2016

Il  realismo  di  Danilo  Zolo

di Pietro Costa



1. Cenni introduttivi - 2. Dall’epistemologia riflessiva al realismo giuridico - 3. Il realismo politico: la teoria della democrazia - 4. Il realismo politico: la teoria dell’ordine internazionale



1. Cenni introduttivi


Chi entrasse in contatto, anche superficialmente, con la riflessione filosofico-giuridica e filosofico-politica sviluppata da Danilo Zolo nell’ultimo ventennio, non esiterebbe a ricorrere, per caratterizzarla con una formula riassuntiva, alla categoria del ‘realismo’. Per giungere a questa conclusione il lettore non avrebbe bisogno di particolari acrobazie ermeneutiche: è l’autore stesso che quasi in ciascuno dei suoi interventi impiega il termine ‘realismo’ (e i suoi derivati) per indicare sinteticamente il proprio schema teorico di riferimento. Nel suo più impegnativo contributo all’analisi della democrazia contemporanea – Il principato democratico – l’intenzione di delineare una teoria realistica viene programmaticamente indicata già dal sottotitolo dell’opera1 e in Cosmopoli2 – l’opera che apre la lunga serie di scritti dedicati alla filosofia del diritto internazionale – fino dalle prime pagine viene dichiarata l’appartenenza alla tradizione del realismo.

Il rinvio al realismo non è una clausola di stile; è un passaggio importante entro un discorso caratterizzato da una forte ‘riflessività’: sempre attento a intrecciare la costruzione dell’oggetto (sia esso la democrazia, l’ordine internazionale, la guerra o i diritti) con l’esposizione delle strategie linguistico-concettuali che la rendono possibile e imprimono a essa le sue caratteristiche peculiari. Proprio per questo, interrogarsi sul senso e sulla portata del realismo di Danilo Zolo può offrire un comodo accesso alla sua analisi teorica, ma al contempo rischia di spezzarne l’andamento ‘circolare’ separando arbitrariamente gli assunti epistemologici dall’analisi del fenomeno volta a volta considerato. Tenterò di mettere in evidenza le connessioni che intercorrono fra i due momenti del discorso, ma mi sarà impossibile ricostruire analiticamente i singoli apporti teorico-giuridici e filosofico-politici: a essi guarderò soltanto attraverso la finestra di quel realismo che Zolo presenta come la principale caratterizzazione della sua filosofia.



2. Dall’epistemologia riflessiva al realismo giuridico


Il realismo nel quale Zolo dichiara di riconoscersi è il realismo politico. L’aggettivo è in questo caso importante quanto il sostantivo, dal momento che il termine ‘realismo’ assume significati profondamente diversi a seconda delle tradizioni concettuali che lo impiegano: il realismo dell’epistemologo non ha molto a che fare con il realismo politico; e anche quando è quest’ultimo il termine di riferimento, la sua ambiguità diminuisce, ma non sparisce del tutto: il realismo del filosofo della politica non ha un’area semantica perfettamente coincidente con quella che gli attribuisce un teorico delle relazioni internazionali. Il realismo dunque, anche il realismo politico, non è un parametro univocamente definito, impiegabile per registrare le caratteristiche e l’orientamento dell’una o dell’altra teoria politico-sociale. Data l'ambiguità o almeno la complessità semantica del termine, quindi, nel momento in cui Zolo si definisce realista egli non tanto dichiara l’appartenenza a una tradizione perfettamente definita, quanto contribuisce a inventarla: sollecitando inediti corto circuiti fra settori disciplinari – quali la filosofia politica e la teoria delle relazioni internazionali – vicini ma distinti e ritagliandosi un percorso ‘dentro’ (e ‘fra’) essi all’insegna di un realismo che si viene definendo in itinere.

Capire il realismo di Zolo richiederà dunque un tentativo di decostruzione del suo apparato analitico (o, meglio, di ricognizione genetica del suo itinerario intellettuale), che metta in luce le diverse sfaccettature del prisma realistico a contatto con la teoria della democrazia e con la filosofia dell’ordine internazionale. La complessità e la peculiarità del realismo di Zolo, però, non derivano soltanto dalla molteplicità dei settori disciplinari che egli attraversa nel corso della sua avventura intellettuale, ma nascono anche (e soprattutto) dalle premesse metateoriche della sua teoria politica; premesse che affondano le radici nel terreno dell’epistemologia delle scienze umane (e dell’epistemologia in generale).

È un terreno che Zolo esplora a fondo nel corso degli anni Ottanta, giungendo a conclusioni che egli manterrà sostanzialmente immutate negli anni successivi e assumerà come il quadro di riferimento (ora implicito, ora tematizzato) della propria riflessione politico-giuridica. Per una singolare ironia della sorte (o meglio in conseguenza dei tortuosi itinerari storico-semantici cui il lessico teorico è abitualmente sottoposto), però, sul terreno dell’epistemologia il realismo, lungi dall’essere la prospettiva di elezione, è il principale bersaglio polemico della riflessione di Zolo.

Non viene messa in questione una delle valenze più generali del termine ‘realismo’ (una valenza che emerge soprattutto come elemento di contrapposizione a una filosofia di ispirazione idealistica): l'idea di una realtà esistente come tale, anziché costituita o posta dall'attività creativa dell'essere umano. L’oggetto del contendere è piuttosto quello specifico orientamento epistemologico che aveva trovato nel Circolo di Vienna la sua espressione più celebre, per dominare poi la filosofia della scienza fino agli anni Cinquanta-Sessanta.

In quella che è stata chiamata la received view neopositivistica (la rappresentazione dei presupposti e delle caratteristiche di un sapere che possa dirsi scientifico) le convinzioni più diffuse possono essere compendiate nei termini seguenti: non solo esiste, indipendentemente dai soggetti, una realtà autosufficiente, ma questa è conoscibile nella sua oggettiva configurazione; la scienza è fondata sull'osservazione dei fenomeni ed è capace di giungere alla rappresentazione (sia pure asintotica) della realtà come tale; la dimensione della soggettività è virtualmente messa in parentesi: la conoscenza è scientifica in quanto avalutativa e meramente ‘descrittiva’; non è rilevante la distinzione fra scienze naturali e scienze sociali, entrambe tenute al rispetto di un metodo sostanzialmente unitario.

È corrente l’impiego del termine ‘realismo’ per connotare un’epistemologia che attribuisca alla scienza il compito e la capacità di descrivere il proprio oggetto elaborando teorie che lo rappresentano con crescente (ancorché asintotica) approssimazione senza essere condizionate dalle inclinazioni e dai pre-giudizi soggettivi dell’‘osservatore’. Una siffatta concezione epistemologica ha esercitato una notevole influenza non solo sulle cosiddette hard sciences, ma anche su numerosi settori delle scienze sociali (dalla storiografia alla scienza politica, alla filosofia giuridica, alla teoria delle relazioni internazionali) fino agli anni Sessanta, quando essa ha dovuto fare i conti con visioni alternative, molto diverse fra loro, ma convergenti nel respingere i principali assunti della received view positivistica: valga ad esempio il riferimento alla tradizione ermeneutica, che, pur essendo già una componente di rilievo della cultura europea otto-novecentesca, vede aumentare la sua rilevanza nella Methodenstreit degli anni Settanta e contribuisce a mettere in questione l’idea (positivistica e neopositivistica) del soggetto come mero ‘osservatore’ di fenomeni e a sottolinearne l'intervento necessariamente attivo e valutativo.

L’epistemologica positivistica non entra peraltro in crisi soltanto per la crescente influenza di orientamenti con essa incompatibili. Anche al suo interno prende forza un processo di revisione, o di aperta sconfessione, delle tesi (di molte, se non di tutte) che ne avevano sorretto la versione ortodossa e per lungo tempo dominante. Da Popper a Kuhn, a Toulmin, si moltiplicano le sollecitazioni che conducono a revocare in dubbio convinzioni date per acquisite: non sembra possibile un’osservazione pura e impersonale dei fenomeni, la cui analisi al contrario dipende dalle presupposizioni teoriche dello scienziato; cade la teoria della verità come corrispondenza, l’idea di una realtà che il discorso scientifico possa rappresentare-descrivere nella sua oggettiva consistenza; appare ineliminabile l’incidenza della componente valutativa nei processi euristici.

