2010

La responsabilità di proteggere (*)

Luca Baiada

La teoria della responsabilità di proteggere, responsibility to protect (seguendo l'uso, di seguito scriverò R2P) ha ricevuto particolare attenzione specialmente dal 2005, l'anno del World Summit e dell'Ezulwini Consensus, come vedremo (1). Ma per esaminarla bisogna partire dal lavoro dell'ICISS, International Commission on Intervention and State Sovereignty (2). L'istituzione di questa Commissione è annunciata dal Canada all'Assemblea generale dell'Onu a settembre 2000.

In quel periodo, in Europa la Jugoslavia è stata ormai cancellata dalla carta geografica. Negli Usa volge al termine la presidenza Clinton, e Bush si prepara a occupare la Casa Bianca con o senza la vittoria elettorale. In Vaticano il papa Wojtyla, sopravvissuto alla guerra fredda, celebra il giubileo. In Israele, Sharon entra in armi nella moschea di El-Aqsa, e comincia la seconda Intifada.

Pochi mesi prima, ad aprile, il Summit del Gruppo dei 77 riunito all'Avana ha affermato che la globalizzazione non deve essere usata contro i principi della sovranità e della non ingerenza, ha ribadito che ogni stato può scegliere il suo sistema politico, e ha respinto il diritto di intervento umanitario (3). Quindi, ha anche smentito gli argomenti giuridici invocati per la guerra del Kosovo.

Il lavoro dell'ICISS, che non ha alcun membro italiano, e non si riunisce mai in Italia, è quasi terminato prima dell'11 settembre 2001. Il rapporto finale, presentato il 30 di quel mese, ci tiene a non essere considerato una reazione all'attacco compiuto negli Usa (ma insiste su quel fatto come esempio delle emergenze da fronteggiare).

All'apparenza, lo scopo della Commissione è rispondere alla domanda posta da Kofi Annan nel Millennium Report:

«Se l'intervento umanitario è davvero un attacco inaccettabile alla sovranità, come dovremmo rispondere al Ruanda, a Srebrenica, a grandi e sistematiche violazioni dei diritti umani che offendono ogni regola della nostra comune umanità?».

In realtà, sono il Millennium Report e l'elaborazione successiva, fra cui il lavoro dell'ICISS, a rispondere a domande ed esigenze di ordine geopolitico. C'è più sincerità nell'ammettere che la nozione stessa di R2P serve a evitare parole esplicite o imbarazzanti:

«La Commissione ha ritenuto che l'espressione "intervento umanitario" non aiutasse a portare avanti la discussione, [...] il linguaggio delle precedenti discussioni, pro o contro il "diritto d'intervento" di uno stato sul territorio di un altro stato, è datato e inutile».

Vediamo la sostanza della proposta. Secondo l'ICISS la sovranità è responsabilità, e gli stati devono intervenire nei paesi che non possono o non vogliono esercitarla. Così, si raccomanda al Consiglio di sicurezza di limitare l'uso del veto e di adottare i principi della R2P, e all'Assemblea dell'Onu di approvare una risoluzione che sostenga questa teoria. Sono richieste cui solo il Consiglio di sicurezza ha dato seguito, e parzialmente. Invece, una risoluzione dell'Assemblea proprio nel senso voluto non c'è stata, anche se ce n'è stata una di segno più sbiadito.

Ma focalizziamo l'elemento centrale affrontato dall'ICISS: la sovranità.

Secondo la Commissione, che riporta la sovranità ai principi di Westfalia, per effetto della Carta dell'Onu «non c'è trasferimento o stemperamento della sovranità dello stato. Ma è implicata una necessaria ricaratterizzazione: dalla sovranità come controllo alla sovranità come responsabilità, sia nelle funzioni interne che nei doveri internazionali». Argomentando così, purtroppo un dato esatto viene piegato in modo strumentale. Consideriamo la questione dal punto di vista dei paesi emergenti: quando le nazioni più povere non contavano nulla, la sovranità era impermeabile, e regolava fondamentalmente rapporti fra paesi ricchi. Fra loro, l'ingerenza era vietata (malgrado questo, ci sono state feroci rese dei conti). Gli altri, erano protettorati. Insomma, una sovranità piena, che per alcuni suonava in diesis. Adesso che nuovi stati indipendenti si sono affacciati alla storia, e che è finita la contrapposizione fra i blocchi, la sovranità è in bemolle. Jean Bricmont ha osservato:

«La "responsabilità di proteggere" è una sorta di astuzia giuridica che tenta di inserire il diritto di ingerenza nel diritto internazionale, mentre i principi del diritto internazionale respingono con fermezza le interferenze» (4).

Eppure, secondo l'ICISS la R2P sussiste come istituto giuridico, con basi nell'art. 24 e nel capitolo VII della Carta dell'Onu. I criteri per un intervento militare sono: l'autorità competente (il Consiglio di sicurezza), la giusta causa, il legittimo proposito, l'estrema risorsa, i mezzi proporzionati e le ragionevoli prospettive (5). Per superare il diritto di veto all'interno del Consiglio di sicurezza, poi, deve rafforzarsi la prassi dell'astensione costruttiva, e comunque vanno valorizzate le organizzazioni regionali. Proviamo ad approfondire.

