2010

Dal diritto internazionale al diritto cosmopolitico?
Riflessioni a margine de La democrazia nell'età della globalizzazione

Giuseppe Palmisano

Sommario: 1. La concezione del diritto internazionale "classico" e l'idea di un mutamento di paradigma del diritto internazionale, nel Capitolo XVI dei Principia iuris. - 2. Il diritto internazionale "classico": un sistema meramente pattizio volto a regolare relazioni bilaterali tra Stati? - 3. Il diritto internazionale "classico": un sistema basato sui soli rapporti di forza e su una libertà selvaggia di guerra? - 4. Il mutamento di paradigma in senso costituzionalistico: il sistema "Carta ONU/Dichiarazione universale dei diritti umani" come embrionale costituzione del mondo? - 5. Il sistema "Carta ONU/Dichiarazione universale dei diritti umani" come pactum subiectionis tendente a negare la sovranità degli Stati? - 6. La sovranità-indipendenza degli Stati come perdurante elemento strutturale e valore giuridico fondamentale del sistema internazionale. - 7. La sovranità statale come ostacolo decisivo ad un'evoluzione costituzionalistica del processo d'integrazione europea. - 8. Sulle presunte colpe della scienza giuridica internazionalistica. - 9. Auspicio finale.

1. La concezione del diritto internazionale "classico" e l'idea di un mutamento di paradigma del diritto internazionale, nel Capitolo XVI dei Principia iuris

Nel Capitolo XVI dei Principia iuris, intitolato «I livelli della democrazia. La democrazia nell'età della globalizzazione», Ferrajoli si occupa della dimensione internazionale del diritto, provando a valutarla alla luce del paradigma costituzionalistico da lui in precedenza elaborato e a prospettarne possibili sviluppi in un percorso di progressiva costruzione di una democrazia cosmopolitica. Le osservazioni e le proposte tratteggiate da Ferrajoli nel descrivere questo percorso possibile sono in gran parte condivisibili, anche se presentate in modo da non evidenziare adeguatamente le enormi difficoltà - non solo tecnico-giuridiche, ma soprattutto politiche e culturali - che si frappongono alla realizzazione di ciascuna di esse, si tratti vuoi del monopolio giuridico della forza e della messa al bando delle armi, vuoi della costruzione di una sfera pubblica mondiale e di istituzioni di garanzia capaci di regolare, controllare e far funzionare efficacemente una fiscalità sovranazionale o le prestazioni di beni sociali fondamentali (quali acqua, alimenti di base e farmaci essenziali).

Non è però sulla fattibilità o sulla credibilità delle soluzioni prospettate da Ferrajoli nell'ultima parte della sua opera che intendo svolgere qualche riflessione, bensì sull'idea che ne emerge del diritto internazionale e sulla lettura costituzionalistica di alcuni strumenti giuridici internazionali (quali la Carta ONU o la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948), l'adozione dei quali avrebbe determinato - nella visione di Ferrajoli - un mutamento di paradigma del diritto internazionale in senso appunto costituzionale e tendenzialmente federale.

Scopo dichiarato di Ferrajoli non è per la verità di proporre una teoria del diritto internazionale, né una sistemazione degli istituti attuali o trascorsi del diritto internazionale. Egli si pone piuttosto nella prospettiva della teoria di quella determinata esperienza giuridico-politica consistente nella democrazia costituzionale, riscontrando e auspicando sviluppi tipici di tale esperienza nella sfera internazionale, ormai caratterizzata - a suo avviso - da elementi embrionali di federalismo globale e da livelli sovranazionali di democrazia. In questo senso Ferrajoli non si pone dunque nel solco dei teorici del diritto del Novecento che hanno invece tentato d'inquadrare nel proprio sistema generale il fenomeno giuridico internazionalistico, approfondendone caratteristiche, strutture e contenuti, e affrontandolo talvolta come difficile banco di prova del proprio concetto di diritto. Penso, fra gli altri, a Santi Romano, Hans Kelsen, Alf Ross e Herbert Hart.

Ciononostante, nel rintracciarvi elementi di una costruzione giuridica in fieri di tipo democratico-costituzionalistico, e nel ritenere che l'inizio di tale costruzione (databile, secondo Ferrajoli, all'indomani della fine della seconda guerra mondiale) rappresenti un mutamento di paradigma del diritto internazionale, Ferrajoli mostra comunque di muovere da una certa idea di questo diritto e del paradigma caratterizzante l'esperienza giuridica internazionalistica precedente alla Carta delle Nazioni Unite.

Tale idea mi sembra, come tenterò di illustrare, piuttosto approssimativa ed imprecisa; e ciò finisce per rendere poco convincente - almeno agli occhi di un internazionalista, abituato a confrontarsi quotidianamente con gli sviluppi della realtà giuridica internazionale - anche la tesi del mutamento di paradigma (dal diritto internazionale ad un diritto cosmopolitico e ad un costituzionalismo globale). Più convincente si presenta infatti, a mio avviso, la tesi della continuità dell'attuale sistema giuridico internazionale rispetto al sistema precedente, caratterizzante non solo la prima metà del Novecento, ma risalente - nei suoi elementi strutturali essenziali - almeno alla prima metà del Seicento. Continuità, ma anche - ovviamente - evoluzione, soprattutto nei contenuti normativi e nella disciplina di alcuni strumenti di garanzia e attuazione del diritto.

L'idea del diritto internazionale "classico" da cui muove Ferrajoli è quella di un «sistema pattizio di relazioni bilaterali e paritetiche tra Stati sovrani», «basato sui soli rapporti di forza» (1). Poiché in tale sistema la guerra non sarebbe stata messa al bando, esso non avrebbe costituito un vero e proprio "ordinamento giuridico", ed in ultima analisi non andrebbe neppure considerato "diritto", dal momento che il diritto «si giustifica - nella cultura giuridica moderna - come rimedio al bellum omnium, grazie al quale si produce il superamento dello stato di natura nello stato civile. La pace è la sua intima essenza, e la guerra è la sua negazione o, quanto meno, il segno e l'effetto della sua assenza nei rapporti tra gli uomini, dei quali esprime il carattere pregiuridico e selvaggio» (2).

2. Il diritto internazionale "classico": un sistema meramente pattizio volto a regolare relazioni bilaterali tra Stati?

Molti rilievi potrebbero farsi a questa rappresentazione del diritto internazionale "classico", ma per brevità mi limito ad evidenziare due punti fondamentali. Il primo riguarda l'identificazione di tale diritto con un sistema meramente pattizio, del tutto dipendente dalla volontà reciproca dei consociati (gli Stati sovrani) e costituito da norme volte a disciplinare soltanto rapporti bilaterali.