È con questo processo di revisione interno alla tradizione dell’epistemologia neopositivistica che Zolo entra in contatto nel momento in cui prende a interrogarsi sui presupposti e sulle prestazioni cognitive dei saperi specialistici. L’appiglio gli è offerto dalla ricostruzione storico-teorica del pensiero di Otto Neurath3. La scelta di questo autore non è né casuale né gratuita: nel filosofo austriaco Zolo cerca non solo un’occasione per interrogarsi sulle condizioni di possibilità di un’analisi scientifica della dinamica politico-sociale, ma anche argomenti per corroborare e approfondire le ipotesi che egli enuncia già nelle prime pagine del suo libro: il superamento della teoria della verità come ‘corrispondenza’ e il rifiuto del cognitivismo etico4.

I testi di Neurath sembrano in effetti idonei a ricevere le sollecitazioni cui il loro lettore li sottopone. Membro fondatore del Circolo di Vienna e al contempo critico acuto della teoria della verità come corrispondenza fra enunciati e fatti, direttamente coinvolto nell’azione politica e interessato all’epistemologia delle scienze politico-sociali, Neurath appare a Zolo una delle più precoci e significative testimonianze di un ‘revisionismo’ epistemologico destinato ad approdare (oltre Neurath, nel corso degli anni Sessanta) a una visione della scienza (e delle scienze sociali) che sarà detta ‘post-empiristica’.

I principali assunti che Zolo trae (attraverso Neurath e oltre Neurath) dal processo di trasformazione della complessiva eredità neopositivistica mi sembrano i seguenti:

a) il rifiuto dell’idea della verità come corrispondenza e la convinzione che il linguaggio non disponga di un punto su cui far leva per saltare oltre se stesso e attingere l’oggetto ‘come tale’;

b) l’impossibilità di un’osservazione ‘pura’ dei fenomeni: il soggetto non è una tabula rasa, ma guarda al mondo attraverso un filtro linguistico-concettuale che impedisce il semplice ‘rispecchiamento’ della realtà nel processo conoscitivo;

c) l’insistenza sui condizionamenti storico-sociali e storico-culturali che incidono sulle prestazioni cognitive della scienza e la tematizzazione del rapporto che intercorre fra la comunità scientifica e la formazione e l’affermazione delle teorie: legate al consenso della comunità ed esposte quindi alle strategie (retoriche) della ‘persuasione’ e al gioco degli interessi e dei conflitti;

d) la scienza appare di conseguenza non tanto l’organo di un progressivo avvicinamento alla ‘realtà’ come tale, quanto il veicolo di visioni reciprocamente incommensurabili: un punto di vista sul mondo, sostenuto da un quoziente metaforico difficilmente riducibile all’univocità dell’argomentazione dimostrativa o della verifica empirica;

e) le pretese conoscitive attribuibili alla scienza sono indebolite rispetto all’epistemologia neopositivistica e soprattutto non sono considerate esenti da impliciti o espliciti giudizi di valore.

La scienza non è eticamente e politicamente neutrale, ma le sue strategie euristiche appaiono in qualche misura orientate e influenzate dai valori condivisi. I valori peraltro non sono suscettibili di essere razionalmente fondati: una delle principali acquisizioni che Zolo trae dalle sue frequentazioni neurathiane è non solo il rifiuto del cognitivismo etico e la condanna della ‘fallacia naturalistica’, ma anche una complessiva svalutazione dell’universo di discorso normativo.

Per l’empirista Neurath la pretesa kelseniana di fare dell’analisi di un discorso normativo una vera e propria ‘scienza’, in sé compiuta e autosufficiente, è una pericolosa illusione. L’analisi delle norme ha una sua limitata utilità se mira a controllare la coerenza interna del sistema giuridico, ma manca di un adeguato fondamento, dipendente come è dalla distinzione kantiana fra sfera dell’essere e sfera del dovere. Occorre al contrario ricondurre la norma all’interazione sociale di cui è funzione: il sapere giuridico può acquisire uno statuto scientifico solo convertendosi in un’analisi sociologica delle norme. Il discorso normativo, sia giuridico che etico, è scientificamente comprensibile soltanto in quanto venga ricondotto alle credenze, agli interessi, ai comportamenti di cui esso è una più o meno dissimulata ed efficace razionalizzazione e universalizzazione.

Accogliere la critica neurathiana dell’universo normativo significa far propria, sul terreno del sapere giuridico, la prospettiva del realismo (attaccando la presunta autonomia delle forme giuridiche per privilegiare, come scriveva Pound, il law in action sul law in books), mentre implica, sul terreno dell’etica, la scelta di contrapporre all’universalismo dell’imperativo categorico kantiano una molteplicità di scelte (individuali e collettive) legate alla contingenza di specifiche forme di vita.

Le suggestioni che Zolo trae dalla riflessione neurathiana sono dunque molteplici: muovono dall’epistemologia, ma investono anche l’ambito dell’etica e del diritto. È anzi proprio sul terreno dell’analisi dei fenomeni giuridici che fa la sua comparsa la categoria del ‘realismo’; e in effetti non appare una forzatura considerare ‘realistica’ la tesi sostenuta da Neurath – la necessità di ricondurre la jurisprudence a un’analisi sociologica del diritto per dare ad essa lo statuto di un sapere scientifico – dal momento che il ‘realismo giuridico’ (pur nella grande varietà delle sue espressioni) si è sempre contraddistinto per contrapporre al formalismo e al concettualismo dell’analisi normativa l’attenzione funzionalistica alle radici e agli effetti sociali delle norme5.

Nell’opzione giusrealistica Zolo si trova in una nutrita compagnia (data la diffusione, nel corso del Novecento, delle teorie anti-formalistiche); è però assai meno frequentata la strada che egli percorre per giungere a questo risultato, dal momento che il giusrealismo è solo una delle indicazioni che egli trae dal confronto con il pensiero neurathiano, mentre l’acquisizione principale resta la convinzione di dover procedere oltre i canoni dell’originaria epistemologia neopositivistica.

L’approdo cui Zolo perviene viene connotato da Zolo stesso come post-empiristico. Credo che potremmo impiegare il termine più pregnante, anche se indubbiamente polisenso, di costruttivismo6. In realtà, Zolo evita di impiegare questo termine, attribuendo a esso (o meglio alle sue declinazioni più radicali) una valenza fortemente convenzionalistica e una portata cripticamente idealistica: come se la scienza ‘producesse’ liberamente il proprio oggetto, priva di vincoli soggettivi e oggettivi. Mi sembra però che potremmo chiamare costruttivistica un’epistemologia che rifiuta la teoria della verità come corrispondenza, vede nella conoscenza non un ‘rispecchiamento’ della realtà, ma un processo di selezione ed elaborazione dei dati e insiste sul ruolo attivo e creativo del soggetto, senza per questo trascurarne il radicamento e i condizionamenti storico-sociali.

Zolo sottolinea il carattere riflessivo della sua epistemologia, utilizzando a questo scopo le suggestioni della celebre metafora neurathiana dei marinai costretti a riparare la navicella della scienza nel mare in tempesta, senza poter disporre di alcun bacino di carenaggio. Questa metafora – scrive Zolo – «allude infatti ad una situazione cognitiva che vieta ogni possibilità di certezza o di avvicinamento alla verità, à la Popper, poiché il soggetto stesso è incluso entro l’ambiente che egli si sforza di fare oggetto della propria conoscenza»7. La conoscenza si muove in un circolo: il soggetto conosce l’oggetto a partire dai pre-giudizi imposti dal suo radicamento storico-sociale e storico-culturale e, se pure consapevole dei propri condizionamenti, non è in grado di ‘guardarli dall’esterno’, di sbarazzarsene oggettivandoli.

Le conclusioni sulle prestazioni cognitive della scienza sono francamente pessimistiche. Le teorie non conducono a un progressivo rischiaramento dell’oggetto, ma esprimono un limitato, condizionato e soggettivo punto di vista sul mondo, influenzato dalle aspirazioni, dalle paure, dai valori del soggetto. «Il mio punto di vista – scrive Zolo – è consapevolmente context dependent, relativistico, gnoseologicamente scettico e sicuramente pregiudicato dal punto di vista cognitivo e valutativo»8.

Non esiste un punto di Archimede su cui far leva per uscire dal particolarismo delle più diverse forme di vita, entro le quali la stessa ‘scienza’ viene ad esistere e a funzionare. Se dunque anche una teoria che si vuole ‘descrittiva’ è in realtà una visione pre-giudicata dal soggetto e dal contesto cui egli appartiene, allo stesso modo (o a maggior ragione) il discorso normativo (sia etico che giuridico) dovrà essere spogliato delle sue pretese universalistiche e ricondotto al gioco delle aspettative, dei timori, delle esigenze di individui e gruppi determinati.