In generale, si deve riconoscere che la valorizzazione delle persone fisiche, rispetto agli stati, è oggi un elemento di novità, e che l'ICISS fa bene a prenderne atto. Però bisogna chiedersi se questa sia una conseguenza della democrazia moderna, e in che direzione vada. Man mano che si affermano le democrazie, si ribadisce la sovranità, ma già con gli stati nazionali ottocenteschi, e soprattutto con la Grande guerra, le masse sono mobilitate le une contro le altre. Finita la contrapposizione fra i blocchi, emergono i singoli per giustificare l'incrinatura della sovranità, cioè di nuovo per giustificare ancora l'esercizio della violenza. Il ragionamento dell'ICISS, quindi, partendo da un'osservazione esatta, perde di vista che la realtà in esame merita una focalizzazione attenta, e non un'adesione acritica. Per esempio, può essere interessante ricordare come Hobsbawm descrive la condizione dei mafiosi nei bassifondi di Palermo: «quanto mai prossima ai "senza legge" o meglio a uno Stato alla Hobbes, in cui le relazioni tra individui o piccoli gruppi sono simili a quelle tra poteri sovrani» (6). La debolezza della sovranità statuale, cioè, è già stata notata in concomitanza con situazioni di radicalizzazione classista, e non è una prerogativa della democrazia.

La disinvoltura dell'ICISS è confermata dalla sua convinzione che si possa addirittura predisporre un pacchetto-giustizia applicabile ovunque, una specie di arnese pronto, da usare senza scrupoli:

«Alcune organizzazioni non governative hanno sviluppato "pacchetti giustizia", che possono essere adattati alle specifiche condizioni di un'ampia varietà di operazioni, e che dovrebbero essere considerati parte integrante di ogni strategia di costruzione della pace dopo un intervento, durante il ristabilimento delle istituzioni locali. Queste misure dovrebbero includere un codice penale di tipo standard, da utilizzare in ogni situazione in cui non esiste un adeguato corpo normativo vigente, e da applicare sin dall'inizio, per assicurare la protezione delle minoranze e per permettere alle forze d'intervento di imprigionare coloro che commettono crimini».

L'ICISS sembra dimenticare che l'imposizione di un sistema giuridico è un crimine già evidenziato in seguito al processo di Norimberga. Vediamo meglio.

Con la risoluzione 95 dell'11 dicembre 1946 l'Assemblea generale dell'Onu ha confermato i principi giuridici riconosciuti dallo statuto del Tribunale militare internazionale, e proprio su incarico dell'Assemblea (risoluzione 177 del 21 novembre 1947), nel 1950 la Commissione di diritto internazionale dell'Onu ha stabilito il testo dei Principi di Norimberga (Nürnberg principles). L'Assemblea, con la risoluzione 488 del 12 dicembre 1950, ha preso atto dei Principi e ha incaricato la Commissione di predisporre il Draft Code of offences against the peace and security of mankind. Quest'ultimo, predisposto nel 1954, all'art. 2 condanna:

«L'intervento delle autorità di uno stato negli affari interni o internazionali di un altro stato, mediante misure coercitive di carattere economico o politico, dirette a forzare il suo volere e perciò a ottenere vantaggi di qualsiasi tipo».

Il punto di vista dell'ICISS non risolve la contraddizione fra il divieto di ingerenza, anche solo con mezzi economici o politici, e il pacchetto giustizia imposto addirittura con la forza militare. Cioè, la R2P consentirebbe l'ingerenza istituzionale con mezzi persino più aggressivi di quelli che a Norimberga sono stati considerati criminali.

Questa contraddizione, che pure verte su tematiche reali (tutela delle persone, tutela della sicurezza internazionale), di cui è giusto che il diritto si faccia carico, va accostata alle spiacevoli ipocrisie in cui l'ICISS purtroppo inciampa. Cominciamo da quanto si legge in tema di sovranità:

«Il buon governo, come la pace e la stabilità, non può essere perseguito o ripristinato senza che chi interviene abbia autorità su un territorio. Ma la sospensione dell'esercizio della sovranità è soltanto de facto per il periodo dell'intervento e subito dopo, e non de jure. È stato questo, per esempio, l'obiettivo degli Accordi di Parigi del 1991 sulla Cambogia, in cui la previsione di un "Consiglio supremo nazionale" con rappresentanti delle quattro parti in conflitto ha trasferito l'autorità effettiva alle Nazioni Unite per reggere il paese fino alle elezioni. Similmente, la Jugoslavia si può dire che abbia visto temporaneamente sospesa la sua sovranità sul Kosovo, benché non l'abbia perduta de jure. L'obiettivo complessivamente non è cambiare gli ordinamenti costituzionali, ma proteggerli».

Ecco un discorso che mostra la corda, specialmente quando vuole far accettare quanto accaduto in Jugoslavia attraverso una distinzione pretestuosa fra sovranità di diritto e di fatto.

