta di Edessa, la seconda crociata. Mentre i teologi del XIII secolo tenderanno a ridimensionare il valore della lotta armata ai non cristiani dedicandosi piuttosto a elaborare le basi teoriche della prassi inquisitoriale (ossia dello sradicamento fisico dell'eresia), nella vita e nelle opere di Bernardo possiamo scorgere un equilibrio tra l'ideologia delle crociate contro gli infedeli e la ferrea difesa, con tutti i mezzi, dell'ortodossia dottrinale all'interno delle società cristiane.

Nel suo scritto rivolto al nuovo ordine dei Templari (Ad milites templi de laude novae militiae), Bernardo esalta il ruolo del monaco-combattente, «un soldato veramente intrepido e protetto da ogni lato, che come riveste il corpo di ferro, così riveste l'anima con l'armatura della fede. Nessuna meraviglia se, munito di ambedue le armi, non teme né il demonio né l'uomo; non teme la morte, lui che (per Cristo) desidera morire» (11). È notevole che questa guerra in nome di Cristo venga radicalmente contrapposta da Bernardo a una «milizia secolare» dove «Christus non est causa militandi». Questa cavalleria profana è descritta a fosche tinte e dipinta come una malitia nella quale l'uccidere comporta la pena eterna: «infelix victoria, qua superans hominem, succumbis vitio» (12).

Secondo questa prospettiva nessuna causa può rendere buona una guerra profana: non, ovviamente, causa levis et frivola, i motivi legati a passioni riprovevoli (iracundiae motus, inanis gloriae appetitus, possessionis cupiditas) (13), ma neppure lo zelus ulciscendi, ossia il desiderio di (giusta) vendetta, o il remedium evadendi, vale a dire il bisogno di sfuggire a un pericolo incombente (14). Nell'integralismo religioso del cistercense svanisce così quell'idea di guerra giusta che pure la tradizione patristica e Agostino, mutuandola dalla filosofia e dal tardo diritto romano, avevano consegnato al medioevo (insieme, come vedremo, con i fondamenti della violenza cristiana per l'affermazione della fede) (15).

Ma, se la causa è Cristo, allora l'usare la spada è addirittura meritorio: in conformità a san Paolo (Rom. XIII, 4), il principe è ministro di Dio e della sua ira contro i malvagi. La morte «pro Christo vel ferenda vel inferenda» non ha nulla di delittuoso e rende ancora più meritevoli di gloria: uccidendo coloro che agiscono male, il soldato di Cristo opera il giusto castigo e dovrebbe essere definito «malicida» piuttosto che omicida. E poiché Cristo «accetta volentieri la morte del nemico a titolo di riparazione, e ancora più volentieri offre se stesso al soldato come consolazione», il suo soldato «uccide tranquillamente e più tranquillamente muore» (16).

Accanto a questo intento di volgere completamente gli ideali cavallereschi al servizio della chiesa nella lotta agli infedeli, l'altro aspetto dell'opera bernardiana cui volevo accennare è la difesa, continua e intransigente, della purezza dottrinale. Sono note le sue polemiche con Abelardo, il suo sforzo (coronato da successo) di farlo condannare da un concilio, ma ciò che qui soprattutto interessa sono le sue affermazioni circa la necessità di ricorrere alla spada del principe per colpire quei gruppi ereticali che non accettino di essere recuperati pacificamente. Contro le comunità dissidenti di Colonia, cui non riconosce alcuna ispirazione religiosa profonda e sincera nonostante siano espressione di motivi evangelici attivi nella stessa riforma cistercense da lui promossa (17), Bernardo auspica un intervento repressivo da parte dei «principi laici», ministri dell'ira divina verso coloro che agiscono male. Certamente, in linea di principio la fede «suadenda est, non imponenda», e tuttavia è meglio costringere con la spada che permettere la diffusione dell'errore.

Ciò che però Bernardo non vuole è che sia il popolo a compiere la vendetta, come appunto è successo a Colonia, dove fu la folla (con uno zelo peraltro lodato dal cistercense) a mettere al rogo i «nuovi eretici» dopo averli sottoposti alla prova dell'acqua per smascherarli. Questo intervento spetta invece al potere costituito, che, paolinamente, «non sine causa gladium portat» (18). Per dare il giusto peso alle parole di Bernardo, bisogna ricordare che il Codice giustinianeo, sempre formalmente in vigore, recependo quello teodosiano minacciava la pena di morte per gli eretici, considerati in quanto tali colpevoli del crimine di lesa maestà (19). Bisogna ricordare anche che nel 1184, solo quarant'anni dopo i fatti di Colonia, Lucio III e Federico I, ponendo una pietra miliare nell'organizzazione dell'inquisizione medievale, s'incontrarono a Verona stabilendo una stretta sinergia nella difesa della fede cattolica: il papa forniva l'elenco dei gruppi da colpire e l'imperatore s'impegnava a perseguirli (20). Ed è proprio con la metà del XII secolo che a livello di diritto canonico si diffonde l'idea che la pena appropriata per gli eretici «ostinati» sia data dal supplizio capitale (21).

Violenza e patibolo come tramiti di verità: quasi un ossimoro per noi, prima ancora che progetto moralmente inammissibile. Certamente sarebbe troppo facile stracciarci le vesti contrapponendo semplicemente la nostra etica liberale alla loro integralistica («noi oggi i buoni, loro quella volta i cattivi»), senza tener conto delle distanze e dello spessore della storia; ma sarebbe ancora meno sostenibile cercare di assolvere quella cultura dell'intolleranza con una storicizzazione superficiale («erano altri tempi»): erano tempi, in realtà, nei quali chi elaborava dottrina non poteva ignorare i testi di quei (venerati) Padri della chiesa precostantiniani che, rivendicando libertà di culto per i cristiani, avevano prospettato e motivato un'incompatibilità basilare tra (qualsiasi) religione e costrizione, pur nell'intransigente contrapposizione tra religione vera e religioni false (22). Tuttavia, al di qua di un giudizio di valore quale che sia, il primo problema è verificare la maniera in cui, nelle mutate condizioni storiche, quelle affermazioni a difesa di una tolleranza pratica vengono superate e sostituite con la teorizzazione, destinata a una fortuna più che millenaria, di una repressione della dissidenza e di un'imposizione violenta della religione considerata vera: con quali motivazioni cioè il monolitismo teorico si traduca in un monolitismo anche di tipo pratico e politico, più duro certamente di quell'antica religione di stato politeista che entro certi limiti aveva ammesso una varietà di culti particolari (23).

Il vero problema insomma (come sempre nella storia del pensiero) sta anzitutto nel ricostruire dall'interno i percorsi concettuali che si trovano a monte di determinate conclusioni, anche a prescindere dal carattere ideologico di quei percorsi e di quelle conclusioni. Per questo si può considerare fondamentale per compredere la cultura medievale delle guerre sante e dell'inquisizione analizzare quei testi di Agostino («dottore» per eccellenza agli occhi dei latini) che ne costituiscono, a livello dottrinale, la fonte più importante e diretta. Mi interessano perciò in questa sede non i testi che consentono di ricostruire la sua concezione di quella particolare «guerra giusta» che, nel solco del romano ius ad bellum, si fonda sull'idea di ulcisci iniurias (24), bensì quelli che giustificano la violenza istituzionale contro l'«errore» e in difesa della fede (25). Si tratta di passi che forse non abbastanza frequentemente (in rapporto alla loro importanza per tutto il prosieguo della cultura occidentale) vengono presi in esame dagli studiosi di Agostino, anche se certamente non manca chi si è impegnato a individuare, nell'amplissima opera dell'Ipponese, le parti che interessano il suo atteggiamento nei confronti di eretici e scismatici.

Non ne sminuisce a mio giudizio l'interesse teorico (oltre che storico-dottrinale) il fatto che questi passi non si trovino radunati in trattati sistematici, ma esprimano piuttosto prese di posizione e riflessioni strettamente legate alle vicende biografiche del vescovo d'Ippona, alla sua intensa attività ecclesiastica, alle sue battaglie per l'affermazione della fede cattolica in un ambiente - l'Africa romana tra IV e V secolo - assai complesso e religiosamente ancora pluralistico, carico di tensioni e di scontri, di violenze istituzionali e private (assai lontano da quello, fondamentalmente omogeneo al proprio interno, in cui si troveranno ad operare i teorici medievali dell'inquisizione) (26). Si può essere, a mio giudizio, d'accordo con Peter Brown nel sostituire il termine 'dottrina' con 'atteggiamento' a proposito di quelle risposte, in quanto plasmate in Agostino dalla natura e dall'origine del suo «outillage moral» (27), a patto però di non misconoscerne una precisa valenza anche teorica: partendo infatti dalle situazioni concrete, come avremo modo di vedere, Agostino le giudica appellandosi continuamente a principi di ordine generale, che cerca di fondare sulla ragione oltre che sulle sacre scritture.

Esaminando alcuni fra i testi agostiniani più significativi a questo proposito, avremo anzi modo di notare un livello di approfondimento speculativo al quale sono difficilmente paragonabili la massima parte delle teorizzazioni elaborate successivamente all'interno della cultura medievale. Queste comunque, nei contenuti, riveleranno una linea di continuità tale da confermare l'assunto secondo cui Agostino di fatto fornisce, fondamentalmente, il manifesto teorico dell'intolleranza cristiana medievale non solo teorica ma politica, e dunque giuridica e coercitiva, nei confronti di chi sta «fuori», il religiosamente deviante (28).

Questo breve studio avvalorerà tuttavia anche un importante elemento di discontinuità che già altri studiosi hanno messo in luce, vale a dire l'attribuzione o meno di una dimensione «terapeutica» e pedagogica alla costrizione religiosa: presente, anzi centrale nel pensiero di Agostino, che perciò si dimostra attento ai livelli qualitativi e quantitativi della violenza auspicata e nega in ogni caso il ricorso alla pena di morte, tale dimensione sembra invece affievolirsi o addirittura svanire nelle massime teorizzazioni successive dell'eliminazione fisica dell'eretico, finalizzata alla difesa della società e alla giusta punizione del «crimine» commesso.

Potremo ottenere, infine, una terza conferma, non meno importante. Agostino non si rivela fin dall'inizio il teorico di una repressione violenta, affidata dai chierici alle autorità civili, ma per un certo tempo sembra credere ancora (si può discutere quanto sinceramente e quanto invece strumentalmente) alle vie di un pacato confronto, che possa essere interiormente illuminante per colui che vive nell'«errore». Anche all'interno di questo ambito problematico il vescovo d'Ippona dimostra così di avere seguito un percorso, approdando a posizioni notevolmente diverse rispetto a quelle iniziali (29). E il suo itinerario, dal dialogo alla violenza, ci può apparire, nella consapevolezza delle successive evoluzioni della civiltà europea, tragicamente emblematico, quasi la riproposizione a livello ontogenetico della filogenesi che caratterizzò i primi quindici secoli del cristianesimo.

Il primo Agostino: «Nihil vi, sed omnia suadendo et monendo»

Nel corso degli anni Novanta del IV secolo, calato prima in qualità di prete (391) e poi di vescovo (395) nel clima arroventato di un'Africa scossa da tensioni e violenze, con l'autorità civile impegnata a colpire la dissidenza religiosa soprattutto di pagani, manichei e donatisti (Graziano e Teodosio hanno ormai imposto il cristianesimo ortodosso quale religione unica dell'impero romano) (30), Agostino rifiuta ancora di affrontare la difesa della fede cattolica in termini di repressione violenta. Ciò, a mio giudizio, è notevole, tanto più se si considera che l'atmosfera di scontro religioso fra cattolici e donatisti, senza esclusione di colpi da una parte e dall'altra, ormai consolidatasi nel corso del secolo (31), avrebbe potuto sortire ben altri effetti combinandosi con l'entusiasmo di un neofito deciso ad affermare i valori della fede cui era appena approdato.

Ma è proprio la storia personale di Agostino, il percorso e la «qualità» della sua conversione, che a mio giudizio possono aiutarci a comprendere questo atteggiamento inizialmente mite pur nella ferrea volontà di combattere (con la predicazione e il colloquio) tutti gli «errori». Si percepisce ancora nitidamente, nelle prese di posizione di quegli anni, l'ampio respiro filosofico e religioso della sua formazione e del suo itinerario interiore, che lo avevano portato al battesimo attraverso un'ascesa in cui l'adesione alla «sapienza» platonica aveva rappresentato una tappa essenziale (32). Si avverte un'idea di verità come fondamento assoluto e immutabile, ma insieme come faticosa conquista personale esposta a mille difficoltà e insidie legate alla debolezza della condizione umana. E si avverte anche una fiducia effettiva nell'azione interiore di Dio-luce delle menti, raggiungibile da ogni anima nel limite in cui si sappia fuggire la confusione esteriore e approdare alla quiete dell'interiorità.

E così nel Contra epistolam Manichaei (397), pur combattendo i seguaci di Mani (suoi antichi compagni di religione) e sforzandosi di correggerli, Agostino denuncia la dura persecuzione in atto contro di loro come frutto di ignoranza, l'ignoranza di chi non conosce la dimensione dello sforzo interiore nel cammino verso la verità e vuole semplicemente «perdere» laddove Dio ci chiama ad «emendare». «Infieriscano pure contro di voi coloro che ignorano con quanta fatica si trovi la verità e con quale difficoltà ci si sottragga agli errori. Che infieriscano contro di voi coloro che ignorano quanto sia raro e gravoso vincere le illusioni carnali con la calma di un'anima pia. Che infieriscano contro di voi coloro che ignorano quanto sia difficile guarire l'occhio dell'uomo interiore perché egli possa contemplare il suo sole» (33).

