2007

Giustizia internazionale (*)

Pasquale De Sena

Sommario: 1. Premesse, oggetto e piano del lavoro. - 2. Potere di governo, esigenze di giustizia e soggetti dell'ordinamento internazionale. - 3. Vicende del sistema delle fonti del diritto internazionale: fra esigenze di democrazia, spinte cosmopolitiche e tendenze alla "costituzionalizzazione" dell'ordinamento. - 4. Potere degli Stati ed esigenze di giustizia nell'evoluzione di alcuni settori normativi. - 4.1. (Segue) Uguaglianza sostanziale, libertà di mercato e libertà politiche nell'evoluzione del diritto del commercio internazionale e della disciplina degli investimenti stranieri. - 4.2. (Segue) La protezione dei diritti dell'uomo e la repressione di crimini internazionali individuali, fra ispirazione "pacifista" e "cosmopolitismo morale". - 4.3. (Segue) Istanze egualitarie e tendenze cosmopolitiche nell'evoluzione della disciplina internazionalistica in tema di risorse naturali e di protezione dell'ambiente. - 5. Potere degli Stati ed esigenze di giustizia nell'evoluzione della funzione giurisdizionale internazionale: insufficienze delle istituzioni operanti sul piano universale e crescente diffusione di sistemi settoriali (in particolare, in tema di diritti dell'uomo e di crimini internazionali individuali). - 6. Ispirazione "pacifista", tendenze alla "costituzionalizzazione" dell'ordinamento e rispetto dei diritti umani, nell'evoluzione dei meccanismi di attuazione coattiva di norme internazionali. - 7. Ordinamento internazionale ed esigenze di giustizia nei rapporti fra Stati e nei rapporti fra Stati e individui. - Bibliografia.

1. Premesse, oggetto e piano del lavoro

Nell'ambito del diritto internazionale la dimensione del potere ha assunto tradizionalmente un significato centrale, sotto vari profili ai quali è qui necessario accennare.

Si tratta, in primo luogo, dell'identificazione dei soggetti dell'ordinamento, sin dagli albori del c.d. sistema di Westfalia. Sebbene si tenda da più parti a ritenere tali anche gli individui - perlomeno nel settore dei diritti dell'uomo e del diritto penale internazionale (da intendersi come l'insieme delle norme internazionali relative alla repressione di reati particolarmente gravi - c.d. crimini internazionali individuali - fra i quali, la tortura, il genocidio, l'apartheid) -, resta infatti convinzione a tutt'oggi condivisa che le norme suddette si dirigono, in larga prevalenza, nei confronti degli Stati. Ed è proprio per potersi definire Stato dal punto di vista del diritto internazionale che un'organizzazione politica deve esercitare effettivamente potere di governo - in sostanza il monopolio dell'uso della forza legittima - su una comunità di individui stanziata su un certo territorio, in condizione di indipendenza, anche da Stati stranieri. In assenza di questi requisiti, potrà tutt'al più parlarsi di una soggettività giuridicamente limitata o sui generis - qual è quella che taluni riconoscono, ad esempio, all'Organizzazione per la liberazione della Palestina -, ma non di personalità giuridica in senso pieno (infra, par. 2).

La circostanza che gli Stati siano tradizionalmente venuti in rilievo come enti dotati di potere di governo - e cioè, di sovranità, "interna" ed "esterna" - si è poi riflettuta su altri aspetti di fondo dell'ordinamento internazionale, riguardanti sia l'assetto del sistema delle fonti di tale ordinamento, sia i suoi contenuti normativi, sia i meccanismi di accertamento e di attuazione coattiva delle norme di cui esso si compone.

Per quanto concerne il sistema delle fonti, appare infatti riconducibile alla suddetta circostanza, non solo l'enorme rilievo quantitativo attribuibile agli accordi fra Stati, ma anche il fatto che la consuetudine costituisca la principale (per alcuni, l'unica) fonte del diritto internazionale generale. È facile osservare che entrambi i tipi di fonte in questione si caratterizzano per la coincidenza fra soggetti produttori di norme e destinatari delle medesime, in linea, dunque, con la tradizionale ritrosia degli Stati - intesi appunto come enti sovrani - a dar vita e a sottoporsi a forme di autorità istituzionalizzata ed esterna rispetto ad essi.

Relativamente ai contenuti del diritto internazionale, è altrettanto agevole ricordare che le sue norme tradizionali, a partire dalla norma fondamentale sul rispetto della sovranità territoriale, si sono venute affermando come regole di delimitazione del potere di governo esercitato dagli Stati - più esattamente, del loro potere coercitivo - sia nei rapporti con altri Stati, sia, più di recente, nei confronti degli individui stanziati nel loro territorio. Non è un caso, del resto, che l'evoluzione subita dalle regole in questione, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, tenda comunemente ad essere delineata come un processo di progressiva limitazione di tale forma di potere statale, tanto sul piano dei rapporti internazionali, mediante il consolidarsi del divieto dell'uso della forza armata, tanto sul piano dei rapporti interni alle comunità statali, in special modo per il proliferare di norme internazionali sui diritti dell'uomo.

Per quel che attiene, infine, ai meccanismi di garanzia, il configurarsi degli Stati come enti dotati di poteri di governo assume un significato sostanzialmente analogo a quello già posto in evidenza per il sistema delle fonti. Anche qui, difatti, il ruolo centrale tradizionalmente assunto dai fenomeni dell'arbitrato - vale a dire, dell'individuazione del giudice cui devolvere la decisione di una controversia, per via di un accordo fra gli stessi Stati parti della controversia - e dell'autotutela - vale a dire, della facoltà di reagire alla violazione di norme internazionali da parte degli stessi Stati lesi - appaiono senz'altro ricollegabili alla perdurante resistenza, da parte degli Stati, a cedere quote della propria sovranità ad autorità istituzionalizzate, ad essi esterne.

Le considerazioni appena svolte, ancorché schematiche, lasciano tuttavia intravedere il rilievo e la delicatezza di un discorso sulla "giustizia" nell'ambito dell'ordinamento internazionale. Al di là dell'importanza attribuibile alla sovranità statale come fulcro di tale ordinamento, non deve del resto dimenticarsi che proprio il complessivo configurarsi di quest'ultimo come sistema giuridico privo di funzioni istituzionalizzate può essere considerato alla base di un'altra circostanza, spesso posta in risalto e di solito considerata strutturalmente "ingiusta". Si tratta, insomma, degli ampi spazi di manovra che un sistema così congegnato tende a lasciare ai suoi attori più "potenti". Tale circostanza risulta per lo più sottolineata sul piano dell'azionamento dei meccanismi di attuazione coercitiva di norme internazionali (che è più facile ed efficace - nel quadro del meccanismo dell'autotutela - per gli Stati che dispongano di maggior forza in relazione ad un certo contesto), ma appare agevolmente riscontrabile, sia con riferimento ai contenuti assunti da alcune norme internazionali, soprattutto in materia economica (per esempio, i contenuti della disciplina internazionalistica degli investimenti stranieri a seguito della caduta del blocco dei Paesi socialisti: infra, par. 4.1), sia nel quadro del sistema delle fonti. Si pensi, a quest'ultimo riguardo, alle notevoli possibilità di indirizzare, a proprio vantaggio, il processo di formazione di norme consuetudinarie, di cui dispongono gli Stati "forti" del sistema, a fronte dell'assenza di qualsiasi forma di istituzionalizzazione del suddetto processo. E si pensi, altresì, ai c.d. trattati ineguali; espressione, quest'ultima, con la quale vengono comunemente definiti, ad esempio, i trattati di pace (per via del limitato margine di libertà contrattuale di cui dispongono gli Stati vinti ai fini della loro stipulazione), ovvero i trattati conclusi fra Stati economicamente forti e Stati economicamente deboli.

Malgrado il rilievo attribuibile al valore dell'uguaglianza di fatto fra gli Stati, non è solo su siffatto aspetto che ci si intratterrà specificamente nelle pagine che seguono, dal momento che esso costituisce uno dei parametri alla stregua dei quali il livello di "giustizia" dell'ordinamento internazionale può essere valutato. Seguendo la schematizzazione appena delineata a proposito della centralità degli Stati, intesi come enti sovrani, si cercherà invece di condurre un discorso di carattere più generale sulla dialettica fra "potere" e "giustizia" (R.J. Dupuy, 1979, p. 115 ss.), in relazione ai diversi "capitoli" - soggetti, fonti, contenuti, garanzie - in cui è tradizionalmente suddiviso lo studio dell'ordinamento internazionale. Si tenterà dunque di ricostruire alcuni profili particolarmente significativi in cui la suddetta dialettica si è manifestata, sia nei rapporti fra Stati, ma anche nei rapporti fra Stati ed individui, senza alcuna pretesa di completezza, e tralasciando di proposito le questioni di carattere più tecnico (ad es., la problematica delle organizzazioni internazionali).

L'analisi che segue si articolerà, ovviamente, anche con riferimento ad alcuni "modelli di giustizia" molto noti, elaborati da filosofi del diritto o della politica, con riguardo alle relazioni internazionali. Su tali modelli, non sembra il caso di diffondersi qui, analiticamente, sia per gli approfondimenti che tale analisi richiederebbe, sia perché ci si augura che i loro tratti essenziali emergano con accettabile chiarezza nel corso della trattazione. Va inoltre chiarito che le vicende dell'ordinamento internazionale cui ci si riferirà sono quelle determinatesi a partire dalla seconda guerra mondiale. Fermo restando che la dialettica fra "potere" e "giustizia" ha radici ben più risalenti nella storia di tale ordinamento (si pensi - per far solo un esempio relativo al secolo scorso - al tentativo di far valere sul piano giuridico le responsabilità dell'imperatore tedesco per lo scatenamento della prima guerra mondiale, ovvero alla questione della tutela delle minoranze nell'ambito della Società delle Nazioni), è tuttavia comunemente riconosciuto che siffatta dialettica è andata assumendo il suo attuale rilievo, solo a seguito dell'adozione, nel 1945, della Carta delle Nazioni Unite (NU). A prescindere da ogni valutazione sul ruolo giocato dalle NU negli sviluppi che si esamineranno, è proprio da quel momento che inizia infatti a delinearsi il complesso dei valori in relazione ai quali la suddetta dialettica si articola ancora oggi.

2. Potere di governo, esigenze di giustizia e soggetti dell'ordinamento internazionale

Cominciando dall'importante questione dei soggetti dell'ordinamento internazionale, due sono gli aspetti - strettamente collegate fra di loro - sui quali conviene subito concentrare l'attenzione. Si tratta dell'affermarsi del principio di autodeterminazione dei popoli a partire dal fenomeno storico della decolonizzazione - c.d. autodeterminazione "esterna" -, e dell'evoluzione che tale principio sembra vivere, in tempi più recenti, per via della fine del mondo bipolare - c.d. autodeterminazione "interna".

Non vi è dubbio infatti che le vicende appena evocate siano entrambe da considerarsi espressioni di una tendenza di fondo dell'ordinamento internazionale degli ultimi sessant'anni, consistente nella progressiva erosione del principio dell'effettività del potere di governo, tradizionalmente ritenuto l'unico, autentico criterio regolatore di matrice internazionalistica in tema di "nascita" di Stati. Se questo è vero in linea generale, almeno tre questioni possono porsi tuttavia quanto al modo in cui esse hanno contribuito alla suddetta erosione. Quali sono, in primo luogo, i significati giuridici dell'"autodeterminazione esterna" e dell'"autodeterminazione interna"? È corretto concludere, inoltre, che fra le conseguenze giuridiche dell'autodeterminazione "esterna" e dell'autodeterminazione "interna" vi sia anche l'acquisizione di personalità giuridica internazionale da parte dei popoli? A quali esigenze di giustizia sono rispettivamente riconducibili autodeterminazione "esterna" ed autodeterminazione "interna"?

Riguardo all'autodeterminazione "esterna", va anzitutto ricordato che il contenuto giuridico del relativo principio è costituito dall'obbligo per gli Stati che occupino un territorio straniero di consentirne l'autogoverno. Pur essendosi originato nel contesto della decolonizzazione (più in virtù dell'attività normativa dell'Assemblea generale delle NU, che per quanto previsto dalla Carta delle NU: A. Tancredi, 2006, p. 570 s.), il principio in esame si è infatti consolidato nella prassi consuetudinaria degli Stati (nel corso degli anni Sessanta e Settanta), sino ad estendersi, per l'appunto, ad ogni situazione nella quale un popolo stanziato su un certo territorio venga privato con la forza di decidere autonomamente del proprio destino politico (ad es. i territori palestinesi occupati da Israele nel 1967). Tale precisazione, sebbene elementare, è nondimeno importante, giacché da essa può già chiaramente desumersi l'effettiva incidenza dell'autodeterminazione "esterna" sul requisito dell'effettività del potere di governo, quale criterio ultimo di ripartizione degli spazi fra organizzazioni politiche statali. Se è vero che il principio in questione ha costituito un significativo fattore di limitazione del suddetto criterio - rendendo illecito il governo di territori non propri, malgrado l'effettività dei poteri ivi esercitati -, è pur vero infatti che siffatta limitazione non si è spinta sino ad incanalare il conseguente processo di costituzione di nuovi Stati nel senso della creazione di regimi di governo di stampo liberal-democratico. In altri termini, alla dimensione giuridica dell'autodeterminazione "esterna" resta del tutto indifferente la qualità del prodotto finale del processo di autodeterminazione, che è affidata, viceversa, esclusivamente alla volontà politica dei diversi popoli coinvolti.

Malgrado poi i popoli soggetti a dominio coloniale o straniero siano (stati) i primi beneficiari dell'autodeterminazione "esterna", a ciò non ha fatto riscontro l'acquisizione, da parte di questi ultimi, della personalità giuridica internazionale. È infatti opinione largamente diffusa e condivisibile che le situazioni giuridiche nascenti da tale principio, lungi dal dar corpo ad un diritto vero e proprio da parte di detti popoli, corrispondente all'obbligo degli Stati stranieri dominanti di consentirne l'autogoverno, consistano, piuttosto, di un obbligo posto a carico di questi ultimi e formalmente rivolto nei confronti di tutti gli altri Stati - ovvero nei confronti della comunità internazionale nel suo complesso - ai quali solamente spetta il diritto di esigerne l'adempimento (in termini tecnici, gli obblighi derivanti dal principio di autodeterminazione vengono infatti denominati obblighi erga omnes: P. Picone, 2006, p. 48 ss.; v. anche infra, parr. 3 e 6).

Da quanto appena detto può dunque ricavarsi qualche indicazione a proposito dei paradigmi di giustizia ai quali è ricollegabile il fenomeno dell'autodeterminazione "esterna". In particolare, al configurarsi degli obblighi derivanti dal principio di autodeterminazione "esterna" come obblighi erga omnes, corrisponde la qualità di valore collettivo o pubblicistico, assunta da tale principio nell'ambito dell'ordinamento internazionale. Quest'ultima conseguenza è del resto agevolmente spiegabile, se si considera che il valore dell'autodeterminazione rientra fra i principi generali della Carta delle NU (articoli 1 e 55), pur non assumendo in detto ambito un contenuto normativo particolarmente stringente; se si considera, cioè, che il perseguimento del valore dell'autodeterminazione appare strumentale, nel disegno della Carta, alla realizzazione della pace, che costituisce, a sua volta, il valore collettivo primario dell'ordinamento internazionale, originatosi nel secondo dopoguerra. Sotto tale profilo è altresì agevole concludere che il valore dell'autodeterminazione "esterna" si inquadra in una concezione della giustizia internazionale, nell'ambito della quale la pace intesa in senso negativo, vale a dire come assenza di conflitti, assume un rilievo centrale, se non assorbente. Il che significa ancora che il disgregarsi delle dominazioni coloniali e, più in generale, l'eliminazione di situazioni di dominio su popolazioni straniere, hanno assunto, essenzialmente, il significato di "precondizioni" rispetto al concreto realizzarsi del valore della pace inteso in tal senso.

