2007

Alle origini della modernità:
i diritti degli indigeni del Nuovo Mondo

Giuseppe Tosi

Schiavi per natura e barbari

Con la riscoperta nel XIII secolo della Politica di Aristotele la dottrina degli "schiavi per natura" entra in circolazione negli ambienti medievali e, grazie all'immensa autorità del filosofo, trova una buona accoglienza. Essa poneva però alla coscienza cristiana medievale due questioni morali: l'evidente contrasto con la dottrina dell'universale uguaglianza e libertà originaria e naturale degli uomini e dei popoli e la mancanza di un referente empirico al quale applicarla. Per questo, sebbene fossero stati fatti vari tentativi, essa rimase, come ha osservato Gianfranco Fioravanti, una "categoria vuota" durante il basso Medioevo fino alla scoperta dei popoli del Nuovo Mondo. (1)

È solo nel contesto del dibattito sulla legittimità della Conquista dei nuovi territori d'oltremare che la dottrina acquista una sua rilevanza. Appariva plausibile ad alcuni teologi e giuristi che cercavano di giustificare il dato di fatto della conquista che si stava consumando, identificare nei nuovi popoli scoperti gli "schiavi naturali" di cui aveva parlato Aristotele. (2)

Il filosofo greco aveva sviluppato una dottrina il cui scopo principale era quello di giustificare il dato di fatto della schiavitù legale. Gli schiavi che Aristotele aveva in mente erano infatti sia quelli utilizzati per il lavoro domestico sia quelli che servivano come mano d'opera negli ergastola del tempo e fornivano il lavoro necessario al mantenimento di tutto il sistema, permettendo così l'esistenza di un ampio spazio di azione per i cittadini liberi. Allo stesso tempo, Aristotele aveva accennato alla possibilità che schiavi per natura fossero esclusivamente i barbari, presso i quali lo spazio riservato alla libertà dei cittadini era molto ridotto o inesistente. Fra i barbari perciò prevalevano i regimi dispotici e tirannici, che erano considerati contro natura dai Greci, ma naturali per le società come quelle barbariche nelle quali mancava "l'elemento che per natura comanda", cioè gli uomini liberi. (3) Inoltre, nell'Etica Nicomachea, aveva fatto menzione di un altro tipo di barbari, cioè quelle popolazioni, poste agli estremi confini del mondo "civilizzato", che praticavano costumi mostruosi e non vivevano sotto l'egida della legge. (4)

I popoli del Nuovo Mondo possedevano apparentemente queste due caratteristiche: erano infatti incapaci di autogoverno e avevano costumi selvaggi e contro natura. Questo valeva senz'altro per le prime popolazioni scoperte, quelle delle isole e delle coste dei Caraibi, le quali non possedevano forme di organizzazione statale e civile comparabili con le civiltà europee e praticavano costumi riprovevoli come il cannibalismo. Era facile quindi la loro identificazione con i selvaggi, i bruti e gli amentes¸ dell'esegesi medievale della Politica e dell'Etica Nicomachea.

Quanto alle grandi civiltà Maya, Azteca e Incas, che furono scoperte in un secondo momento, il discorso si faceva più complesso. Era impossibile, di fronte alle testimonianze circa il loro complesso grado di civiltà, negare che ciò fosse un chiaro indizio della loro razionalità (indicium usus rationis) e della loro capacità di autogoverno. In questo caso, gli apologeti della conquista, per poter assimilare questi popoli agli aristotelici schiavi di natura, mettevano in evidenza gli aspetti lacunosi e manchevoli della loro civiltà, o il loro carattere tirannico e dispotico. Questo discorso si intrecciava con la denuncia dei delitti contro natura come i cruenti sacrifici umani che ne rafforzavano i tratti disumani e giustificavano la necessità dell'intervento dei sapientiores per convincerli, con la forza se fosse necessario, a praticare costumi più miti e cristiani, come afferma l'apologeta della Conquista Juan Ginés de Sepúlveda (1490-1573). (5)

La tesi era stata accolta con favore da teologi importanti come Johannes Maior, Bernardino de Meza, Matias de Paz, giuristi come il licenciado Gregorio e Palacios Rubios, cronisti come Fernandez de Oviedo (6) e aveva fatto breccia all'interno delle congregazioni missionarie (sebbene in modo più accentuato fra i Francescani che fra i Domenicani). Tale posizione rimase maggioritaria per decenni nelle juntas di teologi e giuristi che, fin dai tempi di Isabella e Fernando, si erano pronunciate sull'argomento e forniva una base teologica e giuridica alle risoluzioni del Consiglio delle Indie e del Consiglio della Corona che avevano il compito di sovrintendere a tutto il processo di conquista e colonizzazione.