Richiamandosi al passo paolino di II Tim. II, 24 («Servum autem domini non oportet litigare, sed mitem esse ad omnes») il vescovo d'Ippona auspica invece un atteggiamento fatto di pacifico conforto, di benevola esortazione e di discussioni miti (34). Memore di essere stato anche lui incatenato a lungo nelle «vane immaginazioni» e negli «errori» dei manichei, e di essere stato tollerato riuscendo ad uscirne grazie all'aiuto di Dio, Agostino sarà adesso a sua volta tollerante: «Io invece, che così lungamente agitato alla fine ho potuto contemplare la pura verità che si coglie senza la mescolanza di favole vane, io che, misero, a stento ho meritato con il soccorso del Signore di superare le vane immaginazioni della mia anima frutto di opinioni e di errori diversi, [...] io che, infine, ho scrutato con curiosità, ho ascoltato con attenzione, ho creduto sconsideratamente, ho predicato con ardore a chi ho potuto, ho difeso contro gli altri con appassionata tenacia tutte quelle finzioni che per lunga abitudine vi avviluppano e vi incatenano, io non posso assolutamente infierire contro di voi: voi che devo adesso sopportare così come io stesso in quel tempo sono stato sopportato, e devo comportarmi nei vostri riguardi con una pazienza grande come quella esercitata dai miei amici quando pazzo e cieco erravo nella vostra dottrina» (35).

Si noti l'intento di Agostino: è necessario «sopportare» (sustinere) le illusioni altrui perché possano essere vinte «con la calma di una anima pia» (piae mentis serenitate). La quiete interiore come luogo e condizione in cui agisce l'illuminazione divina è del resto un tema ricorrente nelle prime opere di Agostino, in cui si persegue la convergenza tra un ideale filosofico di matrice greca e la tensione biblica verso il Dio vivente, così come si può vedere espressa nel De vera religione (36) con il richiamo al Salmo 45, 11: «Vacate (agite otium, recita la Vetus latina usata dal nostro) et videte quoniam ego sum Deus». Otium, quies, pax: Agostino invita a quella pace che è l'aplotes di Plotino, e si attua nel superamento delle rappresentazioni legate al sensibile e al molteplice.

In questi anni la speranza che nella quiete interiore emerga la verità è ancora, per Agostino, molla effettiva di azione - e dunque stimolo ad un dialogo pacifico - anche nelle prime polemiche contro i vescovi donatisti, più volte da lui invitati a pacifici incontri (37).

Di particolare interesse si presenta la lettera con la quale nel 392, ancora presbitero, Agostino scrive al vescovo donatista Massimino, sospettato di essere colpevole di un peccato gravissimo agli occhi di un cattolico, vale a dire il conferimento di un secondo battesimo. In assenza del proprio vescovo, egli prende l'iniziativa di proporre un confronto con l'avversario (38): consapevole di vivere in un tempo in cui, evangelicamente, il Signore non ha ancora separato la paglia ed è necessario pregare e sforzarsi il più possibile di essere frumento, teme che un proprio silenzio possa rafforzare la prassi di ribattezzare (39). Perciò invita il vescovo donatista ad un pacifico confronto, mettendo da parte i rancori dovuti alle reciproche violenze ormai radicate nelle memorie collettive delle due chiese, la durezza delle persecuzioni subite già in passato dai donatisti così come, viceversa, le violenze attuate in quegli anni dai loro gruppi più radicali: «Nec tu objicias tempora macariana, nec ego saevitiam Circoncellionum» (40).

Agostino si dice mosso da una ragione di pace (ratio pacis) e propone che il colloquio si svolga dopo che siano stati allontanati i soldati: post abscessum militis, in modo che non si creda egli voglia forzare («ut inviti homines cogantur») e in modo che invece «quietissime quaerentibus veritas innotescat» (41). S'intende, neanche una virgola della verità cui Agostino è convinto di essere giunto al termine del suo travaglio interiore è realmente «in discussione». Ma è notevole la volontà espressa che la convergenza emerga dal confronto sulle cose, non dalle minacce: «Da parte nostra cesserà il terrore dei poteri temporali, da parte vostra cessi il terrore dei circoncellioni riuniti».

Messi da parte gli stimoli della paura, il confronto deve avvenire sui contenuti e svolgersi sotto la guida della ragione e della sacra Scrittura: «Re agamus, ratione agamus, divinarum Scripturarum auctoritatibus agamus, quieti atque tranquilli quantum possumus petamus, quaeramus, pulsemus, ut accipiamus et inveniamus et aperiatur nobis» (42). Invito dunque alla ragione, a far parlare le cose e, contemporaneamente, fiducia operante in un Dio che ascolta le nostre preghiere ed ispira i nostri cuori: evangelicamente, bussate e vi sarà aperto! L'assolutezza della verità si traduce così non in imposizione estrinseca, ma anzi in piena fiducia nel colloquio sincero. La convinzione che Dio sia la nostra luce profonda (fare quiete in se stessi vuol dire rinunciare all'esteriorità fuorviante ed è la condizione perché Dio possa parlare in noi) e che d'altra parte la fede non possa non passare per un'adesione personale e volontaria (43) si trasforma nel primo Agostino in un'ottimistica pedagogia dell'interiorità.

I testi qui riferiti, ed altri ancora, parlano da sé piuttosto chiaramente. Ciò però non significa che, contestualizzati in un insieme più ampio, essi non possano rivelarsi come elementi parziali di un atteggiamento più complesso. Credo sia difficile negare le ragioni con le quali Peter Brown, acuto conoscitore e interprete delle vicende agostiniane, rifiuta di vedere nell'Agostino degli anni Novanta il campione di un punto di vista dialogico e liberale e individua proprio nella formazione intellettuale di quel periodo, caratterizzata da un'approfondita meditazione sulle Scritture, da un'intensa attività ecclesiastica e dalla maturazione di una dottrina sul peccato originale che implica una sfiducia di fondo negli uomini (bisognevoli di correzione con la durezza della disciplina), le radici di quello che, con l'inizio del nuovo secolo, sarà non tanto un voltafaccia provocato da circostanze esterne, quanto piuttosto «una improvvisa precipitazione, sotto pressioni esterne, di idee che, precedentemente, erano andate evolvendosi lentamente ed impercettibilmente su un lungo raggio di tempo» (44).

Secondo Brown le stesse lettere «scrupolosamente educate» rivolte ai vescovi donatisti si situano in realtà all'interno di una strategia diplomatica, sono come le note scambiate tra due grandi potenze in un periodo di guerra fredda. D'altra parte anche un uso strumentale di certi valori implica, a mio giudizio, che essi siano per lo meno riconosciuti come tali.

È vero che lo stesso Agostino, teorizzando in un momento successivo la violenza e la minaccia da parte dell'ortodosso nel confronto religioso, darà una spiegazione del suo primitivo atteggiamento anticostrittivo semplicemente in termini di preoccupazione per il pericolo di una valanga di finte conversioni (45) (lo stesso Brown rileva che considerazioni di questo genere agirono come freno alla coercizione religiosa durante l'intero periodo tardoromano, e che Agostino poté a un certo punto superarle in forza della propria dottrina della grazia e della predestinazione da parte di un Dio capace di individuare i «suoi» in una massa costellata di ficti) (46). Non è detto, tuttavia, che l'autolettura retrospettiva di Agostino esaurisca le motivazioni del suo primitivo atteggiamento. L'invito a non oltrepassare il livello di un dialogo pacifico, fondato sulla fiducia nella Verità che parla alla ragione umana manifestandosi soltanto nella quiete interiore, può essere considerato, se ci si basa sull'ammissione del suo stesso autore, diplomatico e perciò strumentale mascheramento di intendimenti diversi, ma non per questo non riflette anche, concettualmente, un atteggiamento filosofico e religioso di fondo, all'inizio profondamente vissuto, quello che fa dire all'Agostino cristiano-platonico del De vera religione (a dispetto delle sue successive affermazioni, che tra poco vedremo): «<Il Figlio di Dio> nulla fece con la forza, ma ogni cosa con la persuasione e l'esortazione» (47).

Il secondo Agostino: «Cogite intrare»

Le circostanze esterne che, alle soglie del nuovo secolo, determinano in Agostino la svolta o, se si preferisce, il precipitare di idee che lentamente stavano maturando, sono date da un clima di scontro religioso crescente: da una parte la politica duramente repressiva dell'imperatore Onorio (cattolico devoto), dall'altra le violenze dei circoncellioni e anche di pagani urtati dalla volontà di estirpare ogni traccia della loro religione (48). Il Sermone 62 bene esprime uno stato d'animo di forte eccitazione nel contrapporsi a un nemico che, pur nella sua pluralità, assume ai suoi occhi i connotati di un blocco unitario: «... I mormorii (dei pagani) si congiungono con quelli degli eretici e degli ebrei. Eretici, ebrei e pagani sono venuti a formare un'unità contro l'unità (cattolica)» (49).

La prima esplicita ed ampia teorizzazione della necessità che il pubblico potere persegua politeismo, scismi ed eresie si trova nel trattato antidonatista Contra epistulam Parmeniani, scritto nel 400, in cui viene riconosciuto all'imperatore il diritto-dovere di punire non soltanto i pagani, vendicando il crimen idolatriae (con una «regia diligenza» contrapposta alla «privata violenza» cui ricorrono gli stessi donatisti per colpire i templi della vecchia religione romana), ma anche gli scismatici e gli eretici (50). Viene qui affermato un principio di straordinaria importanza, destinato a dominare la cultura europea per più di un millennio: il dissenso «empio» è un crimine come gli altri, e come tale va punito. Non si tratta di un principio nuovo (anche se applicato ormai a parti invertite), nell'ottica di un impero che tradizionalmente sanciva la dominanza di un culto ufficiale. Ma nuova certamente ne è la motivazione, ossia il richiamo alla Scrittura cristiana (senza neppure scomodare l'Antico Testamento), all'Apostolo, che nella lettera ai Galati enumera tra le «opere della carne» anche dissensiones e haereses accanto a fornicazioni, liti, ubriachezze, ecc. (51)

Agostino trova modo di ironizzare, con la sua fine retorica, sulla pretesa, da parte dei donatisti, di considerarsi martiri: se per essere tali bastasse subire gli strali imperiali, tutti i luoghi e gli strumenti deputati alla pena sarebbero pieni di martiri! (52) Ma, al di là delle ironie, quello che mi sembra degno di rilievo sul piano teorico è l'idea (sviluppata, come vedremo, in scritti successivi) secondo cui non è la violenza subita, in quanto tale, a produrre un determinato valore morale (non ex passione certa iustitia), ma è la bontà della causa per cui si soffre che conferisce al supplizio splendore spirituale (ex iustitia passio gloriosa). È per questo che Cristo non disse semplicemente 'Beati quelli che subiscono una persecuzione', ma a ciò aggiunse una «grande differenza»: 'a causa della giustizia'. Neanche la buona fede, lascia intendere Agostino, è sufficiente a trasformare il valore di quella che il non cattolico reputa una «pia religione» ma in realtà è soltanto una «superstizione» (53).

Si può notare che già Cipriano, nella sua appassionata difesa dell'unità della chiesa, aveva escluso la possibilità che i dissenzienti ottenessero la corona della gloria ardendo in mezzo alle fiamme o divorati dalle belve: ma, evidentemente, a metà del III secolo il vescovo di Cartagine non poteva avere in mente altra persecuzione che quella operata da imperatori pagani e comunque, anche esplicitamente, teorizzava una prassi ecclesiastica tale da trasformare nella pena spirituale della scomunica (preclusiva della salvezza eterna) la pena di morte corporale che l'Antico Testamento aveva previsto per chi disubbidisse ai sacerdoti (54). Lo stesso Cipriano, peraltro, come diversi autori ortodossi a lui contemporanei, sollecitato dal problema dei lapsi, aveva sostenuto un atteggiamento di clemenza e di accoglienza verso i peccatori richiamandosi alla parabola della zizzania e alle parole di Giovanni Battista sulla divisione finale della paglia dal grano, riservata al Signore (55).

Agostino, da parte sua, pur trovandosi forse più di chiunque altro in sintonia con l'intento di teorizzare una vasta comunità ecclesiale, formata non soltanto di puri e di perfetti, si dimostra contemporaneamente tanto preoccupato dell'unità disciplinare e dell'ortodossia dottrinale da delineare (proprio a partire dal trattato contro Parmeniano) una nuova lettura di quei passi evangelici. Certo, bisogna lasciare crescere insieme frumento e zizzania sino alla mietitura, ma ciò - nota Agostino - esclusivamente allo scopo di non correre il rischio di sradicare l'erba buona insieme con quella cattiva, sicché quando questo pericolo non sussiste, vale a dire quando il «crimine» è evidente e non ha difensori tali che una sua repressione possa provocare scismi, non deve dormire la severità della disciplina (56). Si avverte, mi sembra, un tono fortemente «politico» in questo discorso, nel senso anzitutto di uno spazio che, a dispetto del testo evangelico, si vuole comunque garantire per un giudizio umano (storico) altrimenti schiacciato da quello divino (escatologico), ma addirittura nel senso tattico di una precisa commisurazione dell'intervento repressivo alla sua efficacia (esso è doveroso purché non sia controproducente). Non a caso quest'interpretazione diventerà classica per la teologia medievale (57), e l'inquisizione potrà andare a braccetto con il Vangelo.

Negli anni successivi a questa prima netta presa di posizione in favore di una repressione poliziesca del dissenso religioso, l'atteggiamento di Agostino si conferma e si rafforza. Ancora prudente durante il concilio di Cartagine del 404, il vescovo d'Ippona approva pienamente l'editto imperiale con cui nel 405 la chiesa donatista viene soppressa, e si trova a dover gestire tutta una comunità costretta a riconoscere in lui il suo nuovo capo (58). A partire da questa data, i suoi scritti ritornano a più riprese sulla necessità, sui problemi e sui modi di una imposizione violenta della «verità cattolica» (59).

Fra tutti i testi che si potrebbero esaminare, mi soffermerò su quello che probabilmente presenta un discorso più completo e strutturato, sforzandosi di individuare nella stessa pedagogia divina i fondamenti dell'intolleranza religiosa. Si tratta della lettera indirizzata nel 408 a Vincenzo di Cartenne, donatista della setta di Rogato ed ex compagno di studi di Agostino a Cartagine, il quale gli aveva rinfacciato il suo zelo di allora per il conflitto religioso, contrapponendolo al suo amore di un tempo (di quando addirittura era ancora lontano dalla fede cristiana e dedito agli studia litterarum) per la pace e per la virtù (60).