Una simile rappresentazione trascura del tutto l'esistenza e l'importanza che da sempre ha avuto e continua ad avere, nell'esperienza giuridica della "società degli Stati", il diritto internazionale generale: un diritto non scritto, costituito in parte da norme formatesi a seguito di un processo di tipo consuetudinario, in parte dall'emergere fra gli Stati di una communis opinio iuris in ordine a determinati modelli comportamentali o di un'adesione comune a principi connaturati con le caratteristiche strutturali della società degli Stati, in parte ancora da norme e principi vigenti nella generalità degli ordinamenti giuridici interni e applicabili alla peculiare tipologia delle relazioni interstatali. Tale diritto da sempre - ovvero da almeno quattro secoli - costituisce una parte fondamentale del diritto internazionale, e proprio nel suo ambito vanno ricercate le norme che disciplinano molti settori e aspetti cruciali della vita della comunità internazionale (tanto da essere tuttora definito, da una parte della dottrina internazionalistica, il "diritto della coesistenza degli Stati"). Basti ricordare i principi e le norme riguardanti l'esercizio della sovranità territoriale e i limiti di tale sovranità (tra cui quelli attinenti al trattamento degli stranieri e degli Stati stranieri); o i principi sullo status e l'utilizzazione di spazi non sottoposti alla sovranità di alcuno Stato (per esempio, l'alto mare); o le regole riguardanti aspetti "istituzionali" delle relazioni internazionali, ad esempio la produzione giuridica e l'attuazione del diritto (quali le norme che disciplinano il diritto dei trattati, le forme e i contenuti della responsabilità internazionale da fatto illecito, il ricorso a contromisure o alla forza armata come mezzi di tutela dei propri diritti o di legittima difesa). Certo, alcuni di questi settori o aspetti hanno formato oggetto, soprattutto negli ultimi cinquant'anni, di "codificazione": non pochi trattati multilaterali aperti hanno cioè messo per iscritto la disciplina di alcuni di essi, rendendola vincolante - così come codificata - per gli Stati parti dei trattati medesimi. Sennonché, il fenomeno della codificazione (nei settori in cui si è avuto), pur comportando effetti rilevanti sul processo di formazione, di ricambio e sulla rilevazione del diritto internazionale generale, oltre che sul contenuto di molte norme non scritte, non ne ha determinato né un definitivo superamento come dimensione normativa, né una sostanziale riduzione di importanza. E ciò per una serie di motivi: ad esempio, perché a nessuno strumento di codificazione partecipano tutti gli Stati del mondo (anzi, la partecipazione è persino lungi, in molti casi, dall'essere numericamente o politicamente maggioritaria); e perché questi stessi strumenti affermano la propria non esaustività o completezza, lasciando spesso il compito di disciplinare le questioni volutamente (o involontariamente) non trattate proprio al diritto internazionale generale; e ancora perché essi contengono una disciplina che è comunque "cristallizzata" nel tempo, difficilmente emendabile o aggiornabile per rispondere alle mutate esigenze oggettive o all'evolversi della sensibilità giuridica e culturale. Sicché il diritto internazionale generale - diritto in potenziale continuo divenire - finisce non di rado per sopravanzare le soluzioni normative codificate e per imporsi, tra gli stessi Stati parti di uno strumento pattizio multilaterale, come sviluppo e superamento della disciplina codificata.

Non è ovviamente qui possibile addentrarsi nelle varie questioni riguardanti il diritto internazionale generale, inteso quale "diritto vigente non positivo". Mi permetto solo di ricordare che proprio a questo diritto - e non a quello pattizio - fa riferimento l'art. 10, co. 1, della nostra Costituzione, quando afferma che «l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute»; e che proprio nell'ambito del diritto internazionale generale si pongono le norme più importanti e inderogabili del diritto internazionale contemporaneo, le norme di ius cogens (sulle quali avrò modo di tornare tra breve). Detto questo, mi preme piuttosto sottolineare che non si tratta di un diritto pattizio: il fondamento della giuridicità delle norme del diritto internazionale generale non sta nell'incontro della volontà delle parti; né la loro vincolatività per lo Stato dipende dal fatto che questo le accetti in ragione delle reciproca accettazione di un altro o di più altri Stati.

In tal senso è dunque improprio rappresentare il diritto internazionale "classico" come «semplice insieme di patti bilaterali tra Stati sovrani» (3). Il diritto internazionale non è, e non è mai stato, soltanto questo: esso si è sempre contraddistinto per la vigenza anche di un'intelaiatura normativa - il diritto internazionale generale, appunto - valida per tutti i membri della società degli Stati (che fosse quest'ultima composta dalle sole, e numericamente poche, potenze europee affermatesi come indipendenti e sovrane nel periodo che va dalla metà del XV alla metà del XVII secolo, o che essa si componga invece delle due centinaia circa di Stati in cui l'umanità intera risulta oggi divisa.)

Con riferimento specifico a una simile peculiarità normativa, le concezioni generali, le sistemazioni teoriche e le interpretazioni di casi concreti elaborate e proposte, pur tra molte differenze, dai "padri" del diritto internazionale - da Francisco de Vitoria ad Alberico Gentili, da Francisco Suárez a Ugo Grozio, fino a Samuel Pufendorf e Johan Jacob Moser - (i quali, come ricorda Ferrajoli, avevano concepito la comunità internazionale «come una società di respublicae o civitates indipendenti ma soggette a un medesimo diritto delle genti» (4)) risultano ancora oggi, a mio sommesso avviso, molto più aderenti alla realtà giuridica delle relazioni internazionali di quanto non lo siano non solo le dottrine politiche contrattualistiche alla Hobbes o alla Locke, ma anche le concezioni elaborate, nell'ambito del positivismo giuridico statualistico o imperativistico, ad esempio da John Austin o da Georg Jellinek, sino a Heinrich Triepel e Dionisio Anzilotti.

A ciò va aggiunta un'ulteriore considerazione. Il diritto internazionale "classico" (così come quello attuale), nelle sue varie dimensioni normative - di tipo generale e di tipo pattizio - non si compone soltanto di norme volte a regolare rapporti bilaterali (o reciproci) tra Stati. Esso contempla anche norme destinate a disciplinare rapporti giuridici tra Stati di tipo "solidale", integralmente connessi tra loro (e non bilaterali o bilateralizzabili). Norme che pongono obblighi erga omnes (o erga omnes partes, nel caso di trattati multilaterali), al rispetto dei quali «tutti gli Stati possono considerarsi avere un interesse giuridico» (per usare la nota espressione della Corte internazionale di giustizia nella decisione del caso Barcelona Traction, del 1970), ovvero rispetto ai quali ogni violazione «è di natura tale da modificare radicalmente la situazione di tutti gli altri Stati cui l'obbligo è dovuto, per quanto attiene all'ulteriore esecuzione dell'obbligo stesso» (come recita l'art. 42, punto b, alinea ii, del testo sulla responsabilità degli Stati adottato dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, nel 2001).

Norme di questo tipo sono presenti nel diritto internazionale da tempi ben precedenti alla Carta ONU e, comunque, a prescindere dal presunto mutamento di paradigma che, secondo Ferrajoli, si sarebbe verificato - a seguito anche della Carta ONU - nel diritto internazionale. Per fare qualche esempio di vario genere, potrebbe farsi riferimento ad alcune norme relative alla libertà di navigazione negli stretti e nei canali internazionali, o a certe norme pattizie inserite nei trattati multilaterali conclusi, alla fine della prima guerra mondiale, sul trattamento delle minoranze, o ai trattati di disarmo o sulla limitazione degli armamenti, fino a risalire al principio - richiamato da Alberico Gentili - secondo cui sarebbe interesse giuridico dell'insieme degli Stati quello di impedire il realizzarsi con la guerra del dominio di una potenza sulle altre.

Certo, il numero e l'importanza di norme di tal genere sono sensibilmente aumentati nell'ultimo mezzo secolo, a seguito sia della crescente globalizzazione dei rapporti umani e delle relazioni interstatali, sia dell'emergere di valori condivisi oggetto di tutela giuridica internazionale. In quest'ultimo senso, le regole e i principi sui diritti fondamentali della persona umana, o sull'autodeterminazione dei popoli, o sulla messa al bando degli atti di aggressione o di genocidio - consolidatisi dopo l'adozione della Carta ONU - costituiscono senz'altro gli esempi più notevoli di norme internazionali (generali e/o pattizie) istitutive di obblighi erga omnes (o erga omnes partes).

Ciò che mi interessa evidenziare è però - ancora una volta - quanto sia impreciso e incompleto definire il diritto internazionale ("classico" o attuale che sia) come semplice insieme di patti bilaterali tra Stati sovrani.

3. Il diritto internazionale "classico": un sistema basato sui soli rapporti di forza e su una libertà selvaggia di guerra?

