2008

L'eccezione come regola: paradosso di una identificazione

Anna Maria Campanale

1. La fiducia e la speranza

Una domanda lega la letteratura vecchia e nuova sull'emergenza, cercando risposte rassicuranti in quella "fiducia" e in quella "speranza" che il lucido realismo politico schmittiano coglieva nelle "convinzioni filosofiche, e particolarmente storico-filosofiche o metafisiche" (1) intorno allo stato di eccezione: può lo stato di eccezione perdere il suo carattere connotativo di eccezionalità e capovolgersi nel suo contrario, la regola, può, da misura eccezionale, convertirsi in misura "normale" (2)? Schmitt, che quella fiducia e quella speranza non aveva, rilevava il paradosso, e, accettando "la sfida dell'eccezione" (3), ammetteva la possibilità che lo stato di eccezione divenisse, da caso "eccezionale" caso "normale". Quando Schmitt diceva: "una norma generale, contenuta nell'articolo di legge normalmente vigente, non può mai comprendere un'eccezione assoluta e non può perciò neppure dare fondamento pacificamente alla decisione secondo la quale ci si trova di fronte ad un vero e proprio caso di eccezione" (4) e quando, più avanti, ripeteva che non "si può affermare con chiarezza incontrovertibile quando sussista un caso d'emergenza, né si può descrivere dal punto di vista del contenuto che cosa possa accadere quando realmente si tratta del caso estremo di emergenza e del suo superamento. Tanto il presupposto quanto il contenuto della competenza sono qui necessariamente illimitati" (5), diceva proprio che il caso "limite", che è lo stato di eccezione, non ha e non può avere alcun limite, né dal punto di vista del contenuto né da quello della ricorrenza, quanto alla decisione della sua sussistenza.

2. L'eccezione e l'eccedenza del politico

Sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione nel senso che decide che sussiste lo stato di eccezione e, secondariamente, che decide "cosa si debba fare per superarlo" (6). Vale a dire: sovrano è chi decide sullo stato di eccezione e nello stato di eccezione. E questa decisione non incontra nessun limite di carattere oggettivo, né dal punto di vista politico, né, tanto meno, dal punto di vista giuridico. L'ordinamento giuridico non può, esso stesso, costituirne il limite, perché il sovrano "sta al di fuori dell'ordinamento giuridico normalmente vigente" (7). E anche se Schmitt aggiungeva che "tuttavia appartiene ad esso" (8), tale appartenenza ha come esito paradossale (ancora il paradosso), quasi per un'hegeliana legge del contraccolpo, quello di annullare se stessa (9), in quanto è proprio quell'appartenenza giuridica che consente al sovrano di sciogliere il vincolo giuridico al quale egli è sottoposto, in modo tale da non appartenere più all'ordinamento giuridico che egli stesso ha il potere di sospendere: "a lui tocca la competenza di decidere se la costituzione in toto possa essere sospesa" (10).

L'eccezione fa emergere, in tutta la sua forza, l'eccedenza del politico sul giuridico: "Nel caso d'eccezione, lo stato sospende il diritto, in virtù, come si dice, di un diritto di autoconservazione" (11). È il conatus sese conservandi spinoziano (12), la protensione dell'uomo a conservare, per legge naturale universale, il proprio essere, per il quale egli possiede tantum juris quantum potentiae (13). E se, con Platone, lo Stato è l'uomo in grande (14) e, con Hobbes, un "macroantropo onnipotente" (15), la potentia, che lo Stato può sviluppare, è la potenza più grande e irresistibile che possa essere espressa. E poiché tantum juris quantum potentiae, il diritto di autoconservazione che lo Stato può esercitare è il diritto più forte - il diritto del più forte - che si possa affermare. Lo stato di eccezione rappresenta il ritorno ad uno stato pregiuridico (16), in cui non vige la legge, formalisticamente intesa, ma il diritto commisurato alla propria potenza. E siccome Stato e ordinamento giuridico non erano, per Schmitt, come lo erano invece per Kelsen (17), cooriginari, "l'esistenza dello Stato dimostra qui un'indubbia superiorità sulla validità della norma giuridica" (18), fino al paradosso (ancora il paradosso) per il quale "l'autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto" (19): che solo apparentemente è un paradosso, perché lo Stato precede logicamente e cronologicamente l'ordinamento giuridico, e se il diritto ha bisogno dell'autorità per venire ad esistenza, perché è la decisione dell'autorità che crea il diritto, l'autorità non ha bisogno del diritto per venire ad esistenza, perché l'autorità fonda la propria esistenza in se stessa, nella potenza del potere politico.