Sepúlveda si inserirà, più tardi, in questa corrente, mettendoci di suo l'autorità e la fama acquisita come traduttore e interprete di Aristotele. Egli fa una lettura naturalista del pensiero politico di Aristotele: riprende alla lettera la dottrina della schiavitù naturale e la innesta sul tronco dell'agostinismo politico più radicale che pone al servizio della dottrina della guerra giusta e della sua compatibilità con il cristianesimo.

L'elemento dirompente che dà inizio ad una controtendenza e apre il dibattito sono le affermazioni che il padre Antón Montesinos, a nome della comunità domenicana diretta dal padre Pedro de Cordoba, espose nelle sue due famose prediche pronunciate nell'Avvento dell'anno 1511 sull'isola di Hispaniola davanti al Viceré e alle massime autorità coloniali. (7)

I teologi domenicani Francisco de Vitoria (1485-1546), che reggeva allora la cattedra di Prima Theologia a Salamanca, la più prestigiosa di Spagna, e Domingo De Soto (1494-1560), suo collaboratore, si sentirono allora nell'obbligo morale di intervenire anche senza essere sollecitati e le questioni che prima si dibattevano negli ambiti delle Cortes, cominciarono a risuonare nelle aule delle università più prestigiose come Salamanca e Alcalá. Le informazioni che arrivavano dalle Indie attraverso le testimonianze dei confratelli e le gesta di cui si vantavano i conquistadores erano più che allarmanti. Vitoria era pienamente al corrente di questi fatti e lo lascia intravedere nella sua famosa Relectio de Indis del 1537/38, (8) Domingo de Soto li affronterà nella Relectio de Dominio de 1535, oltre che nel famoso trattato De Iustitia et Iure del 1556. (9)

Occorreva ripensare tutto l'impianto teorico tradizionale che dava supporto alla conquista: non si trattava solo di applicare a un caso concreto delle teorie già elaborate, come aveva fatto Sepúlveda, ma di aprire nuovi cammini che venivano stimolati proprio dai problemi sollevati dal Nuovo Mondo.

Nel 1516, mentre Vitoria insegnava teologia all'Università di Parigi, entra in scena il principale protagonista del dibattito, Bartolomè de Las Casas (1484-1566), che presentava al Cardinal Cisneros il suo primo Memorial di denúncias e veniva nominato ufficialmente Protector de los Indios; cinquant'anni dopo, nel 1566, pochi mesi prima della sua morte, il frate domenicano presenterà l'ultimo Memorial al Consejo de Indias. In questo lungo lasso di tempo, con eccezione della parentesi di studio e riflessione nel noviziato dei Domenicani nell'isola di Hispaniola fra il 1522 e il 1532, la sua figura domina tutto il dibattito e, in grande misura, lo suscita e lo condiziona.

Con il passare degli anni Las Casas assume posizioni sempre più radicali fino alla messa in questione di tutto il progetto di conquista e colonizzazione. Las Casas percorre quindi un cammino originale che nasce dalla sua ineguagliabile esperienza personale delle cose delle Indie e dalla sua "conversione" alla causa indigena. Il suo discorso si distingue per la passione nella difesa degli indigeni, per la relazione sempre costante fra teoria e pratica, ma anche per l'originalità nell'elaborazione teorica della dottrina. Egli non è infatti un semplice ripetitore dei maestri di Salamanca, non è solo un abile polemista, ma attinge a fonti proprie giuridiche, teologiche e filosofiche; sa utilizzare abilmente le mediazioni culturali e riesce a elaborare una dottrina politica coerente e significativa come mostrano alcuni studi recenti. (10)

***

In questa sommaria sintesi cercherò appunto di esporre le posizioni assunte dai principali protagonisti sui temi principali di questo dibattito che è così importante anche per i suoi sviluppi e le sue conseguenze sulla storia moderna dell'Occidente.