Muovendo da una siffatta prospettiva epistemologica, Zolo elabora una sorta di ‘strategia del sospetto’ nei confronti del discorso normativo. Confrontandosi con esso occorre, a suo avviso, evitare una doppia ‘fallacia’: non solo la fallacia ‘ontologica’ o ‘naturalistica’, che ricorre quando tentiamo di dedurre dalla struttura ‘oggettiva’ della realtà valori ed enunciati prescrittivi, ma anche la fallacia ‘deontologica’, che interviene quando ci dimentichiamo che nel processo conoscitivo incidono scelte di valore legate a progetti e forme di vita determinati e presentiamo come norme di portata universale regole di comportamento legate a inclinazioni soggettive.

L’analisi del discorso normativo si traduce quindi nella denuncia delle sue strategie di razionalizzazione e di universalizzazione di regole ‘locali’ e nella sua riconduzione alle forme di vita che ne costituiscono la radice e la destinazione funzionale. Zolo accoglie pienamente, su questo punto, la proposta neurathiana e vi resta sostanzialmente fedele in tutta la sua successiva riflessione. La sua diffidenza nei confronti degli enunciati prescrittivi e degli ‘immortali principî’ era stata peraltro già alimentata dalla lunga frequentazione dei testi di Marx, fatti oggetto, negli anni Settanta, di accurate ricostruzioni storico-teoriche9. Certo, l’ipotesi di rintracciare nell’opera di Marx i fondamenti di una vera e propria ‘scienza della società’ era caduta sotto i colpi dell’epistemologia post-empiristica. Restava però qualcosa dell’eredità marxiana: non solo la svalutazione degli enunciati prescrittivi e universalistici, ma anche la loro decostruzione e la loro riduzione al gioco degli interessi soggiacenti. La lezione marxiana – lo smascheramento della ‘falsa coscienza’ – non viene lasciata cadere, ma corrobora l’intenzione di strappare al discorso normativo le maschere universalistiche per far apparire il volto dei concreti agenti sociali. Resta infine un’ulteriore (e appena tratteggiata) eredità, che da Marx raggiunge, via Neurath, la riflessione di Zolo: un’immagine di uomo, che Neurath chiama epicurea (e anti-platonica) e attribuisce a Marx; un’immagine, che in qualche misura potrebbe rinviare a un’antropologia illuministica, caratterizzata dal protagonismo dell’individuo e dalla ricerca della felicità10.

Il realismo giuridico di Zolo è dunque l’esito di un lungo itinerario, che ha come matrice principale l’adozione di un’epistemologia post-empiristica (mentre resta sullo sfondo, pur mantenendo qualcosa del suo potere suggestivo, la critica marxiana delle ‘ideologie’). Lungi dall’essere un punto di partenza, un assioma primitivo, dell’analisi politico-giuridica di Zolo, il realismo giuridico è l’esito (uno degli esiti) di una riflessione che intende sgombrare il campo dal realismo epistemologico caratteristico del neopositivismo delle origini.



3. Il realismo politico: la teoria della democrazia


Una conclusione che Zolo trae dal suo attacco al realismo (epistemologico) è l’adozione di un programma giusrealistico: non cedere alle lusinghe della pretesa autonomia del discorso normativo e ricondurlo a quell’interazione sociale di cui esso è, al contempo, funzione e (deformante) specchio.

Per quanto rapidamente delineato, l’approccio realistico all’universo normativo sembra sottratto al fallibilismo dell’epistemologia riflessiva. Per Zolo infatti è, sì, congetturale e incerta la prestazione cognitiva di qualsiasi impresa scientifica, costretta a ‘costruire’ il proprio oggetto intervenendo selettivamente sulla non dominabile complessità del reale e pre-giudicata dagli interessi vitali dei ricercatori; ma non è affatto incerta la dipendenza (genetica e funzionale) dall’interazione sociale dell’universo normativo, sprovvisto di un’autonoma rilevanza e decifrabile soltanto in rapporto alle forme di vita con le quali è collegato.

Non è comunque l’analisi realistica delle norme il principale obiettivo perseguito da Zolo fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. È piuttosto la teoria politica ad attrarre la sua attenzione e a offrirsi come il più rilevante banco di prova della sua epistemologia riflessiva.

Fra le scienze sociali, la scienza politica era stata particolarmente sensibile al fascino del neopositivismo e numerosi erano stati i tentativi di elaborare una teoria della democrazia che ne accogliesse i principali suggerimenti: la valorizzazione delle ricerche empiriche, la formulazione di leggi esplicative dei fenomeni, l’adozione di uno stile ‘descrittivo’, preservato da contaminazioni valutative. Sono in sostanza i caratteri che Bobbio aveva indicato, in vari saggi dei primi anni Settanta11, come propri di una teoria politica che ambisse a presentarsi come una vera e propria ‘scienza’: come una scienza empirica, dotata di un metodo di analisi non diverso da quello osservato dalle scienze fisico-naturali.

È con questa immagine di scienza che Zolo deve confrontarsi nel momento in cui si accinge a tracciare, a sua volta, una teoria della democrazia che egli intende connotare come realistica. Non è però Bobbio (ma è piuttosto Sartori) che egli assume come il portavoce dell’epistemologia neopositivistica nell’ambito della scienza politica12. In Bobbio infatti, anche nel Bobbio apparentemente allineato con la tradizione empiristica, Zolo rintraccia un’inquietudine e un’ampiezza di orizzonti che superano di gran lunga i limiti di qualsiasi ‘ortodossia’. Bobbio avverte la difficoltà (o addirittura la sterilità) di una teoria politica depurata da qualsiasi componente valutativa e coltiva una visione più complessa e sfaccettata dell’azione umana; un’azione il cui protagonista comunica con i suoi simili attraverso simboli che chiedono di essere interpretati e agisce in vista di fini e in obbedienza a valori che devono essere decifrati come momenti della cultura di cui egli è parte13. Si attenua quindi, per Zolo (in ragione della sua opzione ‘post-empiristica’), ma anche per Bobbio (secondo l’interpretazione che Zolo suggerisce), la contrapposizione netta, qualitativa, fra scienza politica e filosofia politica e a distinguerle resta semmai una differenza di grado, svolgendo la prima analisi più determinate e mirate, mentre la seconda ambirebbe a una visione generale e complessiva dell’azione politica14.

Anche sul terreno della teoria politica occorre secondo Zolo respingere la received view neopositivistica senza però cadere nella trappola dell’eticismo e del normativismo. Alla prima pars destruens segue dunque una seconda, che assume come bersaglio ‘esemplare’ il neo-contrattualismo di Rawls. Esso infatti riposa su un’assunzione non argomentata – la condivisione universale di un naturale senso di giustizia – contro la quale deve essere avanzata, secondo Zolo, l’accusa di fallacia deontologica: un modello normativo universalistico viene costruito mettendo in parentesi le differenze e le specificità degli individui concretamente operanti, «costantemente impegnati in una trama di circuiti transattivi entro i quali si esprimono le esigenze di sicurezza di ciascun gruppo […]»15. Il discorso normativo appare per Zolo inaccettabile perché trasforma i valori (pur presenti in qualsiasi enunciato ‘descrittivo’, ma legati a interessi e aspettative ‘locali’) in principî di portata universalistica, di fronte alle quali ha ancora buon gioco il ‘riduzionismo’ marxiano o paretiano, che ne disvela la valenza legittimante nei confronti di specifici assetti potestativi (la democrazia welfarista, nel caso di Rawls, denigratoriamente ricondotta da Zolo all’apologo di Menenio Agrippa).

L’alternativa è sviluppare sul terreno dell’analisi politica, e della teoria della democrazia, gli assunti di quell’epistemologia riflessiva adottata da Zolo come la propria matrice metateorica. È a questo punto che entra in scena la categoria del ‘realismo politico’16; una categoria «alternativa – scrive Zolo – sia al falso realismo delle teorie economiche od empiriche della politica, sia alle concezioni moralistiche»17.