Il fatto che i sistemi sociali, nel mondo contemporaneo, tendano a regolamentare le leggi di emergenza, producendo una sorta di "autoimmunizzazione" attraverso l'incorporazione del meccanismo dell'emergenza, anziché attraverso la sua rimozione (20) dice, per un verso, l'esigenza, se non la necessità, di circoscrivere questo spazio di autonomia del politico rispetto al giuridico che è rappresentato dal caso di eccezione, per l'altro, l'impossibilità di eliminarlo definitivamente attraverso il giuridico. Per una "filosofia della vita concreta" (21), come era la filosofia schmittiana, l'eccezione fa parte della vita di un ordinamento giuridico proprio come ne fa parte la regola, perché, se questa rappresenta la possibilità della prevedibilità, quella rappresenta la possibilità, ineliminabile, della imprevedibilità.

3. Il caso non descritto nell'ordinamento giuridico

È stato rilevato (22), che la questione del caso di eccezione richiama, per alcuni aspetti e fatte le dovute distinzioni, quella della lacuna nell'ordinamento giuridico. Il parallelismo ha un suo senso se si tiene conto che, in entrambi i casi, ci si trova di fronte ad un caso non previsto dall'ordinamento giuridico: "il caso d'eccezione, il caso non descritto nell'ordinamento giuridico vigente" (23).

Tanto il caso lacunoso quanto il caso d'eccezione sfuggono ad ogni possibile previsione, perché, se l'ordinamento giuridico, nei rispettivi gradi, avesse potuto prevederli, li avrebbe ovviamente regolati. Per il caso lacunoso, quello che il legislatore può prevedere è che il caso lacunoso possa esserci, non quale caso lacunoso possa esserci: la lezione di Aristotele sul rapporto tra legge, equità e decreto (24) resta a tutt'oggi insuperata. Per il caso d'eccezione, vale quello che dice Schmitt: "il caso d'eccezione (...) può al massimo essere indicato come caso di emergenza esterna, come pericolo per l'esistenza dello Stato o qualcosa di simile, ma non può essere descritto con riferimento alla situazione di fatto" (25), e, più avanti: "né si può descrivere, dal punto di vista del contenuto che cosa possa accadere quando realmente si tratta del caso estremo di emergenza e del suo superamento" (26).

Di fronte al caso non descritto nell'ordinamento giuridico, una teoria del diritto ha due possibilità: o negarne l'esistenza (à la Kelsen (27)), sostenendo che ciò che non è descritto nell'ordinamento normativo non è rilevante per il diritto, o affermarne l'esistenza, e, per ciò stesso, tentare di regolamentarlo. Nel primo caso, si può con ragione affermare, usando le parole di Dworkin, che i problemi non si risolvono ignorandoli (28), nel secondo caso, si deve tuttavia considerare che la regolamentazione non può neutralizzare totalmente il carattere dell'imprevedibilità, che può essere soltanto ridotto, ma non rimosso, assorbito, ma non dissolto.

Il caso non descritto nell'ordinamento giuridico mette in crisi il principio della certezza del diritto (che la regola, attraverso il meccanismo della prevedibilità, assicura), e, in quanto caso estremo di emergenza, lo mette in crisi in modo "estremo". Ciò che resta certa, in ogni caso, è soltanto la decisione: la decisione giudiziaria, nel caso lacunoso, la decisione politica, nel caso di eccezione. E la decisione rinvia alla questione del chi decide. La massima 'governo di leggi, non di uomini' si converte, così, nel suo contrario: 'governo di uomini, non di leggi'. Erompe, al massimo grado nello stato di eccezione, quella soggettività politica che il positivismo giuridico aveva dissolto e che la nozione di Stato di diritto aveva subordinato alla supremazia della legge perché non si facesse di quella conversione una perversione. Lo stato di eccezione mostra immediatamente "il locus del potere politico" (29) e smaschera il rischio della strumentalizzazione ideologica che l'uno e l'altra possono consentire attraverso il concetto di sovranità della legge: "le leggi non possono governare, solo gli uomini sono in grado di esercitare potere su altri uomini; perciò dire che le leggi governano, e non gli uomini, può significare che si vuole nascondere il fatto che certi uomini dominano altri uomini" (30).