Già un suo contemporaneo, dunque, aveva potuto notare nell'atteggiamento di Agostino l'evoluzione da un'originaria repulsione per lo scontro religioso ad una sua totale accettazione. E, di fronte alle accuse, Agostino stesso riconosce, nel corso della risposta, di avere cambiato idea sull'uso della violenza per ricondurre i dissidenti all'«unità di Cristo»: «Nam mea primitus sententia non erat, nisi neminem ad unitatem Christi esse cogendum; verbo esse agendum, disputatione pugnandum, ratione vincendum» (61). Questo è un particolare non privo di un certo rilievo, se si tiene presente che non sempre il Vescovo d'Ippona fu disposto ad ammettere un'evoluzione del proprio pensiero anche lì dove effettivamente c'era stata (come quando, nel corso della polemica antipelagiana, negò di aver mai sostenuto l'ipotesi traducianista per spiegare l'origine dell'anima) (62).

Si è già notato d'altra parte come Agostino, parlando di questo suo primitivo rifiuto della costrizione in favore di un ricorso esclusivo alle vie della persuasione, ne smussi comunque la contrapposizione alla sua posizione attuale individuandone una motivazione meramente «politica» e strumentale: «ne fictos catholicos haberemus, quos apertos haereticos noveramus» (63). Si tratta di una lettura retrospettiva corretta o, piuttosto, di una proiezione nel passato di istanze collegate al nuovo atteggiamento? In parte una cosa e in parte l'altra, probabilmente. In ogni caso il vescovo d'Ippona si adegua ormai totalmente alla posizione dei suoi colleghi africani da tempo impegnati a sostenere la necessità che il potere civile elimini con la forza la diffusione dell'eresia e dello scisma. Ha ceduto agli altri vescovi - egli spiega - non per considerazioni di ordine teorico (contradicentium verba), ma per l'evidenza fattuale dei risultati positivi che la campagna di repressione produceva (demonstrantium exempla) (64): si possono infatti vedere non singoli uomini, ma intere città che, già donatiste, sono diventate cattoliche in virtù della paura suscitata dalle leggi promulgate dagli imperatori, da Costantino in poi, e detestano ormai con forza la «diabolica separazione», amando invece ardentemente l'unità (65). La stessa Ippona, che aderiva in massa al partito di Donato, adesso timore legum imperialium si è convertita all'unità cattolica (66). I regnanti, da parte loro, promulgano leggi che incutono terrore temendo essi stessi il Signore, al cui servizio si pongono (67).

Oltre che alle testimonianze degli altri vescovi, Agostino si richiama a quelle degli stessi convertiti, da lui suddivisi in cinque tipologie a seconda della situazione morale e psicologica di partenza. Suo intendimento è far vedere come, per stessa ammissione dei convertiti che ora ringraziano per il «flagello» subito, in ogni caso lo stimulus terroris sia stato indispensabile per abbandonare l'errore e la divisione. Certo, l'atto ultimo di adesione alla verità è - come Agostino ha sempre pensato - un atto di volontà, nessuno «può essere buono contro la propria volontà», ma per arrivarci - pensa adesso - è necessario vincere con la paura di subire castighi che non si vogliono subire gli impedimenti costituiti da animosità, pigrizia e ignoranza (68). Come per gli scritti degli anni Ottanta e Novanta, l'incontro con la verità è dunque l'esito di un percorso, ma il timore (e, si noti, neppure il tremore di fronte alla maestà e al giudizio di Dio, bensì un timore di pene temporali) (69) prende il posto dell'interiorità e della quiete come preambolo della fede. La pace, semmai, è l'approdo: prima, c'è una falsa sicurezza, un adagiarsi nell'errore che solo il pungolo della minaccia può scuotere.

Il vescovo d'Ippona dice infatti di sapere con certezza che molti donatisti già avrebbero voluto farsi cattolici, mossi dall'evidenza della verità, ma erano trattenuti da un riguardo nei confronti dei loro correligionari (70): ora ringraziano Dio che ha offerto loro l'occasione, tramite il «terrore delle leggi», di rompere ogni indugio (71). Altri donatisti erano come incatenati dai vincoli di una consuetudine consolidata (72) pur sapendo già che la verità era dalla parte cattolica, e adesso ringraziano il Signore, il quale ha finalmente spezzato questi legami (73).

Altri pensavano invece che il partito di Donato fosse la vera chiesa, trovandosi sicuri nella quale erano del tutto disinteressati a conoscere la verità cattolica (74): adesso ringraziano il Signore che ha scosso la loro negligenza con lo «stimolo del terrore», sicché nell'angustia hanno potuto cercare quello che nella tranquillità avevano trascurato (75). Altri ancora erano bloccati dalle calunnie dei maldicenti (76) ed ora sono grati a Dio per il flagello subito, affermando che solo entrando nella chiesa cattolica avrebbero potuto capire che le maldicenze dei donatisti erano false e che d'altra parte non sarebbero potuti entrare se non vi fossero stati costretti («falsos esse nesciremus, si non intraremus; nec intraremus, nisi cogeremur») (77).

Altri, infine (quasi anticipando, potremmo notare, un atteggiamento piuttosto diffuso nei tempi moderni e che Agostino non può che disapprovare) ritenevano che contasse avere la fede in Cristo ma non fosse per nulla importante a quale organizzazione (pars) si appartenesse, e rimanevano in quella di Donato semplicemente perché lì erano nati (78), ed ora ringraziano il Signore che li ha raccolti dalla divisione, mostrando loro che al Dio-uno è dovuto un culto nell'unità (79).

Pastore di un gregge radunato con la forza, Agostino s'impegna dunque a cogliere le sottigliezze psicologiche dei diversi atteggiamenti di partenza (già vicini e più o meno pronti alla conversione, lontani per semplice consuetudine o in quanto fuorviati da un'attiva propaganda, indifferenti all'appartenenza pur nella pietà cristiana), ma individua nella paura l'elemento comune («unificante» in ogni senso), indispensabile per uscire dai vincoli dell'errore e della divisione, la liberazione (per quanto dolorosa) dai quali produce adesso un unanime Deo gratias.

L'«esempio», la bontà dei risultati, è ciò che, per sua esplicita ammissione, ha modificato l'atteggiamento di Agostino nei confronti della violenza religiosa (purché attuata dai poteri legittimi). Ma in realtà, nella lettera a Vincenzo, questo appello ad argomenti empirici segue un discorso molto ampio volto ad assolvere, in generale, la violenza dall'accusa di essere un male in se stessa. Tale discorso segue il filo di un'argomentazione razionale che cerca conferma nelle sacre Scritture, con una vasta ricognizione di passi vetero e neotestamentari da cui risulta chiaro (o, in certi casi, potremmo dire, perlomeno risulta chiaro ad Agostino) che il Dio degli ebrei e dei cristiani nel suo piano di giustizia e di salvezza si serve, direttamente o tramite i suoi rappresentanti, della violenza.

Il vescovo d'Ippona si dilunga sul principio secondo cui, quando qualcuno si trova in una condizione patologica curabile solo con strumenti sgradevoli e costrittivi, gli si farebbe del male a non usarli in nome di una (solo apparente) misericordia: l'amore implica anche saper provocare molestie. Tale principio è illustrato con l'atteggiamento da tenere verso i morbi fisici: se qualcuno permette a un nemico, reso frenetico da febbri pericolose, di correre fino a gettarsi in un precipizio, allora in realtà gli rende male per male, mentre se lo afferra e lo lega gli riesce davvero utile e ne riceverà gratitudine a guarigione avvenuta (80). «Qui phreneticum ligat - dice ancora Agostino - et qui lethargicum excitat, ambobus molestus, ambos amat» (81). S'intende, ovviamente, che ciò a maggior ragione vale se è in gioco la salvezza dell'anima e la malattia è data dallo smarrimento della religione autentica.

Non è vero che chi ha riguardo è sempre amico e chi flagella è sempre nemico, nella dolcezza si può celare l'inganno mentre l'amore può richiedere severità, sottolinea Agostino riecheggiando anche il Libro dei Proverbi: «Meliora sunt vulnera diligentis, quam fraudulenta oscula odientis» (82). E a questo punto egli comincia a fare riferimento al modello supremo da imitare nello sforzo di liberarsi dal flagello dell'errore (83), a quel Dio che nel suo amore (il più grande possibile) non cessa di istruire soavemente ma anche di incutere un salutare terrore (84), colpisce con pesanti castighi il popolo ribelle, ma non risparmia neppure i patriarchi pii attraverso l'esercizio della fame e perfino l'Apostolo, cui non concede di essere esentato dal pungolo della carne (85). La stessa conversione di Paolo fu il frutto di una grande violenza, quella di Cristo che lo forzò a conoscere e ad accogliere la verità (magna violentia Christi cogentis) (86).

Gli esempi della violenza divina si moltiplicano attraverso un'ampia ricognizione della Scrittura (le afflizioni che Agar subisce da Sara, l'uccisione degli pseudoprofeti per mano di Elia, ecc.), compreso quel nuovo Testamento in cui peraltro Agostino non può non continuare a riconoscere la centralità della mansuetudo charitatis, in ragione della quale Pietro è invitato a ritirare la spada già sguainata in difesa di Gesù (87). Ma il vescovo d'Ippona interpreta come violenza anche l'attrazione al Figlio operata dal Padre (Jo. VI, 44), riconducendola al timore dell'ira divina nei cuori di quelli che si convertono (88). E non è forse il Dio del nuovo Testamento quello che non risparmia il proprio Figlio e per il bene di tutti lo consegna al sacrificio, cui a sua volta si consegna il Figlio stesso? (89)

Tra i fondamenti evangelici della «costrizione alla giustizia» trova posto anche la parabola del convito di Lc. XIV, 16-23, dove il padrone di casa, per riempire i posti ancora vuoti alla sua mensa nonostante gli inviti rivolti prima a gentiluomini e poi a miserabili, ordina al suo servo: «va per le strade e lungo le siepi e forzali ad entrare (compelle intrare), affinché la mia casa sia piena» (90). Si tratta di una lettura del versetto luchiano nuova, e di un'importanza storica enorme: ripresa più volte successivamente dallo stesso Agostino (ad esempio nell'epistola al proconsole Bonifacio) (91), si diffuse sia pure non in maniera unanime nel corso dell'alto Medioevo, sino a confluire nel Decreto di Graziano e a fornire abituale puntello ideologico per la repressione poliziesca e per le crociate contro gli eretici (92).

Si delinea così con chiarezza l'idea che la violenza in se stessa non sia un male, come d'altra parte non è un bene la dolcezza in quanto tale: a volte il ladro offre cibo alle pecore per portarle via, mentre il pastore le colpisce per difenderle dai pericoli radunandole nell'ovile (93). Nell'un caso e nell'altro il valore è conferito dunque dallo scopo che s'intende raggiungere. Non è moralmente rilevante il fatto che qualcuno venga costretto, ciò che conta è se sia forzato al bene oppure al male (94). Adoperando la classificazione dell'agire umano che Agostino stesso ci propone nel Contra mendacium, si può senz'altro dire che, per lui, la violenza appartiene a quel genere di azioni in se stesse indifferenti, che di volta in volta diventano buone o cattive a seconda del fine che viene perseguito, e si contrappongono alle opere sempre e comunque malvagie, come ad esempio la menzogna, che rimane un male anche se espressa a fin di bene (95) (ad esempio, nella stessa lotta contro gli eretici: risultano, anzi, particolarmente perniciose proprio le falsità che i cattolici eventualmente usino per «catturare» gli avversari alla verità) (96).

Se perseguitare non è in sé un male (e lo testimoniano anche i Salmi), subire persecuzione non costituisce in sé un valore: Agostino può ribadire che la beatitudine evangelica dei perseguitati si riferisce soltanto a quelli che sono tali propter iustitiam (97), manifestando la sua certezza che l'uso della violenza non costituisca un discrimine etico. Senza alcun dubbio in ogni tempo (plane semper) i cattivi hanno perseguitato i buoni e i buoni hanno perseguitato i cattivi (98), gli empi uccisero i profeti e i profeti uccisero gli empi, i giudei flagellarono Cristo e Cristo flagellò i giudei, gli apostoli furono consegnati da uomini alla potestà umana e a loro volta consegnarono uomini alla potestà di Satana (99).

Quale violenza?

È dunque il valore della causa per la quale si attua una persecuzione a qualificare moralmente quest'ultima. Ma ciò non vuol dire che i connotati della violenza siano del tutto indifferenti e il fine, per così dire, possa appiccicare l'etichetta di 'buono' a qualsiasi modalità di oppressione. Al contrario, la finalità conferisce un aspetto distintivo alla violenza che ne costituisce lo strumento. Confrontando i due tipi di persecuzione, Agostino enumera alcune caratteristiche che distinguono quella operata dai cattivi rispetto a quella operata dai buoni: e se alcune di tali caratteristiche quasi tautologicamente si limitano a riproporre la bontà oggettiva del fine (le violenze degli ingiusti sono al servizio di un desiderio sfrenato, quelle dei giusti al servizio della carità; le prime sono nocive, le seconde recano vantaggio), altre invece si presentano, almeno in parte, come connotati empirici la cui peculiarità è effetto della specificità del fine. Così la violenza dei cattivi è «immane», mira a massacrare e si disinteressa del modo in cui l'avversario è dilaniato, puntando semplicemente alla sua totale dissoluzione (putredo). La violenza dei giusti è invece «temperante», ossia misurata: suo obiettivo è la salute spirituale (sanitas) e chi cura non è indifferente, ma anzi studia il modo migliore per «tagliare» (100). Da una parte, insomma, persecuzione cieca e devastante, dall'altra persecuzione chirurgicamente mirata.