La preoccupazione per le persone, che la R2P sembra porre al centro, giunge a considerare come esigenza umanitaria il fatto che si soffra la fame, o le conseguenze di calamità naturali, perché la ricchezza è impiegata nell'acquisto di armi. L'argomento è suggestivo ma insidioso: impedendo l'armamento si facilita l'aggressione da parte dei paesi ricchi e forti. Ma chi aumenta l'armamento deve ridurre il benessere, e così favorisce gli argomenti a favore dell'aggressione. I paesi poveri, insomma, sono colpevoli quando si difendono, e indifesi quando sono innocenti. Ma quanto possano davvero contare le persone per i paesi forti, lo dice il fatto che la R2P non preveda il temporaneo trasferimento delle popolazioni in pericolo, con il loro consenso, nel territorio degli stati protettori. Gli stati più forti non sono generosi di accoglienza quanto lo sono di ingerenza politica e militare. E poi, l'interesse per la vita degli esseri umani lo esprimono le motivazioni che, in favore della R2P, sono costruite con argomenti economici. Vediamole.

Citando i risultati della Commissione Carnegie sulla prevenzione dei conflitti, l'ICISS osserva che dal 1990 sono stati spesi 200 miliardi di dollari in interventi militari, ma che se ne potevano risparmiare 160. E insiste: «Il miglior argomento finanziario è che agire prima costa sempre meno che agire dopo». Insomma, fare la guerra costa soldi, farla preventiva costa meno. Adesso colleghiamo quest'ultimo argomento col precedente. I paesi poveri che spendono in armi affamano le popolazioni, e questo crea emergenze umanitarie che giustificano la guerra. I paesi ricchi spendono meno perché agiscono prima, cioè aggrediscono senza esitazione. Quindi, i deboli sono colpevoli quando si difendono, e sono indifesi quando sono innocenti. Invece, i forti sono innocenti quando attaccano, e quando sono pacifici si indeboliscono, cioè diventano colpevoli. Forse anche per questo, la Nato crede che sia suo dovere proteggere, ovunque siano, le condotte che portano idrocarburi nei suoi territori. Tutto questo può essere utilizzato come ideologia della violenza, travestita da tutela.

Sempre in tema di questioni economiche, è significativo il ruolo che si vuole riconoscere alla Banca mondiale e al Fondo monetario:

«La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale dovrebbero operare insieme alle Nazioni unite e alle organizzazioni regionali o subregionali, per garantire che sia dato pieno appoggio a quegli stati che hanno fatto sforzi concreti per occuparsi di questioni di autorità, riconciliazione e riabilitazione e ricostruzione a lungo termine».

Si segnala anche un'osservazione opaca su un tema che non è abbastanza curato, quando si parla di interventi militari: tempi e modi del ritiro. L'ICISS argomenta:

«Le differenze negli obiettivi spesso emergono nelle discussioni sulla "exit strategy", in cui alcuni sottolineano la necessità di dedicarsi ai problemi fondamentali, e altri si concentrano sul ritiro al più presto possibile. Come un intervento davvero finisca, è sempre difficile da stabilire. Sfide inattese si presentano quasi di certo, e i risultati sono quasi sempre diversi da ciò che era previsto all'inizio».

Dulce bellum inexpertis, certo. Ma qui sembra che l'ICISS abbia scelto di non legarsi le mani con un criterio sicuro sulla durata degli interventi militari, e perciò di dare per scontata la possibilità di sorprese.

Un ultimo tema, su cui l'ICISS ha voluto esprimersi. Si tratta di una questione davvero determinante, quella mediatica:

«Per quanto riguarda i media, non c'è dubbio che un buon servizio, interventi d'opinione ben argomentati, e specialmente la trasmissione immediata di immagini di dolore producono pressione ad agire, sia interna che internazionale».

Ecco una chiara ammissione di volontà di governo dell'informazione. In proposito, Bricmont scrive:

«I governi occidentali, i media e le organizzazioni non governative, facendosi chiamare la "comunità internazionale", giudicheranno la responsabilità per una tragedia dell'umanità molto differentemente, se accade in un paese il cui governo è in cattivi rapporti con l'Occidente, o in uno stato amico» (7).

Sin qui, ciò che si vuole configurare sino al 2001.

In seguito, la formulazione della R2P non ha alcun effetto deterrente contro le brutali aggressioni all'Afghanistan e all'Iraq. Eppure, quelle aggressioni sono crimini degni del processo di Norimberga, illeciti atroci che i più consapevoli giuristi italiani hanno subito condannato (8). E invano, poco prima della guerra in Iraq, alla conferenza di Kuala Lumpur del febbraio 2003 i Paesi non allineati hanno ribadito l'importanza del multilateralismo, e denunciato l'eccessivo peso di pochi (9).

Successivamente, si colloca a marzo 2005 la delibera dell'Unione africana Ezulwini Consensus. Per quello che ci interessa, contiene un vago riferimento alla R2P, e queste parole:

«È importante ribadire il dovere degli stati di proteggere i loro cittadini, ma questo non dovrebbe essere usato come pretesto per minare la sovranità, l'indipendenza e l'integrità territoriale degli stati».

L'affermazione va considerata insieme alla convinzione che sia necessaria una maggiore democrazia economica su scala mondiale.