Schmitt non accoglieva la nozione di Stato di diritto non tanto per il rischio ideologico, e non tanto per la forte ambiguità semantica che il sintagma "Stato di diritto" implicava, dalla quale ultima anche quel rischio derivava (31), quanto piuttosto per la sua teoria della sovranità, in generale, e dello stato di eccezione, in particolare: quello che lì rifiuta dipende da quello che qui accetta. Nella sua analogia tra il miracolo e lo stato di eccezione, l'idea dello Stato di diritto trova compimento "con il deismo, con una teologia e una metafisica che esclude il miracolo dal mondo e che elimina la violazione delle leggi di natura, contenuta nel concetto di miracolo e produttiva, attraverso un intervento diretto, di una eccezione, allo stesso modo in cui esclude l'intervento diretto del sovrano sull'ordinamento giuridico vigente" (32), impostazione metafisica che egli attribuiva, in parte erroneamente, anche a Kelsen. Ammettere, nella sua teoria, la nozione di Stato di diritto significava, di conseguenza, ammettere un limite, per un verso, alla decisione sovrana, per l'altro, alla possibilità dello stato di eccezione, anzi, significava ammettere l'impossibilità dello stato di eccezione, mentre l'una e l'altro sono, almeno in linea di principio, illimitati. Con la dissoluzione della nozione di Stato di diritto, Schmitt conduce fino alle estreme conseguenze, e coerentemente, il tipo di pensiero decisionistico; coerentemente, certo, ma la coerenza, in questo caso e in quel particolare momento storico, è stato un prezzo troppo alto da pagare, o, meglio, da far pagare, se, come lo stesso Schmitt riconosceva, "la ricerca giuridica e la scienza del diritto" erano "direttamente al servizio della prassi giuridica" (33).

4. Oltre il paradosso: tra eticità e utilità

Come la "cavalcata in cerchio" (34), che è il movimento dell'interrogare, la prima domanda rincorre e, allo stesso tempo, è rincorsa da altre domande: per quali ragioni, oggi, i soggetti politici tendono a fare dello stato di necessità una necessità di Stato (35), dell'eccezione la regola? Cosa manca, oggi, al giuridico, per non essere esso più in grado di contenere un politico sempre più espansivo ed invasivo?

Per la prima domanda, per la quale, indirettamente, la seconda domanda è già una prima risposta, si può dire che la soggettività del politico tende ad esercitarsi e realizzarsi fuori dell'orizzonte dell'etica, sia nei regimi comunque autoritari sia in quelli democratici, nei quali ultimi si può constatare a tutti i livelli, ove più ove meno, una perdita della forza del metodo democratico, ossia del confronto dialettico delle idee, delle opinioni. Che esprime poi quella tendenza della politica a tagliare i rapporti con l'etica, o meglio, con se stessa in quanto etica, in una malintesa "autonomia del politico". Non si tratta, con questo, di ricadere sotto la "tirannia dei valori" (36) contro la quale la cieca neutralizzazione assiologica della Wertfreiheit positivistica, erroneamente dislocata dal piano del metodo a quello dell'oggetto, ha avuto come effetto quello di costituirsi a sua volta come dispotismo della avalutatività (37); né di riabilitare, seppur rivisitate, teorie sullo Stato etico che condurrebbero, non alla tirannia dell'etico sul politico, ma, al contrario, alla pericolosissima soggezione dell'etico rispetto al politico. Si tratta piuttosto di riconoscere il valore che l'uomo è (38), il fondamentale valore che può, anzi, deve, con le parole di Schmitt ma oltre Schmitt, essere posto e imposto, segnando così quel limite che in nessun modo e in nessun caso può essere trasceso senza porsi, non tanto e non soltanto hors la lois, ma soprattutto hors l'humanité: dove il termine humanité non è inteso, come pure dovrebbe essere, nel suo senso etico che, paradossalmente (ancora il paradosso) potrebbe celare il rischio di quell'inganno che Schmitt, ricordando Proudhon, denuncia (39), ma nel suo senso primo di ciò che è dell'uomo in quanto uomo. E ciò che è proprio dell'uomo, del singolo uomo è, innanzitutto, un nucleo di diritti inviolabili, che quella lois deve garantire e tutelare, primo fra tutti, e fondamentalmente, il diritto alla vita, a partire dal quale si dispiegano gli altri diritti.