Il realismo politico ha alle spalle una lunga e impegnativa tradizione18, che Zolo accetta solo con beneficio d’inventario. La sua prima preoccupazione è prendere le distanze da una celebre tesi: la tesi del primato della forza sulla giustizia; la tesi sostenuta da Trasimaco, che nella Repubblica di Platone afferma che il ‘giusto’ è soltanto ciò che il più forte ritiene utile. Zolo accoglie dal realismo ‘classico’ la diffidenza nei confronti della giustizia, senza per questo identificare la sfera della politica con gli interessi e le strategie del principe. Realistica è per Zolo una teoria che vede nella politica un ambito di esperienza non assoggettabile alle prescrizioni di un sovrastante modello normativo. La politica è il momento del particolarismo degli interessi e dei progetti, inevitabilmente diversi e conflittuali, che trovano provvisori punti di incontro e momenti di composizione pattizia, ma non possono essere disciplinati da una norma (etica o giuridica) di portata soi-disant universalistica.

L’impossibilità di attribuire all’universo di discorso normativo un suo autonomo significato e la necessità di ricondurlo al particolarismo delle diverse forme di vita, già presentate da Zolo come conseguenze obbligate della sua scelta epistemologica, vengono confermate sul terreno di un’analisi (che Zolo chiama realistica) della politica. Realistica è infatti per Zolo un’analisi politica che concentra l’attenzione sugli interessi e le aspirazioni che emergono in un contesto determinato ed esclude il ricorso a criteri normativi sovrimposti, nella convinzione che essi siano la razionalizzazione e l’universalizzazione di ‘punti di vista’ (di aspirazioni, interessi, valori) contingenti.

La critica di quella ‘fallacia’ che Zolo chiama deontologica si incontra con la diffidenza, tipica della tradizione del realismo politico, nei confronti degli ideali, dei grandi principî, retoricamente solenni e politicamente imbelli. Certo, pur entro la medesima tradizione realistica, mutano il tono e la direzione di senso dell’argomentazione a seconda che essa si collochi ex parte principis o ex parte populi; resta però salda la convinzione (in Machiavelli come in Marx) che i principî e gli ideali non abbiano a che fare con l’essenza, con il motore segreto, dell’azione politica, ma ne siano solo una variabile dipendente.

La svalutazione machiavelliana dei paternostri appare a Zolo la precoce intuizione dell’autonomia della politica; un’intuizione che acquista una pregnanza tanto maggiore quanto più ci si addentra nella modernità e si diviene consapevoli della crescente complessità della dinamica sociale. Il termine ‘complessità’ vuole avere un significato non già generico, ma specifico, ‘tecnico’: è un termine-chiave di quella sociologia luhmanniana che Zolo aveva presentato e discusso fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta19 e continua a impiegare nella costruzione della sua teoria della democrazia. In questa prospettiva, data l’enorme e non dominabile complessità della realtà, il problema decisivo (sia teorico che pratico) è introdurre criteri di semplificazione allo scopo di fronteggiare le sfide dell’ambiente. È questa la funzione di ogni sistema sociale, la cui evoluzione è, sì, caratterizzata da un incremento di complessità interna, ma anche dalla simultanea formazione di sistemi e sotto-sistemi differenziati e relativamente autonomi.

L’autonomia della sfera politica, la sua indipendenza da altri sottosistemi sociali, è dunque un importante lascito della tradizione realistica, che Zolo recepisce e valorizza facendo leva su due linee argomentative diverse, ma convergenti: il rifiuto (per intendersi, neurathiano) dell’universalismo normativo e la teoria luhmanniana della complessità sociale e della differenziazione sistemica.

Della tradizione realistica Zolo non sembra invece voler accogliere il pessimismo antropologico ampiamente circolante al suo interno: l’idea di un essere umano egoista, inaffidabile, aggressivo, assetato di potere, di cui Machiavelli ha lasciato un’immagine tanto celebre quanto efficace. Non per questo però egli ritiene irrilevante per una teoria della democrazia qualsiasi rinvio a presupposti antropologici. Al contrario, egli si collega alla visione antropologica di Geh­len, che insiste sulla varietà dei comportamenti propri di un essere umano, la cui caratteristica più saliente è l’apertura al mondo e il continuo oscillare fra ricerca di innovazione e bisogno di stabilità, fra assunzione del rischio ed esigenza di sicurezza20.

La plasticità dell’essere umano non è però semplice indeterminazione e apertura a qualsiasi contenuto. Il nesso che Zolo intende instaurare fra antropologia e politica è più forte e sostantivo. Dall’etologia e dall’antropologia, da Lorenz e da Gehlen, egli trae la convinzione che l’essere umano nel suo rapporto con l’ambiente (con le sue eccessive sollecitazioni e con il troppo ampio ventaglio delle possibilità offerte) si senta esposto al rischio e all’imprevedibilità e chieda al gruppo sociale di intervenire con decisioni che riducano la complessità, contengano i rischi, controllino la paura. È la paura il principale collante dell’ordine politico: quella paura che almeno un grande ‘classico’ del realismo politico – Hobbes – aveva assunto come fondamento originario dell’ordine politico. È la paura che anche per Zolo contribuisce a tenere insieme il gruppo, a esaltare la differenza fra ciò che è interno ad esso e ciò che è esterno (e potenzialmente minaccioso), a conferire alle autorità un potenziale simbolico che svolge un ruolo rilevante nella stabilizzazione dell’assetto potestativo e nel disciplinamento sociale.

Zolo instaura dunque un duplice contatto con l’immaginario antropologico della tradizione realistica: in primo luogo, se ne respinge una componente (l’uomo egoista e aggressivo), ne accoglie un altro filone (l’uomo impaurito e bisognoso di rassicurazione), che aveva già esercitato, grazie a Hobbes, un influsso decisivo sulla rappresentazione dell’ordine politico. In secondo luogo, quale che sia l’immagine antropologica adottata, Zolo accoglie dalla tradizione la convinzione che l’antropologia incide in modo rilevante sulla rappresentazione dell’ordine politico.

Conviene chiedersi però a questo proposito quale sia lo statuto epistemologico attribuibile alle tesi antropologiche condivise. Anche se Zolo non si pronuncia esplicitamente su questo punto, mi sembra che non possano che essere confermati, anche su questo terreno, i principî della sua epistemologia riflessiva: secondo la quale ogni teoria (o spezzone di teoria) non descrive la realtà come tale, ma costruisce il proprio oggetto elaborando selettivamente i dati senza uscire da un circolo che trova nel soggetto un suo insuperabile punto di partenza e di arrivo. Il realismo politico di Zolo trova quindi un importante complemento nella sua soggiacente antropologia (hobbesiano-gehleniana), ma non può assumerla come un assioma evidente o come un piedistallo incrollabile. Attenuata la differenza fra scienza e filosofia, sottolineato il carattere necessariamente soggettivo e valutativo di ogni teoria, il realismo politico è, come ogni teoria, semplicemente un punto di vista sul mondo ed è costretto a rinunciare alla mossa retorica più efficace della tradizione realistica: il richiamo alla dura ma indiscutibile realtà contro le illusioni delle anime belle e le astrazioni dei filosofi. L’immagine dell’uomo impaurito non è necessariamente più aderente al ‘reale’ dell’immagine dell’uomo egoista o dell’immagine dell’uomo sociale e collaborativo: si fronteggiano concezioni diverse dell’essere umano cui corrispondono altrettanto diverse rappresentazioni della politica (ed è aperto semmai soltanto il dibattito sulla coerenza interna delle rispettive ‘visioni’).

Zolo intrattiene dunque un rapporto complesso con la tradizione del realismo politico: fa proprio il nesso (da essa ampiamente coltivato) fra antropologia e politica, ma preferisce far leva non sull’immagine (più diffusa) dell’uomo machiavelliano, bensì sul nesso (hobbesiano) fra paura e ordine; valorizza il tema (machiavelliano) dell’autonomia della politica, ma lo riformula dalle fondamenta potenziandone la portata con l’innesto della sociologia luhmanniana; trova congeniale la svalutazione degli ‘ideali’ e dei ‘principî’ (di contro alla dura lezione delle cose) e la rafforza (e rifonda) alla luce degli esiti giusrealistici dell’epistemologia riflessiva; ed è infine proprio in conseguenza di una siffatta scelta epistemologica che egli si vede costretto a lasciar cadere o almeno a indebolire notevolmente (anche senza dichiararlo apertis verbis) le pretese di verità del realismo ‘classico’: il realismo cessa di presentarsi come la squillante rappresentazione delle ‘cose stesse’ per divenire semplicemente uno stile intellettuale, la forma di una narrazione, un approccio metodico e una visione della politica.