Quanto all'aspetto istituzionale, l'Unione africana chiede almeno due membri permanenti nel Consiglio di sicurezza, con diritto di veto. Contemporaneamente, vuole il rispetto della Carta di Algeri del 1976. Sono richieste che deludono gli auspici dell'ICISS, sia perché la proposta del 2001 vuole superare proprio il veto, sia perché la Carta di Algeri, scritta sull'onda della decolonizzazione, contiene principi contrari all'ingerenza. Il contrasto non è casuale. Il faticoso emergere degli Stati africani nel diritto internazionale, mentre tutto quel continente riceve dalla globalizzazione alcuni danni e scarsi benefici, è segnato dalla rivendicazione del principio di sovranità nella versione che gli Stati europei hanno formulato a loro vantaggio. La rivendicazione, perciò, si richiama al momento più vivace dell'emancipazione politica, quello in cui la rivoluzione cubana e la liberazione algerina hanno trionfato, e gli Usa subiscono la sconfitta in Vietnam. È ovvio che l'Unione africana voglia bilanciare con conquiste politiche degli anni Settanta gli effetti giuridici della globalizzazione successivi alla fine del blocco socialista, perché da questi ultimi non trae alcun vantaggio. Anche il tema dell'uso del veto, è connesso a questo. In proposito, Noam Chomsky osserva:

«Il periodo rilevante è dalla metà degli anni Sessanta, quando la decolonizzazione e la ripresa dopo le distruzioni belliche diedero alle Nazioni Unite almeno una certa posizione in rappresentanza dell'opinione pubblica. Da allora, gli Usa primeggiano largamente nell'uso del veto, la Gran Bretagna è seconda, nessun altro gli si avvicina neppure. Nell'ultimo quarto di secolo, la Cina e la Francia hanno bloccato col veto 3 risoluzioni, la Russia 4, la Gran Bretagna 10, e gli Usa 43, comprese persino risoluzioni che richiamavano gli stati all'osservanza del diritto internazionale» (10).

Nello stesso anno della delibera dell'Unione africana, a settembre, il 2005 World Summit Outcome approvato dall'Assemblea generale riconosce a carico di ogni stato la responsabilità di proteggere le sue popolazioni. Se i mezzi pacifici risultano inadeguati e le autorità nazionali non offrono protezione, può essere avviata un'azione collettiva, attraverso il Consiglio di sicurezza, in conformità alla Carta dell'Onu, in collaborazione con le organizzazioni regionali (11).

L'affermazione, importante nelle sue linee generali, non aggiunge in sostanza nulla di concreto alla Carta dell'Onu, se non appunto una diversa interpretazione della sovranità. Chomsky è esplicito: «l'accettazione da parte del Summit della retorica della R2P non aggiunge nulla di sostanzialmente nuovo» (12), e ribadisce: «la versione della R2P adottata dal Summit del 2005 afferma ciò che era già stato accettato, al massimo con un cambiamento di enfasi, che è il motivo per cui è stata adottata così facilmente» (13). E anche la rivista dei gesuiti, che pure è largamente favorevole alla R2P, come vedremo, sintetizza così l'esito del 2005 World Summit Outcome: «la responsabilità di proteggere non ha alcuna forza ed efficacia giuridica e politica se il Consiglio di sicurezza non intende applicarla caso per caso» (14). Va sottolineato che nei negoziati per il World Summit è intervenuto, in favore della R2P, il Vaticano (15).

La ragione della piega presa dalla R2P nel 2005, la spiega Bricmont:

«In realtà, non esiste una vera e propria comunità internazionale. L'intervento della Nato in Kosovo non è stato approvato dalla Russia e l'intervento della Russia nell'Ossezia del Sud è stato condannato dall'Occidente. Non ci sarebbe stata l'approvazione del Consiglio di sicurezza per nessuno dei due interventi. Recentemente, l'Unione africana ha rigettato la messa in stato d'accusa del presidente del Sudan da parte della Corte penale internazionale. Qualsiasi sistema di giustizia internazionale o di polizia internazionale, che sia la R2P o la Corte penale internazionale, ha bisogno di una relazione di uguaglianza e di un clima di fiducia. Oggi non c'è uguaglianza e non c'è fiducia fra Occidente e Oriente, fra Nord e Sud, in gran parte per effetto delle passate politiche degli Stati Uniti. Se vogliamo che una forma di R2P funzioni in futuro, prima abbiamo bisogno di costruire una relazione di uguaglianza e di fiducia» (16).

Proprio il 2005 World Summit Outcome viene richiamato nella risoluzione del Consiglio di sicurezza 1674 del 28 aprile 2006, sulla protezione dei civili nei conflitti armati. È una risoluzione generosa nei suoi principi, ma non altrettanto chiara.

Diventa più comprensibile quando è richiamata, sempre dal Consiglio di sicurezza, nella risoluzione 1706 del 31 agosto, sulla questione del Darfur. Ed ecco che il tema di una differenza insiemistica sottonazionale o transnazionale (un gruppo etnico, religioso, linguistico, o semplicemente sociale) prende corpo per l'applicazione di una teoria che legittima l'ingerenza, anche violenta. Va ricordato che proprio il Sudan ha subìto nel 1998 il bombardamento di un'industria farmaceutica (poi condannato dal Summit del Gruppo dei 77 all'Avana).