Il secondo punto su cui vorrei soffermarmi riguarda l'idea che il diritto internazionale pre-Nazioni Unite fosse un sistema «basato sui soli rapporti di forza» (5), in cui la guerra - intesa come forma di violenza selvaggia e sregolata (6) - sarebbe stata ammessa, e in cui lo ius ad bellum avrebbe costituito il principale attributo delle sovranità, elemento caratterizzante e addirittura fondante l'intero sistema di relazioni internazionali (7). E dal momento che lo ius ad bellum sarebbe «l'equivalente internazionale della libertà selvaggia dello stato di natura» (8), ciò significherebbe che il sistema di relazioni internazionali, da esso connotato, avrebbe costituito non già un diritto (o, quanto meno, un ordinamento giuridico), al tempo stesso segnale e mezzo del passaggio della comunità degli Stati allo "stato civile", bensì hobbesianamente uno "stato selvaggio" e "di natura", caratterizzato dall'assenza di diritto (9).

Anche sotto questo profilo la rappresentazione del diritto internazionale "classico" da cui muove Ferrajoli non risulta convincente. In particolare sembrano in essa confondersi i due piani distinti del politico-sociale e del giuridico. È vero infatti che la società degli Stati emerge storicamente e si afferma come ambiente sociale in cui coesistono una serie di centri unitari di potere e di governo, indipendenti e sovrani, ciascuno dei quali non riconosce nessuno degli altri come superiore a sé, e i quali non si assoggettano ad alcuna autorità costituita superiore, né ad istituzioni comuni sovraordinate. Ed è anche senz'altro vero che - sia per la natura degli enti-Stati, sia per l'assenza di un'organizzazione giuridico-politica della comunità internazionale - le relazioni tra questi enti spesso registrano, anche oggi, il ricorso alla guerra (o comunque ad un uso ostile della forza armata), rischiando di degenerare in una conflittualità duratura di portata regionale o addirittura mondiale.

Ma questo è il dato politico-sociale. Il dato giuridico è diverso; e diverso lo è stato sin dall'inizio dell'affermarsi del diritto internazionale. Anzi, direi che il "dover essere" espresso dalla società degli Stati - mediante l'emergere di norme di tipo consuetudinario e di diritto generale non scritto, o mediante la conclusione di trattati internazionali - è andato sin dall'inizio nella direzione di limitare la "libertà di guerra" e di disciplinare (con proibizioni, condizioni e adempimenti) la conduzione della guerra, e più in genere il ricorso alla forza armata nei confronti di un altro Stato. Ciò, quanto meno, al fine di impedire che la guerra potesse divenire lo strumento idoneo ad affermare la supremazia - l'autorità sovraordinata - di una potenza su tutte le altre, minacciando (fino a sovvertire) la struttura orizzontale e formalmente paritaria della società degli Stati, nonché al fine di limitare i pericoli per la sicurezza internazionale e per gli Stati non direttamente coinvolti nel conflitto.

In proposito è significativo che le prime grandi opere sistematiche di ricostruzione e approfondimento del diritto internazionale - opere che individuano ed enucleano propositivamente norme giuridiche, le quali saranno poi in gran parte considerate vigenti nei rapporti tra gli Stati - abbiano avuto ad oggetto principale proprio il problema e la limitazione della guerra. Mi riferisco in particolare al De iure belli di Alberico Gentili e al De iure belli ac pacis di Ugo Grozio. Sin da allora, e costantemente nel seguito dell'evoluzione dell'esperienza giuridica della società degli Stati, il "dover essere" espresso da questo ambiente sociale non è mai andato nel senso di ritenere consentita - e quindi legittima - la violenza internazionale selvaggia e sregolata. E nella misura in cui si è ammesso, nei rapporti tra Stati, il ricorso alla guerra, questa non è stata mai concepita ed ammessa in quanto uso arbitrario, selvaggio e sregolato della forza armata. In questo senso, la violenza selvaggia nei rapporti internazionali è stata sempre considerata vietata dal diritto internazionale, e il diritto internazionale - anche quello "classico" - si è senz'altro caratterizzato per essere regolazione dell'uso della forza, ed anzi ha sempre trovato nell'esigenza di tale regolazione una ragion d'essere fondamentale.

Beninteso, gli sviluppi più significativi in questa direzione si sono avuti, come ricorda Ferrajoli (10), a partire dalla fine del XIX secolo, col progressivo affermarsi per un verso del diritto umanitario dei conflitti armati (Convenzione dell'Aia del 1907, e poi - soprattutto - le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, con i due Protocolli addizionali del 1977) e, per altro verso, dell'obbligo per gli Stati di risolvere pacificamente le controversie internazionali e di astenersi dal ricorso alla forza armata nelle relazioni internazionali (ancora Convenzioni dell'Aia del 1899 e del 1907, Patto della Società delle Nazioni, Patto Briand-Kellog del 1928). Su quest'ultimo - cruciale - aspetto, Ferrajoli ha senz'altro ragione a ritenere, in linea peraltro con l'unanime dottrina internazionalistica, che il divieto assoluto di uso e minaccia dell'uso della forza armata nelle relazioni internazionali (con la sola eccezione del diritto di legittima difesa da un attacco armato), sancito - all'indomani dell'immane tragedia della seconda guerra mondiale - nell'art. 2, par. 4, della Carta ONU, e divenuto quindi principio fondamentale anche del diritto internazionale generale (come riconosciuto più volte dalla Corte internazionale di giustizia), costituisca il decisivo salto di qualità - e, auspicabilmente, di non ritorno - nel processo di limitazione e regolazione normativa dell'uso della forza compiuto dal diritto internazionale.

Tuttavia, questo processo di evoluzione normativa, e il risultato cui è giunto (la messa al bando della forza armata), si è realizzato in un contesto sociale che è rimasto strutturalmente immutato rispetto a quello westfaliano, affermatosi con la fine del Medioevo e la nascita degli Stati moderni: il contesto appunto della "società degli Stati", dell'insieme cioè delle comunità politiche organizzate - indipendenti e sovrane - in cui l'umanità è ancora divisa. Ancora questa "società" è un ambiente sociale che dimostra una fortissima refrattarietà a qualsiasi forma di organizzazione o di "verticalizzazione" giuridico-istituzionale che neghi o metta in discussione quella sovrana eguaglianza tra i suoi membri che continua a caratterizzare, sotto il profilo giuridico, la dimensione orizzontale delle relazioni internazionali. È con questo contesto strutturale che il divieto di guerra - cui pure sono soggetti tutti gli Stati, perché tutti soggetti al rispetto del diritto internazionale generale - deve fare i conti (non diversamente peraltro da qualsiasi precetto giuridico internazionale). Ed è semmai la perdurante assenza di organizzazione nella società degli Stati - della dimensione cioè della "sovra/sott'ordinazione istituzionale" - ad impedire che il diritto internazionale, ieri come oggi, si qualifichi come "ordinamento" giuridico, e non invece la (presunta) assenza di regolazione dell'uso della forza e di messa al bando della violenza selvaggia e sregolata.

4. Il mutamento di paradigma in senso costituzionalistico: il sistema "Carta ONU/Dichiarazione universale dei diritti umani" come embrionale costituzione del mondo?

Dicendo ciò lascio la parte dedicata ai rilievi critici sull'idea del diritto internazionale "classico" da cui muove Ferrajoli, per venire - sempre in breve e alla luce delle osservazioni precedenti - al mutamento di paradigma che, secondo Ferrajoli, si sarebbe avuto nelle relazioni internazionali a partire dall'istituzione dell'ONU, con la Carta di San Francisco e la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948. Precisamente, il diritto internazionale si sarebbe tramutato «in un ordinamento giuridico sovrastatale», costituito da un «contratto sociale, storico, e non metaforico», che «vale ad assoggettare tutti gli Stati, quale pactum subiectionis e non solo associationis», «la cui ragione sociale può ben identificarsi con la garanzia universale della pace e dei diritti umani» (11).