Allora: ogni regola ammette un'eccezione, ma l'eccezione è regola a se stessa, solo che il referente della regola che l'eccezione è a se stessa è l'eticità. Tuttavia, l'eccezione come regola a se stessa ha oggi la pretesa di diventare il surrogato della regola di cui essa è eccezione: si è sostituita alla regola avendo la pretesa di essere la regola generale. Nel gioco dell'inautentico, l'eticità perde e si perde: per un singolare paradosso (ancora il paradosso), essa trova un compagno di partita con il quale a volte è in competizione o addirittura in opposizione, l'utilità. Questa parla il linguaggio elementare, primordiale, del potere: concreto, esistenziale, direbbe Schmitt. Con Meinecke, all'ethos, che insieme al cratos fonda lo Stato (40), si affianca l'utile, la convenienza, che, dello Stato, diventa una ragione di esistenza, un "centro utilitario" che frena "l'istinto elementare del potere" (41): "Un potere che si effonda ciecamente distrugge se stesso; esso deve seguire certe regole e convenienze dirette ad un fine, perché possa mantenersi ed accrescersi. Prudenza e violenza devono quindi unirsi nell'esercizio del potere" (42). Ma già nel '600, Spinoza, l'autore dell'Ethica, vedeva nell'utilità una condizione di sopravvivenza del potere, avvertendo che, anche solo in una prospettiva meramente utilitaristica, lo Stato deve essere attento ai bisogni di libertà dei consociati, che deve riconoscere e garantire attraverso le leggi. È nel suo interesse, se vuole esistere a lungo (43). In questo senso, si può sostenere che è interesse dello Stato non superare quel limite oltre il quale la ragione del diritto viene trascesa dalla ragion di Stato, una ragione che trova giustificazione soltanto in se stessa in quanto ragione del potere. Quel diritto di autoconservazione che lo Stato fa valere nello stato di eccezione, avendo come suo fine ultimo la salvaguardia dell'esistenza dello Stato, se esercitato senza misura, innescherebbe paradossalmente (ancora il paradosso) una specie di meccanismo di autodistruzione: nessun potere politico può ignorare o violare a lungo il diritto e i diritti, e conservare pacificamente se stesso, sia all'interno che all'esterno. Leviathan non dominerebbe più Behemoth, sarebbe anzi esso stesso a risvegliarlo (44).

Illimitata in linea di principio, la decisione sullo stato di eccezione, limitata da quella ragion di Stato che è la ragione suprema dello Stato: la sua stessa esistenza. Stretta tra eticità e utilità, tra prudenza e convenienza, l'eccezione sopporta il limite di queste e di quelle, e rimane autenticamente se stessa, cioè eccezione alla regola. E così la questione non è soltanto chi è il custode della costituzione, che comporterebbe il regresso ad infinitum della domanda di Giovenale: Sed quis custodiet ipsos custodes?, ma cosa è che può custodire la costituzione (45).