In direzione del tutto analoga spinge, d'altra parte, anche la segnalata indifferenza del principio di autodeterminazione "esterna" rispetto al risultato politico del processo di autodeterminazione. In altri termini, l'instaurarsi di regimi illiberali o antidemocratici ad esito di siffatto processo non è di per sé incompatibile con la logica dell'autodeterminazione "esterna", fermo restando che i comportamenti posti in essere da tali regimi possono eventualmente dar corpo alla violazione di altri principi fondamentali dell'ordinamento, tra i quali, in primo luogo, il divieto dell'uso della forza armata (enunciato dall'art. 2, par. 4 della Carta delle NU e successivamente consolidatosi anche sul piano consuetudinario: v. infra) o il rispetto dei diritti umani fondamentali. Malgrado il suo configurarsi come strumento di realizzazione della pace, è chiaro quindi che l'autodeterminazione "esterna" non corrisponde al modello di giustizia kantiano delineato in "Per la pace perpetua", secondo il quale l'instaurarsi di regimi di governo rappresentativi costituisce presupposto irrinunciabile per l'eliminazione della guerra nelle relazioni fra Stati (I. Kant, ed. italiana, 2005, p. 54 ss.). Essa appare invece maggiormente compatibile con il modello di giustizia elaborato da Rawls, sebbene quest'ultimo non si riferisca agli Stati (alla cui costituzione l'autodeterminazione "esterna" ha comunque condotto), ma ai popoli in sé e per sé. È noto infatti che tale modello contempla, realisticamente, la possibilità che, nell'ambito di una società internazionale giusta, sussistano regimi illiberali, purché non aggressivi nei confronti di altri popoli e rispettosi dei diritti umani fondamentali (c.d. popoli "gerarchici decenti"; J. Rawls, ed. italiana, 2001, p. 82 ss.).

Rilievi diversi vanno svolti in merito al principio dell'autodeterminazione "interna", che è divenuto oggetto di larga discussione, a partire dalla fine della guerra fredda. A differenza che per l'autodeterminazione "esterna", è a tutt'oggi incerto, in primo luogo, il reale contributo che esso ha apportato, dal punto di vista giuridico, all'erosione dei criteri tradizionali in tema di "nascita" degli Stati. Se è certo che tale principio si è consolidato come regola consuetudinaria, sotto forma di divieto dell'apartheid (A. Cassese, 1995, p. 110 ss.), ben più difficile è invece ritenere che si sia andato evolvendo - al di là dell'ipotesi della discriminazione razziale - nel senso di un più ampio diritto di scegliere il proprio status politico, da parte di ogni popolo. Diversità di vedute estremamente significative non mancano difatti di emergere, sia sul contenuto di un simile diritto (che per taluni sarebbe compatibile con qualsiasi regime di governo - G. Palmisano, 1997, p. 422 ss. -, mentre per altri si configurerebbe, più specificamente, come diritto ad un governo democratico - T.M. Franck, 1992, p. 46 ss.), sia riguardo la sua portata (che per alcuni sarebbe di carattere generale, laddove altri tendono a limitarla all'ambito regionale europeo o americano).

In un quadro simile, in cui a rivelarsi incerta è - in ultima analisi - la vigenza stessa del principio, non è quindi neppure il caso di porsi il problema della titolarità dei diritti da esso scaturenti in capo ai popoli, peraltro già negativamente risolto per l'autodeterminazione "esterna". Al riguardo va del resto ricordato che in alcuni importanti trattati, nei quali il diritto dei popoli ad un governo democratico viene affermato in termini generali (articoli 1.1 del Patto sui diritti civili e politici e del Patto sui diritti economici e sociali delle NU), la sua titolarità finisce per essere concretamente attribuita ai singoli cittadini sotto forma di diritto individuale (come membri del gruppo), piuttosto che ai popoli medesimi (art. 25 del Patto sui diritti civili e politici).

Malgrado la difficoltà di individuare limiti internazionalistici sostanziali al potere dei popoli di darsi una certa forma di governo (potere costituente), si deve tuttavia sottolineare che la promozione di standard di democrazia rappresentativa è divenuta il motivo conduttore, non solo di un'ampia serie di atti normativi delle NU, ma anche di funzioni di assistenza, sempre più penetranti, svolte dall'organizzazione a favore di comunità nazionali impegnate in processi di ricostruzione dello Stato, a seguito di conflitti interni (post conflict peace building); assistenza, quest'ultima, la cui erogazione risulta regolarmente condizionata, nella prassi più recente, al rispetto di tali standard da parte delle suddette comunità, (M. Starita, 2003, p. 217 ss.). Allo stesso modo, il rispetto di standard di democrazia rappresentativa tende oggi a rientrare fra i requisiti "procedurali" per la nascita di nuovi Stati (A. Tancredi, 2001, p. 682 ss.). Solo entro questi limiti, il processo di "internazionalizzazione" della nascita degli Stati, avviatosi sul piano dell'autodeterminazione "esterna", sembra ulteriormente progredito verso la realizzazione di una prospettiva di giustizia "internazionale" di tipo kantiano. Solo entro questi limiti, in altre parole, l'ordinamento internazionale appare finalizzato alla moltiplicazione di regimi di governo di matrice liberaldemocratica; ciò che nell'ambito di tale prospettiva costituisce, come si è detto, il presupposto più importante al fine di garantire relazioni internazionali pacifiche.

Qualche parola va spesa infine in merito alla vexata quaestio della posizione giuridica internazionale di soggetti diversi dagli Stati, sia individui, che gruppi, lasciando invece da parte la questione - eminentemente tecnica - della personalità giuridica delle organizzazioni internazionali governative (e cioè, delle organizzazioni composte da Stati, come, ad es., le NU o l'Unione europea).

Relativamente agli individui, si è già osservato che la possibilità di attribuire loro personalità giuridica internazionale è oggetto di una convinzione oggi sempre più diffusa, alla luce del proliferare di norme internazionali sui diritti dell'uomo e del moltiplicarsi di ipotesi di responsabilità penale individuale, riconducibili a norme internazionali, che possono talvolta farsi valere dinanzi a tribunali penali internazionali o interni (c.d. crimini internazionali individuali, fra i quali la tortura, il genocidio, l'apartheid, ecc.). Per quel che attiene ai gruppi, la questione è risolta da più parti in senso analogo (dunque, positivo) rispetto ai movimenti di liberazione nazionale (a proposito dei quali si tende a parlare di soggettività limitata: Cassese, 2006, p. 138 s.), ed è stata posta anche rispetto ad altre entità (ad es., le imprese multinazionali), nonché, in tempi più recenti, in ordine alle c.d. organizzazioni non governative.

A ben vedere, però, nell'ambito di tale dibattito la posizione giuridica attribuibile sia agli individui, sia ad alcune categorie di gruppi, finisce per lo più per esser definita nei termini di una diretta destinatarietà di questi ultimi, rispetto a specifiche norme internazionali (Pisillo Mazzeschi, 2004, p. 31 ss.), piuttosto che nei termini di un'autentica soggettività internazionale, simile, cioè, a quella posseduta dagli Stati. In altre parole, la personalità giuridica di individui o gruppi, più che esser vista come uno status giuridicamente autonomo e di carattere generale (= l'idoneità ad esser potenzialmente titolari di qualsiasi situazione giuridica), tende invece a configurarsi come un'espressione sintetica delle specifiche situazioni giuridiche create nei loro confronti da specifiche norme di diritto internazionale, nulla aggiungendo, dunque, alla loro posizione giuridica concreta, già derivante da tali norme.

Se questo è vero, ne consegue che la tendenza a dare positiva soluzione alla questione in esame si rivela di ridotto significato anche dal nostro punto di vista; anche ai fini, cioè, dell'individuazione dei modelli di "giustizia" verso i quali si è orientato l'ordinamento internazionale. Parecchio significativa ai fini dell'individuazione dei suddetti modelli, è invece la circostanza che in tale ordinamento acquistino sempre più rilievo - e sotto vari profili - interessi di carattere individuale. Di siffatta circostanza si dovrà costantemente tener conto nei paragrafi che seguono, già a partire da quello immediatamente successivo.

3. Vicende del sistema delle fonti del diritto internazionale: fra esigenze di democrazia, spinte cosmopolitiche e tendenze alla "costituzionalizzazione" dell'ordinamento

In apertura di questo lavoro si è precisato che la dialettica fra "potere" e "giustizia" concerne, dal punto di vista del diritto internazionale, sia i rapporti fra Stati, sia i rapporti fra Stati ed individui. In linea con tale osservazione, entrambi i profili indicati sono agevolmente riscontrabili in alcuni aspetti significativi dell'evoluzione del sistema delle fonti del diritto internazionale a partire dal secondo dopoguerra.

Fra questi aspetti, il primo a venire in rilievo è quella della contestazione della consuetudine come fonte di diritto internazionale generale, ad opera dei Paesi in sviluppo, affacciatisi sulla scena delle relazioni internazionali per via del processo di autodeterminazione "esterna", di cui si è trattato poc'anzi. Tale contestazione - portata avanti soprattutto nel corso degli anni Settanta - si fondava sull'argomento dell'inaccettabilità, da parte dei Paesi in questione, di norme consuetudinarie preesistenti, formatesi senza la loro partecipazione e ritenute espressive di interessi del tutto configgenti con i propri.

A questa posizione (idonea a negare, in ultima analisi, l'esistenza stessa di un diritto internazionale generale, applicabile, cioè, a tutti gli Stati, indipendentemente dal loro consenso) si sono poi accompagnati, sia il tentativo di valorizzare le funzioni normative dell'Assemblea generale delle NU, sia la tendenza a valorizzare la figura della consuetudine regionale.

Per quanto concerne la preferenza accordata a tale forma di consuetudine, rispetto a quella di portata generale, essa altro non è che un mero corollario dell'atteggiamento di contestazione appena evocato. Era infatti del tutto naturale che la volontà di sottrarsi ad una forma di regolamentazione giuridica percepita come priva di legittimazione, perché maturatasi senza la loro partecipazione, conducesse i Paesi in sviluppo a privilegiare forme di produzione normativa destinate ad operare in ambiti più ristretti, e dunque a loro più congeniali, non tanto, e non necessariamente, sotto il profilo geografico, quanto per la maggiore probabilità di far valere in tali contesti le proprie principali istanze di carattere economico e sociale (R.J. Dupuy, 1979, p. 172 s.).

Enfatizzando il significato giuridico delle risoluzioni dell'Assemblea generale delle NU - non dotate in principio di valore vincolante, ma di mero carattere politico-morale (ad es., la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo) - gli Stati in sviluppo hanno invece provato a far valere, negli stessi processi di produzione di norme generali, la loro preponderanza numerica nell'ambito della comunità internazionale; preponderanza fedelmente riflessa nella composizione di detto organo, cui partecipano, con eguale diritto di voto, tutti gli Stati membri dell'Organizzazione. Più specificamente, ciò si è verificato, non solo mediante il tentativo di annettere direttamente efficacia obbligatoria alle suddette risoluzioni, ma anche attraverso l'attribuzione a queste ultime del valore di prova decisiva del formarsi dell'opinio iuris degli Stati in una certa materia (la convinzione della conformità al diritto di un comportamento che, unitamente alla costante ripetizione del medesimo, gli conferisce carattere di consuetudine giuridica), al fine del venire in essere di nuove norme consuetudinarie.

In corrispondenza con la fine del mondo bipolare, la vicenda ricordata si è andata anch'essa storicamente esaurendo, per una molteplicità di ragioni di carattere politico (fra le quali, in primis, la rottura - per svariati motivi - della solidarietà fra i Paesi in sviluppo) ed economico che non è opportuno approfondire in questa sede (G. Abi Saab, 1998, p. 10 s.). Quel che invece va posto in risalto è che detta vicenda acquisisce rilievo, nell'ambito della dialettica internazionalistica fra "potere" e "giustizia", dal punto di vista dei rapporti fra Stati. Sia la contestazione della consuetudine come fonte di diritto internazionale capace di imporsi a tutti gli Stati, sia la tendenza a privilegiare gli strumenti normativi delle risoluzioni dell'Assemblea generale delle NU e della consuetudine regionale, costituivano infatti momenti strettamente collegati di una più ampia strategia, volta a contrastare la tendenza degli Stati più potenti ad indirizzare a proprio vantaggio il processo di produzione di norme internazionali a carattere generale. Vista nel suo complesso, la strategia in questione si caratterizzava dunque per il tentativo di contrastare la tendenza indicata, aumentando il livello di rappresentatività dei suddetti processi, o privilegiando processi di produzione giuridica ritenuti, dal loro punto di vista, più democratici, quali appunto le consuetudini regionali. È appena il caso di ricordare, del resto, che tale strategia si estendeva anche al campo dei trattati internazionali, e cioè, alla fonte tradizionale del diritto internazionale particolare (così definito, poiché efficace solo nei rapporti fra Stati contraenti); basti pensare, a questo riguardo, al tentativo - condotto sempre dai Paesi in sviluppo - di includere le pressioni di carattere economico fra le cause di invalidità dei trattati medesimi, in sede di codificazione delle norme internazionali in materia.

Piuttosto distante dalla vicenda esaminata è il secondo fenomeno rilevante ai nostri fini; fenomeno che, sino alla fine degli anni Ottanta si è manifestato parallelamente, ma all'ombra di tale vicenda, assumendo le sue attuali proporzioni solo nel corso degli anni Novanta. Si tratta del rilievo progressivamente assunto da individui e gruppi di individui nel processo di formazione di norme internazionali, a dispetto del carattere tradizionalmente "stato-centrico" di tale processo.

Pur essendosi occupato, già dagli inizi del secolo scorso, della regolamentazione di interessi giuridici della persona - si pensi, ad es., alle norme di diritto bellico poste a tutela della popolazione civile o alle norme delle convenzioni internazionali sul lavoro -, il diritto internazionale è infatti a lungo restato un prodotto prevalente, se non esclusivo, degli Stati, poiché tanto la conclusione di trattati, tanto l'adozione di comportamenti internazionalmente rilevanti sul piano della formazione di norme consuetudinarie (ad es., decisioni di politica estera, prese di posizioni nell'ambito di consessi internazionali, decisioni giudiziarie sul trattamento di cittadini, Stati o organi stranieri, ecc.), hanno continuato a configurarsi come attività esclusivamente poste in essere da organi statali. A partire dal secondo dopoguerra (e già dalla conclusione della Carta stessa delle NU: E. Rocounas, 2001, pp. 101 e 136), tale situazione è andata in parte modificandosi, proprio con particolare riferimento a settori direttamente riguardanti interessi dell'individuo in quanto persona, e fra questi, in special modo, i diritti dell'uomo, il diritto penale internazionale (da intendersi come l'insieme delle norme internazionali relative alla repressione di reati particolarmente gravi - c.d. crimini internazionali individuali - fra i quali, la tortura, il genocidio, l'apartheid) ed il diritto dell'ambiente. Nell'ambito di questi settori, il ruolo svolto da individui, o meglio da gruppi di individui organizzati, portatori dei suddetti interessi - le c.d. organizzazioni non governative (o ONG; ad es., Amnesty International, WWF, ecc.) -, pur senza sostituirsi a quello degli Stati o delle organizzazioni internazionali governative (e cioè, composte da Stati), ha acquisito una notevole importanza tanto sul piano della formazione dei trattati, tanto sul piano della formazione di norme internazionali generali.