Se la rappresentazione del diritto internazionale "classico" proposta da Ferrajoli si caratterizza, a mio avviso, per una sorta di sottovalutazione di quel fenomeno giuridico, la rappresentazione del diritto dell'era delle Nazioni Unite si caratterizza invece - all'opposto - per una non condivisibile sopravvalutazione.

Non è ovviamente questa la sede per addentrarsi nella materia - complessa sul piano sia teorico che pratico - delle organizzazioni internazionali, della loro posizione e funzione nell'ambito più vasto delle relazioni internazionali e del diritto internazionale; diritto - quest'ultimo - in cui le organizzazioni internazionali trovano il fondamento della propria giuridicità e dal cui strumento normativo più tipico (l'accordo) sono costituite e regolate. Mi limiterò pertanto ad alcune osservazioni, in modo consapevolmente inadeguato, non sistematico e incompleto.

La prima osservazione riguarda la concezione della Carta delle Nazioni Unite (corredata dalla Dichiarazione universale del 1948 e dai due Patti sui diritti umani del 1966) come «sorta di costituzione embrionale del mondo» (12), nonché l'idea dell'ONU come struttura o quadro istituzionale - pur caratterizzato da vistose lacune, dall'assenza di adeguati strumenti di garanzia e da organi attualmente dotati di poteri ineffettivi - destinato a realizzare lo svolgimento di un processo di costituzionalizzazione mondiale e la trasformazione del diritto internazionale in un "ordinamento giuridico sovrastatale", connotato da vincoli tendenzialmente federali.

Certamente, la Carta delle Nazioni Unite fonda un'unione istituzionale di Stati, e l'ONU ha dunque - in quanto organizzazione - il suo statuto giuridico (la sua "costituzione") nella Carta di San Francisco. Indubbio è anche che la Carta regoli e organizzi, mediante la creazione e la disciplina del funzionamento degli organi dell'ONU, una parte ampia delle relazioni tra gli Stati membri e della loro cooperazione, parte comprensiva di aspetti cruciali riguardanti la sicurezza internazionale, la prevenzione dei conflitti e il mantenimento della pace. Corretto è pure ritenere che l'affermazione di alcuni principi fondamentali nella Carta ONU, nonché l'attività (non solo normativa) svolta per la loro tutela e il loro rafforzamento dagli organi delle Nazioni Unite, il continuo riconoscimento, la riaffermazione della loro validità e della loro importanza, nonché la diffusa osservanza concreta di tali principi da parte di tutti gli Stati (pur tra frequenti e gravi violazioni, e reazioni spesso inadeguate alle violazioni stesse), abbia contribuito in modo determinante ad arricchire di contenuti e valori il diritto internazionale generale, e ad elevare al livello di norme "cogenti" - inderogabili e tutelate in modo rafforzato - un certo nucleo di questi principi. Principi tra cui rientrano, con ogni probabilità, il divieto dell'uso della forza armata nelle relazioni internazionali (specialmente di qualsiasi uso aggressivo), il rispetto dell'autodeterminazione di qualsiasi popolo, la tutela dei diritti fondamentali e della dignità di ogni persona. Pertanto se proprio si volesse usare, in modo approssimativo, il concetto di "costituzione" per indicare il nucleo di valori che l'insieme dei membri di un certo ambiente sociale ritiene essenziale porre a fondamento della coesistenza nell'ambiente stesso, in vista della sicurezza e del benessere comune, potrebbe anche dirsi che la Carta ONU (corredata dai grandi trattati di codificazione dei diritti umani) abbia contribuito ad iscrivere nella "costituzione" della comunità internazionale (intesa, quest'ultima, come insieme di tutti gli Stati e delle altre distinte entità politiche in cui è articolata l'umanità) alcuni principi in precedenza non presenti in tale "costituzione".

Presentare però la Carta ONU (completata dalla Dichiarazione universale del '48 e dai Patti del '66) come una sorta di "costituzione embrionale del mondo", ossia dell'umanità intera concepita come insieme unitario, risulta davvero fuorviante. Una simile affermazione implica infatti una delle tre seguenti idee: - che il sistema normativo "Carta ONU/Dichiarazione del '48" sia stato il risultato voluto di un progetto politico che l'avrebbe posto come atto fondativo volto alla costruzione di un ordinamento giuridico integrato, sovranazionale e di progressivo dissolvimento della sovranità degli Stati; - ovvero che a prescindere dal progetto politico originario, o anche contro di questo, il processo innescato con l'adozione della Carta (e con la codificazione dei diritti umani) si sia nel tempo rivelato di costruzione di un simile ordinamento e di erosione della sovranità statale; - oppure ancora che, quantunque ciò non si sia ancora verificato, il dato normativo-istituzionale "Carta/Dichiarazione/ONU" sia comunque idoneo a dar vita ad un processo di tal genere.

Ebbene, nessuna di queste ipotesi risulta accettabile o convincente.

Quanto in particolare alla prima ipotesi, basta una conoscenza anche non specialistica del contesto e del processo politico alla base dell'adozione della Carta ONU e della Dichiarazione universale del '48 (per non dire dei lavori preparatori di questi documenti) per non avere alcun dubbio che gli Stati - o meglio le élites politiche e governative che li rappresentavano -, nel convenire (senza alcun mandato apposito proveniente dai rispettivi popoli) sulla necessità di regolare e organizzare una parte ampia e importante delle loro relazioni, mediante l'affermazione di precetti normativi e l'istituzione di organi e meccanismi decisionali, abbiano fermamente voluto evitare qualsiasi elemento che potesse dare adito alla costruzione o all'idea non solo di un super-Stato o di un ordinamento di tipo federale, ma anche soltanto di un'unione di tipo confederale con aspetti di integrazione effettiva (al di là dell'impegno statale di cooperazione, coordinamento e rispetto delle decisioni assunte nell'ambito dell'Organizzazione).

Questa ferma e condivisa scelta degli Stati fondatori dell'ONU, fatta propria da tutti gli Stati del mondo che via via hanno completato la membership dell'Organizzazione, si riflette inequivocabilmente nel testo della Carta. Per convincersene, basti ricordare alcune disposizioni-chiave della Carta. Secondo l'art. 1, par. 4, finalità delle Nazioni Unite è «costituire un centro per il coordinamento delle attività delle nazioni volta al conseguimento di ... fini comuni». Il primo principio giuridico sancito nella Carta (art. 2, par. 1) recita con estrema chiarezza: «l'Organizzazione è fondata sul principio della sovrana eguaglianza di tutti i suoi membri»; principio da cui deriva il fondamentale corollario secondo il quale «nessuna disposizione della presente Carta autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengano essenzialmente alla competenza interna (domestic jurisdiction) di uno Stato, né obbliga i Membri a sottoporre tali questioni ad una procedura di regolamento in applicazione della presente Carta» (art. 2, par. 7).

A ciò si aggiunga il determinante elemento negativo dato dall'assenza, in capo agli organi dell'ONU, di qualsiasi potere normativo, di governo o di garanzia (di tipo giurisdizionale o di altro genere) esercitabile nei confronti dell'umanità, della "società civile", di individui o di comunità, in aggiunta, in sostituzione, in coordinamento diretto, o in contrapposizione, rispetto a quelli delle istituzioni e delle autorità statali.

5. Il sistema "Carta ONU/Dichiarazione universale dei diritti umani" come pactum subiectionis tendente a negare la sovranità degli Stati?