Due anni dopo, la R2P riceve un appoggio esplicito, peraltro da un'autorità che almeno dal 2005 ha lavorato in suo favore. All'Assemblea generale dell'Onu, il 18 aprile 2008, il papa dice:

«Il principio della "responsabilità di proteggere" fu considerato dall'antico jus gentium come il fondamento di ogni azione svolta dall'autorità nei confronti di coloro che essa governa: al tempo in cui il concetto di stato nazionale sovrano iniziava a svilupparsi, il religioso domenicano Francisco De Vitoria, considerato giustamente un precursore dell'idea di Nazioni Unite, descrisse questa responsabilità come un aspetto della ragione naturale condivisa da tutte le nazioni, e il frutto di un diritto internazionale» (17).

Dopo due giorni, interviene il direttore dell'«Osservatore romano» Giovanni Maria Vian:

«Vi è [...] una legge naturale iscritta nel cuore di ogni essere umano, fondata sull'origine comune delle persone [...]. Questa nuova "responsabilità di proteggere" deve riguardare tutti i diritti umani, e dunque anche quello alla libertà religiosa» (18).

Il papa crede di vedere la R2P agli albori dello jus gentium, Vian la considera nuova, entrambi la sostengono. Eppure, Vian fa riferimento a una «legge naturale», un aspetto che incontreremo due anni dopo.

A gennaio 2009, il Segretario generale dell'Onu approva il rapporto Implementing the responsibility to protect. Il documento è viziato da una certa approssimazione:

«Sulla base diritto internazionale vigente, assentito al più alto livello e approvato sia dall'Assemblea generale che dal Consiglio di sicurezza, le norme di cui ai paragrafi 138 e 139 del Summit Outcome definiscono il quadro autoritativo all'interno del quale gli stati membri, le organizzazioni regionali e il sistema delle Nazioni Unite possono cercare di dare una vita dottrinaria, politica e istituzionale alla responsabilità di proteggere».

Una questione opinabile, è presentata come quasi definita o in via di definizione. In realtà, il 2005 World Summit Outcome non innova il diritto internazionale. In più, il Segretario tratteggia questo sfondo storico:

«Il Ventesimo Secolo è stato segnato dall'Olocausto, dai campi di sterminio in Cambogia, dal genocidio in Ruanda e dalle uccisioni di massa a Srebrenica, gli ultimi due sotto gli occhi del Consiglio di sicurezza e del personale delle Nazioni Unite. [...] Della sovranità, caposaldo essenziale dell'era dello stato-nazione e delle stesse Nazioni Unite [...] si potrebbe abusare impunemente come scudo dietro il quale commettere violenza di massa contro le popolazioni?».

Citando fatti veri e atroci, si costruisce una tesi incerta. La diversità dei crimini, la loro distanza nel tempo e nello spazio, le numerose sfumature politiche appiattite in un elenco stringato, hanno il sapore di una narrazione accomodata, che sparpaglia la violenza per tre continenti. Va notata, oltre all'assenza degli altri due, la valutazione negativa del XX Secolo. È un elemento che sarà ripreso dal papa Ratzinger.

Comunque, malgrado il suo orientamento favorevole alla R2P, il Segretario la circoscrive:

«La responsabilità di proteggere si applica, sino a che gli stati membri [dell'Onu] decidano diversamente, solo a quattro crimini e illeciti specificati: genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l'umanità. Cercare di estenderla sino a coprire altro, come l'Aids, il cambiamento climatico o la risposta a disastri naturali, minerebbe l'intesa del 2005 e estenderebbe il concetto oltre la nozione riconosciuta o l'utilità operativa».

Questo limite sembra ufficializzare il mancato accoglimento da parte dell'Onu, nel 2008, della richiesta francese di un intervento in Myanmar, dopo un ciclone. Eppure, lo stesso limite sarà calpestato già a gennaio 2010, con la brutale invasione di Haiti, da parte degli Usa, col pretesto di un terremoto.

Ancora nel 2009, a giugno, nell'enciclica Caritas in veritate il papa Ratzinger riafferma l'appoggio alla R2P. È emblematico che nello stesso documento chieda «il governo della globalizzazione» (19). Ma adesso dobbiamo ricordare qualcosa.

Più volte il suo predecessore Wojtyla ha approvato la guerra, parlando sin dai primi anni Novanta di «intervento umanitario», «diritto d'intervento per la salvaguardia delle popolazioni», «reazione ferma e concertata». Rivolgendosi al Nato Defence College il 7 febbraio 1994 (cioè quando era già iniziata la liquidazione della Jugoslavia), Wojtyla è stato ancora più esplicito, chiamando l'istruzione militare «la vostra formazione e le vostre abilità professionali». In seguito, tutte queste sue affermazioni sono state notate con favore dalla rivista dei gesuiti, che le ha collegate alla presa di posizione del papa Ratzinger nel 2008 e ha sintetizzato così: «Nel catechismo della chiesa cattolica è implicita la dottrina della R2P» (20).

