2005

La riforma delle Nazioni Unite: un'occasione mancata (*)

Antonio Cassese

Ogni anno l'Assemblea generale dell'Onu, lavorando accanitamente per tre mesi, sforna una media di 300 risoluzioni sui più diversi problemi, ognuna in media di 4 pagine, con tanto di preambolo e dispositivo. Sono il frutto dell'oscuro lavoro di centinaia di solerti diplomatici. Chi le legge? Nessuno o quasi (qualche studioso pignolo forse le consulta). Che peso hanno sulle relazioni politiche internazionali o nella vita interna degli Stati? Zero. Come mai dunque ogni anno tantissimi diplomatici di 191 paesi passano a New York giorni e giorni a negoziare documenti che restano lettera morta? Essenzialmente per questa ragione: negli anni 1970 i paesi del Terzo Mondo, avendo già raggiunto l'indipendenza politica dopo il periodo coloniale, si accorsero che contavano assai poco nei rapporti internazionali; avevano però la maggioranza all'Assemblea dell'ONU; si rifecero dunque con l'adozione di risoluzioni assembleari, quasi che le vittorie cartacee servissero, come riti incantatori, a dar loro il potere militare e politico di cui erano privi. Di qui l'inflazione delle risoluzioni Onu. I paesi industrializzati li hanno lasciati fare, sapendo che comunque quei documenti politici non contavano nulla o quasi, perché il vero potere restava nelle loro mani.

Passiamo al Consiglio di sicurezza, considerato il supremo organo politico della comunità mondiale, tanto che le piccole potenze come l'Italia agognano di farne parte a titolo permanente (o almeno semi-permanente). Ogni anno produce una media di 57 risoluzioni. Quasi sempre sono ruggiti di un leone sdentato, perché il Consiglio non ha un proprio esercito né può disporre di una forza di pronto intervento, ed inoltre le sue sanzioni economiche sono spesso inefficaci. Qualche volta, se sorgono forti e convergenti interessi economici, politici o militari dei Cinque Grandi, il leone dà però qualche vigorosa zampata.

Ancora: per le sue numerose attività operative (assai meritorie: ad esempio, nel campo del peace-keeping, dei diritti umani, della promozione dello sviluppo dei paesi arretrati) l'Onu si avvale di un apparato burocratico enorme di circa 9000 funzionari, spesso selezionati in base a criteri non meritocratici ma politico-geografici (oltre ad un folto personale a contratto proveniente da numerosi Stati).

E' chiaro dunque che, pur se varie attività operative dell'Onu sono importanti e proficue, nel complesso l'organizzazione da anni pesta acqua nel mortaio. Hanno dunque ragione gli USA a chiedere con forza una riforma radicale dell'apparato amministrativo e una risagomazione degli obiettivi. Il problema è che allo stesso tempo Washington vuole imporre all'Onu i suoi valori e i suoi scopi. Insomma, vorrebbe trasformare l'organizzazione mondiale in uno strumento della politica estera americana o almeno in uno strumento utile a quella politica. La maggioranza degli altri Stati respinge globalmente la strategia degli Usa, e con essa anche le giuste richieste americane.

La prova si è avuta in questi giorni. Invece di segnare una svolta radicale nella vita dell'organizzazione mondiale, le 35 fitte pagine che compongono il documento finale del summit dei Grandi costituiscono ancora una volta una manifestazione del processo incantatorio di cui parlavo prima. Se leggete quelle pagine, sarete colpiti dalle migliaia di parole inutili: un libro dei sogni, strapieno di buone intenzioni. Ogni volta che sono sorte tra gli Stati che contano divergenze radicali su un punto importante, per arrivare ad un'intesa (solo apparente) è stata tolta la frase contestata oppure si è rinviato il problema a data futura. I principali problemi selezionati erano sette: la riforma dell'organizzazione; l'azione internazionale per ridurre la povertà; la creazione di una commissione per il peace-building (per aiutare le società che escono da un conflitto armato); la trasformazione della Commissione per i diritti umani in un organo più ristretto e selettivo; la non-proliferazione nucleare; il terrorismo; l'azione internazionale per proteggere le popolazioni da crimini contro l'umanità e atti di genocidio. In pratica su nessuno di questi problemi si è fatto un decisivo passo avanti. Sarebbe stato invece necessario concentrarsi su pochissime questioni cruciali: ad esempio, lotta alla povertà e riforma della struttura operativa dell'Onu, e battersi per raggiungere un accordo serio e non meramente verbale. Sarebbero bastate 5 paginette per indicare le soluzioni politiche pertinenti.

Il documento finale del summit è dunque da buttar via? Il vertice di questi giorni è stato solo un inutile e costoso show di primedonne? In realtà, percorrendo i 178 paragrafi del documento, qualcosa di buono qua e là si può spigolare. Ad esempio, in materia di uso della forza si insiste sul multilateralismo e non si fa parola della "legittima difesa preventiva" (questa invece stava tanto a cuore agli Stati Uniti, che l'hanno invocata anche nel caso dell'Iraq); si raddoppia il bilancio dell'Alto Commissario per i diritti umani, forse il solo organo dell'Onu veramente efficace ed incisivo in questo campo; si prevede la creazione di una commissione operativa per il peace-building (anche se poi bisognerà vedere, al dunque, come funziona); si caldeggia l'istituzione di un organo per assistere i vari paesi a creare al loro interno uno "stato di diritto"; nell'insistere sulla necessità che si diffonda la democrazia nel mondo, si sottolinea che non esiste un singolo modello di democrazia di cui si possano fregiare uno Stato o un gruppo di Stati.

Come si vede, poca cosa. Si è perso un'altra occasione. Se le Nazioni Unite vogliono restare un indispensabile strumento di progresso e di pace, sarà necessario aspettare un altro Segretario Generale, che scuota autorevolmente gli Stati membri e li spinga a porre mano ad una ristrutturazione radicale dell'organizzazione, con pochi obiettivi realistici e ben calibrati.


*. Da La Repubblica, 18 settembre 2005.