È questo il programma euristico cui Zolo si attiene nello sviluppare la sua analisi della democrazia; e torna di nuovo, anche su questo terreno, il confronto con una tradizione, lunga e articolata, che si presenta appunto come realistica; una tradizione che nasce su impulso di Mosca e di Pareto, prosegue con Weber e con Kelsen (con il Kelsen teorico della democrazia), trova la sua più celebre fondazione e sistemazione in Schumpeter e influenza a fondo la politologia del secondo Novecento (si pensi a Robert Dahl).

In questa prospettiva, se analizziamo, senza pregiudizi e senza forzature ideologiche, la concreta dinamica degli attori sociali, ci accorgiamo che i principî e i simboli che avevano sorretto le concezioni sette-ottocentesche della democrazia sono destinati a cadere come aspirazioni illusorie o impossibili modelli normativi.

La democrazia (che Schumpeter chiama ‘classica’) – la democrazia di Rousseau (e anche la democrazia di Marx) – coincideva con l’idea di un popolo capace di porsi come un soggetto attivo e propositivo, detentore di una volontà sovrana che trascende il particolarismo dei gruppi e degli interessi e rende possibile la coincidenza fra governanti e governati. Certo, il modello rousseauviano era molto diverso dalla visione di Sieyès, per il quale la democrazia moderna si realizzava necessariamente nella forma della rappresentanza. Resta comunque indubbio che nel corso dell’Ottocento si sarebbe diffusa l’idea di un ordine politico che poteva dirsi legittimo solo in quanto fondato sul consenso dei cittadini, sulla libera espressione della loro volontà, sulla loro partecipazione (diretta o indiretta) al potere.

Sono appunto queste convinzioni a vacillare sotto i colpi di un’analisi che si presenta come realistica in quanto decisa a scendere dal cielo dei principî allo scopo di comprendere la più terrena dinamica del comando e dell’obbedienza. In questa prospettiva, il demos come unitario centro di volontà si dissolve, sostituito da gruppi ristretti, da élites politico-sociali impegnate ad assicurarsi una posizione di comando: non sono i ‘tutti’, o almeno i ‘molti’, a decidere, ma i ‘pochi’, i membri delle élites. Il meccanismo democratico-rappresentativo è soltanto una finzione giuridica, utile non perché assicuri la partecipazione del popolo al processo decisionale, ma perché rende possibile una regolamentata competizione fra leader rivali, che mirano ad accaparrarsi il voto elettorale e influenzano gli elettori impiegando tecniche simili a quelle adottate dagli esperti pubblicitari.

È questo il quadro di riferimento che Zolo accoglie. Nei confronti del realismo di Schumpeter egli avanza però due riserve importanti: in primo luogo, la sua analisi della democrazia non fa eccezione (come il suo autore pretenderebbe) alla regola dell’insopprimibile dimensione valutativa di ogni teoria; in secondo luogo (e di conseguenza), la sua visione della democrazia (e in particolare le successive concezioni pluralistiche à la Dahl) peccano di un eccesso di ottimismo nel considerare ancora ‘democratico’ il funzionamento odierno delle istituzioni rappresentative. Per Zolo infatti la crescente auto-referenzialità dei partiti politici, la persistente invisibilità di numerosi processi decisionali, l’incidenza della macchina multimediale sul processo decisionale dei cittadini, sempre più lontani dall’immagine idealizzata di soggetti compiutamente autonomi e razionali, sono fenomeni che inducono a dubitare della possibilità di tener fermo il concetto di democrazia e autorizzano l’ipotesi di una possibile diffusione di ciò che Zolo chiama il ‘modello Singapore’: un tipo di società dove la centralità del mercato e l’incremento della produttività coesistono con un sistema politico autoritario, quali che siano le foglie di fico democratico-rappresentative di cui esso voglia eventualmente adornarsi21.

Un’analisi realistica della democrazia (un’analisi dove il lascito della tradizione elitistica si intreccia con il lessico teorico della sociologia sistemica) non sembra dunque poter individuare forze capaci di impedire la trasformazione dell’«elitismo democratico» nell’«elitismo tout court», ovvero della «democrazia» nel «suo contrario»22. Dissolti i parametri della rappresentanza e del pluralismo, restano, a caratterizzare i moderni regimi ‘democratici’, le articolazioni istituzionali che «corrispondono all’esigenza di conservare il livello di differenziazione e di complessità raggiunto dalle moderne società industriali»: è questa «la promessa che la democrazia deve mantenere»23. Rispettata questa promessa, però, la democrazia non sembra distinguersi essenzialmente da quel modello liberal-costituzionale che essa aveva preteso (o promesso) di trasformare in nome dell’eguaglianza.

In effetti, le promesse che la democrazia aveva formulato nella sua traiettoria sette-ottocentesca erano molte e impegnative. Che fossero troppe e troppo arrischiate è una tesi che Bobbio aveva già formulato negli anni Ottanta: per un verso, egli esortava a ridurre le aspettative, a tener fermo il ‘contenuto minimo’ della democrazia senza inseguire destabilizzanti chimere; per un altro verso, però, egli era convinto che alcune promesse erano inseparabili dalla democrazia e attendevano ancora la loro integrale realizzazione. «Le promesse non realizzate della democrazia»: è questa la famosa, e dolente, accusa formulata da Bobbio nel 198424. Attraverso una disincantata, ‘schumpeteriana’, analisi della società contemporanea Bobbio denuncia l’incompiutezza di una democrazia che ha promesso, ma non ha realizzato, la sovranità del popolo, la partecipazione eguale, il rafforzamento del potere decisionale dei cittadini, la trasparenza del potere.

Con il realismo di Bobbio (come con il realismo di Schumpeter) Zolo è simpatetico, ma ritiene anche che occorra procedere (con maggiore intransigenza) sulla medesima strada e sostenere che «le promesse non mantenute della democrazia sono, senza alcuna eccezione, promesse non mantenibili»25. È la realtà stessa (la realtà ‘costruita’ attraverso il gioco combinato dell’antropologia gehleniana e della sociologia sistemica) a rendere le promesse della democrazia «promesse da marinaio»26. Né vale il ricorso a un qualsiasi, divergente, discorso normativo, dal momento che esso non gode di una rilevante autonomia e si esaurisce nella razionalizzazione di valori e aspettative contingenti.



4. Il realismo politico: la teoria dell’ordine internazionale


L’elaborazione di una teoria della democrazia aveva offerto a Zolo l’occasione di mettere a punto la sua prospettiva realistica e al contempo di approfondirne i fondamenti epistemologici. Al realismo politico Zolo giungeva infatti al termine di un lungo percorso che lo aveva indotto a rifiutare i principali assunti della tradizione neopositivistica (dalla teoria della verità come corrispondenza all’immagine di una scienza meramente descrittiva) e a contestare le pretese universalistiche del discorso normativo. Le preoccupazioni epistemologiche non erano però destinate a restare sulla soglia del dibattito politologico: anche su esso il neopositivismo aveva esercitato un influsso rilevante ed era quindi indispensabile verificare, sul terreno dell’analisi filosofico-politica, la tenuta e gli effetti della prospettiva post-empiristica in cui Zolo si riconosceva.

Non era però sufficiente ribadire il nesso fra l’epistemologia riflessiva e il realismo politico. Occorreva definire la propria collocazione entro un settore disciplinare – la scienza politica e la filosofia della politica – dove il ‘realismo’ poteva contare su una lunga ed illustre tradizione. Con essa Zolo ha dovuto fare i conti, per così dire, due volte: prima segnalando le sue consonanze e dissonanze con la visione machiavelliana e hobbesiana della politica, poi valorizzando in particolare, della tradizione realistica, la prospettiva elitistica e scegliendo di muoversi nel suo alveo sviluppandone criticamente gli assunti.

È un analogo modus procedendi, attento a coniugare le premesse epistemologiche generali con le ‘epistemologie locali’ e con le prospettive e le acquisizioni proprie di uno specifico settore disciplinare, che Zolo segue quando si addentra in un diverso (ma complementare) territorio di ricerca: l’analisi dell’ordine e della politica internazionale.