Per quanto attiene alla formazione dei trattati, si tratta non solo del rilievo delle posizioni sostenute da tali gruppi nella formazione della volontà degli Stati, ma anche della loro diretta partecipazione - sia pure in veste di osservatori - alla stessa negoziazione dei suddetti trattati (ciò che è avvenuto, di recente, nel quadro dei lavori preparatori del trattato istitutivo della Corte penale internazionale), fermo restando che la stipulazione di questi ultimi continua a spettare agli Stati. Relativamente alla formazione di norme internazionali generali nei settori poc'anzi indicati, l'azione condotta dalle ONG si è invece rivelata significativa, sia nel condizionare le pertinenti attività di Stati e di importanti organizzazioni internazionali governative (ad es., le NU), sia nell'influenzare direttamente la prassi internazionalmente rilevante, contribuendo, ad esempio, all'adozione di decisioni giudiziarie di principio, decisamente innovative rispetto al diritto vigente in precedenza (tramite l'intervento in processi relativi a crimini internazionali individuali, al fine di prospettare soluzioni recepite dalle corti giudicanti, come nel celebre caso Pinochet).

Configurandosi come un limite del potere degli apparati statali di governo sul piano della formazione di norme internazionali, il fenomeno in questione appare dunque anch'esso ricollegabile alla dialettica internazionalistica fra "potere" e "giustizia". A differenza, però, dalla vicenda della contestazione della consuetudine come fonte di diritto internazionale generale, condotta, a suo tempo, dai Paesi in sviluppo, esso non assume rilievo nel senso di una modifica in termini più giusti dell'assetto dei rapporti fra Stati, investendo, piuttosto, l'assetto tradizionale dei rapporti fra Stati ed individui. Più esattamente, la prospettiva di sviluppo dell'ordinamento internazionale, nella quale tale fenomeno sembra inquadrarsi, è quella del progressivo superamento delle "società politiche statali", ad opera di un'incipiente "società civile internazionale", meglio in grado di rappresentare gli interessi degli individui in una molteplicità di settori delle attività umane. Più che esser dettata dall'obbiettivo di realizzare una maggiore democrazia nei rapporti interstatali, tale prospettiva appare dunque riconducibile ad un modello di giustizia di tipo cosmopolitico, fondato cioè sull'idea - di chiara matrice kantiana - della "cittadinanza universale" degli individui, prepotentemente tornata al centro del dibattito filosofico-giuridico sui modelli ideali di evoluzione delle relazioni internazionali negli ultimi anni (soprattutto ad opera di J. Habermas, 1992, ed. italiana, p. 136 e 20023, ed. italiana, p. 94 ss).

Ancora differenti sono le considerazioni da svolgersi riguardo alla terza vicenda su cui è opportuno attirare l'attenzione in questa sede; e cioè, sui fenomeni - fra di loro strettamente collegati - dell'emergere di norme giuridiche internazionali inderogabili - c.d. jus cogens - e di obblighi giuridici internazionali "oggettivi" o erga omnes, posti a tutela di interessi non imputabili agli Stati intesi come singoli (Picone, cit., supra, par. 2).

Per comprendere il rilievo assunto da tali fenomeni nel sistema delle fonti dell'ordinamento internazionale, vanno qui preliminarmente ricordati, sia pure in estrema sintesi, due caratteri tradizionalmente importanti di tale sistema. Si tratta, in primo luogo, del c.d. principio della flessibilità delle fonti, in base al quale, di regola - e contrariamente a quanto avviene nei moderni ordinamenti costituzionali -, qualsiasi norma di diritto internazionale generale (ad es., una consuetudine) può essere successivamente derogata da un accordo stipulato fra due o più Stati nel perseguimento dei propri interessi. Si tratta, inoltre, della struttura prevalentemente reciproca o bilaterale degli obblighi internazionali, per via della quale, non solo gli obblighi derivanti da accordi bilaterali (di per sé efficaci fra due Stati), ma anche quelli scaturenti da trattati multilaterali (efficaci per tre o più Stati) e dal diritto internazionale generale (efficaci per tutti gli Stati), sono di norma riconducibili allo schema di un rapporto giuridico bilaterale (vale a dire, intercorrente fra coppie di Stati), con l'importante conseguenza che, legittimati ad esigere l'esecuzione di tali obblighi e a reagire, in caso di loro violazione sono, in principio, esclusivamente gli Stati lesi (ad es., in caso di violazione del diritto alla libertà di navigazione in alto mare di una nave battente bandiera italiana, legittimato a reagire è solo lo Stato italiano, malgrado il relativo principio abbia efficacia generale).

Ebbene, è piuttosto facile osservare che sia la derogabilità delle norme consuetudinarie, sia la struttura reciproca o bilaterale degli obblighi internazionali, risultano strettamente connesse al prevalente caratterizzarsi dell'ordinamento internazionale come ordinamento volto a tutelare interessi imputabili agli Stati come singoli. Al contrario, tanto l'emergere di norme internazionali generali inderogabili (perlomeno, di quelle a contenuto materiale, e non meramente formale), tanto l'emergere di obblighi internazionali oggettivi o erga omnes, si ricollegano al rilievo giuridico progressivamente assunto, nell'ambito di tale ordinamento, da alcuni valori di fondo, ritenuti imputabili alla comunità internazionale nel suo complesso. È proprio il particolare rilievo (significato assiologico) dei beni protetti da talune norme internazionali consolidatesi nel secondo dopoguerra (M. Iovane, 2000, p. 58 ss.) - come, ad es., il divieto di aggressione o il principio di autodeterminazione dei popoli, il divieto di violazioni, gravi massicce e sistematiche dei diritti dell'uomo - che spiega l'invalidità dei trattati con esse eventualmente contrastanti (secondo quanto stabilito dall'art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati), nonché, più in generale, l'idoneità di tali norme a prevalere, in caso di conflitto, su altre norme internazionali di rango inferiore (v. anche infra, parr. 4 e 5). Ed è l'impossibilità di imputare tali valori agli Stati uti singuli che è alla base del configurarsi delle norme generali or ora citate come norme produttive di obblighi erga omnes, nonché dell'analogo configurarsi come obblighi "oggettivi" degli obblighi derivanti da accordi conclusi, ad es., in materia di diritti dell'uomo o di tutela dell'ambiente, posti anch'essi a tutela di valori collettivi.

In conclusione, sembra dunque evidente che anche i fenomeni in questione contribuiscono a limitare la centralità degli Stati, intesi come enti provvisti di potere di governo e portatori di interessi nazionali, se è vero che essi si ricollegano al carattere fondamentale, assunto da alcuni valori dell'ordinamento internazionale e alla loro dimensione collettiva.

Per quel che concerne invece la loro riconducibilità a uno specifico modello di limitazione del potere degli Stati, sembra possibile concludere che tali fenomeni siano entrambi inquadrabili, alla luce di categorie dell'esperienza costituzionale moderna, perlomeno da un punto di vista. Ci si riferisce al fatto che sia le norme inderogabili, sia le norme produttive di obblighi erga omnes - che, come si è visto, tendono a coincidere (pur non essendo, beninteso, necessariamente coincidenti) si distinguono, rispetto ad altre norme internazionali, giacché possiedono un livello di efficacia normativa "rinforzata", decisamente analogo a quello che, nel corso di questo secolo, ha preso a caratterizzare le norme costituzionali, rispetto alle norme di rango legislativo, negli ordinamenti statali (c.d. legalità costituzionale: M. Fioravanti, 1999, p. 130).

Fermo restando che l'ordinamento internazionale non è dotato di costituzione scritta, la circostanza in questione è particolarmente chiara relativamente al carattere dell'inderogabilità, che - per quanto già osservato - attribuisce alle norme che ne sono dotate una maggiore forza di "resistenza" rispetto alle altre norme generali, oltre che a quelle convenzionali (e cioè, contenute in trattati).

Ugualmente espressiva di questa circostanza è inoltre il regime "speciale" o "aggravato" di responsabilità, emergente dal diritto consuetudinario per le violazioni di taluni obblighi erga omnes - tra i quali il divieto dell'uso della forza, l'autodeterminazione dei popoli e il rispetto dei diritti umani fondamentali (protezione della vita e dell'integrità fisica, genocidio, apartheid, ecc.) - sempre in ragione del particolare rilievo assiologico dei beni oggetto di tutela e per la gravità di tali violazioni (v. infra, par. 6).

4. Potere degli Stati ed esigenze di giustizia nell'evoluzione di alcuni settori normativi

4.1. Uguaglianza sostanziale, libertà di mercato e libertà politiche nell'evoluzione del diritto del commercio internazionale e della disciplina degli investimenti stranieri

In che modo l'evoluzione dei contenuti normativi del diritto internazionale, sviluppatasi a partire dal secondo dopoguerra, ha inciso sulla dialettica fra "potere" e "giustizia"? Data l'ampiezza della questione, in questa sede si cercherà di fornire al riguardo solo qualche indicazione di carattere generale, prendendo spunto da alcuni sviluppi particolarmente emblematici.

Si può dunque partire dal settore dei rapporti economici fra gli Stati, nel cui ambito l'esigenza di perseguire obbiettivi di giustizia si è manifestata in varie forme, nell'ambito degli ultimi sessant'anni. Analogamente a quanto si è osservato poc'anzi per il sistema delle fonti, tale settore risulta anch'esso caratterizzato da una prima fase, in cui la regolamentazione giuridica dei suddetti rapporti si è decisamente orientata verso obbiettivi di giustizia consistenti in una maggiore eguaglianza sostanziale fra gli Stati. Si tratta, in altri termini, dell'evoluzione vissuta, sino a tutti gli anni Ottanta, dalle regole internazionali sul commercio fra Stati e da quelle sulla protezione degli investimenti stranieri, le quali apparivano entrambe improntate, all'indomani della seconda guerra mondiale, a criteri di fondo oggettivamente favorevoli agli Stati dotati delle economie più solide nel sistema economico internazionale.

Per quanto concerne il fenomeno del commercio internazionale, la situazione or ora ricordata trovava infatti espressione nelle disposizioni del GATT (Accordo generale sulle tariffe e sul commercio), e cioè del principale trattato multilaterale in tema di scambi internazionali di merci, concluso nel 1947. Tali disposizioni, ispirate al fondamentale principio liberistico della non discriminazione nelle relazioni commerciali, tanto nella sua versione "esterna" (art. I, "clausola della nazione più favorita", in base alla quale tutti i vantaggi attribuiti ai prodotti provenienti da uno Stato in un certo settore - ad es., in materia doganale - devono essere estesi, da ogni Stato dell'Accordo, ai prodotti similari provenienti da tutti gli altri Stati parti), tanto nella sua versione "interna" (art. III, "clausola del trattamento nazionale", in base al quale il trattamento - di carattere fiscale ed extrafiscale - che uno Stato parte è tenuto a praticare ai prodotti importati in un certo settore deve essere pari, o comunque non meno favorevole, rispetto a quello praticato a prodotti interni similari), non erano infatti originariamente accompagnate da alcuna significativa disciplina volta a diversificarne l'applicazione, in funzione del diverso livello sviluppo dei Paesi interessati e del diverso grado di apertura dei loro mercati.

Per quanto attiene invece alla protezione degli investimenti stranieri, la disciplina internazionale vigente alla fine della seconda guerra mondiale, pur contemplando la libertà degli Stati importatori di capitali di procedere ad atti di nazionalizzazione (assunzione, in mano pubblica, di interi settori produttivi, ad es., dell'energia elettrica) di beni o interessi patrimoniali stranieri da parte degli Stati esportatori (i più ricchi), ne sottoponeva l'esercizio a limiti giuridicamente ed economicamente molto rilevanti. In base a detta disciplina, gli atti in questione erano da considerarsi leciti, solo a condizione che essi non risultassero discriminatori (poiché volti a colpire, arbitrariamente, investitori esteri, piuttosto che investitori nazionali), ed, in particolare, a condizione che prevedessero un indennizzo pronto, adeguato ed effettivo nei confronti degli investitori colpiti; circostanza, quest'ultima, che equivaleva, in sostanza, a depotenziare notevolmente la libertà di nazionalizzazione, pur concessa in linea di principio agli Stati suddetti, considerati il loro bisogno di investimenti stranieri e la loro penuria di risorse finanziarie.

Sulla scorta dell'azione dei Paesi in sviluppo, in lotta per acquisire l'indipendenza economica dopo il raggiungimento di quella politica, entrambi gli assetti descritti sono stati sottoposti ad una forte tensione.

Già agli inizi degli anni Settanta, i negoziati di modifica del testo dell'Accordo GATT condussero infatti - in deroga ai principi descritti - all'introduzione di un regime di trattamento tariffario preferenziale per i prodotti provenienti dai Paesi in sviluppo, ancorché blando e destinato ad operare temporaneamente (10 anni). Tale regime, denominato sistema delle preferenze generalizzate (SPG) ed elaborato nell'ambito della Conferenza delle NU su commercio e sviluppo (UNCTAD; organo sussidiario dell'Assemblea generale delle NU, ove i Paesi in sviluppo disponevano della maggioranza dei voti: supra, par. 3), venne poi ampliato e reso permanente, alla fine degli anni Settanta, tramite l'inserimento, nel testo del GATT, della "Enabling Clause".

A questa vicenda faceva riscontro, sempre ad opera dei Paesi in sviluppo, il tentativo di superare la disciplina internazionalistica tradizionale della protezione degli investimenti stranieri. Più esattamente, tali Paesi favorirono l'adozione di alcune risoluzioni dell'Assemblea generale delle NU (ancora supra, par. 3) che, sul presupposto del principio della sovranità permanente sulle loro risorse naturali e sulle loro attività economiche, affidavano alla sola legislazione interna degli Stati interessati la suddetta materia (art. 2-2 (c) della risoluzione n. 3281/1974 "Carta dei diritti e doveri economici degli Stati"), lasciando aperta, dunque, la possibilità di nazionalizzazioni discriminatorie (che non erano espressamente vietate dalla risoluzione), e mitigando il rigore dei principi in tema di indennizzo (per il quale veniva previsto un ammontare semplicemente "equo" - non già "pronto, adeguato ed effettivo" - e modulabile in funzione delle circostanze concrete).

Indipendentemente dai diversi esiti concreti, cui le vicende considerate hanno dato luogo (per quel che concerne gli investimenti stranieri, si riteneva, già all'epoca, che il tradizionale regime consuetudinario fosse stato solo parzialmente modificato, data la persistente opposizione dei Paesi industrializzati, nei confronti di dette risoluzioni), non vi è dubbio che la tensione politica di cui esse furono il prodotto si ispirava al principio della c.d. "disuguaglianza compensatrice". Attraverso l'elaborazione e l'adozione di regimi "preferenziali" o "derogatori" rispetto alle norme generali, si esprimeva, in altri termini, un più ampio orientamento volto a superare squilibri strutturali della comunità internazionale, aumentandone il tasso di giustizia - come si è detto poc'anzi - dal punto di vista dell'uguaglianza di fatto fra gli Stati.