Tutto ciò rende evidentemente inaccettabile, a mio avviso, qualificare l'accordo istitutivo dell'ONU, e fondativo - secondo Ferrajoli - di un nuovo paradigma giuridico delle relazioni internazionali, come pactum subiectionis, idoneo (o quanto meno tendente) a negare la sovranità statale (13). Così come sembra non aderente alla realtà ed euristicamente poco utile definire come «integrazione debole» (14) quella generata da un trattato come la Carta ONU o i Patti internazionali del '66 (e, a ben vedere, da qualsiasi trattato multilaterale o bilaterale), collocando tale presunta integrazione nella medesima categoria - ancorché ad un grado inferiore - delle integrazioni "forti", generate dall'istituzione di ordinamenti federali, o di modelli confederali caratterizzati da elementi di effettiva integrazione normativa e di governo (unificante l'insieme delle comunità umane sottostanti ai corrispondenti Stati nazionali o plurinazionali).

I due fenomeni non sono infatti collocabili su un piano omogeneo, e lo iato che separa i due livelli è determinato proprio dall'assenza, nel modello "ONU/Dichiarazione universale", di qualsiasi superamento o negazione (anche solo parziale) della sovranità statale.

Dicendo ciò, mi riferisco evidentemente alla sovranità dello Stato intesa come indipendenza politica, come condizione di ente superiorem non recognoscens, che non riconosce cioè alcuna autorità costituita legittimata a determinarne, condizionarne o imporne il modo di essere, l'organizzazione interna, l'organizzazione della vita sociale della comunità ad esso sottostante, o ad affiancarsi o sostituirsi ad esso nel governo - in senso lato - di tale comunità, né tanto meno a determinare giuridicamente (legittimare) la distinta identità ed esistenza dell'ente (e quindi la sua soggettività) in quanto membro della comunità internazionale.

È questo infatti sul piano internazionale - come viene particolarmente evidenziato, nella dottrina internazionalistica italiana, da Gaetano Arangio-Ruiz - il significato fondamentale della sovranità degli Stati, e non già - come lo intende invece Ferrajoli - quello di libertà da vincoli giuridici, di essere cioè legibus soluti. In questo secondo senso la sovranità degli Stati, sul piano internazionale, non ha affatto cominciato a dissolversi con la Carta delle Nazioni Unite (e nemmeno soltanto «con lo sviluppo dello stato costituzionale di diritto», come osserva Ferrajoli con riferimento alla dimensione "interna" della sovranità (15)): piuttosto essa, a ben vedere, non è mai esistita. O meglio il suo venir meno ha coinciso con lo stesso affermarsi - all'inizio dell'età moderna - della società degli Stati e del diritto internazionale "classico". Sin da allora gli Stati non sono stati "sovrani" in questa accezione del termine. Essi sono invece sempre stati soggetti al diritto internazionale, e non sono mai stati esenti dagli obblighi derivanti dalle norme di tale diritto, che fossero norme di diritto internazionale generale ovvero norme pattizie, stipulate in virtù di accordi bilaterali o multilaterali, istitutive di obblighi reciproci oppure erga omnes. Con la Carta ONU e con i trattati di codificazione dei diritti umani non si è dunque avuto, da questo punto di vista, alcun mutamento di paradigma. Soltanto - e non è poco - si è avuto un notevole aumento per gli Stati degli obblighi giuridici concernenti la soluzione delle controversie, il divieto di ricorso alla forza armata, il trattamento degli individui (ivi compresi i propri sudditi), il trattamento di popoli e altri gruppi etnico-culturali, nonché uno sviluppo - meno notevole - dei meccanismi volti a garantire il rispetto statale di tali obblighi.

Al contrario, nessuna evoluzione rilevante è stata prevista o si è avuta nella direzione del superamento dell'altra dimensione della sovranità statale (la sovranità-indipendenza), che - come ho detto - è in realtà l'unica significativa agli effetti della valutazione di un eventuale mutamento di paradigma (avvenuto o in corso) nel sistema giuridico-politico delle relazioni internazionali.

6. La sovranità-indipendenza degli Stati come perdurante elemento strutturale e valore giuridico fondamentale del sistema internazionale

A dimostrazione di ciò è esemplare la sorte del c.d. sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite. Era questo, in effetti, l'unico punto nella Carta di San Francisco in cui fosse prevista una qualche apertura nel senso dell'integrazione effettiva tra gli Stati membri, e tra gli Stati e l'Organizzazione. Mi riferisco ovviamente alla previsione di una disponibilità diretta di forze armate da parte dell'ONU, al fine - come ricorda Ferrajoli (16) - di porre in essere, quando necessario, le operazioni coercitive di mantenimento della pace, ai sensi dell'art. 42 della Carta.

Com'è noto, le disposizioni riguardanti questa disponibilità non hanno mai trovato attuazione. E, a meno di non peccare di superficialità nell'analisi, è chiaro che la causa di ciò non sta nella particolare congiuntura delle relazioni interstatali che a lungo hanno visto la netta contrapposizione tra blocchi di potenze e la c.d. guerra fredda, e neppure nel meccanismo decisionale "ineguale" caratterizzante il funzionamento del Consiglio di sicurezza dell'ONU. A vent'anni dalla caduta del muro di Berlino, risulta più che mai evidente che la ragione di questo mancato sviluppo va individuata proprio nella cultura - nel valore - della sovranità-indipendenza dello Stato: cultura e valore non solo radicati ancora saldamente nelle élites che alimentano gli apparati di potere e di governo di tutti gli Stati del mondo (quale più, quale meno), ma diffusi anche nell'opinione pubblica, nella società civile di tutte le parti del mondo, così come nelle convinzioni e nelle aspirazioni identitarie dei popoli e della maggior parte dei gruppi etnico-culturali.

L'attuale sistema giuridico delle relazioni internazionali considerato nel suo complesso - comprensivo delle importanti (ma certo ancora insufficienti) novità di contenuti e procedure introdotte a partire dalla Carta ONU, con la codificazione dei diritti umani, con la creazione di istituzioni di garanzia e di tutela giurisdizionale dei diritti individuali, con l'istituzione di agenzie specializzate attive nel campo della cooperazione economica, sociale, finanziaria, delle comunicazioni, di tutela dell'ambiente, di polizia e giudiziaria penale, di contrasto al terrorismo, e così via -, tale sistema, pur molto evoluto rispetto a sessant'anni fa, continua in definitiva a basarsi e svilupparsi nel segno, e nel paradigma, della sovranità statale e della refrattarietà a qualsiasi pactum subiectionis che implichi una rinuncia o una negazione di tale sovranità.

Per questo motivo sembra del tutto fuori luogo - come ammette lo stesso Ferrajoli (17) - rappresentare l'evoluzione dell'ordinamento internazionale in modo analogico a quello del costituzionalismo statale (secondo una domestic analogy che è piuttosto, per usare un'espressione cara a Ferrajoli, una "fallacia domestica"). Ma altrettanto non convincente e fuorviante è vedere in tale evoluzione i segni di un cammino nel senso di un costituzionalismo cosmopolitico e di un'integrazione globale di tipo tendenzialmente federale (per quanto multilivello). E ancor meno convincente risulta paragonare la fase attuale di questo presunto processo «a quello che sarebbe un ordinamento statale dotato soltanto della costituzione e di poche istituzioni sostanzialmente prive di poteri» (18). In tal modo si ricade ancora, con piena evidenza, nella fallacia domestica, così come vi si ricade raffigurando in modo alquanto riduttivo l'ineffettività dell'attuale ordinamento internazionale come «mancanza di quelle che potremmo chiamare le leggi di attuazione» della già esistente embrionale costituzione del mondo (19).