Il mutamento dello scenario – dalla politica interna alla politica internazionale – è netto, ma non sorprendente, data la crescente rilevanza della dimensione sovrastatuale e la conseguente difficoltà di chiudere l’analisi dei fenomeni politici entro i confini delle singole realtà nazionali27. La decisione di affrontare il problema delle relazioni internazionali potrebbe addirittura essere presentata come il naturale sviluppo di una filosofia politico-giuridica consapevole di tutte le sfaccettature e della crescente complessità del proprio oggetto. Zolo continua a muoversi entro un’area, almeno in ultima istanza, omogenea e ha quindi buon gioco nel riproporre non solo (come è ovvio) la sua epistemologia riflessiva, ma anche quel realismo politico che aveva trovato negli assunti epistemologici generali il suo fondamento, ma si era riempito di contenuti ulteriori nel vivo di un’analisi dedicata alla teoria della democrazia. Anche sul terreno della politica internazionale, Zolo continua a sviluppare la sua prospettiva realistica. Occorre però tentare di capire se il suo realismo acquisisca determinazioni ulteriori nel nuovo campo di indagine, coltivato da tradizioni disciplinari specifiche e diverse (quali la teoria delle relazioni internazionali e il diritto internazionale).

Nella teoria delle relazioni internazionali un orientamento (che si definiva) realistico aveva avuto un ruolo in qualche misura fondativo. Secondo una diffusa auto-rappresentazione della disciplina, è proprio il realismo che nel secondo dopoguerra, con le opere di Edward Hallet Carr28 e di Hans Morgenthau29, domina il campo, ‘inventa’ come proprio antonimo l’idealismo e apre la serie dei grandi dibattiti che avrebbero scandito il successivo sviluppo della disciplina stessa30.

Per i realisti, la tragedia della guerra aveva spazzato via le illusioni ‘idealistiche’ di matrice wilsoniana e imponeva il recupero di una tradizione che poteva vantare come propria matrice addirittura la Guerra del Peloponneso di Tucidide e il famoso dialogo fra i Mèli e gli Ateniesi. L’aspirazione di Morgenthau è offrire una rappresentazione fredda e disincantata della politica internazionale, cogliendo le leggi che ne regolano i fenomeni. L’esistenza di oggettivi e inalterabili principî capaci di spiegare il comportamento degli attori internazionali rinvia, per Morgenthau, alla natura stessa dell’essere umano e alle sue costanti determinazioni. Ancora una volta, un’analisi realistica della politica trova il suo fondamento in precisi assunti antropologici. Come ogni essere umano è caratterizzato da un’originaria libido dominandi, così gli Stati – unici attori sulla scena internazionale – perseguono sistematicamente il proprio interesse, la propria conservazione e la propria affermazione. A un’antropologia hobbesiana corrispondono puntualmente tanto un rapporto di analogia fra l’individuo e lo Stato quanto un’immagine ‘anarchistica’ delle relazioni internazionali. Se pure è ipotizzabile una morale impegnata a contrastare l’egoismo auto-affermativo dell’individuo, è comunque indiscutibile l’autonomia della sfera politica e quindi la sua impermeabilità a criteri etici e ad aspirazioni universalistiche.

Nei confronti del realismo di Morgenthau (impressionato tanto dal conflitto mondiale quanto dalla successiva ‘guerra fredda’), Zolo può essere solo moderatamente simpatetico: pronto ad accoglierne le generiche istanze anti-normativistiche e anti-eticistiche e a sottoscrivere la tesi (per intendersi machiavelliana) dell’autonomia della politica, ma lontano tanto dai suoi assunti antropologici (troppo impressionati dal pessimismo del realismo politico ‘classico’) quanto dalle sue coordinate epistemologiche (troppo esposte al rischio di incorrere nella fallacia del ‘realismo ingenuo’).

Interessato a far tesoro degli apporti di una disciplina – la teoria delle relazioni internazionali – che si viene costruendo come una vera e propria scienza dedicata all’analisi della politica nella sua proiezione sopranazionale, Zolo non può identificarsi con il realismo degli anni Cinquanta e guarda piuttosto agli sviluppi successivi del medesimo paradigma.

Spicca fra questi la proposta neorealistica di Kenneth Waltz, che accoglie l’immagine ‘anarchistica’ della politica internazionale, ma intende superare le ingenuità metodologiche e le pregiudiziali antropologiche del realismo à la Morgenthau per elaborare una visione strutturale e sistemica dell’ordine internazionale31. Sul terreno epistemologico, le coordinate che sorreggono l’analisi di Waltz sono in sostanza solidali con la filosofia del neopositivismo (anche se non mancano, nelle sue considerazioni metodologiche, tensioni e spunti che sembrano rendere meno ‘ortodossa’ la sua scelta); né il quadro di riferimento sembra cambiare in modo significativo nemmeno con Robert Keohane32: un autore – valorizzato e ricondotto da Zolo al paradigma realista – che in realtà perviene a una proposta originale (che è stata detta neoliberale o neo-istituzionalista) e tuttavia resta complessivamente fedele alla received view neopositivistica. Una dimostrazione è offerta dal suo intervento33 nel dibattito che negli anni Ottanta investe la teoria delle relazioni internazionali; un intervento nel quale egli usa la coppia opposizionale rationalism/reflectivism per distinguere la tradizionale epistemologia neopositivistica dalla prospettiva post-empiristica, convinta del carattere valutativo e ‘riflessivo’ delle scienze politico-sociali, e mostra di riconoscersi nel primo, piuttosto che nel secondo, orientamento34.

Può apparire singolare che Zolo si accinga a utilizzare gli apporti di alcuni teorici neorealisti (e neo-istituzionalisti) delle relazioni internazionali senza riservare loro il medesimo trattamento precedentemente inflitto agli scienziati della politica, dal momento che tanto i primi quanto i secondi si riconoscevano in quell’epistemologia neopositivistica dalla cui contestazione Zolo traeva il fondamento stesso del suo realismo.

Occorre però tener conto di due elementi: in primo luogo, Zolo poteva dare per conclusa la propria revisione critica del paradigma neopositivistico e ritenere sufficiente una semplice conferma dell’epistemologia riflessiva delineata nel corso degli anni Ottanta; in secondo luogo, se è vero che egli non mette in questione le premesse epistemologiche del neorealismo (e del neo-istituzionalismo) né entra in rapporto con la nutrita compagnia dei teorici post-positivistici delle relazioni internazionali, è altrettanto vero che la sua adesione alle conclusioni sostantive di Waltz o di Keohane è solo parziale e selettiva.

Ne è una prova il suo riferimento (apertamente simpatetico) alla ‘scuola inglese’ e a Hedley Bull, che accoglie da Martin Wight35 il suggerimento di guardare alla storia delle dottrine distinguendo fra un indirizzo realistico-hobbesiano, idealistico-kantiano e groziano e dichiara la sua appartenenza a quest’ultimo. Dalla riflessione di Hedley Bull Zolo trae non pochi spunti importanti36. In primo luogo, Bull tiene fermo il principio secondo il quale l’ordine internazionale ruota intorno alla pluralità (‘anarchica’) degli Stati e non mostra nessun cedimento di fronte alle sirene universalistiche, che anzi anch’egli (realisticamente) sospetta al servizio degli interessi, inevitabilmente particolaristici, dell’uno o dell’altro Stato37. In secondo luogo, l’anarchia internazionale (che pure dà il titolo al libro) non è affatto il bellum omnium temuto da Hobbes. L’ordine internazionale è, sì, riconducibile allo stato di natura della tradizione giusnaturalistica (salvo che i soggetti in esso operanti non sono gli individui ma gli Stati), ma deve essere compreso ricorrendo non già a Hobbes, ma a Locke; e lo stato di natura lockiano manca di un sovrano e di un giudice delle possibili controversie, ma ha una sua intrinseca strutturazione, è organizzato secondo regole, è già, in quanto tale e indipendentemente da un centro coattivo, un ordine. Allo stesso modo, nelle relazioni internazionali non esiste l’alternativa secca fra una cosmopoli convergente su un centro o su un vertice e il disordine provocato dall’incoercibile scontro dei Leviatani; è esistita e può continuare ad esistere una società internazionale in grado di dar vita a regole di varia natura (pre-giuridiche e anche giuridicamente formalizzate) e capace di raggiungere un suo equilibrio (un ordine), pur in presenza di una molteplicità di centri di potere38.

Certo, la prospettiva di Bull resta fortemente ancorata alla tesi della centralità dello Stato ed è attraverso una lente statocentrica che egli coglie le capacità auto-ordinanti della società internazionale. Rispetto a questo orientamento, l’approccio neo-istituzionalista di Keohane è indubbiamente più flessibile e pronto a registrare la varietà e la complessità odierne delle istituzioni capaci di favorire la cooperazione ponendo vincoli agli Stati e attenuando il loro tradizionale protagonismo. Al contempo però è forte il rapporto che Keohane intrattiene con la teoria sistemica di Waltz e con le radici neopositivistiche che ne costituiscono la premessa epistemologica, di contro alla sensibilità storicistica di cui dà prova la ‘scuola inglese’. È comprensibile quindi che Zolo, pur senza pronunciarsi apertamente al riguardo, mostri di trovarsi a suo agio con la prospettiva ‘neo-groziana’, aliena dalle ambizioni, ma anche dalle rigidità, teoriche e metodologiche dei neorealisti e dei neo-istituzionalisti (pur essendo al contempo disposto a servirsi dei loro apporti, senza preoccuparsi troppo delle loro matrici teoriche).