Tale orientamento, storicamente coincidente con quello già esaminato in relazione al sistema delle fonti del diritto internazionale, si è andato via via esaurendo, in una a quest'ultimo, anch'esso per ragioni non facilmente sintetizzabili in questa sede (P. Picone, 2002, p. 459). Ciò ha fatto sì che la dialettica fra "potere" e "giustizia" si sia venuta articolando, riguardo ad entrambi i fenomeni in oggetto, in termini differenti.

In tema di protezione di investimenti stranieri, le rinnovate politiche dei Paesi in sviluppo al fine di attirare capitali stranieri per alimentare le proprie economie, ha innanzitutto notevolmente ridimensionato il problema delle nazionalizzazioni e del relativo indennizzo (la cui centralità si ricollegava chiaramente a politiche economiche di tipo "statalistico", non più attuali a partire dalla fine degli anni Ottanta). In questo quadro hanno acquisito invece rilievo centrale i requisiti - di carattere anche politico - richiesti ai suddetti Paesi da Agenzie internazionali di garanzia, per assicurare gli investimenti stranieri ivi diretti; requisiti, il cui rispetto ha inciso spesso profondamente sugli stessi assetti interni di tali Stati, oltre a rivelarsi determinante per attrarre i suddetti capitali.

Nel quadro normativo dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC; e cioè, del rinnovato sistema giuridico multilaterale del commercio internazionale), creata nel 1994, a venir meno è stata proprio la filosofia di fondo del SPG, se si considerano l'assenza di disposizioni di carattere generale nell'accordo istitutivo dell'Organizzazione, la conseguente differenziazione dei contenuti assunti dalle singole clausole di trattamento differenziale previste - non solo in funzione dei diversi gradi di sviluppo degli Stati, ma anche in rapporto alle diverse materie coinvolte (agricoltura, tessili, ecc.) -, il rinnovato carattere temporaneo di tali clausole.

È dunque piuttosto evidente che entrambe le circostanze considerate sono espressione del progressivo riproporsi di un modello politico-economico dei rapporti fra Paesi industrializzati e Paesi in sviluppo, di stampo chiaramente liberistico, tendenzialmente disinteressato a modificare gli squilibri di potere fra gli Stati sul piano internazionale, nella prospettiva dell'uguaglianza di fatto. Ciò non significa, beninteso, che il problema dell'aiuto ai Paesi in sviluppo sia restato completamente indifferente a tale modello, come emerge, non solo dall'accennata, persistente presenza di clausole di trattamento differenziale nel sistema giuridico del commercio internazionale, ma anche dalla stessa esperienza dell'aiuto finanziario allo sviluppo, che, negli ultimi anni, è diventato parte integrante dell'attività del FMI (Fondo monetario internazionale) e della stessa Banca mondiale (organizzazioni internazionali, nel cui ambito è preponderante il peso economico e decisionale degli Stati più ricchi). Quel che invece è necessario sottolineare è che la logica di fondo nella quale il problema in questione tende oggi ad essere affrontato è, piuttosto, quella del cambiamento degli assetti interni dei Paesi in sviluppo. In aggiunta a quanto detto poc'anzi, a proposito della protezione degli investimenti stranieri, è infatti agevole osservare che è proprio in funzione di una modifica in senso liberistico degli assetti economici di tali Paesi che si spiega il carattere temporaneo ed, allo stesso tempo, non generalizzato delle suddette clausole di trattamento differenziale. Sempre nei medesimi termini viene poi a configurarsi la citata vicenda degli aiuti allo sviluppo, se si considera che la concessione di questi ultimi tende ad esser vincolata, non solo all'adozione di riforme strutturali nel senso dell'economia di mercato - ad opera di istituzioni finanziarie internazionali come il FMI e la Banca mondiale -, ma anche all'adozione di politiche rispettose dei principi democratici, dei diritti umani e delle libertà fondamentali - ad es., nell'ambito degli accordi rilevanti, conclusi dalla Comunità europea.

Anche nei settori esaminati, l'evoluzione dell'ordinamento internazionale sembra oggi orientarsi verso il modello di giustizia elaborato da Rawls (J. Rawls, 2001, ed. italiana, p. 15), piuttosto che in direzione di esigenze di giustizia di ispirazione egualitaria (T. Pogge, 1999, p. 333 ss.). Se è vero da una parte che nel-l'ambito del modello "rawlsiano" il trattamento differenziale da attribuire ai Paesi in sviluppo si presenta come oggetto di un vero e proprio dovere di assistenza nei confronti di "popoli svantaggiati" (e non di Stati), e se è vero altresì che ciò non trova alcun riscontro in un analogo dovere giuridico internazionale, è pur vero, infatti, che l'obbiettivo di fondo, cui tale dovere transitorio è preordinato, è proprio quello - poc'anzi indicato - della creazione di regimi di economia di mercato e di democrazia liberale. Inoltre, si deve ricordare che è proprio il realizzarsi di quest'ultimo obbiettivo su scala potenzialmente universale che costituisce, a sua volta, uno dei presupposti di fondo del mantenimento della pace internazionale nella tradizionale prospettiva kantiana (supra, par. 2).

4.2. (Segue) La protezione dei diritti dell'uomo e la repressione di crimini internazionali individuali, fra ispirazione "pacifista" e "cosmopolitismo morale"

Il secondo, importante aspetto da considerare ai nostri fini, a proposito dell'evoluzione recente dei contenuti normativi dell'ordinamento internazionale, è rappresentato da due fenomeni strettamente collegati. Si tratta del parallelo consolidarsi di un consistente corpus normativo internazionalistico, sia in tema di protezione dei diritti dell'uomo, in generale, sia in tema di repressione di crimini particolarmente gravi - ad es., crimini contro l'umanità - commessi da individui (c.d. diritto penale internazionale). Entrambi i fenomeni in questione vengono in rilievo ai nostri fini, giacché essi hanno inciso in modo significativo - nel perseguimento di obbiettivi di giustizia - sul potere di governo tradizionalmente riconosciuto agli Stati dall'ordinamento internazionale (supra, par. 1).

Per quanto concerne in particolare i diritti dell'uomo, ciò si è verificato, in primo luogo, per via della conclusione di una fitta rete di accordi internazionali, sia su scala universale - ad es., Patto sui diritti civili e politici (PDCP, 1966), Patto sui diritti economici, sociali e culturali (PDESC, 1966) - sia su scala regionale - ad es., Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU, 1950), Convenzione americana dei diritti dell'uomo (CADU, 1969) - talvolta relativi a materie specifiche (Convenzione sulla discriminazione razziale, 1965; Convenzione sulla tortura, 1984). Tali accordi sono volti a limitare l'esercizio del potere di governo degli Stati parti al loro interno, vincolandolo al riconoscimento di una serie di diritti individuali di tipo diverso (civili, politici, economici, sociali, culturali), spettanti a tutte le persone rientranti nella loro giurisdizione, indipendentemente dal requisito della nazionalità ; diritti, questi ultimi, a garanzia dei quali, gli accordi in esame - in particolare quelli sui diritti civili e politici - hanno spesso istituito meccanismi di controllo, talora di carattere giurisdizionale (ad es., la Corte europea dei diritti dell'uomo, istituita nell'ambito di un accordo regionale fra Paesi culturalmente e politicamente "omogenei", come la CEDU), talora più blandi (ad es., il Comitato dei diritti dell'uomo del PDCP, istituito nell'ambito di un accordo universale fra Paesi culturalmente e politicamente molto "eterogenei"), cui molti Stati hanno accettato di sottoporsi. È appena il caso di ricordare inoltre che gli obblighi derivanti da tali trattati si configurano come obblighi "oggettivi" (supra, par. 3).

Nei medesimi termini, risulta poi inquadrabile un altro aspetto del fenomeno in questione; e cioè, la circostanza che, in aggiunta alla conclusione di accordi in materia - obbligatori solo per gli Stati parti dei medesimi -, si siano venute formando anche alcune norme consuetudinarie - obbligatorie dunque per tutti gli Stati - fra le quali, ad es, il divieto di violazioni gravi, massicce e sistematiche dei diritti dell'uomo (genocidio, apartheid, ecc.). È evidente infatti che tali norme - ancorché poche, per via delle forti diversità che presentano, a tutt'oggi, le tradizioni giuridico-politiche di vari gruppi di Stati in tema di diritti individuali -, sono parimenti idonee a limitare le attività di governo degli Stati al loro interno, configurandosi altresì come inderogabili, oltre che come produttive di obblighi erga omnes (ancora supra, par. 3).

Leggermente più complesso è quel che invece deve dirsi riguardo le modifiche di norme del diritto internazionale, già determinatesi o in corso di realizzazione, per l'influenza esercitata dal valore dei diritti dell'uomo. Dette modifiche hanno talvolta dato luogo alla limitazione di poteri statali tradizionali (ad es., il potere di allontanamento degli stranieri, oggi limitato dal divieto di espellere o estradare individui verso Paesi in cui questi rischiano di esser sottoposti a tortura o trattamenti disumani e degradanti), traducendosi, talaltra, nell'estensione di tali poteri (si pensi, ad es., alla tendenza degli Stati ad far giudicare i propri tribunali anche con riferimento ad attività pubbliche di organi - o, talvolta, di Stati - stranieri lesive dei diritti umani, in deroga alla norma internazionale sull'immunità di questi ultimi dalla giurisdizione), sia pure in funzione di tutela dei suddetti diritti.

Passando al diritto penale internazionale, ovvero alla repressione dei c.d. crimini internazionali individuali, è agevole osservare che anche qui, come nel settore dei diritti dell'uomo, il potere di governo degli Stati ha subito limitazioni, in primo luogo a causa della conclusione di una serie di accordi internazionali, sin dalla fine del secondo conflitto mondiale, a seguito dei processi di Norimberga e Tokyo. Siffatti accordi hanno inciso sulla sovranità "penalistica" degli Stati parti, imponendo loro anzitutto la punizione di crimini gravissimi, commessi su larga scala - c.d. crimini contro l'umanità - fra i quali, ad es., il genocidio (Convenzione sul genocidio del 1948), ed obbligandoli, in tempi più recenti, alla repressione di ulteriori figure criminose, non necessariamente riconducibili alla categoria dei crimini contro l'umanità, tra cui, ad es., la tortura (Convenzione contro la tortura del 1984) e un'ampia tipologia di atti terroristici. Tali accordi (che danno vita anch'essi ad obblighi "oggettivi" o erga omnes: supra, par. 3) non prevedono però, in genere, specifici meccanismi internazionali di controllo né sul loro adempimento da parte degli Stati, né per l'accertamento delle responsabilità individuali derivanti dai crimini vietati; circostanza, quest'ultima, attestata dal fatto che tanto l'istituzione dei Tribunali penali per la ex-Iugoslavia (1993) e per il Ruanda (1993), tanto l'istituzione di una Corte penale internazionale (1998) si sono verificate autonomamente rispetto ad essi (v. anche infra, par. 5).

In linea con quanto detto poco sopra, neppure nel campo del diritto penale internazionale può registrarsi sinora uno sviluppo particolarmente ampio di norme internazionali consuetudinarie. Fermo restando che alcune fattispecie criminose sono oggi delineate da norme consuetudinarie (si pensi, ad es., ai crimini contro l'umanità), è assai dubbio infatti che la loro repressione sia imposta agli Stati da obblighi di carattere generale, direttamente discendenti dalle norme suddette (dunque, in aggiunta ai trattati appena citati).

Ciò non significa, ovviamente, che norme consolidate di diritto consuetudinario non si siano anch'esse modificate per l'influenza dei valori di fondo del diritto penale internazionale; in particolare, per consentire l'effettiva realizzazione del principio della responsabilità individuale per crimini internazionali. Si pensi, ad es., al principio della c.d. "giurisdizione penale universale", in base al quale gli Stati possono punire i responsabili di tali crimini, anche in assenza di qualsiasi collegamento con la fattispecie criminosa (anche, cioè, se il crimine è stato commesso all'estero, contro uno straniero, da un cittadino straniero), estendendo i poteri loro spettanti in materia, al di là di quelli tradizionalmente previsti dal diritto internazionale.

Su questi presupposti, ci si può chiedere quindi a quali modelli di "giustizia" siano riconducibili i fenomeni in questione. A tal fine soccorre anzitutto la circostanza che, sia la tutela dei diritti dell'uomo, sia la repressione dei crimini internazionali individuali costituiscono principi generali del sistema normativo delle NU. Relativamente ai diritti dell'uomo, ciò è dimostrato dal fatto che la loro protezione è inclusa fra gli scopi fondamentali delle NU dallo stesso articolo 1 dell'accordo istitutivo dell'organizzazione (Carta delle NU), nel cui ambito sono stati del resto conclusi i principali accordi a carattere universale (v. supra, in questo paragrafo). Nonostante l'assenza di un analogo riferimento testuale alla repressione dei crimini internazionali individuali, la medesima conclusione appare tuttavia ampiamente giustificata anche per tale fenomeno, sol che si consideri che tutti i principali accordi al riguardo sono stati ugualmente conclusi nell'ambito delle NU, indipendentemente dal fatto che l'istituzione dei due Tribunali penali internazionali per la ex-Iugoslavia e per il Ruanda sia avvenuta (perlomeno formalmente: v. infra, par. 6) con atti dell'organizzazione, e che la stesso Statuto della Corte penale internazionale sia stato adottato nel medesimo ambito.

Dal momento che l'obbiettivo fondamentale delle NU è quello del mantenimento della pace, è dunque facile concludere che tanto gli sviluppi normativi in tema di tutela dei diritti dell'uomo, tanto i paralleli sviluppi in tema di repressione di crimini individuali si situano in un modello di regolamentazione delle relazioni internazionali, largamente improntato alla realizzazione di tale valore. Modello, quest'ultimo, inquadrabile, a sua volta, in una più ampia tradizione di pensiero che - sia pure in forme diverse - si dirama da Kant sino a Kelsen e Bobbio, e che viene definita, nel suo insieme, "pacifismo giuridico" (D. Zolo, 2001, pp. 32 ss. e 74 ss.).

Se questo è vero ad un livello di astrazione piuttosto elevato, qualche ulteriore precisazione va tuttavia operata, proprio alla luce di quanto detto poc'anzi. Per quel che attiene in particolare ai diritti dell'uomo, deve infatti sottolinearsi che il relativo sviluppo si è determinato, in particolar modo, nel campo dei diritti civili e politici, e nell'ambito di contesti regionali piuttosto ristretti (quale quello europeo), come risulta, del resto, dalla segnalata scarsezza di norme consuetudinarie di carattere generale. Del tutto secondario, invece, è il significato attribuibile - perlomeno sinora - alla questione dei diritti economici, sociali e culturali (per non parlare dei c.d. diritti di terza generazione, ad es., il diritto all'ambiente o allo sviluppo), soprattutto per l'assenza di meccanismi internazionali di controllo realmente efficaci sul rispetto di tali diritti. Ne consegue, dunque, che il "pacifismo giuridico", in cui si inquadrano gli sviluppi normativi in tema di diritti dell'uomo, è di marca chiaramente liberale, in piena armonia con l'idea secondo la quale i diritti sociali (istruzione, sanità, lavoro) sarebbero diritti "condizionati" o "non immediatamente esigibili", oltre che con le vicende più recenti in tema di rapporti economici fra Stati (supra, in questo paragrafo).