Per la seconda domanda, se la lex non è più in grado di bilanciare il rex, la risposta è da cercare non tanto nelle leggi, che pure, moltiplicandosi in numeri a volte anche senza proporzione, dovrebbero ridurre al minimo la probabilità della sussistenza del caso non descritto nell'ordinamento giuridico, quanto, piuttosto, nel diritto, che, con la politica (con l'economia, e con le altre attività dell'uomo), ha in comune la stessa radice, che è appunto la radice etica. Se si taglia questa radice, il diritto perde il suo carattere di mediazione e relazione con la politica, per un verso, con la società civile, per l'altro: ragione senza forza diviene allora quella del diritto, forza senza ragione quella della politica. Perché non solo il politico è entrato in una crisi tendenzialmente autodistruttiva, ma anche il giuridico, con il suo formalismo, che è il segno della perdita di senso dell'eticità. Se non si recupera questo legame originario, radicale, appunto, si moltiplicheranno, potenziandosi, gli arcana imperii, da parte del politico, gli arcana iuris, da parte del giuridico. Tale perdita di senso si può ravvisare, prima ancora che negli scritti politico-giuridici, nella letteratura, e in maniera esemplare anche per il suo stesso titolo, nell'opera didattica di Brecht, L'eccezione e la regola. Nella Canzone dei tribunali (46), Brecht scrive:

Al seguito dei briganti
vengono i tribunali.
Se è ucciso l'innocente, i giudici
riuniti intorno a lui lo condannano.
Sulla tomba dell'ucciso
si uccide il suo buon diritto.
I verdetti del tribunale
calano come le ombre delle mannaie.
Non basta già la mannaia? Ci vuol proprio
la sentenza che l'accompagni?
Guarda il volo. Dove volano gli avvoltoi?
Li ha ricacciati l'arido deserto:
i tribunali daran loro cibo a sufficienza.
Ad essi accorre l'omicida; in essi
trova riparo l'aguzzino, e il ladro
cela il bottino, avvolto
in una carta che recita leggi.


Note

1. Più precisamente, C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1934; trad. it. Teologia politica, in Le categorie del 'politico', a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, il Mulino, 1972, p. 34: "la fiducia e la speranza che esso possa di fatto essere eliminato dipendono da convinzioni filosofiche, e particolarmente storico-filosofiche o metafisiche".

2. G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 16: lo stato di eccezione "non soltanto si presenta sempre più come una tecnica di governo e non come una misura eccezionale, ma lascia anche apparire alla luce la sua natura di paradigma costitutivo dell'ordine giuridico".

3. Il riferimento è, come è noto, al titolo del libro di G. Schwab, The challenge of the exception: an introduction to the political ideas of Carl Schmitt between 1921 and 1936, München, Duncker & Humblot, 1970; trad. it. Carl Schmitt. La sfida dell'eccezione, introduzione di F. Ferrarotti, traduzione di N. Porro, Roma-Bari, Laterza, 1986.

4. C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 33.

5. Ivi, p. 34 (corsivo mio).

6. Ibidem.

7. Ibidem.

8. Ibidem. E ancora: "l'esercizio delle competenze straordinarie connesse allo stato di eccezione" restano legali: "il titolare del potere statale ha dalla sua parte la presunzione di legalità" (C. Schmitt, Legalität und Legitimität, München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1932; trad. it. Legalità e legittimità, in Le categorie del 'politico', cit., p. 243 e pp. 239-240); cfr. infra, n. 26.

9. Cfr. G. Agamben, Homo sacer, Torino, Einaudi, 2005, p. 19: ma più che della sovranità, come recita il titolo di un paragrafo, il paradosso è dell' e nell'ordinamento giuridico.

10. C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 34.

11. Ivi, p. 39.

12. B. Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata, in Opera, a cura di C. Gebhardt, Heidelberg, Winter, 19722, vol. II, pars IV, propositio XXII, demonstratio, p. 225; trad. it. Ethica, premessa di G. Radetti, prefazione di G. Gentile, traduzione di G. Durante, note di G. Gentile rivedute e ampliate da G. Radetti, Firenze, Sansoni, 1984 (testo latino a fronte).

13. Ivi, vol.II, pars II, propositio III, scholium: "potentia, vel jure", p. 88; Id., Tractatus politicus, in Opera, cit., vol. III, cap. II, § 5, p. 277: "& consequenter quicquid unusquisque homo ex legibus suæ naturæ agit, id summo naturæ jure agit, tantumque in naturam habet juris, quantum potentia valet"; trad. it. Trattato politico, a cura di A. Droetto, Torino, Ramella, 1958.

14. Platone, La Repubblica, introduzione di F. Adorno, trad. it. di F. Gabrieli, Milano, Rizzoli, 1994, vol. I (testo greco a fronte), p. 56.