Quali sono gli spunti che dalla frequentazione dei teorici delle relazioni internazionali trae Zolo nell’orchestrazione della sua prospettiva realistica?

Una prima, rilevante acquisizione mi sembra la valorizzazione della molteplicità dei centri di potere e il conseguente attacco a qualsiasi ipotesi di cosmopolitica reductio ad unum dell’ordine internazionale. Le tesi post-positivistiche da tempo messe a punto da Zolo trovano nel nuovo ambiente una conferma e uno sviluppo: la politica è il luogo dove interessi e progetti necessariamente particolaristici si scontrano e si compongono secondo una logica propria che non può essere forzata dall’applicazione di criteri normativi (etici o giuridici) che, lungi dal favorire l’ordine o addirittura rendere possibile un ordine ‘giusto’, operano come indebite razionalizzazioni di aspirazioni contingenti. È quindi utile la lezione dei teorici realisti delle relazioni internazionali nella misura in cui dimostra la possibilità di pensare l’ordine politico, anche nello scenario internazionale, come convivenza (fragile, locale, spontanea) del molteplice.

Se il realismo coincide con la valorizzazione dell’insuperabile molteplicità degli Stati, dei popoli, delle culture, il suo antonimo è una prospettiva che assuma come obiettivo la creazione di un ordine globale, capace di includere come proprie componenti i diversi centri di potere. Quali che siano le manifestazioni dell’istanza ‘globalistica’ (l’esigenza di un giudice come arbitro delle controversie, l’idea kelseniana di un unitario universo normativo), esse incorrono comunque nell’errore di voler imporre alle concrete dinamiche politiche una regolamentazione forzosa ed estrinseca che non tiene conto della loro irriducibile complessità. Il globalismo giuridico è insomma vittima di un’immagine ancora verticistica e piramidale dell’ordine, che invece, in una prospettiva realistica, deve essere rappresentato come «un reticolo normativo policentrico», come «una ragnatela», o «una serie di ragnatele disposte a frattale», compatibile con «processi diffusi di interazione strategica e di negoziazione multilaterale»39.

Contro il globalismo giuridico interviene anche un’altra componente del realismo: l’anti-normativismo. Anche in questo caso, trova conferme e applicazioni il programma euristico messo a punto da Zolo già in occasione delle sue letture neurathiane. L’analisi di un apparato normativo, secondo il filosofo viennese, può anche avere una valenza ‘interna’ e servire a saggiare la coerenza e la tenuta del sistema (è in questa prospettiva, credo, che Zolo denuncia la torsione o la flagrante disapplicazione che alcuni grandi principî del diritto internazionale – quali l’eguaglianza, l’imparzialità del giudice, la condanna della guerra – subiscono sotto la pressione dei poteri prevalenti). Ancora più importante però è guardare il discorso normativo dall’esterno, rapportandolo alla prassi cui esso resta effettivamente collegato.

Continua dunque, sul terreno dell’analisi della politica internazionale, la denuncia della ‘fallacia deontologica’: lo smascheramento delle pretese universalistiche del discorso normativo, che occulta, razionalizzandoli, interessi e posizioni di potere particolaristici. È in questa prospettiva che Zolo contrappone alla pretesa ‘terzietà’ del giudice internazionale la sua effettiva dipendenza dalla potenza egemone (quali che siano state le realizzazioni istituzionali – da Norimberga a Baghdad, come recita il sottotitolo di un suo libro40 – di una siffatta istanza giurisdizionale).

Occorre infine procedere applicando anche nei confronti del diritto internazionale i canoni del realismo: spezzando l’involucro formalistico dell’universo normativo e riconducendolo alla dinamica politico-sociale di cui esso è funzione41. Non manca però, accanto alla conferma della prospettiva giusrealistica, uno spunto ulteriore, congruente con la varietà politica e culturale dello scenario internazionale: l’esortazione a prendere sul serio, di contro alla kelseniana civitas maxima, la molteplicità degli ordinamenti, opponendo una prospettiva pluralistica all’idea di «un solo, onnicomprensivo, ordinamento giuridico»42.

L’anti-normativismo; la denuncia degli interessi particolaristici soggiacenti alla retorica dei ‘principî’; il rifiuto del cosmopolitismo: sono questi i tratti principali che caratterizzano, secondo Zolo, una filosofia ‘realistica’ dell’ordine internazionale; e sono questi gli stimoli principali che una siffatta filosofia può trarre, per un verso, dai teorici (da alcuni teorici) delle relazioni internazionali, e, per un altro verso, dalla riflessione politico-giuridica di Carl Schmitt.

Di Schmitt Zolo apprezza la «critica corrosiva» nei confronti del normativismo kelseniano, dandola però al contempo in qualche modo per acquisita43. È piuttosto una seconda componente del realismo schmittiano che egli sottolinea e valorizza: lo smascheramento della volontà di potenza soggiacente agli irenismi e agli universalismi geneticamente riconducibili all’‘idealismo’ wilsoniano. Non a caso un motto schmittiano (e proudhoniano) viene scelto da Zolo come titolo di un suo libro; un libro che invita appunto a diffidare «di chi usa la parola ‘umanità’ nel contesto di una guerra»44 e denuncia le crociate (sedicenti) umanitarie come l’espressione di una strategia retorica che legittima la propria guerra come ‘giusta’ e delegittima l’avversario trasformandolo in un nemico ‘dis-umano’. Ancora una volta, il realismo si accredita come un esercizio di ‘critica dell’ideologia’, capace di demistificare la pretesa oggettività e neutralità dell’etica universalistica.

Infine, il rifiuto del cosmopolitismo; un rifiuto che percorre l’intera analisi storico-teorica del Nomos della terra. Schmitt continua a far leva, in nome del suo «realismo polemologico»45, sulla sovranità degli Stati nazionali e a guardare (con qualche nostalgia conservatrice) al sistema dello ius publicum europaeum; e la lezione che ne trae Zolo è, in sostanza, la conferma di quell’idea di ordine internazionale delineata da alcuni teorici realisti delle relazioni internazionali (in particolare da Hedley Bull); l’idea di un ordine caratterizzato da «un regionalismo policentrico e multipolare» e dal «rilancio della negoziazione multilaterale fra Stati»46.

Non sono cambiati, a contatto con la tematica politico-internazionalistica, ma si sono solo arricchiti adattandosi al nuovo contesto, i profili che hanno caratterizzato il realismo di Zolo fino dalla sua prima formulazione. Fra questi, un elemento tanto suggestivo quanto importante è la dimensione antropologica. Il riferimento a un retroterra antropologico è ricorrente nella tradizione realistica. Zolo accoglie questa eredità, ma la sviluppa in una direzione che non ha molto a che fare con l’antropologia pessimistica (e rudimentale) di Morgenthau. Sono piuttosto le riflessioni antropologiche ed etologiche sulla guerra che egli mette a frutto: una guerra che deve essere considerata non un’episodica ‘deviazione’, ma un comportamento iscritto, se non nella ‘naturale’ aggressività dell’essere umano, certo nella sua organizzazione culturale, nella strutturazione territoriale e solidale delle più diverse comunità politiche47.

Fenomeno intimamente ‘culturale’ (in senso antropologico), la guerra non può essere bandita una volta per tutte, come vorrebbe la generosa illusione del pacifismo assoluto, e nemmeno può essere riconosciuta come ‘giusta’, perché così facendo si incorrerebbe ancora una volta nella fallace universalizzazione di una scelta contingente e particolaristica. Certo, la guerra, in quanto legata agli interessi e ai progetti di un determinato gruppo sociale, può essere, per esso, «una scelta inevitabile». Chi però – aggiunge Zolo – «al suo interno si impegna a legittimarla come ‘giusta’ si rende moralmente responsabile di ciò che è inevitabile» e si dispone a scomodare «i valori più alti […] per giustificare moralmente il mondo così com’è»48.