Sia per la tutela dei diritti dell'uomo, sia per la repressione di crimini internazionali individuali, vanno poi richiamati due aspetti già segnalati. Si tratta, in primo luogo, della circostanza che gli sviluppi determinatisi in tali settori si sono tradotti, solo in parte, nella creazione di significative istituzioni internazionali di garanzia, com'è testimoniato dall'alterna efficacia che caratterizza i meccanismi di controllo del rispetto dei diritti dell'uomo (esistenti, beninteso, in numero piuttosto consistente, ma raramente dotati di competenze penetranti, come quelle della Corte europea dei diritti dell'uomo: supra, in questo paragrafo), oltre che dall'istituzione, peraltro estremamente recente, di una Corte penale internazionale. Si tratta inoltre del fatto che, sempre per entrambi i settori in esame, l'evoluzione normativa non ha dato luogo solo alla limitazione di poteri tradizionalmente spettanti agli Stati, ma anche all'estensione di poteri propri di questi ultimi, purché finalizzati alla tutela dei diritti della persona o alla repressione di crimini internazionali individuali.

A ben vedere, il primo aspetto induce infatti ad escludere, in particolare per l'evoluzione determinatasi nel campo del diritto penale internazionale, che essa sia interamente riconducibile ad un modello di "pacifismo istituzionale", qual è quello elaborato, in special modo da Kelsen, nel cui ambito un'enfasi particolare è posta sul progetto della creazione di istituzioni giudiziarie internazionali a carattere universale anche per la repressione di crimini internazionali individuali (H. Kelsen, ed. italiana, 1990, p. 141 ss.). In analoga direzione spinge poi anche il secondo aspetto, dal momento che quest'ultimo, lungi dall'indicare una trasformazione esclusivamente orientata nel senso della creazione di istituzioni giudiziarie internazionali, evidenzia piuttosto il persistente rilievo - in entrambi i settori, ma specialmente nel campo della repressione dei crimini individuali - delle funzioni esercitabili da parte delle istituzioni giudiziarie nazionali, al di là dei loro limiti tradizionali, a tutela di interessi di carattere più generale (supra). Se ciò è vero, può allora concludersi che, benché in misura diversa, sia nel campo dei diritti dell'uomo, sia nel campo della repressione dei crimini internazionali dell'individuo, gli sviluppi appena accennati, pur situandosi senz'altro sul piano giuridico, sono perlopiù ricollegabili ad una sorta di "cosmopolitismo morale"; ad una concezione, cioè, secondo la quale il tradizionale assetto stato-centrico del diritto internazionale non può che esser superato - perlomeno in questo settore - in vista della realizzazione di valori relativi al rispetto della persona umana, universali per loro stessa natura, ed insofferenti di qualsiasi confine (F. Viola, 2001, p. 117). È in questi termini che sembra infatti meglio spiegabile la suddetta tendenza all'"ampliamento" della giurisdizione delle istituzioni giudiziarie nazionali, le quali, agendo talvolta in conflitto con gli esecutivi dei rispettivi Paesi, tendono, tra l'altro, a configurarsi come "organi della società civile" (G.W.F. Hegel, 1999, par. 209 ss.), oltre e più che come organi statali stricto sensu.

4.3. (Segue) Istanze egualitarie e tendenze cosmopolitiche nell'evoluzione della disciplina internazionalistica in tema di risorse naturali e di protezione dell'ambiente

Il terzo ed ultimo settore su cui è opportuno soffermare l'attenzione ai nostri fini, è costituito dal duplice tema della tutela dell'ambiente e della gestione di risorse naturali d'interesse generale. In quest'ambito rientrano una grandissima varietà di discipline, che spaziano dalla regolamentazione relativa alla fascia d'ozono e alla questione dei cambiamenti climatici, alla regolamentazione della diversità biologica, al regime giuridico della pesca e dello sfruttamento dei fondi marini al di fuori della giurisdizione nazionale (e cioè, di zone non soggette né alla sovranità, né al potere di controllo esclusivo di alcun Stato), alle norme sullo status internazionale dell'Antartide e delle zone artiche, ecc. Tali questioni si sono poste, nei loro termini attuali, in tempi piuttosto recenti, e sono dunque regolate essenzialmente da accordi internazionali, non essendosi ancora consolidate in materia norme consuetudinarie significative. Sebbene poi siffatti accordi siano stati conclusi separatamente, con riferimento, cioè, ad ognuno dei due settori indicati, va tuttavia notato che tra la categoria degli accordi ambientali e quella degli accordi relativi alla gestione di risorse naturali di interesse generale, sussistono importanti elementi di collegamento che inducono a considerarli unitariamente. Al di là del fatto che nei contesti normativi relativi alla gestione di risorse naturali sono costantemente rintracciabili norme in tema di protezione ambientale, non vi è dubbio che le suddette categorie di accordi riguardino la tutela di interessi collettivi, non imputabili cioè agli Stati parti degli accordi medesimi uti singuli. Proprio a detta circostanza si ricollegano, dunque, una serie di conseguenze giuridiche, che, pur riguardando anch'esse sia gli accordi sulla gestione di risorse naturali, sia quelli in materia ambientale, tendono tuttavia a variare, a seconda che gli obblighi posti da tali accordi richiedano agli Stati comportamenti da tenersi all'interno del loro ambito di sovranità territoriale, ovvero all'esterno di tale ambito.

Per ciò che concerne la prima ipotesi, possono citarsi, ad es., tanto i caratteri di fondo della disciplina dettata in materia ambientale dal Protocollo di Montreal sulla protezione della fascia di ozono (1987), tanto gli analoghi caratteri della Convenzione sulla conservazione della diversità biologica, in tema di gestione di risorse naturali (1992). Coerentemente alla loro natura di strumenti posti a tutela di interessi collettivi, entrambe le convenzioni citate danno vita, in primo luogo, ad obblighi "oggettivi" o erga omnes partes (supra, par. 3), la cui attuazione può essere pretesa, perlomeno in teoria, da qualsiasi Stato parte, nei confronti di un altro Stato parte, indipendentemente da un interesse specifico in tal senso. In altri termini, per l'operare delle norme in questione gli Stati sono tenuti ad esercitare attività tipicamente rientranti nell'esercizio della loro sovranità - in special modo, attività di carattere industriale -, finalizzandole, non solo al soddisfacimento di interessi propri, ma anche alla realizzazione di scopi di rilievo generale, come quello della protezione dell'ambiente (Protocollo sulla fascia di ozono), ovvero della conservazione della diversità biologica (Convenzione sulla biodiversità). In questa dimensione, e cioè come "vincoli funzionali" all'esercizio di poteri sovrani (M. Gestri, 1996, p. 402 ss.), vanno dunque configurati alcuni principi di carattere molto generale, largamente contenuti nei trattati in materia, tra cui, in particolare, i principi dello "sviluppo sostenibile" e dell'"equità intergenerazionale", entrambi riguardanti la conservazione dell'ambiente e delle risorse naturali anche a beneficio delle generazioni future. Ritornando più specificamente al Protocollo di Montreal e alla Convenzione sulla biodiversità, va poi ancora segnalato che l'intensità degli obblighi posti a carico delle parti è graduata in omaggio al principio delle "responsabilità comuni, ma differenziate", in base al quale i Paesi in sviluppo sono sottoposti ad un trattamento più favorevole, rispetto a quello previsto per gli Stati industrializzati.

Relativamente alla seconda ipotesi, si possono richiamare invece, sia la regolamentazione dello sfruttamento dei fondi marini siti al di là della giurisdizionale nazionale (supra), contenuta nella Convenzione sul diritto del mare del 1982, sia le norme sull'utilizzazione della luna e dei corpi celesti, dettate dall'Accordo sulla luna del 1979: entrambe le discipline in questione impongono infatti agli Stati obblighi relativi all'utilizzazione di risorse di interesse generale, site al di fuori del loro ambito di sovranità, definendo queste ultime "patrimonio comune dell'umanità", e condizionandone in misura significativa le operazioni di sfruttamento al rispetto del c.d. principio o approccio "precauzionale" (in base al quale può richiedersi l'astensione da certe attività ragionevolmente qualificabili come pericolose, anche in assenza di piena certezza scientifica al riguardo).

In particolare, con l'espressione "patrimonio comune dell'umanità" - imposta-si nel linguaggio giuridico-diplomatico nel corso degli anni Settanta, ad opera dei Paesi in sviluppo -, non solo si intendeva escludere che le risorse in esame fossero passibili di appropriazione stabile da parte degli Stati (ciò che vale anche per le risorse dell'Antartide, parimenti definite "patrimonio comune dell'umanità", in più risoluzioni dell'Assemblea generale delle NU, ma sostanzialmente soggette ad un regime di libertà di sfruttamento), ma anche che questi vi potessero accedere in un regime di pari libertà di sfruttamento, considerato che tale regime avrebbe naturalmente finito per avvantaggiare i Paesi provvisti di maggiori disponibilità finanziarie e di adeguati strumenti tecnologici. In piena coerenza con l'idea della "titolarità" collettiva dei fondi marini al di là delle giurisdizioni nazionali, la Convenzione sul diritto del mare del 1982 dava vita ad un vero e proprio sistema di gestione internazionale dei medesimi, imperniato sull'istituzione di un'organizzazione internazionale denominata "Autorità internazionale dei fondi marini". A tale organizzazione spettava infatti, secondo le norme della Convenzione, sia la competenza a regolare lo sfruttamento dei fondi marini (intrapreso dagli Stati dotati degli strumenti necessari), sia la competenza ad effettuarlo direttamente (attraverso un proprio organo denominato "Impresa", agente in parallelo, rispetto agli Stati, o alle imprese nazionali cui risultasse dovuta l'individuazione dei siti da sfruttare), "nell'interesse dell'intera umanità" (art. 137). L'uso dell'imperfetto è peraltro opportuno, dal momento che il sistema appena descritto è stato notevolmente modificato (ancor prima dell'inizio effettivo delle attività di sfruttamento) da un Accordo concluso a New York nel 1994, sotto la spinta dei Paesi industrializzati; accordo che ha subordinato l'azione dell'Autorità ai principi del libero mercato da vari punti di vista, disponendo, in particolare, che lo sfruttamento direttamente intrapreso da quest'ultima debba avvenire tramite la costituzione di "joint ventures" (imprese miste) con operatori nazionali, e nel rispetto di "sani principi commerciali".

Un'evoluzione in sostanza analoga ha interessato del resto l'Accordo sulla luna del 1979, anch'esso imperniato sul principio della non appropriabilità della luna stessa e dei corpi celesti, definiti "patrimonio comune dell'umanità". Ed infatti, sebbene l'istituzione di un'organizzazione internazionale a fini di gestione collettiva costituisse chiaramente il modo più naturale di dare attuazione al suddetto principio, ciò non si è sinora verificato; inoltre, la stessa partecipazione degli Stati all'Accordo è, a tutt'oggi, assai ridotta e scarsamente significativa (mancano, ad es., gli Stati Uniti), diversamente da quanto è accaduto per la Convenzione di Montego Bay e per il susseguente Accordo di New York.

Malgrado le differenze intercorrenti fra le due categorie di ipotesi esaminate, gli sviluppi normativi sin qui considerati risultano dunque ispirati - in entrambi i casi ed in linea generale - a principi di giustizia ascrivibili al modello del c.d. "cosmopolitismo morale" (supra, par. 4.2). Sia per i comportamenti cui gli Stati sono tenuti nel loro ambito di sovranità territoriale, sia per quelli da adottare in spazi esterni, gli obblighi internazionali su di essi incombenti sono posti infatti a tutela dell'umanità nel suo complesso (R.J. Dupuy, 1979, p. 209); vale a dire, a protezione di interessi non imputabili agli Stati, in quanto enti governanti, ma, perlomeno potenzialmente, alla comunità universale dei governati - ossia, degli individui -, la quale, per sua stessa natura, trascende i tradizionali confini degli Stati stessi. Tale aspetto tende infatti a prevalere sull'esigenza di compensare le disuguaglianze di fatto fra gli Stati, che pure si trova chiaramente espressa, sia nel principio delle "responsabilità comuni, ma differenziate" - relativo all'assolvimento degli obblighi derivanti dal Protocollo di Montreal e dalla Convenzione sulla biodiversità -, sia nei poteri di "redistribuzione" delle risorse marine - in funzione dei bisogni dei Paesi in sviluppo - affidati all'Autorità internazionale dei fondi marini.

Se è vero poi che i due trattati appena citati sono regolarmente in vigore, e se è vero che la stessa Autorità dei fondi marini non è stata eliminata dagli sviluppi normativi successivi alla Convenzione del 1982, non può tacersi peraltro che l'ispirazione marcatamente "solidaristica" che caratterizzava in origine le competenze di quest'ultima ne è risultata decisamente modificata, visto il rilievo attribuito ai principi del libero mercato, con i quali l'azione dell'Autorità è chiamata ad armonizzarsi - come appena osservato - a seguito dell'Accordo di New York del 1994.

D'altra parte, nel senso di un superamento di esigenze di giustizia interstatali ed egualitarie, a favore del suddetto modello del "cosmopolitismo morale", militano tre, ulteriori circostanze. In primo luogo, deve sottolinearsi che è proprio in un quadro siffatto che si spiegano sia la scarsa partecipazione all'Accordo sulla luna - anch'esso improntato alla logica solidaristica del principio del patrimonio comune dell'umanità -, sia la mancata istituzione, ad opera di detto accordo, di un ente analogo all'Autorità dei fondi marini; circostanza, quest'ultima, che attesta altresì una certa resistenza degli Stati a dar vita a forme di cooperazione istituzionale realmente penetranti in materia. A ciò va aggiunta in secondo luogo la forte coloritura etica che connota alcuni principi di carattere generale, recentemente affacciatisi nel settore della tutela dell'ambiente e di gestione delle risorse - in particolare, i connessi principi dello sviluppo sostenibile e dell'equità intergenerazionale, ma anche il c.d. principio di precauzione -, a fronte del fatto che il loro significato e la loro portata dal punto di vista giuridico sono spesso di difficile definizione. Infine, va sottolineato che l'evoluzione più recente della normativa internazionale sulla tutela dell'ambiente tende a caratterizzarsi per il crescente rilievo assunto, sotto più profili, dal ruolo dei privati (o di gruppi di privati), i quali, oltre a costituire, molto di frequente, i reali destinatari di tale normativa, contribuiscono a formarla, a darvi applicazione, ad attivarne i meccanismi di garanzia in caso di violazione; e ciò, a fronte del secondario rilievo, viceversa attribuibile in materia agli Stati e ai meccanismi interstatali, tradizionalmente propri del diritto internazionale (M. Iovane, Napoli, 2005, p. 143 ss.).

5. Potere degli Stati ed esigenze di giustizia nell'evoluzione della funzione giurisdizionale internazionale: insufficienze delle istituzioni operanti sul piano universale e crescente diffusione di sistemi settoriali (in particolare, in tema di diritti dell'uomo e di crimini internazionali individuali)

Sia il campo dei meccanismi di accertamento delle norme internazionali, sia quello dei meccanismi relativi alla loro attuazione coattiva costituiscono settori di importanza centrale per l'analisi che qui si tenta di condurre. Si è già accennato che la sottoposizione degli Stati a procedimenti efficaci e tendenzialmente istituzionalizzati di soluzione delle loro controversie - e dunque, di accertamento delle norme internazionali - non può che tradursi in una limitazione del potere di governo, ovvero della sovranità di questi ultimi (supra, par. 1); limitazione che può rivelarsi ancor più significativa dal punto di vista dei rapporti fra "potere" e "giustizia", in quanto sia in grado di imporsi a tutti gli Stati, dunque anche agli Stati "forti" del sistema delle relazioni internazionali. La medesima considerazione è ovviamente estensibile al campo dell'attuazione coercitiva delle norme internazionali, con riferimento al quale la duplice circostanza della mancanza di un'autorità istituzionalizzata e del persistente squilibrio di potere fra gli Stati che compongono la comunità internazionale (ibidem), continua ad esser ritenuta la ragione di maggiore debolezza dell'ordinamento internazionale come fenomeno giuridico.