15. L'espressione è di H. Kelsen, Reine Rechtslehre. Einleitung in die Rechtswissenschaftliche Problematik, Leipzig, Deuticke, 1934; trad. it. Lineamenti di dottrina pura del diritto, a cura di R. Treves, Torino, Einaudi, 1967, p. 138.

16. Cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, cit., pp. 33-34: "In verità, lo stato di eccezione non è né esterno né interno all'ordinamento giuridico e il problema della sua definizione concerne appunto una soglia, o una zona di indifferenza, in cui dentro e fuori non si escludono, ma s'indeterminano".

17. H. Kelsen, Reine Rechtslehre, Leipzig, Deuticke, 1960; trad. it. La dottrina pura del diritto, a cura di M.G. Losano, Einaudi, Torino, 1990, pp. 311-351.

18. C. Schmitt, Teologia politica cit., p. 39.

19. Ivi, p. 40.

20. E. Resta, La regola dell'emergenza, in Antigone. Quadrimestrale di critica del sistema penale e penitenziario, 1 (2006), 1, pp. 25-26: "Piuttosto che di ricette, credo si debba parlare di un tentativo preoccupante, che vedo costruirsi da qualche anno a questa parte, di una sorta di auto-immunizzazione che i sistemi sociali stanno sperimentando rispetto al fenomeno della crisi. Voglio dire che ci si sta quasi abituando al meccanismo della crisi (...). È interessante vedere come le società finiscano per produrre una legge sull'emergenza, cioè si auto-immunizzino incorporando dentro di sé il meccanismo dell'emergenza, non lo rimuovano, ma ne facciano un problema di autoregolamentazione".

21. C. Schmitt, Teologia politica cit., p. 41.

22. G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 42, richiamando la tesi di Mathiot: "In analogia col principio secondo cui la legge può essere lacunosa, ma il diritto non ammette lacune, lo stato di necessità viene così interpretato come una lacuna nel diritto pubblico, a cui il potere esecutivo ha l'obbligo di porre rimedio. Un principio che riguarda il potere giudiziario viene esteso in questo modo al potere esecutivo".

23. C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 34.

24. Aristotele, Etica Nicomachea, ed. it. a cura di C. Mazzarelli, Milano, Rusconi, 1993 (testo greco a fronte), p. 221-223.

25. C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 34.

26. Ibidem, corsivo mio. A proposito del premio speciale attribuito al possesso legale del potere statale, Schmitt rileva: "Questo premio politico è relativamente calcolabile in tempi tranquilli e normali, in situazioni di anormalità è invece del tutto incalcolabile e imprevedibile. Esso deriva in primo luogo dall'interpretazione e dall'impiego concreto di concetti indeterminati come 'sicurezza e ordine pubblico', 'pericolo', 'stato di necessità', 'provvedimenti di emergenza' (...) e così via. Concetti del genere, dei quali nessun sistema statale può fare a meno, hanno la peculiarità di essere immediatamente legati alla situazione che di volta in volta si presenta, di derivare il loro contenuto concreto solo dalla loro applicazione concreta e sopra tutto di essere tali per cui, in tutte le epoche e situazioni difficili e politicamente rilevanti, diventa unicamente decisivo il loro impiego ed esercizio concreto. In secondo luogo, il titolare legale del potere statale ha dalla sua parte la presunzione di legalità nei casi dubbi che si presentano sempre nelle situazioni politicamente difficili con riferimento a questi concetti indeterminati (Legalità e legittimità, cit., pp. 239-240).

27. H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., pp. 125-127. Schmitt rimprovera a Kelsen la stessa "ignoranza" rispetto al concetto di sovranità: "Kelsen risolve il problema del concetto di sovranità semplicemente negandolo (Teologia politica, cit., p. 47). Quello che in realtà Schmitt a sua volta ignora o vuole ignorare è l'importante opera di decostruzione del dogma della sovranità statale compiuta da Kelsen al fine della sua relativizzazione per la subordinazione degli ordinamenti giuridici statali all'ordinamento giuridico internazionale, per un verso, per soddisfare il postulato logico-epistemologico dell'unità del sistema normativo, per l'altro, per seguire il progetto kantiano di una "universale comunità giuridica mondiale" (Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 154).