In una prospettiva realistica, dunque, la guerra può apparire, in certe circostanze, come una soluzione obbligata: si può fare la guerra; ciò che però non si ‘deve’ fare è combatterla al grido di ‘Dio è con noi’. In effetti, però, chiunque guardi (realisticamente) alla storia dell’umanità si rende facilmente conto della ricorrente tendenza a fondare eticamente, a giustificare (a rendere giusta) la guerra, la propria guerra; e non sembrerebbe impossibile attribuire a questa tendenza profonde radici antropologico-culturali. Potrebbe allora profilarsi la possibilità di un ‘altro’ realismo; un realismo che assume come (antropologicamente) inevitabile una qualche fondazione etica della guerra.

Questa ipotesi non sembra però poter trovar posto nell’argomentazione di Zolo. Il suo realismo include un divieto: compiere il salto mortale dal particolarismo degli interessi all’universalismo dei valori. È però anche vero che quel divieto è costantemente disatteso dalla ‘realtà’. Nella rappresentazione della ‘realtà’ sembra allora aprirsi una tensione. È come se Zolo dicesse: succede, ma non ‘deve’ succedere, perché quel passaggio (dall’interesse al valore) viene, sì, costantemente effettuato, è, sì, ‘reale’, ma non è ‘vero’. Potremmo allora trarre due conseguenze: il ‘momento della verità’, nel realismo di Zolo, viene forse a trovarsi su un gradino più alto del ‘momento della volontà’. E poi: è la volontà che si impossessa strumentalmente dei «valori più alti». E allora denunciarne l’interessata e particolaristica utilizzazione può forse divenire (per una singolare eterogenesi dei fini) la strategia più efficace per preservarne l’incontaminata purezza.








1 Danilo Zolo, Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Feltrinelli, Milano 1992.

2 Danilo Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano 1995.

3 Danilo Zolo, Scienza e politica in Otto Neurath. Una prospettiva post-empiristica, Feltrinelli, Milano 1986.

4 Ivi, p. 14.

5 Cfr. Silvana Castignone, Diritto, linguaggio, realtà. Saggi sul realismo giuridico, Giappichelli, Torino 1995.

6 Cfr. Vittorio Villa, Costruttivismo e teorie del diritto, Giappichelli, Torino 1999; Gerard Delanty, Social Science. Beyond Constructivism and Realism, Open University Press, Buckinham 2000. Cfr. Alessandro Pagnini (a cura di), Realismo/antirealismo: aspetti del dibattito epistemologico contemporaneo, La Nuova Italia, Scandicci 1995; Christopher B. Kulp (ed.), Realism/antirealism and Epistemology, Rowman & Littlefield, Lanham 1997; Michele Marsonet (ed.), The problem of realism, Ashgate, Aldershot (Hampshire) 2002.

7 Danilo Zolo, Il principato democratico, cit., p. 25.

8 Danilo Zolo, La democrazia difficile, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 35.

9 Danilo Zolo, La teoria dell’estinzione dello Stato, De Donato, Bari 1974; Id., Stato socialista e libertà borghesi, Laterza, Roma-Bari 1976; Id., I marxisti e lo Stato, Il Saggiatore, Milano 1977.

10 Danilo Zolo, Scienza e politica in Otto Neurath, cit., pp. 154 sgg.

11 Norberto Bobbio, Scienza politica, in Scienze politiche, 1. Stato e politica, in Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 432-41; Id., Dei possibili rapporti fra filosofia politica e scienza politica, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari, 1, 1971, pp. 23-57; Id., Considerazioni sulla filosofia politica, in «Rivista italiana di scienza politica», 2, 1971, pp. 367-79.

12 Danilo Zolo, Complessità e democrazia, Giappichelli, Torino 1987, pp. 157-83.

13 Ivi, pp. 167-69.

14 Ivi, pp. 180-81.

15 Danilo Zolo, Il principato democratico, cit., p. 55.

16 Un’approfondita analisi critica è offerta da Alfonso Liguori, Realismo politico, democrazia, modernità. Il principato democratico di Danilo Zolo, undici anni dopo, in «Bollettino telematico di filosofia politica», 2007 (http://bfp.sp.unipi.it/).

17 Danilo Zolo, Il principato democratico, cit., p. 58.

18 Cfr. Pier Paolo Portinaro, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari 1999.

19 Danilo Zolo, Complessità, potere, democrazia, in Niklas Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1989, pp. IX-XXX; Id., Complessità e democrazia, in «Problemi della transizione», 1982, 9, pp. 149-59; Id., Funzione, senso, complessità. I presupposti epistemologici del funzionalismo sistemico, in Niklas Luhmann, Illuminismo sociologico, Il Saggiatore, Milano 1983, pp. XIII-XXXIV.

20 Danilo Zolo, Il principato democratico, cit., pp. 61-62.

21 Ivi, p. 212.

22 Ivi, p. 120.

23 Ivi, pp. 209-210.

24 Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, in Il futuro della democrazia: una difesa delle regole del gioco, Einaudi, Torino 1984, pp. 3-28. Cfr. Pier Paolo Portinaro, Introduzione a Bobbio, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 117 sgg.

25 Danilo Zolo, Il principato democratico, cit., p. 134.

26 Danilo Zolo, L’alito della libertà. Su Bobbio, Feltrinelli, Milano 2008, p. 18.

27 Cfr. Furio Cerutti, Filosofia politica e relazioni internazionali, in Id. (a cura di), Gli occhi sul mondo. Le relazioni internazionali in prospettiva interdisciplinare, Carocci, Roma 2000, pp. 109 sgg.

28 Edward Hallet Carr, The Twenty Years’ Crisis. An Introduction to the Study of International Relations [1939], Macmillan, London 1995.

29 Hans Morgenthau, Politics among Nations: The Struggle for Power and Peace, Knopf, New York 1948. Cfr. Martin Griffiths, Realism, Idealism and International Politics. A Reinterpretation, Routledge, London-New York 1992; Benjamin Frankel (ed.), Roots of Realism, Frank Cass, London-Portlan (Or.) 1996; Roger D. Spegele, Political Realism in International Theory, Cambridge University Press, Cambridge 1996.

30 Cfr. Mark A. Neufeld, The Restructuring of International Relations Theory, Cambridge University Press, Cambridge 1995; Paul R. Viotti, Mark V. Kauppi, International Relations Theory. Realism, Pluralism, Globalism, and Beyond, Allyn and Bacon, Needham Heights (MA) 19993.

31 Kenneth Waltz, Teoria della politica internazionale [1979], il Mulino, Bologna 1987

32 Cfr. in particolare Robert Keohane, After Hegemony: Cooperation and Discord in the Worlsd Political Economy, Princeton University Press, Princeton 1984; Id. (ed.), Neorealism and its Critics, Columbia University Press, New York 1986.

33 Robert O. Keohane, International Institutions: Two Approaches, in «International Studies Quarterly», 32, 1988, 4, pp. 379-96.

34 Cfr. Milja Kurki, Colin Wight, International Relations and Social Science, in Tim Dunne, Milja Kurki, Steve Smith (eds.), International Relations Theory. Discipline and Diversity, Oxford University Press, Oxford 2007, pp. 19 sgg.

35 Martin Wight, International Theory. The Three Traditions, Leiceester University Press, London 1991.

36 Fra cui anche la critica della domestic analogy. Su questa nozione cfr. Chiara Bottici, Uomini e Stati. Percorsi di un’analogia, ETS, Pisa 2004.

37 Hedley Bull, La società anarchica. L’ordine nella politica mondiale [1977], Vita e Pensiero, Milano 2005, pp. 102-103.

38 Ivi, pp. 63 sgg.

39 Danilo Zolo, Cosmopolis, cit., p. 130.

40 Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Laterza, Roma-Bari 2006.

41 «Una teoria moderna e realistica del diritto internazionale dovrebbe quindi tematizzare anzitutto il rapporto che esiste fra le forme del diritto e, per così dire, le deformità o l’assenza di forme degli arcana imperii (Danilo Zolo, I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico, Carocci, Roma 1998, p. 138).

42 Danilo Zolo, I signori della pace, cit., p. 139.

43 Danilo Zolo, Cosmopolis, cit., p. 124.

44 Danilo Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000, p. 44.

45 Danilo Zolo, I signori della pace, cit., p. 121.

46 Danilo Zolo, La profezia della guerra globale, in Carl Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra, a cura di Stefano Pietropaoli, Laterza, Roma-Bari 2008.

47 Danilo Zolo, Cosmopolis, cit., pp. 173 sgg.

48 Ivi, p. 107.