Il problema fondamentale è piuttosto che l'attuale sistema giuridico internazionale non si è formato e non è stato neppure embrionalmente reimpostato, dopo la seconda guerra mondiale, al fine di (o in modo da) indirizzare l'evoluzione della convivenza e dell'organizzazione politico-giuridica dell'umanità nel senso di un'integrazione globale connotata dai caratteri di una democrazia costituzionale. Esso continua ad essere il sistema giuridico della "società degli Stati", e continua ad essere strutturalmente condizionato dall'assetto non organizzato di tale società e dalla non integrazione dell'umanità (ancora divisa nelle varie comunità politiche organizzate, corrispondenti grosso modo all'insieme dei vari Stati del mondo) in un contesto o processo politico unitario, ancorché federato. Né l'attuale sistema internazionale - pur sicuramente arricchitosi, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, di contenuti normativi e strumenti giuridici - si è finora rivelato o si sta rivelando il motore o la cornice di un simile processo di integrazione, in particolare nella direzione di un costituzionalismo cosmopolitico.

Certo, nulla esclude che nei tempi lunghi - per dirla con Ferrajoli (20) - il sistema normativo-istituzionale "Carta di S. Francisco/Dichiarazione universale dei diritti umani/ONU" evolva in qualcosa che finora non v'è stato e neppure ha cominciato ad esistere, avviando progressivamente le relazioni interstatali e il cammino dell'umanità nella direzione di un ordinamento politico-giuridico qualificabile come "democrazia cosmopolitica". Tutto può essere, e solo il seguito della storia del secolo iniziato ormai da un decennio potrà dirlo. Ma qui usciamo, a mio sommesso avviso, dal campo scientifico della teoria del diritto e della democrazia, per entrare in quello metaforico della profezia e delle teorizzazioni prospettiche senza aderenza alla realtà (e alla realtà giuridica innanzitutto).

Se invece, senza scivolare nel realismo deteriore, si vuole mantenere una qualche aderenza alla realtà - e, lo sottolineo, alla realtà giuridica, alla realtà cioè non dell'"essere" (del mero "fatto") di una determinata struttura o ambiente sociale, bensì alla realtà del "dover essere" espresso da un certo ambiente sociale considerato nel suo insieme - allora non può non dubitarsi seriamente che, a partire dal (e in virtù del) sistema "Carta di S. Francisco/Dichiarazione universale dei diritti umani/ONU", il diritto internazionale abbia davvero mutato paradigma e che l'umanità abbia intrapreso, più o meno consapevolmente, "le magnifiche sorti e progressive" della democrazia cosmopolitica.

7. La sovranità statale come ostacolo decisivo ad un'evoluzione costituzionalistica del processo d'integrazione europea

A mo' di controprova di quanto sia improbabile una simile lettura del sistema giuridico internazionale post-Carta ONU, e della sua evoluzione prospettica, può considerarsi l'incerta parabola della costruzione giuridica dell'Unione europea, alle prese con il difficile rilancio tentato dal Trattato di Lisbona.

È senz'altro vero, come dice efficacemente Ferrajoli, che quello dell'Unione europea è «il più grande esperimento politico dell'ultimo mezzo secolo» (21), mediante il quale si sta realizzando al livello regionale europeo un processo di integrazione e di progressiva costruzione di un ordinamento con caratteri di sovranazionalità e tendenzialmente federale. Ed è anche vero che nell'ambito di tale processo gli Stati membri si stanno dimostrando disponibili a mettere in discussione la rispettiva sovranità - non solo la sovranità-libertà, ma anche la sovranità-indipendenza - al fine di costruire appunto un ordinamento con caratteri di sovranazionalità.

Eppure, è molto significativo che anche in questo contesto di avanzata integrazione continentale, il paradigma costituzionalistico e il concetto stesso di "costituzione", evocante inevitabilmente il modello di integrazione statale tipico delle democrazie costituzionali e degli Stati federali, non riesca ad affermarsi e ad occupare un proprio spazio, ma riceva anzi un'accoglienza diffidente o addirittura ostile, al livello non solo governativo ma anche di società civile e di opinione pubblica.

Ne è chiara dimostrazione il fallimento del Trattato c.d. costituzionale (più precisamente "Trattato che adotta una costituzione per l'Europa", firmato a Roma nell'ottobre 2004, ma mai entrato in vigore e oggi sostanzialmente abbandonato). Per le modalità del percorso che avevano portato alla sua stesura, per la sua strutturazione interna, per alcune importanti novità terminologiche e di contenuto (tra cui l'inserimento della Carta europea dei diritti fondamentali), per la stessa ambiziosa denominazione scelta come titolo del trattato, quello avrebbe dovuto essere, in effetti, l'atto della svolta definitivamente costituzionalistica nel cammino dell'integrazione europea. Ed invece, a seguito - com'è noto - della bocciatura ricevuta nelle consultazioni popolari svoltesi in Francia e Olanda (cui si sarebbe aggiunta con ogni probabilità un'ulteriore bocciatura in altre consultazioni popolari nazionali previste dopo quella francese ed olandese), nonché della successiva esplicita presa di distanze di alcuni governi, e dei timori e delle perplessità diffuse sulla scelta di intraprendere un cammino d'integrazione più impegnativo in coincidenza con l'allargamento dell'Unione agli Stati dell'Europa orientale, questa svolta non c'è stata. Anzi, la parola d'ordine che ha contraddistinto la strategia d'uscita dalla crisi causata dal fallimento del Trattato del 2004, e che ha condizionato fortemente i contenuti del Trattato di riforma di Lisbona (entrato in vigore nel dicembre 2009), è stata per l'appunto "decostituzionalizzare" il processo d'integrazione.

Mi sia permesso riportare in proposito l'apertura del documento adottato dal Consiglio europeo di Bruxelles del giugno 2007, contenente il mandato della Conferenza intergovernativa (non più una "Convenzione" allargata, come invece era stato per la preparazione del Trattato costituzionale) incaricata di predisporre il testo del nuovo trattato:

«La Conferenza intergovernativa (Cig) è invitata ad elaborare un trattato che modifichi i trattati esistenti allo scopo di rafforzare l'efficienza e la legittimità democratica dell'Unione allargata nonché la coerenza della sua azione esterna. Il progetto costituzionale, che consisteva nell'abrogazione di tutti i trattati esistenti e nella loro sostituzione con un unico testo denominato "costituzione" è abbandonato» (par. 1). E ancora: «Il Trattato sull'Unione europea e il Trattato sul funzionamento dell'Unione non avranno carattere costituzionale. La terminologia utilizzata in tutto il testo dei trattati rispecchierà tale cambiamento: il termine "Costituzione" non sarà utilizzato, il "ministro degli affari esteri dell'Unione" sarà denominato Alto Rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, e i termini "legge" e "legge quadro" saranno abbandonati mentre i termini attuali "regolamenti, "direttive" e "decisioni" saranno mantenuti. Parimenti, i trattati modificati non conterranno alcun articolo che faccia riferimento ai simboli dell'UE quali la bandiera, l'inno o il motto. Per quanto riguarda il primato del diritto dell'UE, la Cig adotterà una dichiarazione contenente un richiamo alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell'UE» (par. 3.).

Gli effetti di questa "decostituzionalizzazione" (rispetto alla struttura e ai contenuti del trattato del 2004) sono presenti con evidenza nel Trattato di Lisbona. Mi limito ad alcuni esempi.