Agostino non approfondisce i particolari di queste differenze tra violenza pro iniquitate e violenza pro veritate (101), e non fissa dunque in questa sede i limiti che l'azione repressiva dell'imperatore cattolico non dovrebbe valicare. È chiaro comunque che questi pochi cenni al problema sono in sintonia con la metafora medica che sorregge l'assunto di tutto lo scritto: la violenza istituzionale a favore della religione vera ha una funzione curativa sul piano spirituale, una funzione dunque pedagogica, è una medicina amara ma necessaria per le anime degli erranti. Si tratta, certo, di una pedagogia fortemente pessimistica: un insegnamento senza la minaccia, osserva Agostino, si scontra con la pigrizia di chi è indurito in una consuetudine ormai di lunga data o addirittura con la minaccia opposta di violenta inimicizia da parte dei compagni di perdizione (nell'errore) (102). E si tratta inoltre di una pedagogia nella quale l'indottrinamento da parte di chi già «possiede» la verità e la trasmette con la minaccia di sanzioni pare vanificare l'idea, propria del primo Agostino, di un maestro-luce divina interiore che trascende il discepolo ma anche lo stesso maestro umano (103). Ma si tratta pur sempre di una pedagogia: il terrore dev'essere accompagnato dall'insegnamento, altrimenti potrebbe apparire come una mera volontà di dominio («improba quasi dominatio videretur») (104).

Se nel trattato contro Parmeniano il rigore imperiale contro la devianza religiosa si presenta come un atto di giustizia, di necessaria vendetta riparatrice del delitto, nella lettera a Vincenzo (e anche in seguito) Agostino insiste sul suo valore medicinale, finalizzato alla salvezza, e la pressione della violenza è presentata piuttosto come un'esigenza della carità (105). Si può discutere se questo secondo atteggiamento, più paternalistico, celi una raffinatezza ideologica ancora più sottile, ma ciò che interessa storicamente è che ambedue sono rappresentati nella teorizzazione medievale dell'intolleranza (106): lo sono anche in Agostino, nel quale comunque la violenza terapeutica prende il sopravvento sulla violenza punitiva. Bisogna abbattere con il terrore umano il «muro della dura consuetudine», dice Agostino anche in altre lettere dello stesso periodo, ma si devono anche nutrire la fede e l'intelligenza istruendo con le scritture divine e gli argomenti razionali; lo sforzo dev'essere quello di venire misericordiosamente in aiuto, guardando al futuro, e non di alimentare l'ira vendicando le iniquità passate (107).

Questa finalità terapeutica e salvifica fa sì che la violenza pubblica contro il dissenso religioso debba puntare non all'ordine anche a costo dell'annientamento fisico, bensì alla conversione dei dissidenti. A più riprese Agostino, rivolgendosi alle autorità ed entrando perciò anche in quei dettagli che abbiamo visto trascurati nell'epistola a Vincenzo, raccomanda l'uso di castighi moderati (come la verga), escludendo il ricorso a torture atroci ed alla pena capitale (108). In una lettera indirizzata a Donato proconsole d'Africa (anch'essa del 408), Agostino, dopo aver ricordato che i soli chierici hanno il diritto di portare al tribunale civile cause di questo genere, minaccia addirittura (pur nella consapevolezza che ciò favorirebbe l'audacia dei nemici) di non consegnare alle autorità gli scismatici e gli eretici se ciò dovesse significare per quelli una condanna a morte (109). Anche in questa fase il pensiero di Agostino non si mostra dunque retaggio o espressione di una religione «politica» come quella dell'impero romano prima e dopo Costantino, quanto piuttosto manifestazione di un integralismo cristiano (operante nel cammino della storia protesa verso la salvezza dell'eschaton) che spinge ad adattare, usandoli con una certa moderazione, gli strumenti prospettati dalla teocrazia dell'antico Testamento (110).

Il vescovo d'Ippona dimostra certo, nell'ambito di questa fase del suo pensiero, una forte coerenza di fondo. In un'ottica che antepone nettamente il possibile recupero dell'individuo a considerazioni di altro tipo, è chiaro che l'eliminazione fisica di chi si trova nell'errore non può che costituire un fallimento (111). Non a caso, l'ideologia dell'inquisizione, per fondare teoricamente la soppressione dei dissidenti, dovrà privilegiare finalità diverse nella lotta antiereticale: il prevenire la corruzione altrui (l'eresia intesa come infectivum vitium) e l'impedire che un peccato tanto grave rimanga impunito (l'eresia come maximum crimen) (112).

Agostino, del resto, come nota Lecler, si trova in sintonia anche con la posizione comunemente tenuta dagli autori ecclesiastici del suo tempo, i quali, pur teorizzando il ricorso al potere civile per reprimere eresie e scismi, rifiutano l'applicazione della pena capitale a questo genere di «delitti». Così Giovanni Crisostomo, una ventina d'anni prima, nell'omelia sul Vangelo di Matteo si era richiamato alla parabola della zizzania per denunciare il rischio che venga estirpato qualcuno ancora in grado di trasformarsi in frumento buono: per lui «Cristo non proibisce di reprimere gli eretici, di tappare loro la bocca, di togliere loro la libertà di parola, di riunione e di associazione, ma vieta di metterli a morte» (113).

La posizione cui approda il pensiero agostiniano della maturità non coincide dunque, nei suoi fondamenti teorici oltre che ovviamente nelle sue circostanze storiche, con quella che finirà per prevalere nel Medioevo. La porta per l'intolleranza inquisitoriale è spalancata, senza dubbio, ma le differenze non sono irrilevanti, se si pensa che il rifiuto o l'accettazione della pena di morte sono la conseguenza delle motivazioni addotte per fondare la necessità di una violenza religiosa. Certamente Tommaso d'Aquino dovrà operare una forzatura non indifferente per presentare l'autorità agostiniana come favorevole all'eliminazione fisica degli eretici (114).

Se dunque, in conclusione, si può descrivere quello di Agostino come un itinerario dal dialogo alla violenza, bisogna però tenere presenti con chiarezza i limiti qualitativi e quantitativi della persecutio teorizzata negli scritti della maturità. Come, d'altra parte, non si possono ignorare i limiti delle pacificae collationes sostenute inizialmente, cui si ricorre come elemento di una strategia per sconfiggere l'avversario, accompagnato dalla ferma convinzione che la molteplicità delle voci non sia di per sé un valore: in effetti la tolleranza pratica del primo Agostino non significa mai fiducia nel dialogo come luogo possibile di integrazione tra prospettive diverse, inevitabilmente parziali, alla ricerca di una verità sempre nascosta che le comprenda e in qualche modo le trascenda entrambe. Chi volesse cercare nel IV secolo una posizione di questo genere, dovrebbe rivolgersi semmai a un oratore pagano come Temistio, il quale, evocando un Dio che più ancora della natura ama nascondersi, rifiuta di considerare un disvalore il pluralismo religioso e definisce sogno degli uomini ignoranti l'accordo di tutte le opinioni (115). Ma questo è, davvero, un altro discorso.


Note

*. Da G. Manganaro Favaretto (a cura di), La guerra. Una riflessione interdisciplinare, Edizioni Università di Trieste, Trieste 2003, pp. 135-179.

1. P. Partner, God of Battles. Holy Wars of Christianity and Islam, Princeton, Princeton University Press 1997, trad. ital. Il Dio degli eserciti. Islam e cristianesimo: le guerre sante, Torino, Einaudi, 1997, p. XXVI.

2. Ivi, p. XIV.

3. Cfr. Ex. XVII, 18. In un passo del De civitate Dei (I, 21: passo riportato da Tommaso d'Aquino nella Catena aurea in Matthaeum, ed. CD rom Busa 071CMT CP-5LC13, ll. 109-111) Agostino presenta come uniche eccezioni al divieto di uccidere il caso in cui l'ordine di uccidere viene da una legge giusta in senso generale (quando il pubblico potere iustissimae rationis imperio punisce con la morte i colpevoli) e quello, appunto, di coloro «qui auctore Deo bella gesserunt».

4. Si può vedere, a questo proposito, quello che (ispirandosi a maestri quali Giorgio Falco, Raffaello Morghen e Giovanni Tabacco) scrive P. Zerbi nel suo saggio su Medioevo: tolleranza o intolleranza religiosa, in La tolleranza religiosa. Indagini storiche e riflessioni filosofiche, a c. di M. Sina, Vita e Pensiero, Milano 1991, p. 14 segg. Altri notano d'altra parte che la mancanza di dualismo tra chiesa e stato accomuna la mentalità medievale a quella antica: il culto di Cristo sostituisce quello dell'imperatore (cfr. H. Maisonneuve, Études sur les origines de l'inquisition, Paris, Libraire Philosophique J. Vrin, 1960, p. 10). Non bisogna tuttavia sottovalutare, al di là dell'indubbia continuità tra impero pagano e impero cristiano nell'imporre una religione «ufficiale» come strumento di coesione politica, le peculiarità dell'era teodosiana, in cui il modello veterotestamentario del Dio «geloso» d'Israele cancella quanto di tollerante portava con sé, nel suo sincretismo, l'antica religione romana. Sulla relativa tolleranza nell'impero pagano si può consultare J. Lecler, Histoire de la tolérance au siècle de la Réforme, t. I, Paris, Aubier éd. Montaigne, 1955, p. 65 segg.; sull'importanza dell'Antico Testamento per gli autori cristiani e per la stessa classe di governo romana ai tempi di Teodosio si veda P. Brown, L'atteggiamento di sant'Agostino verso la coercizione religiosa (tratto da «Journal of Roman Studies» 54 (1964), pp. 107-116), in Id., Religione e società nell'età di sant'Agostino, Torino, Einaudi, 1975 (trad. ital. di Religion and Society in the Age of Saint Augustine, London, Faber and Faber, 1972), pp. 254-256.

5. Thomas de Aquino, S. th. II.II., q. 10, a. 3, resp., textus ex recensione leonina, Torino-Roma, Marietti, 1952, p. 54.

6. Si veda, ad esempio, la posizione complessa che Tommaso d'Aquino assume, solo parzialmente in linea con la tradizione dei decretisti e dei decretalisti su guerra santa e crociate, nella decima questione della II. II. (a. 8-12), ed. Marietti cit., pp. 58-63. Sull'atteggiamento verso infedeli ed eretici nel diritto canonico (Decretum Gratiani, decretisti, decretalisti), si può consultare in particolare F. H. Russell, The Just War in the Middle Ages, Cambridge, Cambridge University Press, 1975, pp. 55-212.

7. «Excepting the Carolingians, earlier Christian thought on coercion exhibited an ambiguity as to whether mere lack of proper belief itself constituted a sufficient justification for a holy war or whether unbelievers should be tolerated unless they offended Christians. The scholastics finally required that infidels or heretics commit specific offenses against Christians or the Church before the crusade became imperative. Thus the war of conversion adumbrated by Gregory the Great and practised by the Carolingians was explicitly prohibited in the commentaries of Innocent IV, Hostiensis and Thomas Aquinas». Ivi, p. 294.

8. Sul legame profondo del tema della guerra con quello della repressione dell'eresia basta vedere il Decreto di Graziano, in particolare C. 23 e 24: cfr. H. Maisonneuve, Études..., cit., p. 65 segg.

9. Cfr. supra, nota 6.

10. Come osserva Frederick Russell, le radici lontane del fanatismo delle crociate si trovano negli scritti antidonatisti di Agostino: non fu certo la «guerra giusta» agostiniana (nel senso ristretto, come eredità di Cicerone e del diritto romano) a sconfiggere il pacifismo della chiesa primitiva. Cfr. F.H. Russell, The Just War..., cit., p. 36 e passim.

11. «Impavidus profecto miles, et omni ex parte securus, qui ut corpus ferri, sic animum fidei lorica induitur. Utrisque nimirum munitus armis, nec daemonem timet, nec hominem. Nec vero mortem formidat, qui mori desiderat. Quid enim vel vivens, vel moriens metuat, cui vivere Christus est, et mori lucrum? Stat quidem fidenter libenterque pro Christo; sed magis cupit dissolvi, et esse cum Christo: hoc enim melius». Bernardus Claraevallensis, De laude novae militiae, 1, 1, PL 182, 922 A. Causa brevitatis et simplicitatis, per le opere di San Bernardo e di Sant'Agostino utilizzerò in questo mio breve studio l'edizione Migne anche se esistono edizioni critiche successive.

12. Ivi, 1, 2, PL 182, 923 A.

13. «Super haec omnia est, quod armati conscientiam magis terret, causa illa nimirum satis levis ac frivola, qua videlicet talis praesumitur et tam periculosa militia. Non sane inter vos aliud bella movet, litesque suscitat, nisi aut irrationabilis iracundiae motus, aut inanis gloriae appetitus, aut terrenae qualiscunque possessionis cupiditas. Talibus certe ex causis neque occidere, neque occumbere tutum est». Ivi, 2, 3, PL 182, 923 CD.

14. «Infelix victoria, qua superans hominem, succumbis vitio. Et ira tibi aut superbia dominante, frustra gloriaris de homine superato. Est tamen qui nec ulciscendi zelo, nec vincendi typho, sed tantum evadendi remedio interficit hominem. Sed ne hanc quidem bonam dixerim victoriam: cum de duobus malis, in corpore quam in anima mori levius sit. Non autem quia corpus occiditur, etiam anima moritur: sed anima, quae peccaverit, ipsa morietur». Ivi, 1, 2, PL 182, 923 A.

15. Sulla guerra giusta nel pensiero di Agostino, si vedano in particolare A. Morisi, La guerra nel pensiero cristiano dalle origini alle crociate, Firenze, Sansoni, 1963, pp. 95-120; F.H. Russell, The Just War..., cit., pp. 16-39; J.G. Mellon Rediscovering the Just-War Tradition, in Les philosophies morales et politiques au Moyen Age. Moral and Political Philosophies in the Middle Ages. Actes du IX Congrès international de philosophie médiévale. Ottawa, du 17 au 22 août 1992 (S.I.E.P.M.), a c. di E. Andújar, B.C. Bazán, L.G. Sbrocchi, New York-Ottawa-Toronto, Legas, 1995, III, pp. 1698-1709.