Partendo dalla questione della soluzione delle controversie, ci si può chiedere in che modo gli sviluppi registratisi a partire dal secondo dopoguerra, si siano effettivamente orientati verso una maggiore istituzionalizzazione dei relativi meccanismi; nel senso, cioè, di una progressiva assimilazione di tali meccanismi al modello "statale" della giurisdizione, esercitata da un corpo permanente di tecnici (giudici), terzi ed imparziali, abilitati ad adottare decisioni vincolanti rispetto alle parti di una controversia, ed agenti, altresì, indipendentemente dal consenso di queste ultime.

A questo riguardo vi è da ricordare, in primo luogo, la creazione della Corte internazionale di giustizia (CIG), istituita dalla stessa Carta delle NU (sulla falsariga di quanto già si era verificato per la Corte permanente di giustizia internazionale, nell'ambito della Società delle Nazioni) e definita come "principale organo giurisdizionale dell'organizzazione" (art. 92 della Carta). Se è vero che, a dispetto di questa definizione, la competenza della CIG a dirimere controversie fra Stati resta di carattere arbitrale, necessitando del consenso degli Stati parti della controversia stessa (l'art. 36, par. 2 del suo Statuto stabilisce che essa possa scattare automaticamente solo nei confronti degli Stati che l'abbiano accettata), è pur vero infatti che il grado di istituzionalizzazione che tale organo presenta è piuttosto significativo: basti pensare che la Corte è permanente, che i suoi componenti sono scelti (dal Consiglio di Sicurezza e dall'Assemblea generale) fra tecnici (giuristi) di provata competenza, e che questi ultimi sono vincolati ad operare in piena indipendenza.

A ciò deve aggiungersi peraltro che il ruolo svolto dalla CIG nella prassi concreta della soluzione delle controversie internazionali ha conosciuto alterne vicende, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Tale ruolo è risultato decisamente ridotto nel corso dell'intero periodo della guerra fredda, non solo per la mancata accettazione della sua competenza da parte degli Stati del blocco sovietico, ma anche per la resistenza a farvi ricorso dei Paesi in sviluppo, oltre che per la diffusa abitudine a non dare esecuzione alle sue decisioni (ad es., da parte degli Stati Uniti e dell'Iran di Khomeini: B. Conforti7, 2006, p. 389). Solo a partire dagli anni Novanta, il quadro appena tracciato si è invece modificato, dato che sono notevolmente aumentati i ricorsi sottoposti alla Corte, ferma restando, però, la tendenza degli Stati più potenti a sottrarsi al suo giudizio (né Cina, né Russia ne hanno accettato la competenza, mentre gli Stati Uniti hanno revocato la loro accettazione nel 1986).

Sempre a proposito della soluzione delle controversie, il secondo aspetto da sottolineare è costituito dal notevole incremento di meccanismi giurisdizionali o para-giurisdizionali, operanti nell'ambito specifici settori normativi; fenomeno, quest'ultimo, prodottosi in particolare negli ultimi anni, in relazione al quale si parla da più parti di "giurisdizionalizzazione" del diritto internazionale. A differenza dalla CIG - che ha competenza generale, poiché risulta azionabile rispetto a qualsiasi controversia internazionale fra Stati - detti meccanismi sono previsti nel quadro di accordi internazionali relativi a specifiche materie (talvolta istitutivi di organizzazioni internazionali), con la conseguenza che la loro operatività si limita solo alle controversie che ricadano in tali materie; inoltre, mentre alcuni di essi hanno portata universale, essendo aperti alla partecipazione di qualsiasi Stato, altri hanno semplicemente portata regionale.

Fra i meccanismi a portata universale, possono ricordarsi sia il Tribunale del mare - istituito nel 1996, sotto forma di tribunale arbitrale, con riferimento alla già citata Convenzione sul diritto del mare (supra, par. 4.3) -, sia il complesso sistema di soluzione delle controversie in materia di commercio internazionale fra Stati, creato nel 1994 nel quadro del Trattato istitutivo dell'OMC (supra, par. 4.1); sistema, quest'ultimo, che, pur non essendo qualificabile come pienamente giurisdizionale (sia per lo spirito "conciliativo" che lo caratterizza, sia per le competenze ancora spettanti, nel suo ambito, ad organi di carattere politico), rivela di possedere ugualmente connotati tipici dei procedimenti giurisdizionali (in particolare, l'obbiettivo del rispetto della legalità: A. Ligustro, 1996, p. 602 s.). Fra quelli a carattere regionale, è agevole citare l'esempio, estremamente significativo, della Corte di giustizia della Comunità europea (CGE), operante nel quadro dell'ordinamento comunitario e dell'Unione europea, e dotata peraltro di una serie di competenze, solo in parte relative alla soluzione di controversie fra Stati. A tale Corte fanno ora riscontro una molteplicità di corti regionali di tipo analogo, tutte dotate di marcati connotati giurisdizionali (in particolare, la terzietà, l'imparzialità, e la competenza tecnica dei giudici che ne sono membri), ancorché ugualmente operanti su fondamento consensuale.

In questo quadro, una menzione specifica - e veniamo così al terzo elemento di rilievo - deve poi dedicarsi ai sistemi di soluzione di controversie in materia di diritti dell'uomo e ai tribunali penali internazionali, cui già si è fatto cenno in precedenza, a proposito dello sviluppo dalle norme internazionali sui diritti dell'uomo e sulla repressione di crimini internazionali individuali (par. 4.2). Per quanto concerne in particolare la materia dei diritti dell'uomo, ciò che qui preme sottolineare è che gli organi internazionali di controllo - in linea con la natura "individuale" degli interessi oggetto di tutela - operano con prevalente riferimento a controversie fra Stati ed individui, piuttosto che rispetto a controversie fra Stati, analogamente a quanto avviene per la CGE (che pur occupandosi anche di diritti dell'uomo, è però prevalentemente chiamata ad applicare norme economiche). Tale circostanza emerge anzitutto nei sistemi di tutela di tipo giurisdizionale (ad es., la Corte europea: ancora supra, par. 4.2) o "quasi giurisdizionale" (ad es., la Corte interamericana dei diritti dell'uomo - CADU -, la cui competenza presuppone un tentativo di conciliazione fra l'individuo e lo Stato accusato della violazione), ma tende a ricorrere anche nei sistemi di diversa tipologia, perlomeno nel campo dei diritti civili e politici (ad es., nel PDCP, ibidem).

Mutatis mutandis, un'osservazione analoga può poi svolgersi anche riguardo ai tribunali penali internazionali, che si configurano come organi miranti ad accertare responsabilità individuali, piuttosto che responsabilità statali.

Qualche conclusione deve ora esser tratta in merito agli esiti del processo di istituzionalizzazione dei meccanismi di soluzione delle controversie internazionale, appena descritto.

Relativamente alla Corte internazionale di giustizia, il suddetto processo non ha dato luogo, a tutt'oggi, a risultati particolarmente significativi, nonostante i marcati connotati giurisdizionali di cui la Corte era dotata già in partenza, e malgrado il rilancio che essa ha vissuto nel corso degli ultimi anni (supra). Quel che induce a concludere in tal senso è, con ogni evidenza, la segnalata ritrosia di molti Stati, in particolare delle grandi Potenze, a sottoporsi alla sua competenza. Vista nell'ottica qui adottata del rapporto fra "potere" e "giustizia", tale circostanza non favorisce anzitutto il concreto realizzarsi del valore dell'uguale sottoposizione degli Stati al diritto internazionale, ovverosia del valore dell'uguaglianza "formale". Allo stesso tempo, essa sembra confermare, anche con riferimento al fenomeno in esame, quanto già osservato per il campo della tutela dei diritti dell'uomo; e cioè, che l'evoluzione dell'ordinamento internazionale continua a non mostrarsi agevolmente riconducibile al paradigma del "pacifismo istituzionale", delineato soprattutto da Kelsen. Nell'ambito di siffatto modello (ancora supra, par. 4), il progressivo affermarsi di istituzioni giudiziarie a competenza generale, capaci di imporsi a tutti gli Stati - sin anche con riferimento ai rapporti fra Stati e individui - gioca infatti un ruolo essenziale per la realizzazione del valore supremo della pace; ruolo, quest'ultimo, che, perlomeno sinora, è stato svolto in misura assai ridotta dalla CIG, sebbene essa costituisca la massima istituzione giudiziaria internazionale esistente, e malgrado l'impulso apportato da alcune sue decisioni ai fini dell'evoluzione del diritto internazionale consuetudinario.

Considerazioni diverse e più articolate devono svolgersi invece riguardo alla proliferazione di meccanismi settoriali di soluzioni delle controversie, e, sempre in quest'ambito, con specifico riferimento al fenomeno dei tribunali penali internazionali e delle corti in tema di diritti dell'uomo.

In linea generale, e a differenza di quanto appena visto per la CIG, i meccanismi in questione hanno svolto un ruolo piuttosto significativo, visto che la sotto-posizione degli Stati alla loro competenza tende sempre più a configurarsi come un effetto automatico della partecipazione degli Stati stessi ai trattati in questione (ciò che si verifica, ad es., sul piano universale, per il sistema di soluzione delle controversie OMC, e, sul piano regionale, per la Corte europea dei diritti dell'uomo) Ne consegue dunque che, nell'ambito di siffatti meccanismi, il principio dell'uguale sottoposizione degli Stati al diritto internazionale si va effettivamente realizzando, sia pure limitatamente agli specifici settori normativi di loro competenza.

Se è vero poi che detti meccanismi costituiscono un esempio - sia pure a livelli diversi - di cooperazione istituzionale fra gli Stati stessi, essi (meccanismi) non possono tuttavia considerarsi forme di manifestazione, tout court, di un sistema globale ed integrato di soluzione delle controversie, avente non solo carattere marcatamente giurisdizionale, ma facente capo, in ultima analisi, alla CIG, secondo i principi di fondo c.d. "pacifismo istituzionale" (supra, par. 4.2). Della parziale riferibilità di tale modello teorico allo specifico fenomeno dello sviluppo delle norme internazionali sui diritti dell'uomo e delle norme penali internazionali si è già detto in precedenza (ibidem). La difficoltà di riferirlo anche alla questione in esame deriva dal fatto che sia nei sistemi operanti sul piano universale (ad es., Tribunale internazionale del mare e sistema di soluzione delle controversie OMC), sia in quelli a portata regionale (ad es., Corte europea dei diritti dell'uomo, Corte di giustizia della Comunità europea), non sono rintracciabili regole procedurali che ne assicurino la subordinazione rispetto alla CIG sul piano istituzionale, consentendo dunque di parificare la posizione di quest'ultima a quella delle corti supreme nell'ambito degli ordinamenti giuridici statali. Siffatta circostanza non esclude, ovviamente, che nei sistemi in questione si debba in ogni caso dare applicazione ai principi fondamentali dell'ordinamento internazionale, in particolare ai principi di diritto cogente (supra, par. 3); principi che costituiscono, talvolta, la diretta "matrice" di detti sistemi, come avviene, ad esempio, nel campo dei diritti dell'uomo. Va precisato però che l'applicazione dei siffatti principi si realizza in virtù della loro stessa forza normativa - che è idonea a prevalere su qualsiasi altra norma internazionale confliggente (ibidem) -, non già della loro eventuale enunciazione in decisioni della CIG.

Riportando ora specificamente l'attenzione sui sistemi di soluzione delle controversie in materia di diritti dell'uomo, è facile osservare che dal loro prevalente operare in relazione a controversie fra Stati ed individui scaturisce una conseguenza aggiuntiva rispetto a quella che caratterizza in generale i sistemi settoriali di soluzione delle controversie. Oltre ad assicurare l'uguale sottoposizione degli Stati parti dei trattati in materia alle norme di questi ultimi, i sistemi in questione contribuiscono infatti a limitare il potere di detti Stati al loro interno, sia pure su scala prevalentemente regionale, e, pressoché esclusivamente, in materia di diritti civili e politici. Sotto questo profilo, essi costituiscono un'importante garanzia di realizzazione di quel pacifismo giuridico di marca liberale, del quale l'affermazione di tali diritti all'interno degli Stati è - come si è già detto - chiaramente espressione (par. 4.2).

Analogamente va considerata anche l'esperienza dei tribunali penali internazionali. Tale esperienza riguarda infatti anch'essa il versante interno della sovranità statale, dal momento che è proprio su questo versante che si situa il potere giurisdizionale in materia penale, sul quale i poteri attribuiti ai suddetti tribunali vanno naturalmente ad incidere. Al riguardo, va però aggiunto che questi ultimi non sono riconducibili ad una tipologia unitaria, non essendo tutti il frutto di accordi, come accade viceversa per quelli in materia di diritti dell'uomo. Basti pensare, ad esempio, che mentre la Corte penale permanente è stata istituita tramite un trattato internazionale multilaterale (lo Statuto di Roma del 1998), i Tribunali per la ex-Iugoslavia e per il Ruanda sono il frutto di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle NU, adottate per far fronte a due situazioni specifiche. Con ciò non vuol negarsi, beninteso, che entrambe le tipologie in questione siano riconducibili ad uno dei motivi di fondo del "pacifismo giuridico", qual è l'idea che la punizione dei responsabili individuali di crimini particolarmente gravi costituisca uno dei presupposti di realizzazione della pace internazionale. Si vuol dire però che solo la Corte penale internazionale, in quanto istituzione permanente, dotata di competenza generale e fondata su un largo accordo multilaterale, può altresì ritenersi - perlomeno sulla carta - un'autentica forma di manifestazione del modello del "pacifismo istituzionale", sebbene tale Corte abbia preso da poco, timidamente, a funzionare, e con la strenua opposizione degli Stati Uniti che non ne hanno ratificato lo Statuto.

6. Ispirazione "pacifista", tendenze alla "costituzionalizzazione" dell'ordinamento e rispetto dei diritti umani, nell'evoluzione dei meccanismi di attuazione coattiva di norme internazionali

Per chiudere il discorso resta dunque da vedere in quale direzione si sia evoluto l'ordinamento internazionale nel campo dell'attuazione coattiva delle sue norme; campo tradizionalmente caratterizzato, come si è già detto, dal meccanismo dell'autotutela (supra, par. 1) e dall'uso della forza militare. Più esattamente, deve ora verificarsi se, ed in che modo, gli sviluppi determinatisi a seguito del secondo conflitto mondiale si siano tradotti, anche in questa materia, in una limitazione del potere dei singoli Stati (in special modo degli Stati più potenti della comunità internazionale), storicamente forte nell'ambito del suddetto meccanismo.

Al riguardo è necessario illustrare in breve tale evoluzione, con particolare - ancorché non esclusivo - riferimento all'aspetto fondamentale dell'uso della forza armata a fini coercitivi, distinguendo, anche qui, fra il periodo della contrapposizione fra i blocchi, e quello, ancora in corso, seguito alla loro disgregazione.