Riporto qui anche una presa di posizione che riguarda solo l'Italia. Ad agosto 2009, il ministro degli esteri Franco Frattini appoggia la R2P, chiamandola «grande principio che si è venuto affermando in campo internazionale», e scrivendo:

«Se c'è una convinzione che è ormai maturata nella coscienza internazionale, è che la sovranità statale non è più un fatto assoluto. [...] I governi non sono più attori esclusivi. Basti pensare alle organizzazioni internazionali, alle associazioni transnazionali della società civile, agli organismi ed autorità spirituali, oltre ovviamente alle grandi corporation economiche a vocazione globale» (21).

Frattini addirittura propone di non considerare democrazie i sistemi politici basati su elezioni, se non rispettano i diritti umani (chi sostiene tesi così, si riserva naturalmente di decidere cosa siano questi ultimi).

Il 14 settembre 2009, l'Assemblea generale dell'Onu approva una risoluzione in cui si limita a prendere atto del rapporto del Segretario generale e degli approfondimenti successivi, e decide di continuare a tenere in considerazione l'istituto. È un'affermazione che non aggiunge nulla.

Il 17 gennaio 2010, accade un fatto cui accenno perché ha importanza politica, e indirettamente giuridica. Nella sinagoga di Roma si incontrano il papa, numerosi chierici e rabbini, e i rappresentanti della Comunità ebraica di Roma e dell'Unione delle comunità ebraiche italiane (22). Quel giorno il papa ha anche un colloquio col vice primo ministro di Israele Silvan Shalom, ma il contenuto di quell'incontro non lo conosciamo (23). Vediamo allora alcuni aspetti dei discorsi pubblici (24).

Renzo Gattegna, presidente dell'Ucei, vuole un modello di diritto per tutti:

«La nostra generazione [...] si sente pronta ad affrontare le prossime sfide, di cui la principale sarà quella di contribuire ad instaurare nel mondo, per tutti, il rispetto dei diritti umani fondamentali».

Il rabbino Shemuel Riccardo Di Segni introduce l'idea di cura del creato, e dice:

«[Sull'ambiente] abbiamo delle visioni comuni e speciali da trasmettere. [...] Possiamo per questo condividere un progetto di ecologia non idolatrica, senza dimenticare che alla cima della creazione c'è l'uomo fatto a immagine divina. La responsabilità va alla protezione di tutto il creato, ma la santità della vita, la dignità dell'uomo, la sua libertà, la sua esigenza di giustizia e di etica sono i beni primari da tutelare».

Il papa esprime un giudizio drasticamente negativo sul XX secolo («un'epoca davvero tragica per l'umanità»), come ha già fatto l'anno prima il Segretario generale dell'Onu. Poi, sottolineando anche lui l'impegno per la «cura del creato», desume dai comandamenti la tutela dei diritti umani.

Nell'incontro in sinagoga pesa anche il tema dell'ambiente, e il giorno dopo la Commissione bilaterale del Vaticano e del Gran rabbinato di Israele svolge un convegno: «L'insegnamento cattolico ed ebraico sul creato e l'ambiente» (25). Ma c'è da chiedersi se il concetto di ambiente indichi in realtà lo spazio geopolitico, inteso come oggetto di controllo. E ciò, tenendo presente il contenuto del discorso del papa all'Assemblea generale dell'Onu nel 2008, e dell'enciclica Caritas in veritate del 2009. E anche l'insistenza di Ratzinger, nel messaggio per la giornata della pace 2010, sia sul concetto di custodia del creato, sia su quello di magistero della chiesa (26). Del resto, a gennaio 2010, nel discorso al corpo diplomatico, il papa ribadisce la necessità di protezione del mondo (27).

Nello stesso mese, rivolgendosi all'assemblea della Congregazione per la dottrina della fede (di cui è stato a lungo il prefetto), Ratzinger parla di diritto, dicendo che alcuni contenuti del cristianesimo «iscritti nel cuore dell'uomo, sono comprensibili anche razionalmente come elementi della legge morale naturale». Secondo il papa, quest'ultima «tocca uno dei nodi essenziali della stessa riflessione sul diritto e interpella ugualmente la coscienza e la responsabilità dei legislatori» (28). Due anni prima, il direttore dell'«Osservatore romano» ha scritto: «una legge naturale iscritta nel cuore di ogni essere umano». Va notata la somiglianza di linguaggio, con quella caratteristica espressione («iscritto nel cuore»). Ma vediamo la sostanza: siamo di fronte a una dura partita per la sistemazione simbolica della storia, e soprattutto per la definizione dell'esercizio giusto della violenza.

Sempre a gennaio 2010, va segnalato un nuovo intervento del ministro Frattini, che sull'«Osservatore romano», riportandosi all'enciclica Caritas in veritate e al messaggio per la giornata della pace, tratta di democrazia e di diritti umani (29). È rimarchevole, che su così ampie questioni un ministro della Repubblica italiana si esprima direttamente sul quotidiano del Vaticano.