16. « At vero Christi milites securi praeliantur praelia Domini sui, nequaquam metuentes aut de hostium caede peccatum, aut de sua nece periculum: quandoquidem mors pro Christo vel ferenda, vel inferenda, et nihil habeat criminis, et plurimum gloriae mereatur. Hinc quippe Christo, inde Christus acquiritur: qui nimirum et libenter accipit hostis mortem pro ultione, et libentius praebet se ipsum militi pro consolatione. Miles, inquam, Christi securus interimit, interit securior. Sibi praestat cum interit, Christo cum interimit. Non enim sine causa gladium portat. Dei etenim minister est ad vindictam malefactorum, laudem vero bonorum. Sane cum occidit malefactorem, non homicida, sed, ut ita dixerim, malicida, et plane Christi vindex in his qui male agunt, et defensor Christianorum reputatur». Bernardus Claraevallensis, De laude novae militiae, 3, 4, PL 182, 924 AB. Tra gli studi recenti sulla guerra santa per Bernardo, si può vedere B. Saouma, Le droit de guerre sainte chez Saint Bernard et les troubadours, in Les philosophies morales.., cit., II, pp. 805-815.

17. Su questo aspetto, si veda G. Duby, Saint Bernard. L'art cistercien, Paris, Arts et Métiers Graphiques, 1976, trad. ital. San Bernardo e l'arte cistercense, Torino, Einaudi, 1982, pp. 155-158. Sui movimenti ereticali d'ispirazione catara diffusi in Renania nel corso del XII secolo, si può vedere R. MANSELLI, L'eresia del male, Napoli, Morano 1980, pp.150 segg.

18. «Nam quantum ad istos, nec rationibus convincuntur, quia non intelligunt; nec autoritatibus corriguntur, quia non recipiunt; nec flectuntur suasionibus, quia subversi sunt. Probatum est: mori magis eligunt, quam converti. Horum finis interitus, horum novissima incendium manet. Horum siquidem in facto Samson ex succensis vulpium caudis figura praecessit. Plerumque fideles injectis manibus aliquos ex eis ad medium traxerunt. Quaesiti fidem, cum de quibus suspecti videbantur, omnia prorsus suo more negarent; examinati judicio aquae, mendaces inventi sunt. Cumque jam negare non possent, quippe deprehensi, aqua eos non recipiente; arrepto, ut dicitur, freno dentibus, tam misere quam libere impietatem non confessi, sed professi sunt, palam pietatem astruentes, et pro ea mortem subire parati. Nec minus parati inferre qui astabant. Itaque irruens in eos populus, novos haereticis suae ipsorum perfidiae martyres dedit. Approbamus zelum, sed factum non suademus; quia fides suadenda est, non imponenda. Quanquam melius procul dubio gladio coercentur, illius videlicet qui non sine causa gladium portat, quam in suum errorem multos trajicere permittantur. Dei enim minister ille est, vindex in iram ei qui male agit». Bernardus Claraevallensis, Sermones in Cantica Canticorum, LXVI, 12, PL 183, 1100 C-1101 A. Cfr. Judic. XV, 4-5; Rm. XIII, 4. L'accostamento degli eretici alle volpi di Giudici XV si trova già in Agostino, per il quale gli eretici hanno ciascuno un proprio volto e una diversa fisionomia, ma, come le volpi, sono tutti legati insieme per la coda (cfr. Augustinus, Enarratio in Psalmum LXXX, P.L. 37, 1040). E a partire da Origene e per tutto il Medioevo (Bernardo compreso) sono adombrati gli eretici anche in quelle «volpi piccine, che guastano le vigne» che nel Cantico dei Cantici (II, 5) si raccomanda di catturare. Cfr. H. Grundmann, Oportet et haereses esse. Il problema dell'eresia rispecchiato nell'esegesi biblica medievale (tratto da «Archiv für Kulturgeschichte» XLV (1963), pp. 129-164: Oportet et haereses esse. Das Problem der Ketzerei im Spiegel der mitelalterlichen Bibelexegese), in L'eresia medievale, a c. di O. Capitani, Bologna, Il Mulino 1971, p. (23-60) 35.

19. Sul crimine di lesa maestà riferito agli eretici, cfr. H. Maisonneuve, Études..., cit., p. 32 segg.

20. Cfr. P. Zerbi, Medioevo: tolleranza..., cit., p. 22.

21. Cfr. J. Lecler, Histoire de la tolérance..., cit., p. 109. «Sono sempre più convinto che il momento decisivo sia individuabile al volgere dal XII al XIII secolo, tra il terzo concilio lateranense del 1179 e la metà degli anni Trenta del Duecento. In quest'epoca si formalizzano teoria e prassi della crociata antiereticale interna alla cristianità; si mobilitano in armi i fedeli; si definiscono i limiti fra obbedienza (ortodossi) e disobbedienza (eresia) alle gerarchie ecclesiastiche; si trasforma il dissenso religioso in crimine di natura politica; si ricercano raccordi più stabili tra ceti dirigenti, organismi comunali e uomini di chiesa; si affinano il linguaggio controversistico e le immagini polemistiche; si creano nuove formazioni religiose con particolari attitudini alla predicazione di massa; si plasmano i santi moderni e la santità antieterodossa; si elaborano le tecniche repressive e gli strumenti della persuasione. Inoltre - ed è l'aspetto fondamentale - il papato tende ad assumere sempre più direttamente la guida della lotta contro gli eretici, sino a istituire propri delegati che saranno detti inquisitori». G.G. MERLO, Contro gli eretici. La coercizione all'ortodossia prima dell'Inquisizione, Bologna, Il Mulino 1996, p. 7.

22. Cfr. ivi, pp. 66-71. Sono celebri vari testi di Tertulliano e Lattanzio che, nel XVI secolo, saranno citati dai difensori della tolleranza. Si veda, ad esempio TERTULLIANUS, Ad Scapulam, 2, PL 1, 699: «Nos unum Deum colimus, quem omnes naturaliter nostis, ad cuius fulgura et tonitrua contremiscitis, ad cuius beneficia gaudetis. Ceteros et ipsi putatis deos esse, quos nos daemonas scimus. Tamen humani iuris et naturalis potestatis est unicuique quod putauerit colere; nec alii obest aut prodest alterius religio. Sed nec religionis est cogere religionem, quae sponte suscipi debeat, non ui, cum et hostiae ab animo libenti expostulentur. Ita etsi nos compuleritis ad sacrificandum, nihil praestabitis diis uestris: ab inuitis enim sacrificia non desiderabunt...».

23. Cfr. ivi, pp. 65-66.

24. Si possono tra l'altro vedere a questo proposito: A. Morisi, La guerra nel pensiero cristiano..., cit., pp. 98-120; F.H. Russell, The Just War..., cit., 16-39.

25. In Agostino, ma più in generale negli autori cristiani postcostantiniani, i due aspetti (guerra santa e guerra giusta) tendono a intrecciarsi: si pensi al De Fide Christiana (378 circa), in cui Ambrogio esalta il ruolo di Graziano, imperatore ortodosso che difende insieme «pace romana», «fede romana» e «fede cattolica» contro Goti ed ariani (cfr. ivi, 12-15). Dopo Costantino si assiste, nei padri della chiesa, a un deciso ritorno all'Antico Testamento, ed è significativa a questo proposito la lettura meramente spirituale dell'evangelico «porgi l'altra guancia» che Agostino propone nel Contra Faustum: «Si autem propterea putant non potuisse Deum bellum gerendum jubere, quia Dominus postea Jesus Christus, Ego, inquit, dico vobis, non resistere adversus malum; sed si quis te percusserit in maxillam tuam dextram, praebe illi et sinistram; intelligant hanc praeparationem non esse in corpore, sed in corde: ibi est enim sanctum cubile virtutis, quae in illis quoque antiquis justis nostris patribus habitavit: sed eam rerum dispensationem ac distributionem temporum ordo poscebat, ut prius appareret etiam ipsa bona terrena, in quibus et humana regna et ex hostibus victoriae deputantur, propter quae maxime civitas impiorum diffusa per mundum supplicare idolis et daemonibus solet, non nisi ad unius Dei veri potestatem atque arbitrium pertinere». Augustinus, Contra Faustum Manichaeum, 22, 76, PL 42, 448. Cfr. Mt. V, 39.

26. Osserva acutamente Peter Brown: «Agostino può essere considerato il primo teorico dell'Inquisizione, ma non era certo in una posizione tale che gli consentisse di agire come un grande inquisitore. A differenza di un vescovo del medioevo, egli non era obbligato a conservare lo status quo in una società totalmente cristiana. Non aveva di fronte a sé piccole sette, temute e odiate dall'intera comunità, bensi un corpo di cristiani delle stesse dimensioni della sua comunità e per molteplici aspetti molto simile ad essa. Per Agostino, quindi, la coercizione religiosa non fu che un sistema puramente correttivo: una maniera brusca per venire a capo di rivali «induriti», più che un tentativo di eliminare una esigua minoranza». P. Brown, Augustine of Hippo, London, Faber and Faber, 1967, trad. ital. Agostino d'Ippona, Torino, Einaudi 1971, p. 236.

27. Cfr. P. Brown, L'atteggiamento di sant'Agostino..., cit., p. 246.

28. Cfr. H. Maisonneuve, Croyance religieuse et contrainte: la doctrine de S. Augustin, «Mélanges de science religieuse» 19 (1962), 49-68.

29. Nell'amplissimo ventaglio delle interpretazioni complessive del pensiero agostiniano, siamo debitori in particolare a Kurt Flasch di una ricostruzione che, contro una lettura tradizionale unitaria tendente ad appiattirlo, ne pone in forte rilievo le caratteristiche di percorso carico di tensioni e di contraddizioni. Cfr. K. Flasch, Augustin. Einführung in sei Denken, Stuttgart-Nördlingen, Reclam, 1980, trad. ital. Agostino d'Ippona. Introduzione all'opera filosofica, Bologna, Il Mulino, 1983.

30. Sulla legislazione imperiale in favore del cristianesimo ortodosso e contro tutte le forme di dissidenza si può vedere, tra l'altro, H. Maisonneuve, Études..., cit., p. 29 segg.

31. Sulla pars Donati (sorta nel 311 su iniziativa dei vescovi della Numidia contro i «collaborazionisti» ai tempi dell'ultima persecuzione di Diocleziano), sui tentativi di comporre lo scisma culminati intorno al 347 con la campagna di terrore condotta dal conte Macario, emissario imperiale, sulle vendette donatiste ai tempi di Giuliano l'Apostata, sull'offensiva cattolica a partire dal 393 e sull'ala estrema del donatismo, i «circoncellioni», che sporadicamente compivano atti di violenza nei confronti dei cattolici, cfr. P. Brown, Augustine of Hippo, trad. ital. cit., pp. 208 segg. e 224 segg.

32. Cfr., tra l'altro, K. Flasch, Augustin..., trad. ital. cit., pp. 49-54.

33. «... <Unus verus Deus omnipotens> det mihi mentem pacatam atque tranquillam, et magis de vestra correctione, quam de subversione cogitantem. Quanquam enim Dominus per suos servos regna subvertat erroris; ipsos tamen homines, in quantum homines sunt, emendandos esse potius, quam perdendos jubet. [...] Illi in vos saeviant, qui nesciunt cum quo labore verum inveniatur, et quam difficile caveantur errores. Illi in vos saeviant, qui nesciunt quam rarum et arduum sit carnalia phantasmata piae mentis serenitate superare. Illi in vos saeviant, qui nesciunt cum quanta difficultate sanatur oculus interioris hominis, ut possit intueri solem suum: non istum quem vos colitis coelesti corpore, oculis carneis et hominum et pecorum fulgentem atque radiantem, sed illum de quo scriptum est per prophetam: Ortus est mihi justitiae sol; et de quo dictum est in Evangelio: Erat lumen verum, quod illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum. Illi in vos saeviant, qui nesciunt quibus suspiriis et gemitibus fiat, ut ex quantulacumque parte possit intelligi Deus. Postremo, illi in vos saeviant, qui nunquam tali errore decepti sunt, quali vos deceptos vident». Augustinus, Contra epistolam Manichaei, 1, 1-2, 2, PL 42, 173-174. Cfr. Malach. IV, 2; Jo. I, 9. Bisogna tenere presente che la legislazione imperiale, prima ancora di Costantino, era particolarmente severa con i manichei, per i cui capi era previsto il rogo: cfr. H. Maisonneuve, Études..., cit., pp. 35-36.

34. «Nostrum igitur fuit eligere et optare meliora, ut ad vestram correctionem aditum haberemus, non in contentione et aemulatione et persecutionibus; sed mansuete consolando, benevole cohortando, leniter disputando: sicut scriptum est, Servum autem Domini non oportet litigare; sed mitem esse ad omnes, docibilem, patientem, in modestia corripientem diversa sentientes». Augustinus, Contra epistolam Manichaei, 1, 1, PL 42, 173. Nella Vulgata 'mansuetum' sostituisce 'mitem'.

35. «Ego autem qui diu multumque jactatus tandem respicere potui quid sit illa sinceritas, quae sine inanis fabulae narratione percipitur; qui vanas imaginationes animi mei variis opinionibus erroribusque collectas vix miser merui Domino opitulante convincere; qui me ad detergendam caliginem mentis, tam tarde clementissimo medico vocanti blandientique subjeci; qui diu flevi, ut incommutabilis et immaculabilis substantia concinentibus divinis Libris sese mihi persuadere intrinsecus dignaretur; qui denique omnia illa figmenta, quae vos diuturna consuetudine implicatos et constrictos tenent, et quaesivi curiose, et attente audivi, et temere credidi, et instanter quibus potui persuasi, et adversus alios pertinaciter animoseque defendi; saevire in vos omnino non possum, quos sicut meipsum illo tempore, ita nunc debeo sustinere, et tanta patientia vobiscum agere, quanta mecum egerunt proximi mei, cum in vestro dogmate rabiosus et caecus errarem». Augustinus, Contra epistolam Manichaei, 3, PL 42, 174-175.

36. 35, 65, PL 34, 151.