Per quanto attiene al primo dei periodi in questione, due sono gli elementi da porre in risalto, entrambi agevolmente rintracciabili nella Carta delle NU. Si tratta anzitutto del divieto imposto agli Stati di adottare misure implicanti l'uso della forza armata nelle loro relazioni, sancito dall'art. 2, par. 4 della Carta medesima; e si tratta, inoltre, della correlativa attribuzione al Consiglio di Sicurezza - vale a dire al principale organo politico dell'Organizzazione - del potere di decidere l'adozione delle medesime misure - o anche di misure non implicanti la coercizione militare (ad esempio, misure di embargo) - al fine del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale (art. 39 ss., cap. VII della Carta). I suddetti elementi costituiscono infatti le assi portanti del sistema di sicurezza collettiva, ovvero del progetto - emerso dal secondo conflitto mondiale - di gestione accentrata ed istituzionalizzata delle funzioni di attuazione dell'ordinamento giuridico internazionale nel campo del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; progetto volto dunque a superare, in tale campo, il tradizionale meccanismo dell'autotutela. Nell'ambito di questo modello, l'uso - individuale o collettivo - della forza armata è infatti consentito agli Stati, solo per reagire a violazioni di norme internazionali che si siano esse stesse tradotte in un "attacco armato" - c.d. legittima difesa individuale o collettiva (art. 51 della Carta) -, fermo restando il loro diritto a reagire, con contromisure di carattere non militare, a fronte delle lesioni direttamente subite per effetto di una qualsiasi violazione del diritto internazionale.

Può dirsi che il modello sinteticamente delineato abbia avuto effettivo riscontro nella prassi, nel corso di tutta la "guerra fredda"?

Relativamente al divieto dell'uso della forza armata nelle relazioni internazionali, deve rilevarsi che esso si è andato in realtà consolidando nel periodo in questione, trasformandosi, da norma di carattere convenzionale (la Carta delle NU è infatti un trattato), in principio generale di diritto consuetudinario. Ciò non significa, beninteso, che episodi - anche gravi - di uso della forza armata non si siano registrati, fra il 1945 e il 1989, particolarmente sotto forma di conflitti interni alle aree geopolitiche di influenza dei due "blocchi" (basti pensare, ad esempio, al conflitto del Vietnam, all'invasione sovietica dell'Afghanistan). Quel che è certo, però, è che al verificarsi di tali episodi si è progressivamente accompagnata la diffusa coscienza della loro antigiuridicità - espressa tramite proteste degli Stati, dichiarazioni collettive di condanna, ecc. -, allorché le azioni militari in cui essi si traducevano non corrispondevano alle limitate ipotesi - poc'anzi accennate - di uso lecito della forza militare (si pensi, ad es., alle proteste causate dalla prassi degli interventi armati a protezione di cittadini all'estero).

Per quanto concerne le competenze attribuite alle NU, in particolare al Consiglio di Sicurezza, in tema di pace e di sicurezza internazionale, è invece difficile concludere che esse abbiano avuto modo di esplicarsi in modo soddisfacente. È noto infatti che, malgrado il cap. VII della Carta disponesse la costituzione di un vero e proprio contingente militare delle NU (artt. 43 ss.) - posto sotto la direzione del Consiglio di Sicurezza - tale contingente non si è mai formato, ragion per cui il Consiglio non è mai stato in grado di intraprendere le azioni militari contemplate dalla Carta stessa nei confronti di Stati autori di violazioni della pace e alla sicurezza internazionale, ovvero di minacce a siffatti valori (art. 42). A tale circostanza - determinata dal mancato accordo fra i cinque membri permanenti del Consiglio, dotati del diritto di veto - ha fatto poi riscontro, per analoghe ragioni, un'utilizzazione piuttosto ridotta dello stesso strumento delle misure non implicanti l'uso della forza (art. 41; ad esempio, misure di embargo), cui si è accompagnata la tendenza, da parte degli Stati, ad adottare tali misure, collettivamente, in risposta a violazioni particolarmente gravi di obblighi internazionali posti a tutela di valori fondamentali della comunità internazionale nel suo complesso. Si tratta, in altri termini, del discusso fenomeno delle contromisure pacifiche collettive, che si è venuto affermando già nel periodo della guerra fredda, non solo con riferimento a violazioni del divieto dell'uso della forza (com'è previsto dal citato art. 51 della Carta delle NU), ma anche in caso di violazioni gravi e sistematiche di diritti umani fondamentali (ad es., genocidio, apartheid, tortura su larga scala, sospensione generalizzata dei diritti civili, ecc.), ovvero di violazioni del principio di autodeterminazione dei popoli (C. Focarelli, 1994, p. 293 ss.).

Malgrado le aspettative suscitate dalla fine del mondo bipolare, la difficoltà delle NU ad operare in linea con il modello originario non è stata superata neppure nel secondo periodo indicato, vale a dire fra i primi anni Novanta e i nostri giorni.

Nel corso di tale lasso di tempo, non può negarsi che l'Organizzazione abbia manifestato la concreta propensione ad intervenire, in varie forme, in una molteplicità di crisi internazionali rilevanti, com'è attestato da una serie di circostanze piuttosto note. Si consideri, ad esempio, l'automatica estensione della nozione di "minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale" alle situazioni di violazione generalizzata dei diritti umani consumatesi all'interno di certi Stati; estensione, quest'ultima, che ha costituito il presupposto - ai sensi della Carta - per l'adozione di una maggiore quantità di sanzioni non comportanti la coercizione militare (art. 41) nei confronti dei governi ritenuti responsabili di tali situazioni. Si consideri, ancora, l'istituzione - verificatasi nella prima metà degli anni Novanta - dei tribunali penali internazionale per la ex-Iugoslavia e per il Ruanda, con i quali si è cercato di garantire la punizione dei responsabili dei gravissimi crimini commessi nel corso dei relativi conflitti. E si consideri, infine, il progressivo mutamento di natura delle c.d. operazioni di mantenimento della pace, "peace keeping operations", mediante le quali l'organizzazione, più che limitarsi a contribuire alla realizzazione della pace in senso negativo - intesa, cioè, come assenza di conflitti -, ha progressivamente preso a svolgere funzioni di governo provvisorio e di ricostruzione di Stati - a seguito di situazioni conflittuali -, in direzione del modello, tipicamente occidentale, dello stato costituzionale di diritto.

A fronte del suddetto interventismo, l'impossibilità, per il Consiglio di Sicurezza, di svolgere direttamente funzioni di coercizione militare si è mantenuta però intatta, giacché neppure il mutamento del quadro storico ha determinato le condizioni politiche per il realizzarsi del multilateralismo prefigurato dalla Carta, con la costituzione del contingente cui si è accennato poc'anzi. Proprio per questa ragione, sin dagli inizi degli anni Novanta, si è progressivamente affermata la propensione del Consiglio ad autorizzare gli Stati all'uso della forza nei confronti di Stati responsabili di veri e propri atti di aggressione (ad es., contro l'Iraq, per l'invasione del Kuwait nel 1991), o, comunque, in presenza di violazioni della pace e di minaccia alla pace (Conforti, 2005, p. 210 ss. e Picone, 2005, p. 17 ss.). Già nell'ambito della prassi in questione, ma, ancor più, in una serie di operazioni militari effettuate in assenza di qualsiasi autorizzazione da parte del Consiglio, si è venuta quindi manifestando una tendenza alla gestione unilaterale dell'uso della forza armata; tendenza, quest'ultima, di cui possono considerarsi espressione sia l'intervento a motivazione umanitaria, effettuato dagli Stati della NATO, in Iugoslavia nel 1999, sia l'intervento effettuato in Afghanistan nel 2002 - da una coalizione di Stati a guida statunitense - in risposta agli attacchi terroristici del settembre 2001, sia l'intervento - parimenti guidato dagli Stati Uniti - svoltosi in territorio irakeno nel corso del 2003.

La situazione descritta non permette di concludere, in verità, che il divieto dell'uso della forza militare da parte degli Stati, consolidatosi nel corso della guerra fredda, sia ormai giuridicamente superato (= caduto in desuetudine), sol che si rammenti che la liceità di alcuni degli interventi ricordati - l'intervento in Iugoslavia e, soprattutto, l'intervento in Iraq - è stata, da più parti, contestata, nell'ambito della comunità internazionale, proprio tramite un richiamo alla vigenza di detto divieto. Vero è però che tale divieto risulta parzialmente ridimensionato, se si pensa che l'intervento in Iugoslavia, malgrado gli aspetti di illiceità che lo caratterizzavano, non venne qualificato, dagli Stati che vi si opponevano, come una forma di aggressione nei confronti di quello Stato; se si pensa, in secondo luogo, che l'intervento in Afghanistan è stato generalmente considerato come un caso di legittima difesa, ancorché fosse piuttosto dubbia la riconducibilità all'Afghanistan (e cioè, ad uno Stato, come richiesto dalla norma internazionale in materia) degli attentati dell'11 settembre 2001, ai quali esso si proponeva di reagire; se si pensa, in terzo luogo, che le recenti operazioni militari condotte da Israele, in risposta alle azioni armate di "Hezbollah", tendono ad esser ritenute - perlomeno in linea di principio (fatte salve, cioè, le gravi violazioni del diritto umanitario verificatesi) - lecite, malgrado le suddette azioni risultino, anch'esse, difficilmente considerabili come un comportamento dello Stato libanese (e dunque, come un attacco armato da parte di uno Stato, al quale è lecito reagire in legittima difesa).

Ciò premesso, può quindi tirarsi qualche somma riguardo alle modifiche complessivamente subite dal meccanismo dell'autotutela, a partire dalla fine della guerra, ovvero, sull'incidenza di tali modifiche sul potere tradizionalmente spettante agli Stati ai fini dell'attuazione coattiva del diritto internazionale.

Il primo aspetto da sottolineare concerne il ruolo delle NU in tema di uso della forza militare a fini di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; campo, quest'ultimo, nel quale essa ha rivestito una posizione piuttosto modesta - come si è visto - sia nello scorso quindicennio, sia nel periodo della guerra fredda. Perlomeno per quel che attiene alla coercizione militare, è dunque facile concludere che il modello di giustizia al quale la stessa creazione delle NU era grosso modo riconducibile, e cioè il modello del c.d. "pacifismo istituzionale", non ha trovato concreto riscontro nella complessiva evoluzione dell'ordinamento internazionale degli ultimi sessant'anni. In altri termini, la ridotta centralità del ruolo (ovvero, del potere) oggi spettante ai singoli Stati in tema di uso della forza armata non si configura come il frutto di un processo lineare e compiuto di istituzionalizzazione della comunità internazionale nel "quadro" delle NU; e ciò, beninteso, indipendentemente da ogni valutazione - positiva o negativa (D. Zolo, 1995, passim) - riguardo l'idoneità del sistema delle NU a garantire un assetto giusto e pacifico delle relazioni internazionali.

Ciò trova poi conferma anche nel quadro generale delle garanzie non militari di attuazione di norme internazionali. Sia nel periodo della guerra fredda, sia negli ultimi quindici anni, gli sviluppi più significativi in materia si sono infatti anch'essi verificati al di fuori del contesto istituzionale delle NU, se non altro, al di fuori di quello originariamente delineato dalla Carta. Si tratta anzitutto dell'affermarsi della tendenza di gruppi di Stati - poc'anzi sottolineata - a procedere all'adozione di contromisure pacifiche, dinanzi alla violazione di taluni obblighi posti a tutela di valori fondamentali della comunità internazionale nel suo complesso; prassi, quest'ultima, che appare difficilmente riconducibile al disegno della Carta, nonché - con ogni evidenza - al modello del pacifismo "istituzionale" di marca kelseniana. E si tratta, in secondo luogo, delle misure più significative - l'istituzione di tribunali internazionali per la punizione dei responsabili di crimini internazionali (supra, parr. 1, 4.3 e 5) ed il governo provvisorio di territori in situazioni post conflittuali, al fine di instaurarvi istituzioni liberaldemocratiche (ancora supra, in questo paragrafo) - in cui il recente interventismo delle NU, a fini di tutela della pace e della sicurezza internazionale, si è venuto manifestando; misure, queste, anch'esse adottate ben al di là delle competenze previste dalla Carta e, dunque, difficilmente riconducibili al modello del pacifismo "istituzionale". Basti pensare, a tal riguardo, che l'istituzione di tribunali penali internazionali non era prevista dalla Carta, e che i tribunali per il Ruanda e per la ex-Iugoslavia sono entrambi giurisdizioni speciali, dunque ben lontane dalle caratteristiche di fondo che una giurisdizione penale internazionale è destinata a rivestire nell'ambito di detto modello (supra, par. 5); e basti pensare inoltre che le funzioni di governo di territori e di indirizzo politico costituzionale, sempre più caratterizzanti le operazioni di peace keeping dell'organizzazione, accedono spesso ad azioni militari, non deliberate dall'organizzazione stessa, ma autonomamente intraprese dagli Stati, come, ad es., nel caso del Kosovo o dell'Iraq (supra, in questo paragrafo).

Se è vero dunque che non è al modello del "pacifismo istituzionale" che appaiono complessivamente ispirati gli sviluppi appena considerati, rimane però da vedere a quali paradigmi sia utile far riferimento, in positivo, per tentarne un inquadramento, ancorché minimo. Perlomeno tre sono allora le indicazioni che possono riprendersi a tal fine dal discorso sin qui svolto.

Fermo restando il mancato realizzarsi del sistema della Carta delle NU in tema di polizia internazionale, si è poc'anzi osservato che il divieto dell'uso della forza militare da parte degli Stati continua a costituire un principio giuridico internazionale di importanza fondamentale, malgrado il ridimensionamento cui tale norma sembra andare incontro nella prassi più recente. Ciò comporta, dunque, che nel campo dei meccanismi di attuazione coercitiva dell'ordinamento internazionale, il potere degli Stati di procedere all'adozione di azioni armate sia ancora ristretto ad ipotesi specifiche, in omaggio ai motivi di fondo dell'impostazione "pacifista", di cui la Carta stessa (il cui fine fondamentale è la realizzazione della pace) è evidentemente impregnata. Alla medesima conclusione può del resto giungersi relativamente ai tratti essenziali del rinnovato interventismo del Consiglio di Sicurezza. Sia il fenomeno della punizione dei responsabili di crimini internazionali individuali - cui sono preordinati i tribunali penali ad hoc creati dal Consiglio di Sicurezza -, sia il fenomeno della ricostruzione di Stati (a seguito di situazioni conflittuali) secondo i principi del costituzionalismo liberal-democratico - cui mirano larga parte delle operazioni di peace keeping - costituiscono infatti altrettanti presupposti di realizzazione della pace internazionale, nella logica che ha determinato la loro comparsa sulla scena internazionale, pur non potendo considerarsi espressioni, in senso proprio, di "pacifismo istituzionale".