Tutto l'impianto sin qui descritto è politicamente aggressivo. Riguarda in senso simbolico - ma a questo livello il diritto vive anche di simboli - il possesso del mondo e la conformazione della civiltà (quindi, il diritto-dovere di tutelarla con la violenza). Vi svolgono un ruolo determinante i diritti umani. La loro presenza è la prova di un'investitura che legittima la forza, la loro assenza è la prova della colpa. Sul tema, Bricmont scrive:

«L'ideologia dell'intervento umanitario è parte di una lunga storia di atteggiamenti occidentali nei confronti del resto del mondo. Quando i colonialisti occidentali giunsero sulle coste delle Americhe, dell'Africa o dell'Estremo Oriente, rimasero colpiti da ciò che noi adesso chiameremmo violazioni dei diritti umani, e che essi chiamarono "costumi barbari": sacrifici umani, cannibalismo, donne costrette a fasciarsi i piedi. Di volta in volta questa indignazione, sincera o artefatta, è stata usata per giustificare o coprire i crimini delle potenze occidentali» (30).

C'è anche da chiedersi quali siano davvero, i diritti umani. Di solito, sono quelli che torna comodo osservare violati a casa d'altri. Eppure, durante la campagna elettorale del 2010, a causa dei poteri criminali, lo scrittore Roberto Saviano ha definito l'Italia «un paese sotto assedio», e ha affermato la possibilità di un intervento dell'Osce, dell'Onu, della Comunità europea a tutela delle elezioni (31). Non sappiamo quali diritti fondamentali degli italiani avranno bisogno in futuro di un intervento dall'estero, e di che tipo. Non sappiamo neppure se si tratterà di un intervento per gli italiani, o contro di loro. Però va ricordato che nel 2002 c'è stata una visita in Italia di un osservatore dell'Onu, in tema di giustizia (32). Se fosse accolta la proposta di Frattini di non considerare democrazie i sistemi politici basati su elezioni, se non rispettano i diritti umani, a maggior ragione un paese come l'Italia, dove non solo le elezioni sono inquinate dalla criminalità, ma sono commesse gravi violazioni dei diritti umani (per esempio, è accaduto a Genova nel 2001), può aver bisogno di aiuto.

Comunque, non solo la proposta di Saviano non è stata accolta, ma non è stata risolta la situazione cui faceva riferimento. Anche uno scrittore coraggioso, ha mezzi esili.

Sono robusti, invece, quelli degli enti che sostengono la teoria della R2P. Si segnalano in particolare la International coalition for the responsibility to protect (ICRtoP), e il Global centre for the responsibility to protect (GCR2P). Le due organizzazioni hanno sede a New York.

Concludendo, la R2P è un istituto giuridico nato dentro una partita geopolitica e simbolica, con scopi che meritano le critiche dei più attenti osservatori. Alcuni li abbiamo già incontrati: Jean Bricmont, Noam Chomsky. In Italia, un altro è Danilo Zolo (33).

D'altra parte questa teoria, come i più efficaci strumenti ideologici, è connessa da un lato alla presenza di problemi veri, dall'altro alla facile propaganda di soluzioni immaginarie. Quindi è compito del giurista conoscerne le sfaccettature e non perdere di vista la realtà.


Note

*. Pubblicato su «Questione giustizia» 2010 n. 3.

1. S. Asfaw, G. Kerber, P. Weiderud (eds), The responsibility to protect: ethical and theological reflections, Geneva, 21-23 April 2005, Geneva, World Council of Churches, 2005; M. Banda, Crystallising R2P: the evolution, interpretation and implementation of the responsibility to protect, University of Oxford, 2006; R. Thakur, The United Nations, peace and security: from collective security to the responsibility to protect, Cambridge, Cambridge University Press, 2006; E. G. Wheeler, The responsibility to protect and alternative R2P authority: implications of new thinking on sovereignty, University of Toronto, 2006; E. Dash, The responsibility to protect: the application of leverage to deter or stop genocide, City College of New York, 2008; G. Evans, The responsibility to protect: ending mass atrocity crimes once and for all, Washington DC, Brookings Institution press, 2008; E. C. Luck, The responsible sovereign and the responsibility to protect, in J. W. Müller e K. P. Sauvant (eds), Annual Review of United Nations Affairs, Oxford, Oxford University Press, 2008; P. Niemela, The politics of responsibility to protect: problems and prospects, Helsinki, Erik Castren Institute of international law and human rights, 2008; A. J. Bellamy, Responsibility to Protect: the global effort to end mass atrocities, Cambridge, Malden, MA, Polity press, 2009; R. H. Cooper, J. Voinov Kohler (eds), Responsibility to Protect: The Global Moral Compact for the 21st Century, New York, Palgrave Mcmillan, 2009; C. Verlage, Responsibility to Protect: Ein neuer Ansatz im Volkerrecht zur Verhinderung von Volkermord, Kriegsverbrechen und Verbrechen gegen die Menschlichkeit, Tubingen, Mohr Siebeck, 2009; J. L. Cepero Aguilar, La responsabilidad de proteger: una amenaza para los países del Sur, tesi per l'Instituto Superior de Relaciones Internacionales Raúl Roa García, La Habana, 2010; J. Pattison, Humanitarian Intervention and the Responsibility to Protect, Oxford, Oxford University Press, 2010.