Innanzitutto, per il titolo del Trattato - o meglio dei due trattati - si è scelto un tenore per così dire dimesso: "Trattato sull'Unione europea" (TUE, come già in precedenza, a partire dal Trattato di Maastricht) e, al posto del Trattato istitutivo della Comunità europea, il nuovo "Trattato sul funzionamento dell'Unione europea" (TFUE). Ovviamente, la parola "costituzione europea" è scomparsa da qualsiasi disposizione dei due trattati. La Carta europea dei diritti fondamentali (la c.d. Carta di Nizza) non è diventata parte integrante del testo dei trattati; piuttosto, l'art. 6, par. 1, del TUE si limita a farvi un rinvio e ad affermarne il valore giuridico. Non è sancito espressamente (come invece faceva il trattato "costituzionale") il principio del primato del diritto dell'Unione sul diritto degli Stati membri; a tale principio si fa soltanto riferimento in una dichiarazione della Cig allegata ai trattati. Non si parla (come invece si faceva nel trattato "costituzionale") di "leggi" europee, ma ci si limita a parlare di atti adottati con "procedura legislativa ordinaria" (art. 294 TFUE). È poi aumentata sensibilmente l'enfasi attribuita agli aspetti legati alla sovranità e all'identità nazionale degli Stati membri. Mi riferisco non tanto al diritto per gli Stati membri di recedere dall'Unione (previsto ora espressamente nell'art. 50 del TUE), quanto all'aggiunta dell'affermazione - non presente nelle versioni precedenti dei trattati - secondo cui «l'Unione rispetta l'uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale» (art. 4, par. 2, del TUE). E mi riferisco anche alla nuova formulazione del principio di attribuzione delle competenze, ora molto più esplicita nell'affermare i limiti dell'Unione e il primato della sovranità statale: «In virtù del principio di attribuzione, l'Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei trattati appartiene agli Stati membri» (art. 5, par. 2, del TFUE).

I pochi e inadeguati esempi ora richiamati danno un'idea di quanto il paradigma costituzionalistico stenti ad affermarsi nella costruzione di una realtà politico-giuridica nuova e originale che, pure, è incontestabilmente predisposta e orientata nel senso dell'integrazione e di un federalismo multilivello, e che mette insieme Stati e popoli "vicini", relativamente omogenei sotto molti punti di vista.

Evidentemente, le difficoltà che un simile paradigma (anche secondo modelli meno analoghi a quello statale di quanto non sia il modello europeo) si addica e si affermi al livello mondiale, tra Stati e popoli profondamente diversi e "lontani" (soltanto una minoranza dei quali - tra l'altro - caratterizzati da un'esperienza politico-giuridica interna di democrazia costituzionale), e per di più nel contesto di un sistema - il sistema "Carta delle Nazioni Unite/Dichiarazione universale dei diritti umani/ONU" - assolutamente non impostato né evoluto nel senso dell'integrazione e della sovranazionalità, tali difficoltà sono immensamente e incommensurabilmente maggiori di quelle, già non indifferenti, che si stanno riscontrando nell'esperimento ristretto, pienamente consapevole e ampiamente condiviso (da popoli ed élites governative), dell'integrazione europea.

Al di là dell'esercizio meramente teorico di applicazione del paradigma costituzionalistico al sistema delle relazioni internazionali, la realtà è che di una «rifondazione democratica dell'ordine internazionale»- come a malincuore è costretto a riconoscere lo stesso Ferrajoli - «non si intravedono i segni» (22). E aggiungo che segni affidabili in questo senso non potranno vedersi finché la sovranità-indipendenza degli Stati sarà viva e vitale, e finché forte, diffusa e radicata sarà la convinzione dell'importanza sociale fondamentale della sovranità statale e dell'organizzazione delle varie comunità nazionali (o etnico-culturali) del mondo in Stati distinti. Ciò perché, come Ferrajoli sa bene, la sussistenza della sovranità statale (della sovranità di tutti gli Stati, e non solo degli Usa o degli Stati pro tempore più potenti o egemoni) «è logicamente incompatibile con qualunque "ordinamento" internazionale, ancor prima che con qualunque ipotesi di democrazia cosmopolitica» (23).

8. Sulle presunte colpe della scienza giuridica internazionalistica

Da ultimo, mi sia consentito una piccola doléance di categoria. La doléance riguarda il giudizio sommario e poco lusinghiero che Ferrajoli rivolge alla categoria, appunto, degli internazionalisti. Secondo Ferrajoli, «la scienza giuridica internazionalistica, dopo tre secoli di diritto internazionale pattizio, non ha ancora aggiornato le sue categorie e non si è ancora liberata da quella insicurezza di sé, quasi un complesso d'inferiorità scientifica e giuridica, che la porta troppo spesso a svalutare la nuova dimensione normativa del diritto internazionale e ad appiattirla ancora, secondo il vecchio insegnamento di Alberico Gentili e di Ugo Grozio, sull'effettività dei rapporti di forza tra gli Stati» (24).

Prima di entrare nel merito di alcuni punti di questo giudizio, mi chiedo sinceramente che senso abbia una valutazione così generica, indiscriminata e priva di "prove a carico" nei confronti sia delle centinaia e centinaia di studiosi che per quasi quattro secoli si sono dedicati all'analisi della dimensione internazionale del diritto, sia delle migliaia di studiosi di tutto il mondo che attualmente vi dedicano i loro sforzi e le loro ricerche. Un giudizio del genere sarebbe forse accettabile (seppur non condivisibile) alla luce di un esame adeguato della letteratura internazionalistica passata e presente, espressa dalle varie culture e scuole giuridiche che, sparse per il mondo, si occupano di diritto internazionale, nonché tenendo conto delle differenze - talvolta molto profonde - di approccio, metodo, contenuti, ricostruzioni e proposte, che articolano la dottrina internazionalistica. Tale esame nei Principia iuris non c'è; né emerge - per quanto mi consti - in altre opere di Ferrajoli. Sicché la valutazione formulata nel passo ora riportato ha tutto il sapore di un pregiudizio, e non di un giudizio scientifico (la cui presenza - tra l'altro - non mi sembra aggiungere qualcosa o giovare in qualche modo al ragionamento svolto da Ferrajoli).

Detto ciò, è difficile esprimere un commento o una replica a un (pre)giudizio così sommario e poco argomentato. Posso solo tentare qualche riflessione.

Innanzitutto, quanto all'affermazione secondo cui la scienza giuridica internazionalistica non avrebbe aggiornato le sue categorie, posso rassicurare Ferrajoli che - come in tutti gli ambiti della scienza giuridica - nella dottrina internazionalistica un simile aggiornamento c'è, c'è sempre stato ed è costante. Talvolta (e in certi settori) è rapido; talaltra (e in altri settori) è più lento e ponderato. E ovviamente esistono categorie concettuali e idee che resistono da secoli, come del resto sono proprio la filosofia e la teoria del diritto ad insegnarci.

Se poi la necessità dell'aggiornamento richiesto da Ferrajoli si riferisse all'applicazione di categorie concettuali e di paradigmi di tipo costituzionalistico alla dimensione internazionale del diritto, va ricordato che - non da ieri, ma da oltre sessant'anni - una parte della dottrina internazionalistica si cimenta in chiavi di lettura costituzionalistiche del diritto internazionale e della sua evoluzione verso un possibile "diritto pubblico dell'umanità". Basti ricordare gli autorevoli contributi scientifici in tal senso di maestri del passato quali George Scelle e Alfred Verdross. E va riconosciuto che approcci di tal genere continuano a riscuotere un certo successo, specie in parti della scuola internazionalistica francese e tedesca, nonostante le critiche serrate portate nei loro confronti dalla dottrina prevalente (specie in Italia e nel mondo anglosassone).

Quanto poi alla diagnosi psicanalitica di "insicurezza di sé" e di "complesso di inferiorità", riferita alla scienza giuridica internazionalistica, pur confessando la mia incompetenza nel campo della psicologia della scienza, mi permetto un'osservazione. Effettivamente, la lettura di molti lavori e studi prodotti dagli internazionalisti (e, in genere, dei migliori tra questi studi e lavori) può destare un'impressione di dubbiosa insicurezza, nel senso di tendenza a problematicizzare i risultati raggiunti, difficilmente dati per inconfutabili, ma quasi sempre ritenuti suscettibili di essere rimessi in discussione, precisati, rivisti o addirittura capovolti. Ciò è in parte dovuto, oltre che alla ovvia e condivisibile attitudine a problematicizzare la propria indagine (che immagino sia comune a tutte le aree della scienza giuridica), alla natura sui generis, particolarmente complessa e sfuggente, dell'oggetto di studio prescelto - il fenomeno giuridico internazionale - che ben poco si presta alle schematizzazioni, alle classificazioni e ai "paradigmi" di qualsiasi genere, specie a quelli desunti dallo studio degli ordinamenti giuridici interni.