Accanto al perdurante rilievo dell'impostazione "pacifista" - sia pure nei limiti indicati - un altro aspetto del sistema delle garanzie di attuazione dell'ordinamento internazionale merita qui di esser sottolineato ai fini dell'identificazione dei principi di fondo cui esso si ispira. Si tratta del rilevato, progressivo consolidarsi di forme di garanzia collettiva sia pure limitatamente all'attuazione di taluni, specifici obblighi, posti a tutela di valori fondamentali della comunità internazionale. Tale fenomeno può infatti considerarsi espressione - come si è già detto - di un'evoluzione in senso costituzionalistico del suddetto sistema, ferma restando l'inesistenza di una costituzione formale (scritta) della comunità internazionale (non potendosi considerare tale, neppure il trattato istitutivo delle NU); più esattamente, esso è sintomatico della particolare efficacia normativa degli obblighi in questione (supra, par. 3), ovverosia del rilievo costituzionale caratterizzante i valori da questi tutelati - eliminazione dell'uso della forza armata, rispetto dei diritti umani fondamentali, autodeterminazione dei popoli - nell'ambito dell'ordinamento internazionale. È proprio in virtù di siffatta circostanza che appare giustificarsi la soggezione degli Stati responsabili delle suddette violazioni, ad un regime di responsabilità aggravata rispetto a quella relativa agli illeciti comuni, per i quali non è previsto alcun meccanismo di reazione collettiva, ma solo la facoltà di reagire da parte degli Stati direttamente lesi. Fra i suddetti meccanismi rientra, senza dubbio, la reazione collettiva, anche armata, rispetto alla violazione del divieto di aggressione; più discussi sono invece i limiti entro i quali si sono consolidate garanzie pacifiche collettive a fronte di violazioni del principio di autodeterminazione dei popoli o dei diritti umani fondamentali (Conforti7, 2006, p. 353 s.).

Il terzo aspetto su cui conviene attirare l'attenzione, riguarda invece il significato del valore del rispetto dei diritti umani, in particolare dei diritti umani fondamentali. Tale valore si è affiancato progressivamente al divieto dell'uso della forza armata, non solo - come si è già detto - nel quadro delle funzioni svolte dal Consiglio di sicurezza delle NU in tema di mantenimento della pace (si pensi, ad es., alla segnalata, automatica inclusione delle situazioni di violazione interna generalizzata della violazione di tali diritti, nella nozione di "minaccia alla pace internazionale", che è presupposto di esercizio di tali funzioni; e si pensi, altresì, ai caratteri assunti dalle operazioni di "peace keeping", ma anche come limite giuridicamente invalicabile (= di liceità) delle contromisure che gli Stati possono adottare nel concreto svolgimento della loro facoltà di autotutela (sia individuale che collettiva). Non vi è dubbio, quindi, che il quadro generale dei meccanismi di attuazione coattiva dell'ordinamento internazionale, pur caratterizzandosi ancora - come si è già detto - per un'impostazione di tipo "pacifista", sia oggi altresì profondamente permeato dalla specifica esigenza del rispetto dei diritti umani fondamentali (in linea con il rilievo ad essi attribuito nel moderno pensiero di ispirazione neo-kantiana: J. Habermas, ed. italiana, 2002, p. 177 ss.). Né vi è dubbio che tali diritti si identifichino con i diritti civili elementari della tradizione dello Stato di diritto occidentale - quali il diritto alla vita, la libertà dalla tortura e dalla persecuzione per motivi razziali, etnici o religiosi, il diritto a non essere privati in permanenza delle libertà politiche fondamentali (libertà di espressione, di riunione, diritto di voto, ecc.) - restandone del tutto esclusi, viceversa, i diritti sociali. Ciò che invece resta dubbio è se, e a quali condizioni, l'esigenza di dare attuazione ai diritti in questione sia addirittura idonea a prevalere sul valore stesso della pace, giuridicamente cristallizzatosi nel divieto dell'uso della forza armata da parte degli Stati. Si tratta, in altri termini, del problema della liceità dell'intervento armato a fini umanitari al di fuori del contesto delle NU, postosi in concreto con l'intervento degli Stati NATO in Iugoslavia del 1999. Sebbene a tale problema si tenda talora a fornire risposta positiva, in sede filosofica (ad es., nella "teoria ideale" delle relazioni fra i popoli elaborata da J. Rawls, 2001, ed. italiana, p. 106), ed anche in sede giuridico-internazionalistica (P. Picone, 2000, p. 337 ss.), la soluzione ad esso attribuibile è tuttavia ancora incerta e discussa in entrambe le sedi.

7. Ordinamento internazionale ed esigenze di giustizia nei rapporti fra Stati e nei rapporti fra Stati e individui

È ora il caso di svolgere qualche considerazione conclusiva, ricollegando le circostanze sin qui poste in luce ai motivi di fondo del nostro discorso; e cioè, ai due piani, dei rapporti fra Stati, e dei rapporti fra Stati e individui, in relazione ai quali tali circostanze assumono rilievo.

Per quel che concerne i rapporti fra gli Stati è chiaro anzitutto che nel periodo considerato non vi è stato un incremento particolarmente significativo del tasso di giustizia del sistema giuridico internazionale, né dal punto di vista della democrazia dei procedimenti di produzione di norme, né dal punto di vista dell'uguale sotto-posizione degli Stati a tali norme, perlomeno a quelle di carattere generale. In ordine al primo aspetto, può ricordarsi, a tacer d'altro, che la contestazione condotta a suo tempo dai Paesi in sviluppo nei confronti del sistema delle fonti (in particolare della consuetudine) - per il suo scarso grado di rappresentatività e per la sua idoneità a riflettere i rapporti di forza - non è sfociata in un'alterazione significativa di detto sistema (supra, par. 3). Quanto alla carente attuazione concreta del principio dell'uguaglianza formale, è sufficiente invece richiamare la perdurante natura arbitrale della Corte internazionale di giustizia, e la tendenza degli Stati più potenti a sottrarsi alla sua competenza, a fronte, peraltro, del proliferare di sistemi giurisdizionali settoriali e della loro crescente idoneità a garantire la realizzazione del valore della legalità formale in relazione a specifici ambiti normativi (supra, par. 6).

Ancora più modesti sono inoltre gli esiti dell'evoluzione dell'ordinamento internazionale relativamente al valore dell'uguaglianza di fatto, sempre nei rapporti fra gli Stati. Malgrado fosse proprio in quest'ultima direzione che il sistema si era venuto orientando nel corso degli anni Settanta - e di parte degli anni Ottanta - in alcuni delicati settori normativi (si pensi alle tendenze manifestatesi nella disciplina del commercio internazionale e degli investimenti stranieri, ovvero, nei settori della tutela dell'ambiente e della gestione delle risorse naturali: supra, parr. 4.1 e 4.3), si è infatti mostrato che tale linea di tendenza ha progressivamente perso di rilievo, in special modo negli ultimi quindici anni.

Può quindi dirsi che i profili più significativi della suddetta evoluzione riguardano essenzialmente il consolidarsi del divieto dell'uso della forza militare, ed il processo di costituzionalizzazione di questo stesso principio, insieme ai principi del rispetto dei diritti umani fondamentali e dell'autodeterminazione dei popoli Relativamente al divieto dell'uso della forza, va peraltro ribadito che esso è riconducibile a una prospettiva "pacifista" che potremmo definire sostanziale o normativa, non già all'affermarsi di un modello di "pacifismo istituzionale", visto il ridotto funzionamento del sistema di sicurezza collettiva delle NU, i limiti della CIG, il ritardato ed incerto formarsi di una giurisdizione penale internazionale a carattere permanente ed universale (parr. 4.2 e 6). Sempre sul piano normativo, e non istituzionale, va poi situato il processo di costituzionalizzazione dei valori poc'anzi accennati, espresso dalla triplice circostanza che le norme poste a loro protezione sono norme inderogabili, che esse danno vita ad obblighi erga omnes, e che, per la loro attuazione, si vanno consolidando forme di garanzia collettiva (supra, par. 6).

Un ultimo, importante aspetto concernente l'evoluzione dell'ordinamento internazionale in tema di rapporti fra Stati si collega alla circostanza che fra i valori fondamentali dell'ordinamento rientrino il principio di autodeterminazione dei popoli e il rispetto dei diritti umani fondamentali. Il loro consolidarsi come norme di diritto internazionale si è tradotto infatti in una rilevante penetrazione di esigenze di giustizia di carattere non interstatale, a tutela delle quali essi sono posti, in ambiti giuridici tradizionalmente riguardanti i rapporti fra Stati. Basti pensare che l'autodeterminazione - sia pure nei limiti indicati (supra, par. 2) - è intervenuta ad attribuire rilievo giuridico alle esigenze di rappresentanza dei popoli, nell'ambito della complessiva problematica della soggettività internazionale degli Stati; e basti altresì pensare all'enorme rilievo giuridico che i diritti umani fondamentali - posti a tutela di interessi individuali - hanno anch'essi assunto nell'evoluzione delle più importanti e tradizionali discipline interstatali del diritto internazionale, ad esempio nel campo dell'attuazione coattiva dell'ordinamento (supra, par. 6).

Il rilievo acquisito da interessi non statali, anche in ambiti giuridici tipicamente riguardanti gli Stati, trova riscontro, d'altra parte, nella notevole evoluzione che l'ordinamento internazionale ha vissuto, nel periodo considerato, con riferimento al secondo profilo in esame, e cioè ai rapporti fra Stati e individui.

Di tale evoluzione vi è già traccia nel sistema delle fonti dell'ordinamento, se si considera il ruolo crescente giocato da attori non statali ai fini della formazione di norme internazionali relative ad interessi individuali, in particolare delle norme relative alla repressione di crimini individuali, e di quelle in tema di diritti dell'uomo e di tutela dell'ambiente (supra, par. 3). A proposito di questo fenomeno si è anzi sottolineato che esso ha finito per assumere un ruolo sempre più importante, via, via che la spinta dei Paesi in sviluppo verso una democratizzazione in senso "interstatale" del sistema delle fonti si è andata esaurendo (ibidem).

Tuttavia, l'ambito in cui il modificarsi dei rapporti tradizionali fra Stati ed individui si è manifestato in termini più chiari, a causa del rilievo giuridico acquisito da interessi individuali, è quello dell'evoluzione dei contenuti normativi dell'ordinamento. Si può anzi sostenere che quest'evoluzione abbia modificato l'assetto complessivo dei poteri rientranti nella sovranità degli Stati, rimodellandoli in profondità, per l'appunto in funzione di esigenze di giustizia di carattere individuale.

Ciò è avvenuto in primo luogo per via dell'imponente sviluppo della normativa internazionale sui diritti dell'uomo e di quello - analogamente consistente - della normativa in materia di crimini internazionali individuali (supra, par. 4.2). Tali sviluppi, cui si è talora accompagnata l'istituzione di organi internazionali di controllo (in qualche caso dotati di poteri particolarmente penetranti nei confronti degli Stati: ibidem e par. 6), hanno infatti generalmente contribuito a limitare il potere di governo degli Stati nei confronti di individui rientranti nella loro giurisdizione, o, comunque, a dirigerne l'esercizio al soddisfacimento di interessi ed esigenze di carattere individuale, secondo una logica per lo più riconducibile - come si è già detto - alla categoria del c.d. "cosmopolitismo morale" (par. 4.2.).

Analogamente idonei ad indirizzare l'esercizio del potere degli Stati verso interessi ed esigenze di carattere individuale si sono poi rivelati gli sviluppi normativi verificatisi in settori emblematici dei rapporti economici fra Stati, e nei settori della gestione di risorse naturali e della tutela dell'ambiente. In merito al primo aspetto, si è rilevato infatti che, a partire dagli anni Novanta, sia in virtù dei mutamenti della disciplina del commercio internazionale, sia in virtù delle modifiche del regime degli investimenti stranieri, il potere di governo degli Stati - in particolare degli Stati in sviluppo - è risultato fortemente vincolato alla realizzazione di libertà economiche e libertà politiche individuali, riconducibili alla tradizione liberal-democratica (supra, par. 4.1). Il medesimo discorso si ripropone poi per quanto riguarda la gestione di risorse naturali e la tutela dell'ambiente, considerato che nelle relative discipline le spinte normative solidaristiche ed egualitarie degli anni Settanta e Ottanta, operanti sul piano interstatale, sembrano oggi sopravanzate, perlomeno in parte, sia da modifiche normative di stampo liberistico, sia dalla tendenza a configurare e a interpretare gli interessi in gioco (oggetto della regolamentazione internazionale) come direttamente imputabili alla generalità degli individui, ovvero a gruppi organizzati di individui (supra, par. 4.2).

Se è vero dunque che, per quel che concerne i rapporti fra Stati ed individui, l'evoluzione vissuta dall'ordinamento internazionale è risultata particolarmente significativa, e se è vero altresì che tale circostanza può - per certi aspetti - apparire sorprendente, la sua idoneità a dar rilievo, sul piano internazionale, ad esigenze di giustizia di carattere individuale, a scapito della tradizionale centralità statale, non va tuttavia sopravvalutata. Indipendentemente da questioni che qui non possono affrontarsi - ad es., la difficoltà a far valere tali esigenze sul piano internazionale, la difficoltà delle stesse istituzioni giudiziarie nazionali a farsene latrici, il carattere programmatico di alcune delle norme rilevanti, ecc. - vi sono infatti alcune circostanze di fondo, in parte già emerse nel corso del lavoro, che devono quantomeno essere accennate.

Va allora anzitutto ribadito che il settore largamente più significativo della suddetta evoluzione tende tuttora a limitarsi ai diritti civili e politici dell'individuo e alla repressione penale delle loro violazioni più macroscopiche. Tanto sul piano dei c.d. diritti sociali, tanto sul piano della gestione delle risorse naturali e della tutela dell'ambiente, la circostanza che i relativi interessi siano propri di individui o di gruppi di individui organizzati, pur ispirando - come si è detto - la normativa internazionale rilevante, non si è tradotta sino ad ora nell'attribuzione di strumenti giuridici particolarmente incisivi a fini di tutela di tali interessi, in contrapposizione all'azione governativa degli Stati (P. De Sena, 2006, p. 1875)

Per quanto appena detto, non deve dunque stupire più di tanto che la compressione di esigenze di giustizia di carattere individuale tenda talvolta a configurarsi come il frutto dell'esecuzione di obblighi internazionali cui gli Stati sono vin-colati, proprio per la realizzazione di determinate libertà individuali, in special modo delle classiche libertà di mercato. Basti pensare alle catastrofiche conseguenze sul piano dei diritti sociali - in qualche caso anche sul piano dei diritti politici - che sono scaturite, assai di frequente, dalle politiche di stampo liberistico, imposte ai paesi destinatari dell'azione di istituzioni finanziarie internazionali come il FMI o la Banca Mondiale (supra, par. 4.1) in cambio della concessione di crediti (J. Stiglitz, 2002).

Malgrado poi il rilievo giuridico assunto dal fenomeno della tutela dei diritti civili e politici, non va dimenticato che la portata stessa di tale fenomeno rischia oggi di esser ridimensionata, anche al di là dei limiti che già la caratterizzano - in particolare, la sua matrice eminentemente "occidentale" (supra, parr. 4.2 e 6) - a causa di sfide del tutto nuove ed, in parte, impreviste. Ci si riferisce in primo luogo alle imponenti compressioni cui i diritti civili e politici garantiti da norme internazionali - ma anche da norme costituzionali - sono oggi sottoposti da parte degli Stati, per esigenze di sicurezza collegate alla lotta contro il terrorismo internazionale; e ci si riferisce, inoltre, al fatto che la realizzazione dei suddetti diritti tende talvolta ad incontrare ostacoli nell'azione di soggetti diversi dallo Stato, come accade, per esempio, per gli effetti prodotti su diritti civili elementari da azioni poste in essere proprio da gruppi terroristici, ovvero dai comportamenti adottati da parte di imprese multinazionali in varie parti del mondo.

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