28. R. Dworkin, Taking Rights Seriously, London, Duckworth, 1977; trad. it. (parziale) I diritti presi sul serio, introduzione di G. Rebuffa, traduzione di F. Oriana, p. 80: "Certi giuristi - che potremmo chiamare 'nominalisti' - sostengono che questi problemi si risolvono ignorandoli".

29. F. Neumann, "Approaches to the Study of Political Power", in Political Science Quarterly, 65 (1950), 2, poi in The Democratic and the Authoritarian State, New York, The Free Press, 1957; trad. it. Premesse a uno studio sul potere politico, in Lo stato democratico e lo stato autoritario, introduzione di N. Matteucci, traduzione di G. Sivini, Bologna, il Mulino, 1973, p. 29. E di seguito: "ci sono (...) situazioni che rivelano a colpo d'occhio, per così dire, dove risiede il potere politico e precisamente le situazioni di emergenza, come gli stati di assedio, di legge marziale e simili. Per questo Carl Schmitt, il famoso costituzionalista nazista, affermò, quando ancora non era nazista: 'Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione'. Senza accettare le implicazioni della dottrina della sovranità dello Schmitt, resta vero che lo studio di tali situazioni di emergenza darà preziose indicazioni su dove risiede veramente il potere politico anche nei periodi di 'normalità'" (pp. 29-30).

30. F. Neumann, "The Concept of Political Freedom" in Columbia Law Review, 53 (1952); trad. it. Il concetto di libertà politica, in Lo stato democratico e lo stato autoritario, cit., p. 46. Per una singolare complexio oppositorum, l'analisi di Schmitt sullo Stato di diritto mostra punti di contatto con quella di Kelsen e di Neumann, nonostante che Schmitt abbia visto in Kelsen il suo "avversario" e Neumann lo abbia visto sia in Schmitt che in Kelsen.

31. Cfr. C. Schmitt, Legalità e legittimità, cit., p. 223. Sulla "ingenuità" di ricercare "una definizione di 'Stato di diritto' semanticamente univoca e ideologicamente neutrale" e sull'opportunità di elaborare "una coerente interpretazione teorica dello Stato di diritto" si veda D. Zolo, "Teoria e critica dello Stato di diritto", in P. Costa, D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 19-20.

32. C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 61. Più di una significativa simmetria (che non può essere analizzata qui) è quella tra il miracolo e lo stato di eccezione nel più ampio parallelismo teorico-critico tra la Teologia politica schmittiana e il Trattato teologico-politico spinoziano.

33. C. Schmitt, Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1934; trad. it. (parziale) I tre tipi di pensiero giuridico, in Le categorie del 'politico', cit., p. 265.

34. C.F. von Weizsäcker, Der Mensch in seiner Geschichte, München, Hanser, 1991; trad. it.L'uomo nella sua storia, a cura di B. Gonella e G. Levorato, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1994, p. 14.

35. F. Meinecke identificava il concetto di ragion di Stato con quello di necessità di Stato: "Soltanto finché l'uomo politico può essere in dubbio quale essa sia, ha libertà di scelta; ma, troppo spesso, la scelta è impossibile e l'uomo di stato, non avendo avanti a sé che un'unica angusta via di salvezza, non può che seguir quella. Per tal modo la ragion di stato diventa quello che è il profondo e arduo concetto della necessità di stato. La peculiare idea di vita dello stato individuale deve svolgersi dunque entro un ferreo rapporto di cause ed effetti; vivere una vita libera e indipendente, per esso non significa altro che obbedire alle leggi dettategli dalla sua ragion di stato" (Die Idee der Staatsräson in der Neueren Geschichte, München-Berlin, Oldenbourg, 1924; trad. it. L'idea della ragion di Stato nella storia moderna, a cura di D. Scolari, Firenze, Sansoni, 1960, p. 2).

36. È il titolo dello scritto di Schmitt, in cui egli conduce una critica serrata e corrosiva alla "filosofia dei valori": Die Tyrannei der Werte, Stuttgart, Kohlhammer, 1960; trad. it. La tirannia dei valori, presentazione di G. Accame, traduzione di S. Forsthoff Falcioni e F. Falcioni, Roma, Pellicani, 1987.