In positivo, questo fatto determina peraltro negli internazionalisti (di solito) una notevole accuratezza e un elevato livello di approfondimento nello studio della prassi giuridicamente rilevante, così come un'attenzione e un confronto molto scrupolosi rispetto alle possibili ipotesi teoriche e alle varie teorizzazioni dottrinali. Tanto che l'importanza e il ruolo della dottrina internazionalistica vengono riconosciuti espressamente nello Statuto della più importante e autorevole giurisdizione internazionale - la Corte internazionale di giustizia - la quale, nel risolvere le controversie internazionali secondo il diritto internazionale, è chiamata ad applicare, tra l'altro, «la dottrina degli autori più qualificati delle varie nazioni come mezzo sussidiario per la determinazione delle norme giuridiche» (art. 38, par. 1, d, dello Statuto allegato alla Carta ONU).

Quanto infine alla "svalutazione della nuova dimensione normativa del diritto internazionale" e all'"appiattimento sull'effettività dei rapporti di forza", che Ferrajoli addebita alla scienza giuridica internazionalistica, anche qui credo sia necessaria qualche precisazione.

Innanzitutto, mi sembra fuori bersaglio il riferimento ad Alberico Gentili e Ugo Grozio, quali antichi esempi di un simile atteggiamento scientifico. Al contrario, proprio i due "padri" del diritto internazionale possono a giusto titolo considerarsi gli apripista di quel giusnaturalismo razionalista volto ad impedire che il sistema giuridico delle relazioni internazionali si trasformasse nella consacrazione della "legge del più forte", e che avrà il suo culmine massimo nell'opera di Kant.

Ma a parte ciò, esistono indubbiamente nella dottrina internazionalistica, passata e presente, scuole di pensiero e filoni interpretativi che tendono a sopravvalutare la rilevanza normativa della prassi e del principio di effettività, finendo talora per far coincidere il diritto internazionale con l'organizzazione assunta in fatto dalla società degli Stati e, in definitiva, con le scelte politiche che le potenze egemoni riescono di volta in volta ad imporre. Scuole di pensiero e filoni interpretativi, anche molto diversi tra loro, che attingono più o meno consapevolmente da un cocktail variegato di idee e spunti teorici, traendo ispirazione, ad esempio, dall'Ideologia tedesca di Marx fino allo Ius publicum europaeum di Carl Schmitt, dal realismo politico nelle sue varie versioni (da Machiavelli a Hans Morgenthau) fino all'istituzionalismo di Santi Romano.

Va però evidenziato che si tratta di scuole e approcci minoritari nella letteratura internazionalistica, per quanto autorevoli e produttivi talvolta di studi di grande valore e interesse, come nel caso - ad esempio - della scuola statunitense di New Haven o, in Italia, dei contributi di Rolando Quadri e più recentemente di Paolo Picone; per i quali sarebbe comunque riduttivo e improprio parlare di appiattimento sulla mera effettività dei rapporti di forza tra gli Stati.

Ma, accanto a scuole e approcci di tal genere, la dottrina internazionalistica più diffusa, pur nelle sue articolate sfaccettature e differenti peculiarità, ha in genere un'impostazione tutt'altro che insensibile alla valenza deontico-normativa del diritto internazionale e alle novità che in tale dimensione si presentano in concomitanza coll'evolversi della communis opinio iuris della comunità internazionale. Questo è particolarmente vero, ad esempio, per quella ampia parte della dottrina internazionalistica italiana maggiormente debitrice nei confronti del positivismo "puro" di Hans Kelsen (Tomaso Perassi, Gaetano Morelli e allievi) o del positivismo rivisitato da Norberto Bobbio in chiave non statalista (Roberto Ago, Giuseppe Barile e allievi).

Anche su questo punto il sommario (pre)giudizio di Ferrajoli sulla scienza giuridica internazionalistica risulta dunque poco condivisibile.

9. Auspicio finale

Per chiudere vorrei esprimere un auspicio.

Nel Capitolo XVI dei Principia iuris Ferrajoli ha provato a leggere l'evoluzione del sistema giuridico internazionale alla luce del paradigma costituzionalistico da lui enucleato sulla base dell'esperienza giuridica dello "stato di diritto" e della democrazia costituzionale, individuandovi primi, timidi, segni di un progresso verso forme di democrazia cosmopolitica. Per i motivi indicati, la lettura di Ferrajoli non mi è sembrata - sul piano teorico - né condivisibile, né convincente.

Ritengo invece che sarebbe molto interessante se nel prossimo futuro Ferrajoli, messa da parte la ricerca del paradigma costituzionalistico nel sistema delle relazioni internazionali, riprendesse in considerazione tale sistema applicandovi gli strumenti teorici messi a punto con metodo assiomatico nel primo - prezioso - volume dei Principia. Mi riferisco, precisamente, alle parti dedicate alla deontica e al diritto positivo. Come evidenzia Ferrajoli, si tratta infatti di parti «che hanno una portata empirica assai più estesa [delle altre], potendo valere anche per sistemi giuridici premoderni e addirittura per sistemi normativi di carattere non giuridico» (25).

Non so se sia storicamente corretto definire il diritto internazionale un sistema giuridico premoderno, ma di certo è un sistema giuridico sui generis, molto "primitivo" se paragonato ai sistemi giuridici interindividuali sviluppatisi nell'ambito degli Stati moderni. Applicare al diritto internazionale le categorie generali e i concetti di base rigorosamente elaborati da Ferrajoli nelle prime due parti dei Principia non solo costituirebbe un gradito regalo agli internazionalisti, al fine di una migliore comprensione e sistemazione teorica del diritto della "società degli Stati", ma potrebbe anche costituire un utile banco di prova per quelle categorie e quei concetti, offrendo forse spunti utili per una precisazione del loro significato e della loro portata. Penso, ad esempio, ad alcune questioni concernenti i temi della soggettività e la distinzione tra autori e titolari, o al tema dell'imputazione, delle persone artificiali e del rapporto organico, così come a quelli del rapporto tra fonti e norme, o della raffigurazione del fenomeno delle istituzioni.

L'auspicio interessato è di poter usufruire presto - da internazionalista - di un nuovo, stimolante, regalo scientifico di Luigi Ferrajoli.


Note

1. L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. 2, Teoria della democrazia, Laterza, Bari, 2007, p. 490.

2. Ivi, p. 499.

3. Ivi, p. 502.

4. Ivi, p. 488.

5. Ivi, p. 490.

6. Ivi, p. 498.

7. Ivi, pp. 490 e 498-499.

8. Ivi, p. 503.

9. Ivi, pp. 498-503.

10. Ivi, pp. 499-500.

11. Ivi, pp. 490-491.

12. Ivi, p. 490.

13. Ivi, p. 491.

14. Ivi, p. 485.

15. Ivi, p. 491.

16. Ivi, pp. 504 e 522-523.

17. Ivi, pp. 495-496.

18. Ivi, p. 494.

19. Ivi, p. 495.

20. Ivi, p. 609.

21. Ivi, p. 562.

22. Ivi, p. 604.

23. Ivi, p. 553.

24. Ivi, p. 492.

25. L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. 1, Teoria del diritto, Laterza, Bari, 2007, p. 7.