37. Agostino, certamente, è ben consapevole della propria abilità nel discutere, e dopo aver affrontato con brillanti risultati in un pubblico dibattito, nell'agosto del 392, il Manicheo Fortunato, cerca di applicare questo metodo ai vescovi donatisti ('in spiritu lenitatis', 'placido atque pacato animo' sono espressioni che ricorrono nelle proposte di dialogo). Questi però, consapevoli del valore dell'avversario, preferiscono non accettare la sfida. Cfr. P. Brown, Augustine of Hippo, trad. ital. cit., pp. 130-131; H. Maisonneuve, Études..., cit., p. 37.

38. «Episcopus meus benevolentiae tuae fortasse potius litteras misisset, si esset praesens, aut ego illo vel jubente vel permittente scripsissem. Sed illo absente cum diaconi rebaptizatio recens esse dicitur, frigescere actionem ipsam dilatione non passus sum, de fraterna et vera morte acerbissimi doloris aculeis excitatus». Augustinus, Epist. 23, 8, PL 33, 98.

39. «Area dominica nondum ventilata est; sine paleis esse non potest. Nos oremus, atque agamus quantum possumus, ut frumentum simus. Ego de rebaptizato diacono nostro silere non possum: scio enim quam mihi silentium perniciosum sit». Ivi, 6, PL 33, 97.

40. «Tollamus de medio inania objecta, quae a partibus imperitis jactari contra invicem solent; nec tu objicias tempora macariana, nec ego saevitiam Circumcellionum: si hoc ad te non pertinet, nec illud ad me. [...] Decrevi ergo, quantum vires et facultatem Dominus praebere dignatur, causam istam sic agere, ut pacificis collationibus nostris omnes qui nobis communicant, noverint ab haeresibus aut schismatibus quantum catholica distet Ecclesia, et quantum sit cavenda pernicies vel zizaniorum vel praecisorum de vite Domini sarmentorum ». Ivi, 6, PL 33, 97-98. Sui «tempi di Macario» e sui circoncellioni, cfr. supra, nota 31. Osserva Peter Brown (Augustine of Hippo, trad. ital. cit., p. 224), riferendosi in particolare a Enarrationes in Psalmos 10, 5: «I cattolici erano fatalmente coinvolti nelle persecuzioni dell'epoca di Macario e Agostino poteva sorvolare questo imbarazzante ricordo soltanto divulgando le sporadiche brutalità di un'ala estrema della chiesa donatista, i circoncellioni».

41. «Neque id agam cum miles praesens est, ne quis vestrum arbitretur tumultuosius me agere voluisse, quam ratio pacis desiderat; sed post abscessum militis, ut omnes qui nos audiunt intelligant non hoc esse propositi mei ut inviti homines ad cujusquam communionem cogantur, sed ut quietissime quaerentibus veritas innotescat. Cessabit a nostris partibus terror temporalium potestatum: cesset etiam a vestris partibus terror congregatorum Circumcellionum». Augustinus, Epist. 23, 7, PL 33, 98.

42. Ibid. Cfr. Mt. VII, 7-8: «Petite et dabitur vobis; quaerite et invenietis, pulsate, et aperietur vobis. Omnis enim qui petit accipit, et qui quaerit invenit, et pulsanti aperietur».

43. «Nemo venit nisi tractus. Quem trahat et quem non trahat, quare illum trahat et illum non trahat, noli velle judicare, si non vis errare. Semel accipe, et intellige: nondum traheris? ora ut traharis. Quid hic dicimus, fratres? Si trahimur ad Christum, ergo inviti credimus; ergo violentia adhibetur, non voluntas excitatur. Intrare quisquam ecclesiam potest nolens, accedere ad altare potest nolens, accipere Sacramentum potest nolens: credere non potest nisi volens. Si corpore crederetur, fieret in nolentibus: sed non corpore creditur». Augustinus, In Joannis Evangelium, tract. 124, 2, PL 35, 1607.

44. Cfr. P. Brown, Augustine of Hippo, trad. ital. cit., pp. 224-225; Id., L'atteggiamento di sant'Agostino..., cit., p. 248 e passim (nella nota 12, a p. 260, si trova l'elenco delle lettere indirizzate tra il 392 e il 402 ai vicini vescovi donatisti e ai notabili locali).

45. Cfr. infra, nota 63.

46. Cfr. P. Brown, L'atteggiamento di sant'Agostino..., cit., pp. 251-252; Id., Augustine of Hippo, trad. ital. cit., pp. 230-231. Prima dei problemi connessi con lo scioglimento della chiesa donatista, Agostino aveva già dovuto fronteggiare una conversione in massa di pagani come conseguenza degli editti imperiali che riconoscevano la chiesa cattolica come unico culto ufficiale.

47. «Nihil egit vi, sed omnia suadendo et monendo. Veteri quippe servitute transacta, tempus libertatis illuxerat, et opportune jam homini suadebatur atque salubriter, quam libero esset creatus arbitrio». Augustinus, De vera religione, 16, 31, PL 34, 135. Significativamente, nelle Retractationes (a. 426-427) il vecchio Agostino avrebbe poi sentito il bisogno di aggiungere quanto nella sua opera di quasi quarant'anni prima non aveva tenuto presente, vale a dire la dimensione violenta del Cristo che flagella i mercanti e caccia i demoni con la forza del suo potere: «Alio loco in eo quod dixi de Domino Jesu Christo, Nihil egit vi, sed omnia suadendo et monendo, non mihi occurrerat quod vendentes et ementes flagellando ejecit de templo. Sed quid hoc, aut quantum est? Quamvis et daemones nolentes ab hominibus, non sermone suasionis, sed vi potestatis ejecerit». Retractationes, I, 13, 6, PL 32, 604.

48. Cfr. P. Brown, Augustine of Hippo, trad. ital. cit., pp. 225-227.

49. «Sciatis autem, charissimi, murmura illorum conjungere se cum haereticis, cum Judaeis. Haeretici, Judaei et Pagani unitatem fecerunt contra unitatem. Quia contigit ut in aliquibus locis disciplinam acciperent Judaei propter improbitates suas; criminantur, et suspicantur, aut fingunt, quia talia de illis semper quaeramus. Quia contigit ut alicubi haeretici poenas darent legibus pro impietate et furore violentiarum suarum; jam dicunt nos per omnia quaerere aliquam incommoditatem ipsorum ad perniciem...». Augustinus, Sermo LXII, 12, 18, PL 38, 423.

50. «An forte dicent, etiam si convincuntur in sacrilega dissensione, ut pro ea dementia si quid passi fuerint, martyres non sint; non tamen ad imperatorum potestatem haec coercenda vel punienda pertinere debere. Qua in re quaero quid dicant: an quia de religione vitiosa vel falsa nihil curandum est talibus potestatibus? Sed multa jam etiam de Paganis diximus, et de ipsis daemonibus, quod persecutiones ab imperatoribus patiantur. An et hoc displicet? Cur ergo ipsi ubi possunt templa subvertunt, et per furores Circumcellionum talia facere aut vindicare non cessant? An justior est privata violentia, quam regia diligentia? Sed haec omitto; illud quaero, cum manifeste enumeret Apostolus opera carnis, quae sunt, inquit, fornicationes, immunditiae, contentiones, aemulationes, animositates, dissensiones, haereses, invidiae, ebrietates, comessationes, et his similia; quid istis videatur, ut crimen idololatriae putent juste ab imperatoribus vindicari: aut si nec hoc volunt, cur in veneficos vigorem legum exerceri juste fateantur; in haereticos autem atque impias dissensiones nolint fateri, cum in iisdem iniquitatis fructibus auctoritate apostolica numerentur. An forte nec talia potestates istae humanae constitutionis permittuntur curare ? Propter quid ergo gladium portat, qui dictus est minister Dei vindex in iram eis qui male agunt?». Augustinus, Contra Epistolam Parmeniani, I, 10, 16, PL 43, 45.

51. Gal. V, 19.

52. «Prius enim probent se non esse haereticos vel schismaticos, tum demum de indignis poenis suis lividam emittant vocem, tum demum sese audeant cum mali aliquid patiuntur, veritatis martyres dicere. Alioquin si quisquis ab Imperatore vel a judicibus ab eo missis poenas luit, continuo martyr est, omnes carceres martyribus pleni sunt, omnes catenae judiciariae martyres trahunt, in omnibus metallis martyres aerumnosi sunt, in omnes insulas martyres deportantur, in omnibus poenalibus locis juridico gladio martyres feriuntur, ad omnes bestias martyres surriguntur, aut jussionibus judicum vivi ignibus concremantur. Si autem, sicut dicit Apostolus, Non est potestas nisi a Deo, et minister Dei est, vindex in iram ei qui male agit, nec sine causa gladium portat. Vis non timere potestatem? Bonum fac, et habebis laudem ex illa: bonus quidquid passus fuerit, laus illi provenit ex potestate facientis; malus vero qui merito patitur iniquitatis, non deputet saevitiae potestatis». Augustinus, Contra Epistolam Parmeniani, I, 8, 13, PL 43, 43. Cfr. Rom. XIII, 1-4.

53. «Nam utique et ipsi falsa religione sunt impii, quorum simulacra everti atque confringi jussa sunt recentibus legibus, inhiberi etiam sacrificia sub terrore capitali. Si quis ergo eorum damnatus in tali crimine fuerit, martyr habendus est, quia pro superstitione quam piam religionem putabat, poenas legibus luit? Nullus certe quoquo modo christianus audet hoc dicere. Non ergo quisquis in aliqua religionis quaestione fuerit ab Imperatore punitus, martyr efficitur. Neque enim vident qui talia sentiunt, in eum locum se progredi, ut ipsos etiam daemones martyrum sibi gloriam vindicare posse contendant, quia istam patiuntur persecutionem per imperatores christianos, ut pene toto orbe terrarum eorum templa evertantur, idola comminuantur, sacrificia subtrahantur, qui eos honorant, si deprehensi fuerint, puniantur. Quod si dementissimum est dicere; non ergo ex passione certa justitia, sed ex justitia passio gloriosa est. Ideoque Dominus, ne quisquam in hac re nebulas offunderet imperitis, et in suorum damnatione meritorum laudem quaereret martyrum, non generaliter ait, Beati qui persecutionem patiuntur; sed addidit magnam differentiam, qua vera a sacrilegio pietas secernatur; ait enim, Beati qui persecutionem patiuntur propter justitiam». Augustinus, Contra Epistolam Parmeniani, I, 9, 15, PL 43, 44. Cfr. Mt. V, 10.

54. Cfr. Cyprianus, Epist. IV, 4, ed. M. Bayard, Correspondance, Paris, 1925, I, pp. 11-12.

55. Cfr. Id., Epist. LV, 25, ed. cit., II, p. 148.

56. «Nam et ipse Dominus cum servis volentibus zizania colligere dixit, Sinite utraque crescere usque ad messem; praemisit causam, dicens, Ne forte cum vultis colligere zizania, eradicetis simul et triticum. Ubi satis ostendit, cum metus iste non subest, sed omnino de frumentorum certa stabilitate certa securitas manet, id est, quando ita cujusque crimen notum est, et omnibus exsecrabile apparet, ut vel nullos prorsus vel non tales habeat defensores, per quos possit schisma contingere; non dormiat severitas disciplinae, in qua tanto est efficacior emendatio pravitatis, quanto diligentior conservatio charitatis». Augustinus, Contra Epistolam Parmeniani, III, 2, 13, PL 43, 92.

57. Si veda ad esempio Thomas de Aquino, S. th., II II, q. 10, a. 8, ad 1, ed. Marietti cit., p. 59: «Ad primum ergo dicendum quod per illam auctoritatem quidam intellexerunt esse prohibitam non quidem excommunicationem haereticorum, sed eorum occisionem, ut patet per auctoritatem Chrysostomi inductam. Et Augustinus, ad Vincentium, de se dicit: Haec primitus mea sententia erat, neminem ad unitatem Christi esse cogendum, verbo esse agendum, disputatione pugnandum. Sed haec opinio mea non contradicentium verbis, sed demonstrantium superatur exemplis. Legum enim terror ita profuit ut multi dicant: Gratias Domino, qui vincula nostra dirupit. Quod ergo Dominus dicit: Sinite utraque crescere usque ad messem, qualiter intelligendum sit apparet ex hoc quod subditur: Ne forte, colligentes zizania, eradicetis simul cum eis et triticum. Ubi satis ostendit, sicut Augustinus dicit contra epist. Parmen., cum metus iste non subest, idest quando ita cuiusque crimen notum est et omnibus execrabile apparet ut vel nullos prorsus, vel non tales habeat defensores per quos possit schisma contingere, non dormiat severitas disciplinae». Sul problema della pena di morte applicata agli eretici, cfr. infra, note 108, 111, 112 e 114. Sui passi di Agostino citati da Tommaso, cfr. infra. note 61, 64, 71, 73 e supra, nota 56.

58. Cfr. J. Lecler, Histoire de la tolérance..., cit., p. 85; P. Brown, Augustine of Hippo, trad. ital. cit., pp 236-238.

59. Tra le varie lettere che toccano questi argomenti, riveste una certa importanza quella rivolta nel 417 al tribuno Bonifacio (Epist. 185, PL 792-815), in cui vengono ampiamente ripresi i temi svolti nell'Epistola 93 (v. nota seguente).

60. Cfr. Augustinus, Epist. 93, PL 33, 321 segg. Le accuse di Vincenzo sono riferite in 13, 51 (PL 33, 346): «Tu quippe in ejusdem tuae epistolae principio, cui nunc respondeo, haec verba posuisti: Cum optime, inquis, noverim te longe adhuc a fide christiana sepositum, et studiis olim deditum litterarum, quietis et honestatis fuisse cultorem; cumque postea conversus ad christianam fidem ut ex multorum relatione cognovi, disputationibus legalibus operam dares».

61. Id., Epist. 93, 5, 17, PL 33, 329. Su questo mutamento della propria posizione Agostino ritorna anche nelle Retractationes, II, 5, PL 32, 632.