Proprietà (dominium) e diritto (ius)

I maestri di Salamanca collocavano la questione della schiavitù naturale dei popoli indigeni nell'ambito della discussione sul dominium: "Utrum barbari essent veri domini ante adventum hispanorum" (Se i barbari fossero veri signori prima dell'arrivo degli Spagnoli). Occorreva però risolvere il problema preliminare della collocazione del dominium nell'ambito del diritto e quindi della relazione fra dominium e ius. Vitoria e De Soto si trovano a dover decidere fra due concezioni della relazione fra ius e dominium. Da un lato la concezione "oggettiva" del diritto che aveva dominato la storia di questo concetto da Aristotele fino al sec. XIV, (11) sostenuta dalla tradizione e da Tommaso; dall'altra quella soggettiva (o ultrasoggetiva) degli iuniores (cioè i giuristi moderni).

I maestri di Salamanca ripristinano, per lo meno formalmente, la dottrina tomista. (12) Essi però finiscono per far propria la definizione degli iuniores, cioè l'identificazione fra dominium e ius e la definizione del dominium come facoltà o potere (facultas et potestas) di usare una cosa secondo gli usi permessi dalla legge, accogliendo così la concezione soggettiva del diritto o meglio dei diritti dell'uomo. Tale passaggio avviene in modo esplicito nella Relectio de Indis, nella quale l'identificazione fra dominium e ius è esplicitamente affermata. (13)

Sembra quindi acquisito, per un certo numero di interpreti, (14) che, nonostante una apparente fedeltà alle auctoritates, i teologi di Salamanca abbiano elaborato una rilettura dei testi che sfocia in una nuova concezione dell'uomo e del suo ruolo nell'ordinamento politico e giuridico che si veniva delineando. Così facendo, i maestri di teologia (e i giuristi che li hanno seguiti) hanno intrapreso il cammino che porta verso la costituzione di un diritto naturale soggettivo che preannuncia quello moderno. (15)

Secondo Paolo Grossi gli scolastici operano una fondazione antropologica della proprietà attuando una continuità logica tra il "me" e il "mio", identificando il dominium come un attributo intrinseco del soggetto libero secondo una definizione che sarà poi fatta propria da Suarez: "affermare che i nostri atti sono liberi e che noi abbiamo dominio su di essi è la stessa cosa". (16)

Questa operazione "costituiva il 'mio' quale ipostasi necessaria della mia individualità" ed è considerata da Grossi "un principio fisso, indiscusso e forse indiscutibile di tutti i maestri della Seconda Scolastica". (17) Essa sarà poi coerentemente portata avanti dai teologi giuristi - con poche varianti ed eccezioni - fino a fare della proprietà come posizione di libertà del soggetto una caratteristica imprescindibile della sua dignitas (dominium pertinet ad dignitatem) e della sua perfezione come ratio independentiae e ratio superioritatis dell'uomo in relazione a tutto il creato, riflesso nell'uomo dell'immagine di Dio, supremo Dominus.

Su questa linea interpretativa si muove anche Brian Tierney, il quale avverte però, che la concezione soggettiva dei diritti naturali non nasce solo a partire dalle posizioni assunte dai teologi francescani e nominalisti nel dibattito sulla povertà, ma affonda le sue radici nella giurisprudenza medievale. (18) Di diverso avviso sono invece Richard Tuck, per il quale gli scolastici spagnoli rimangono ancorati alla dottrina oggettiva tomista, (19) e Philippe André Vincent secondo cui in Las Casas sarebbe assente una concezione soggettiva dei diritti naturali. (20)

Senza volerci addentrare in questo dibattito, riteniamo possibile ipotizzare una via mediana fra le due interpretazioni. Certamente i maestri di Salamanca si muovono secondo una concezione soggettiva dei diritti degli individui che ha come suo centro e fondamento la libertà umana. È inoltre plausibile, da una lettura dei testi, che sia stata proprio l'esigenza di rispondere alle questioni nuove e drammatiche poste dal Nuovo Mondo a fornire un contributo importante per questa "svolta" nella loro dottrina. Quando Vitoria afferma che gli indigeni sono veri domini, publice et privatim, implicitamente riconosce che il dominium, cioè la proprietà su se stessi, le proprie azioni e i propri beni costituisce una caratteristica intrinseca del soggetto, che tale caratteristica è tipica di tutti gli uomini per diritto naturale, che non può essere perduta nemmeno a causa del peccato.