37. È essenzialmente l'idea che attraversa il libro di M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, Milano, Adelphi, 1994.

38. L'occasione, se così si può dire, del ritorno di alcuni studiosi a riflettere sull'analisi schmittiana è stata data dalla serie di problemi giuridici e politici che i fatti seguiti all'11 settembre (la cosiddetta guerra preventiva, la sospensione dei diritti di habeas corpus, solo per fare qualche esempio) hanno posto all'attenzione della comunità mondiale.

39. Le due espressioni sono, secondo Schmitt, da riferire particolarmente al nuovo vocabolario pacifistico dell'imperialismo fondato su ragioni economiche: "L'umanità è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche ed è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell'imperialismo economico. A questo proposito vale, pur con una modifica necessaria, una massima di Proudhon: chi parla di umanità vuol trarti in inganno. Proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all'umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare soltanto (...) la terribile pretesa che all'uomo va tolta la qualità di uomo" e, più oltre: "L'avversario non si chiama più nemico, ma perciò egli viene posto, come violatore e disturbatore della pace, hors-la-lois e hors l'humanité, e una guerra condotta per il mantenimenti o l'allargamento di posizioni economicistiche di potere deve essere trasformata, con il ricorso alla propaganda, nella 'crociata' e nell''ultima guerra dell'umanità'" (Der Begriff des Politischen, München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1932; trad. it. Il concetto di 'politico', in Le categorie del 'politico' cit., pp. 139 e 165). Ritorna sulla massima proudhoniana D. Zolo con Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, Einaudi, 2000, tenendo teso il legame tra ragioni politiche, ragioni giuridiche e ragioni etiche della cosiddetta "guerra umanitaria" (con particolare attenzione a quella condotta contro la Repubblica Federale Jugoslava).

40. Ivi, p. 4.

41. Ivi, p.10.

42. Ibidem. E Neumann: "A disposizione del gruppo al potere vi sono tre metodi fondamentali: la persuasione, gli incentivi materiali e la violenza. La violenza si rivela più efficace in un arco limitato di tempo" (op. cit., p. 18).

43. B. Spinoza, Tractatus Theologico-politicus, in Opera, cit., vol. III; trad. it. Trattato teologico-politico, presentazione, traduzione e note di S. Casellato, Firenze, La Nuova Italia, 1985, p. 7: "Ma poiché ci è toccata in sorte questa rara felicità di vivere in una Repubblica dove a ciascuno è concessa integra la libertà di giudicare, e di onorare Dio secondo la propria indole, e dove niente è stimato più caro e più gradito della libertà, credetti di apprestarmi a fare opera non ingrata né inutile se avessi dimostrato che questa libertà, non soltanto può essere concessa senza nocumento per la pietà e la pace dello Stato, ma che, inoltre, essa non può esser distrutta se non assieme alla pace stessa dello Stato e alla pietà"; e, più avanti, p. 13: "dimostro che coloro che detengono il potere sono i custodi e gli interpreti, non solo del diritto civile ma, altresì, del diritto sacro, e che solo essi hanno l'autorità di definire che cosa sia il giusto e l'ingiusto, e che cosa sia la pietà e l'empietà; e concludo, alla fine, che possono gli imperanti mantenere benissimo questa autorità e conservare senza pericolo il potere, soltanto che sia concesso a ciascuno di pensare come vuole e di dire ciò che pensa".

44. Si fa qui riferimento al significato metaforico attribuito da Hobbes alle due creature bibliche, che Schmitt dilaterà poi in Terra e mare (altro significato ancora di Behemoth darà Neumann).

45. F. Neumann scrive: "La politica non è solo l'arte di ottenere qualche cosa in qualche modo a prescindere da 'che cosa'e dal 'come'" (op. cit., p. 12).

46. B. Brecht, Die Ausnahme und die Regel, Berlin, Suhrkamp, 1957; trad. it. L'eccezione e la regola, traduzione di L. Pandolfi, in Teatro, a cura di E. Castellani, introduzione di H. Mayer, Torino, Einaudi, 1965, pp. 930-931.