62. Cfr. Id., Contra Duas Epistolas Pelagianorum libri ad Bonifacium quatuor, III, 10, 26, PL 44, 608: «Addunt sane ad latebrarum suarum nebulas Pelagiani, de origine animae non necessariam quaestionem; ad hoc ut res manifestas, aliarum rerum obscuritate turbando, moliantur latendi locum. Aiunt enim, "nos animarum traducem cum peccati traduce contueri". Quod ubi et quando in eorum, qui defendunt adversus istos catholicam fidem, vel sermonibus audierint, vel litteris legerint, nescio». Cfr. P.F. Beatrice, Tradux peccati. Alle fonti della dottrina agostiniana del peccato originale, Milano, Vita e pensiero, 1978, p. 102.

63. Id., Epist. 93, 5, 17, PL 33, 330.

64. «His ergo exemplis a collegis meis mihi propositis cessi. Nam mea primitus sententia non erat, nisi neminem ad unitatem Christi esse cogendum; verbo esse agendum, disputatione pugnandum, ratione vincendum, ne fictos catholicos haberemus, quos apertos haereticos noveramus. Sed haec opinio mea, non contradicentium verbis, sed demonstrantium superabatur exemplis». Ibid., PL 33, 329-330.

65. «Superfluo hoc fortasse diceretur quibuslibet verbis, si non tam multis ostenderetur exemplis. Non illos aut illos homines, sed multas civitates videmus fuisse donatistas, nunc esse catholicas, detestari vehementer diabolicam separationem, diligere ardenter unitatem: quae tamen timoris hujus qui tibi displicet occasionibus, catholicae factae sunt per leges imperatorum, a Constantino apud quem primum vestri ultro Caecilianum accusaverunt, usque ad praesentes imperatores...». Ivi, 5, 16, PL 33, 329.

66. «Nam primo mihi opponebatur civitas mea, quae cum tota esset in parte Donati, ad unitatem catholicam timore legum imperialium conversa est; quam nunc videmus ita hujus vestrae animositatis perniciem detestari, ut in ea nunquam fuisse credatur». Ivi, 5, 17, PL 33, 330.

67. «His omnibus harum legum terror, quibus promulgandis reges serviunt Domino in timore, ita profuit...». Ivi, 5, 18, PL 33, 330.

68. «... Non quo quisque bonus possit esse invitus; sed timendo quod non vult pati, vel relinquit impedientem animositatem, vel ignoratam compellitur cognoscere veritatem, ut timens vel respuat falsum de quo contendebat, vel quaerat verum quod nesciebat, et volens teneat jam quod nolebat». Ivi, 5, 16, PL 33, 329.

69. Cfr. P. Brown, L'atteggiamento di sant'Agostino..., cit., pp. 253-254. Svanisce così, nella polemica antidonatista, la speranza precedentemente espressa (De vera religione 26, 48-49) in un cristianesimo spirituale che, già prima della dimensione escatologica, sappia elevarsi al di sopra delle sanzioni fisiche; e contemporaneamente, con l'idea di una costrizione esterna indispensabile per preparare la scelta salvifica, si apre la strada alla successiva polemica antipelagiana sul libero arbitrio: cfr. Id., Augustine of Hippo, trad. ital. cit., pp. 233-234.

70. «Quam multi enim, quod certo scimus, jam volebant esse catholici, manifestissima veritate commoti, et offensionem suorum reverendo, quotidie differebant!». Ivi, 5, 17, PL 33, 330.

71. «His omnibus harum legum terror, quibus promulgandis reges serviunt Domino in timore, ita profuit, ut nunc alii dicant: Jam hoc volebamus; sed Deo gratias, qui nobis occasionem praebuit jamjamque faciendi, et dilationum morulas amputavit.». Ivi, 5, 18, PL 33, 330.

72. «Quam multos non veritas, in qua nunquam praesumpsistis, sed obduratae consuetudinis grave vinculum colligabat, ut in eis compleretur divina illa sententia: Verbis non emendabitur servus durus; si enim et intellexerit, non obediet ». Ivi, 5, 17, PL 33, 330. Cfr. Prov. XXIX, 19.

73. «Alii dicant: Hoc esse verum jam sciebamus; sed nescio qua consuetudine tenebamur: gratias Domino, qui vincula nostra disrupit, et nos ad pacis vinculum transtulit». Augustinus, Epist. 93, 5, 18, PL 33, 330.

74. «Quam multi propterea putabant veram Ecclesiam esse partem Donati, quia eos ad cognoscendam catholicam veritatem securitas torpidos, fastidiosos, pigrosque faciebat!». Ivi, 5, 17, PL 33, 330.

75. «Alii dicant: Nesciebamus hic esse veritatem, nec eam discere volebamus; sed nos ad eam cognoscendam metus fecit intentos, quo timuimus ne forte sine ullis rerum aeternarum lucris damno rerum temporalium feriremur: gratias Domino, qui negligentiam nostram stimulo terroris excussit, ut saltem solliciti quaereremus quod securi nunquam nosse curavimus». Ivi, 5, 18, PL 33, 330.

76. «Quam multis aditum intrandi obserabant rumores maledicorum, qui nescio quid aliud nos in altare Dei ponere jactitabant!». Ivi, 5, 17, PL 33, 330.

77. «Alii dicant: Nos falsis rumoribus terrebamur intrare, quos falsos esse nesciremus, si non intraremus; nec intraremus, nisi cogeremur: gratias Domino, qui trepidationem nostram flagello abstulit, expertos docuit quam vana et inania de Ecclesia sua mendax fama jactaverit; hinc jam credimus et illa falsa esse, quae auctores hujus haeresis criminati sunt, quando posteri eorum tam falsa et pejora finxerunt». Ivi, 5, 18, PL 33, 330.

78. «Quam multi nihil interesse credentes in qua quisque parte christianus sit, ideo permanebant in parte Donati, quia ibi nati erant, et eos inde discedere atque ad Catholicam nemo transire cogebat!». Ivi, 5, 17, PL 33, 330.

79. «Alii dicant: Putabamus quidem nihil interesse ubi fidem Christi teneremus; sed gratias Domino, qui nos a divisione collegit, et hoc uni Deo congruere, ut in unitate colatur, ostendit». Ivi, 5, 18, PL 33, 330. Si noti la complessità e l'eleganza dell'esposizione agostiniana: prima (nella parte finale del paragrafo 17) vengono elencate le condizioni spirituali di partenza, e poi (nel paragrafo 18) le testimonianze corrispondenti circa gli esiti ottenuti in virtù dello stimulus terroris.

80. «Si enim quisquam inimicum suum periculosis febribus phreneticum factum, currere videret in praeceps, nonne tunc potius malum pro malo redderet, si eum sic currere permitteret, quam si corripiendum ligandumque curaret? Et tamen tunc ei molestissimus et adversissimus videretur, quando utilissimus et misericordissimus extitisset: sed plane salute reparata tanto uberius ei gratias ageret, quanto sibi eum minus pepercisse sensisset». Ivi, 1, 2, PL 33, 322.

81. Ivi, 2, 4, PL 33, 323.

82. «Non omnis qui parcit, amicus est; nec omnis qui verberat, inimicus. Meliora sunt vulnera amici, quam voluntaria oscula inimici. Melius est cum severitate diligere, quam cum lenitate decipere». Ibid. Cfr. Prov. XXVII, 6: nel mio testo riporto la versione della Vulgata, mentre Agostino adopera ancora l'antica versione latina della traduzione greca dei Settanta.

83. «Et putas nullam vim adhibendam esse homini, ut ab erroris pernicie liberetur; cum ipsum Deum, quo nemo nos utilius diligit, certissimis exemplis hoc facere videas...». Augustinus, Epist. 93, 2, 5, PL 33, 323.

84. «Quis nos potest amplius amare, quam Deus? Et tamen nos non solum docere suaviter, verum etiam salubriter terrere non cessat». Ivi, 2, 4, PL 33, 323.

85. «Fomentis lenibus quibus consolatur, saepe etiam mordacissimum medicamentum tribulationis adjungens, exercet fame Patriarchas etiam pios et religiosos, populum contumacem poenis gravioribus agitat, non aufert ab Apostolo stimulum carnis tertio rogatus, ut virtutem in infirmitate perficiat». Ibid. Sulla preghiera non esaudita di san Paolo si veda II Cor. XII, 7-9.

86. «Putas neminem debere cogi ad justitiam [...] cum legas etiam ipsum primo Saulum, postea Paulum, ad cognoscendam et tenendam veritatem, magna violentia Christi cogentis esse compulsum». ...». Augustinus, Epist. 93, 2, 5, PL 33, 323. Cfr. Act. IX, 3-7.

87. Cfr. ivi, 2, 4-7, PL 33, 323-325. Sull'episodio di san Pietro si veda l'inizio del paragrafo 7: «Aspice etiam tempora Novi Testamenti, quando jam ipsa mansuetudo charitatis non solum in corde erat servanda, verum etiam in luce monstranda; quando Petri gladius in vaginam revocatur a Christo, et ostenditur non debuisse de vagina eximi nec pro Christo». Cfr. Mt. XXVI, 52. «Legimus tamen...», prosegue Agostino, e fa seguire tutta una lista citazioni neotestamentari che per Agostino spingono in direzione opposta.

88. «Et putas nullam vim adhibendam esse homini, ut ab erroris pernicie liberetur; cum ipsum Deum, quo nemo nos utilius diligit, certissimis exemplis hoc facere videas, et Christum audias dicentem, Nemo venit ad me, nisi quem Pater attraxerit, quod fit in cordibus omnium qui se ad eum divinae iracundiae timore convertunt». Augustinus, Epist. 93, 2, 5, PL 33, 323.

89. «Nempe Deus proprio Filio non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum: nempe de Filio ipso dicitur, Qui me dilexit, et tradidit semetipsum pro me». Ivi, 2, 7, PL 33, 324. Cfr. Rom. VIII, 32, Gal. II, 20.

90. «Putas neminem debere cogi ad justitiam, cum legas patremfamilias dixisse servis: Quoscumque inveneritis cogite intrare...». Augustinus, Epist. 93, 2, 5, PL 33, 323. La Vulgata usa il verbo 'compellere' in luogo di 'cogere'.

91. Cfr. H. Grundmann, Oportet et haereses esse..., cit., p. 37, nota 32.

92. Cfr. ivi, pp. 37-39. Tra quelli che non aderiscono all'esegesi agostiniana (da Grundmann definita «sforzata») c'è anche Gregorio Magno, che pure segue il vescovo d'Ippona nella convinzione che sia giusto servirsi del potere politico nella lotta contro eretici e scismatici.

93. «... Et noveris aliquando furem avertendis pecoribus pabulum spargere, et aliquando pastorem flagello ad gregem pecora errantia revocare!». Augustinus, Epist. 93, 2, 5, PL 33, 323.

94. «Vides itaque jam, ut opinor, non esse considerandum quod quisque cogitur, sed quale sit illud quo cogitur, utrum bonum an malum». Ivi, 5, 16, PL 33, 329.

95. «Interest quidem plurimum, qua causa, quo fine, qua intentione quid fiat: sed ea quae constat esse peccata, nullo bonae causae obtentu, nullo quasi bono fine, nulla velut bona intentione facienda sunt. Ea quippe opera hominum, sicut causas habuerint bonas, seu malas, nunc sunt bona, nunc mala, quae non sunt per se ipsa peccata: sicut victum praebere pauperibus, bonum opus est, si fit causa misericordiae cum recta fide; sicut concubitus conjugalis, quando fit causa generandi, si ea fide fiat ut gignantur regenerandi. Haec atque hujusmodi secundum suas causas opera sunt bona vel mala; quia eadem ipsa si habeant malas causas, in peccata vertuntur: velut si jactantiae causa pauper pascitur; aut lasciviae causa cum uxore concumbitur; aut filii generantur, non ut Deo, sed ut diabolo nutriantur. Cum vero jam opera ipsa peccata sunt, sicut furta, stupra, blasphemiae, vel caetera talia; quis est qui dicat causis bonis esse facienda, ut vel peccata non sint, vel, quod est absurdius, justa peccata sint?» Augustinus, Contra mendacium, 7, 18, PL 40, 528. Se dunque per Agostino non esistono opere «per se stesse» buone, ce ne sono invece di cattive indipendentemente dall'intenzione (ossia dal fine) che le accompagna. L'etica di Abelardo, sette secoli dopo, segnerà a questo riguardo uno strappo notevole e non a caso provocherà vivaci reazioni e condanne nei rappresentanti della tradizione dottrinale.

96. Cfr. ivi, 3, 4, PL 33, 520-522.

97. «Si semper esset laudabile persecutionem pati, sufficeret Domino dicere, Beati qui persecutionem patiuntur; nec adderet, propter justitiam. Item si semper esset culpabile persecutionem facere, non scriptum esset in sanctis Libris: Detrahentem proximo suo occulte, hunc persequebar». Ivi, 2, 8, PL 33, 325. Cfr. Mt. V, 10, Psal. C, 5.

98. «Aliquando ergo et qui eam patitur, injustus est, et qui eam facit, justus est. Sed plane semper, et mali persecuti sunt bonos, et boni persecuti sunt malos...». Augustinus, Epist. 93, 2, 8, PL 33, 325.

99. «Occiderunt impii Prophetas, occiderunt impios et Prophetae. Flagellaverunt Judaei Christum, Judaeos flagellavit et Christus. Traditi sunt Apostoli ab hominibus potestati humanae, tradiderunt et Apostoli homines potestati satanae». Ibid. Anche se, come vedremo, Agostino si dimostra a più riprese contrario alla pena di morte per gli eretici, non esclude tuttavia che, su ispirazione divina, la giusta persecuzione nei confronti degli empi possa giungere alla loro soppressione fisica. Si veda, a questo proposito, De civitate Dei I, 21, in cui si sostiene che l'autorità divina ha stabilito alcune eccezioni al divieto di uccidere, come l'omicidio nel corso di una guerra voluta da Dio e la pena capitale inflitta a persone colpevoli da parte dell'autorità legittima e conformemente alle leggi. Cfr. supra, nota 3.