2. ICISS, The Responsibility to Protect: Report of the International Commission on Intervention and State Sovereignty, Ottawa, dicembre 2001, ISBN 0-88936-960-7. Le citazioni, da questo e da altri atti non in italiano, sono tradotte da me.

3. Declaration of the South Summit, 2000.

4. S. Cattori, La «responsabilità di proteggere»: la legittimazione dell'ingerenza?, 2010.

5. Nel testo dell'ICISS: right authority,just cause, right intention, last resort, proportional means, reasonable prospects.

6. E. J. Hobsbawm, Primitive Rebels. Studies in Archaic Forms of Social Movement in the 19th and 20th Centuries, trad. I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino, Einaudi, 1966, p. 44.

7. Statement by Professor Jean Bricmont to the United Nations General Assembly, 23.7.2009.

8. Sull'Afghanistan, l'appello Giuristi contro la guerra (tra i firmatari Ferrajoli, Gallo, Ippolito, La Valle, Palombarini, Pepino, Zolo) è in «Questione giustizia», 2002 n. 1, p. 203. Sull'Iraq, nell'editoriale Noi dichiariamo pace!, «Questione giustizia», 2002 n. 6, p. V, si legge: «Una guerra folle e insensata sta per travolgere il mondo [...] Se ci sarà guerra non sarà in nostro nome».

9. Kuala Lumpur declaration on continuing the revitalisation of the Non-Aligned Movement, 2003.

10. Statement by Professor Noam Chomsky to the United Nations General Assembly, 23.7.2009.

11. 2005 World Summit Outcome, 16.9.2005, paragrafi 138 e 139.

12. N. Chomsky, UN Address: Dialogue on the Responsibility to Protect, «ZNet, The Spirit of Resistance lives», 23.7.2009.

13. N. Chomsky, Kosovo, East Timor, R2P, and Ian Williams, «Foreign Policy in Focus», 17.8.2009.

14. L. Larivera, La «responsabilità di proteggere», «La civiltà cattolica», CLIX n. 3804 (20.12.2008), p. 553.

15. L. Larivera, La «responsabilità di proteggere», cit.

16. Statement by Professor Jean Bricmont, cit.

17. «L'Osservatore romano», 20.4.2008, p. 6.

18. G.m.v., La responsabilità di proteggere l'uomo, «L'Osservatore romano», 20.4.2008, p. 1.

19. Anche in un volume allegato all'«Osservatore romano», 8.7.2009.

20. L. Larivera, La «responsabilità di proteggere», cit. Lo stesso gesuita un anno prima ha ambiguamente riproposto l'inesistente diritto di rappresaglia: L. Larivera, Esiste un diritto di rappresaglia?, «La civiltà cattolica», CLVIII n. 3757 (6.1.2007), p. 13.

21. F. Frattini, Dare priorità ai diritti degli uomini, «Il Tempo», 15.8.2009, p. 1.

22. Mi permetto di rinviare al mio Ombre in sinachiesa, «Il Ponte», LXVI n. 4 (aprile 2010), p. 28.

23. C. Marroni, Shalom: segno positivo il papa in sinagoga, «Il Sole 24 Ore», 19.1.2010, p. 14.

24. Sull'«Osservatore romano», 18-19.1.2010, solo quello del papa è pubblicato per intero.

25. Cattolici ed ebrei insieme per la salvaguardia del creato e dell'ambiente, «L'Osservatore romano», 21.1.2010, p. 6.

26. «L'Osservatore romano», 16.12.2009, p. 4.

27. La custodia del creato fattore di pace e di giustizia, «L'Osservatore romano», 11-12.1.2010, pp. 7 e 8.

28. La legge morale naturale interpella la società e il diritto, «L'Osservatore romano», 16.1.2010, p. 8.

29. F. Frattini, La geopolitica di Benedetto XVI, «L'Osservatore romano», 8-9.1.2010, p. 5. Lo scritto è occasionato dalla presentazione di AA. VV., Quando il Papa pensa il mondo, Roma, Gruppo editoriale L'espresso, 2009, un libro inserito in una collana di «Limes».

30. Statement by Professor Jean Bricmont, cit.

31. R. Saviano, Servirebbe l'Onu per un voto onesto in quest'Italia, «la Repubblica», 20.3.2010, pp. 1 e 43.

32. I. J. Patrone, L'ispettore dell'Onu in Italia. Ovvero: un marziano a Roma, «Questione giustizia», 2002 n. 4, p. 944; v. anche G. Palombarini, La variabile indipendente. Quale giustizia negli anni Duemila, Bari, Edizioni Dedalo, 2006, p. 55.

33. D. Zolo, Il diritto seguirà: l'impostura del militarismo umanitario, in Tramonto globale. La fame, il patibolo, la guerra, Firenze, Firenze University Press; D. Zolo, Humanitarian Militarism?, in S. Besson, J. Tasioulas (eds), Philosophy of International Law, Oxford, Oxford University Press, entrambi di prossima pubblicazione (la cortesia dell'autore mi ha consentito l'anticipata lettura).