100. «Sed plane semper, et mali persecuti sunt bonos, et boni persecuti sunt malos: illi nocendo per injustitiam, illi consulendo per disciplinam; illi immaniter, illi temperanter; illi servientes cupiditati, illi charitati. Nam qui trucidat, non considerat quemadmodum laniet; qui autem curat, considerat quemadmodum secet: ille enim persequitur sanitatem, ille putredinem». Id., Epist. 93, 2, 8, PL 33, 325.

101. «In his omnibus quid attenditur, nisi quis eorum pro veritate, quis pro iniquitate, quis nocendi causa, quis emendandi?» Ibid.

102. «Quam multi ex ipsis nunc nobiscum gaudentes, pristinum pondus perniciosi sui operis accusant, et fatentur nos sibi molestos esse debuisse, ne tanquam mortifero somno, ita morbo veternosae consuetudinis interirent. [...] Rursus si docerentur et non terrerentur, vetustate consuetudinis obdurati ad capessendam viam salutis pigrius moverentur; quandoquidem multi, quos bene novimus, reddita sibi ratione et manifestata divinis testimoniis veritate, respondebant nobis, cupere se in Ecclesiae catholicae communionem transire, sed violentas perditorum hominum inimicitias formidare: quas quidem pro justitia et pro aeterna vita utique contemnere debuerunt». Id., Epist. 93, 2, 2-3, PL 33, 322.

103. Il De magistro risale alla fine degli anni Ottanta.

104. «Si enim terrerentur, et non docerentur, improba quasi dominatio videretur». Ivi, 2, 3, PL 33, 322. Brown, da parte sua, presenta come un paradosso il fatto che Agostino, patriarca dei persecutori, è anche esponente di un ideale di punizione correttiva, «un ideale la cui realizzazione è ancora così penosamente incompiuta nelle nostre società civili» (cfr. P. Brown, L'atteggiamento di sant'Agostino..., cit., p. 259). Tuttavia, aggiungerei, realizzare questo ideale in una società come la nostra, figlia dell'illuminismo e del liberalismo, non può non fare i conti con una concezione completamente diversa di legge e di punibilità: la pluralità delle opzioni in campo filosofico e religioso non può più essere un «reato» da correggere, o il piano legale ridursi a espressione di una determinata morale. Naturalmente nulla è irreversibile, e nuove teocrazie che la storia voglia riservarci potranno apparire più tollerabili se i loro metodi saranno correttivi anziché meramente vendicativi (se potranno anche essere più tollerabili, è un problema più complesso...).

105. Cfr. H. Maisonneuve, Études..., cit., p. 39.

106. Tommaso d'Aquino, ad esempio, fin dalla sua prima opera insiste sulla necessità della persecuzione degli eretici «ne tantum peccatum inultum permaneat» e «ne alios corrumpant» (v. Sent., IV, d. 13, q. 2, a. 3, ad 5, ed. CD rom Busa 004 4SN DS13 Q2 AR3-RA-5), ma successivamente (cfr. S. th., II. II., q. 10, a. 8, ed. Marietti cit., pp. 58-59) riconosce anche il fine di inducere ad credendum, in un primo tempo negato (nelle opere della maturità si continua ad escludere che ci possa essere costrizione alla fede soltanto per quelli «qui nunquam susceperunt fidem, sicut gentiles et Iudaei»). Riguardo alle due prime finalità, esse a loro volta non sono coincidenti; e se c'è chi, come M.S. Kempshall (The Common Good in Late Medieval Political Thought, Oxford, Clarendon Press 1999, pp. 128-129) sembra voler ricondurre in Tommaso il ripristino della giustizia ingiuriata alla difesa del bene comune, in realtà il maestro domenicano è esplicito, nel respondeo dell'articolo delle Sentenze poco sopra citato, a considerare lecita la punizione (per lui addirittura la soppressione) degli eretici anche laddove non ci sia rischio di corruzione altrui: «Sed judicio saeculari possunt licite occidi, et bonis suis spoliari, etsi alios non corrumpant; quia sunt blasphemi in Deum, et fidem falsam observant; unde magis possunt puniri isti quam illi qui sunt rei criminis laesae majestatis, et illi qui falsam monetam cudunt».

107. «Neque enim solis humanis terroribus murus durae consuetudinis expugnatur; sed etiam divinis auctoritatibus atque rationibus fides et intelligentia mentis instruitur...». Augustinus, Epist. 89, 7, PL 33, 312. «Non praeterita vindicando pascere iram nostram studemus; sed misericorditer in futurum consulendo satagimus. Habent homines mali, ubi et per christianos non solum mansuete, verum etiam utiliter salubriterque plectantur». Id., Epist. 91, 9, PL 33, 317.

108. Tra i numerosi documenti di questo atteggiamento si può ricordare in particolare l'epistola 133 (indirizzata al tribuno Marcellino), in cui Agostino si dimostra molto preoccupato che non vengano applicate mutilazioni o la pena di morte persino a donatisti rei di violenze: «... Nolumus tamen passiones servorum Dei, quasi vice talionis, paribus suppliciis vindicari. Non quo scelestis hominibus licentiam facinorum prohibeamus auferri; sed hoc magis sufficere volumus ut vivi et nulla corporis parte truncati, vel ab inquietudine insana ad sanitatis otium legum coercitione dirigantur, vel a malignis operibus alicui utili operi deputentur. [...] Imple, christiane judex, pii patris officium; sic succense iniquitati, ut consulere humanitati memineris: nec in peccatorum atrocitatibus exerceas ulciscendi libidinem; sed peccatorum vulneribus curandi adhibeas voluntatem. Noli perdere paternam diligentiam, quam in ipsa inquisitione servasti, quando tantorum scelerum confessionem, non extendente equuleo, non sulcantibus ungulis, non urentibus flammis, sed virgarum verberibus eruisti. Qui modus coercitionis a magistris artium liberalium, et ab ipsis parentibus, et saepe etiam in judiciis solet ab episcopis adhiberi. Noli ergo atrocius vindicare, quod lenius invenisti. Inquirendi quam puniendi necessitas major est...». Id., Epist. 133, 1-2, PL 33, 509.

109. « Quaesumus igitur ut cum Ecclesiae causas audis, quamlibet nefariis injuriis appetitam vel afflictam esse cognoveris, potestatem occidendi te habere obliviscaris, et petitionem nostram non obliviscaris. Non tibi vile sit, neque contemptibile, fili honorabiliter dilectissime, quod vos rogamus ne occidantur, pro quibus Dominum rogamus ut corrigantur. Excepto etiam quod a perpetuo proposito recedere non debemus vincendi in bono malum; illud quoque prudentia tua cogitet, quod causas ecclesiasticas insinuare vobis nemo praeter ecclesiasticos curat. Proinde, si occidendos in his sceleribus homines putaveritis, deterrebitis nos ne per operam nostram ad vestrum judicium aliquid tale perveniat: quo comperto illi in nostram perniciem licentiore audacia grassabuntur, necessitate nobis impacta et indicta, ut etiam occidi ab eis eligamus, quam eos occidendos vestris judiciis ingeramus. Hanc admonitionem, petitionem, obsecrationem meam ne, quaeso, aspernanter accipias». Id., Epist. 100, 2, PL 33, 366-367. Cfr. J. Lecler, Histoire de la tolérance..., cit., p. 88.

110. Si tengano presenti queste penetranti osservazioni di Peter Brown sull'atteggiamento di Agostino nei confronti dell'Antico Testamento: «La giustificazione di Agostino del Vecchio Testamento contro i manichei è una delle sue escursioni piu geniali nel campo della ricostruzione storica concreta. La misura in cui egli aveva accettato la necessità di questo regime di paura viene spesso cancellata dal rilievo che egli dà all'antitesi fra Legge e Grazia nei suoi scritti antipelagiani. Tuttavia, lungi dall'aver abbandonato questa visione concreta del Vecchio Testamento, certi cambiamenti nella prospettiva storica di Agostino potrebbero averla avvicinata ai suoi tempi. Egli aveva cessato di considerare il Vecchio Testamento uno «stadio» distinto dello sviluppo morale della razza umana - stadio a suo tempo prezioso ed inevitabile, ma ora trasceso. La sua prospettiva storica successiva non ammetteva una simile irreversibile ascesa morale. Forse, per questo, Agostino poteva considerare la utilitas timoris della Vecchia Legge, non come un «periodo» remoto, che rifletteva un «gradus morum» alieno, ma come un complemento ininterrotto e necessario della grazia della Nuova Legge. La Vecchia Legge, con le sue qualità coercitive, era, naturalmente, destinata a rimanere incompleta, ed era certamente meno preponderante che all'epoca di Mosè: tuttavia, in un'esistenza incompleta non poteva essere negata la sua permanente utilità. E quindi l'esempio concreto del popolo di Israele, con le sue leggi imposte, poteva effettivamente assomigliare molto alle realtà ecclesiastiche dell'Africa settentrionale all'epoca di Agostino». P. Brown, L'atteggiamento di sant'Agostino..., cit., p. 255.

111. Agostino, nell'indicare alle autorità civili il modo migliore di trattare e punire i dissidenti, secondo Brown tenta di estendere un modello di rimprovero-correzione (correptio-correctio) tipico dei processi disciplinari ecclesiastici. Cfr. P. Brown, L'atteggiamento di sant'Agostino..., cit., pp. 256-257. Nonostante la coerenza di fondo nel respingere in più occasioni l'uccisione di scismatici ed eretici, alcuni testi agostiniani, a mio giudizio, presentano una certa dose di ambiguità. Così, nel Contra Epistolam Parmeniani, difendendo il diritto dell'autorità imperiale a colpire le false ed empie religioni, Agostino cita senza disapprovarle le «leggi recenti» che vietano i sacrifici sub terrore capitali (cfr. supra l'inizio del testo riportato nella nota 53). E così, nell'Epistola Ad Bonifacium Comitem, usa alcune espressioni che (questa volta, mi sembra, senza troppe forzature - cfr. invece infra, nota 114) Tommaso utilizzerà in S. th. II. II., q. 10, a. 8, ad 4 proprio per contestare l'affermazione secondo cui «nos non debemus velle quod infideles occidantur»: «Quis enim nostrum velit non solum aliquem illorum perire, verum etiam aliquid perdere? Sed si aliter non meruit pacem habere domus David, nisi Absalon filius ejus in bello quod contra patrem gerebat, fuisset exstinctus, quamvis magna cura mandaverit suis ut eum quantum possent vivum salvumque servarent, ut esset cui poenitenti paternus affectus ignosceret; quid ei restitit, nisi perditum flere, et sui regni pace acquisita suam moestitiam consolari. Sic ergo catholica mater, bellantibus adversus eam quibus aliis quam filiis suis, quia utique ex ipsa magna arbore quae ramorum suorum porrectione toto orbe diffunditur, iste in Africa ramusculus fractus est, cum eos charitate parturiat ut redeant ad radicem sine qua veram vitam habere non possunt; si aliquorum perditione caeteros tam multos colligit, praesertim quia isti, non sicut Absalon casu bellico, sed spontaneo magis interitu pereunt, dolorem materni cordis lenit et sanat tantorum liberatione populorum». Augustinus, Epist. 185, 8, PL 33, 807.

112. Si vedano, ad esempio, i passi di Tommaso d'Aquino citati supra, nota 106.

113. Joannes Chrisostomus, In Matt. homil. 46, 2, PG 58, 477. Cfr. J. Lecler, Histoire de la tolérance..., cit., p. 88.

114. Tale forzatura è chiaramente avvertibile lì dove Tommaso, teorizzando la necessità di uccidere i peccatori in nome del bene comune, si richiama al Contra Parmenianum come se Agostino in quella sede, con la sua rilettura della parabola della zizzania, avesse voluto difendere non semplicemente la severitas disciplinae intesa come coattiva emendatio pravitatis (cfr. supra, nota 56), bensì addirittura l'eliminazione fisica dei malvagi: «... Dominus abstinendum mandavit ab eradicatione zizaniorum ut tritico parceretur, idest bonis. Quod quidem fit quando non possunt occidi mali quin simul occidantur et boni: vel quia latent inter bonos; vel quia habent multos sequaces, ita quod sine bonorum periculo interfici non possunt; ut Augustinus dicit, Contra Parmen.». Thomas de Aquino, S. th., II. II., q. 64, a. 2 (Utrum sit licitum occidere homines peccatores), ad 1. Sull'atteggiamento di Tommaso verso gli eretici, recentemente Hermes Puyau e Laura Daus de Puyau hanno cercato (pur riconoscendo in lui un atteggiamento intollerante comune a tutti gli autori del XIII secolo) di rilevare le conseguenze a favore della libertà religiosa che la dottrina tommasiana della fede implicherebbe, conseguenze che Tommaso stesso però non esplicitò. Cfr. H.A. Puyau-L. Daus de Puyau, Santo Tomas y la tolerancia en el siglo XIII, in Les philosophies morales..., cit., III, pp. 1710-1719.

115. Come nota Lecler, l'atteggiamento di Temistio in favore del pluralismo religioso è desumibile da vari passi delle Orationes e non soltanto da quello, famoso, tratto dall'Oratio XII (indirizzata a Valente), della quale possediamo soltanto una traduzione latina e sulla quale sono stati avanzati dubbi di autenticità: «Iamdudum vix aut ne vix quidem umbram ullam haberemus religionis, si omnium mortalium idem semper ritus sacrorum, eadem fuisset habendarum cerimoniarum ratio. Nunc varietate opinionum, et ad hanc diem altum auctumque est studium religionis, et a posteritate ad sempiternum tempus studiose retinebitur. [...] Nam si verum dicimus, Deo ipsi grata esse non potest haec opinionum consensio, quam imperiti homines moliuntur: quin eam ipse distinere, neque velle coalescere videtur. Nam natura, ut ait Heraclitus, occultari vult: multoque magis naturae dominus et fabricator Deus». Themistius, Oratio XII, De religionibus, ed. W. Dindorf, Hildesheim, Olms, 1961, pp. 192-194. Cfr. J. Lecler, Histoire de la tolérance..., cit., pp. 74-75.