Ma tale concezione rimane pur sempre all'interno di un sistema nel quale le esigenze di libertà del soggetto non sono limitate solamente dalla legge positiva degli Stati, come sarà poi nei tempi moderni, ma devono essere rese compatibili e armonizzate con la legge divina che governa e sovradetermina l'ordine naturale delle cose. Se così non fosse, essendo gli indigeni veri domini, anche i costumi, quali il cannibalismo e i sacrifici umani, che per tutti gli interlocutori erano dei "peccati contro natura", sarebbero stati legittimi. Ma nessuno dei protagonisti del dibattito era disposto ad arrivare a questa forma di "tolleranza" e di "relativismo culturale".

Sepúlveda "risolve" il problema identificando la legge naturale con la legge divina positiva e ha quindi buon gioco nel rivendicare l'intervento della Chiesa e della Corona per porre fine a questi crimini: essi costituiscono eo ipso causa di guerra giusta nella misura in cui vendicano la iniuria più grave di tutte, cioè quella verso Dio. La guerra santa proclamata verso i barbari e idolatri del Nuovo Mondo viene così legittimata. (21)

I maestri di Salamanca, fedeli alla tradizione tomista, mantengono la distinzione fra legge naturale e legge divina positiva, ma, anche per loro, i costumi indigeni rimangono sempre oggettivamente dei peccati che vanno contro l'ordine naturale delle cose stabilito da Dio; non avendo però la Chiesa e i principi cristiani giurisdizione (iurisdictio) sugli infedeli, rimettono a Dio il giudizio sugli "infedeli", e ammettono la guerra solo per salvare le vittime innocenti dai sacrifici umani e non per castigare gli indios dei loro peccati contro natura.

Las Casas si spinge fino ai limiti consentiti dall'ortodossia, ma non li supera, come pensa Todorov e non assume una visione prospettica e relativista delle culture, negando la verità e l'unicità della sua stessa religione. (22) Anche per il difensore degli indios i sacrifici umani e il cannibalismo rimangono oggettivamente dei peccati contro natura. Egli però cerca di rendere meno distante ciò che appare incomprensibile alla sua (e nostra) cultura, mostrando come tali pratiche aberranti e crudeli trovino una loro spiegazione solo se collocate all'interno del loro contesto culturale. Questa operazione di antropologia comparata non arriva però fino al punto di legittimarle: queste azioni sono errori probabili, ma pur sempre errori non giustificabili sul piano morale.

Il disaccordo di Las Casas nei riguardi di Sepúlveda è invece radicale quanto ai metodi utilizzati per l'estirpazione, anche per lui necessaria, di questi costumi: in nessun caso, afferma il Domenicano, è possibile intervenire con la forza, nemmeno per salvare vite innocenti, perché il danno che si arrecherebbe, e che di fatto si è già arrecato, è maggiore di quello che si vuole eliminare.

Il fondamento del dominio sta nell'immagine di Dio

Il dominium dell'uomo su se stesso, sugli altri esseri irrazionali e sui beni trova il suo fondamento ontologico nel principio biblico secondo il quale l'uomo è creato da Dio a sua immagine e somiglianza: fundamentum dominii et imago Dei. La presenza dell'immagine di Dio nell'uomo è testimoniata dalla razionalità e socialità dell'uomo come caratteristiche intrinseche e naturali che ne fanno un essere fine a se stesso e non un mezzo "per altro"; quindi un essere libero. A differenza di Aristotele, ma utilizzando i suoi stessi principi, i maestri di Salamanca estendono tale concezione a tutti gli uomini in virtù del ricorso al principio della perfezione della natura: la natura non può aver prodotto popoli interi nei quali non si sia realizzata la razionalità umana. Solo in rarissimi casi si possono riscontrare fenomeni mostruosi, che sono eccezioni in evidente contrasto con le manifestazioni normali e regolari della natura; tali sono i barbari servi a natura di cui parla Aristotele. (23)

La riflessione di Las Casas si muove nello stesso ambito dei maestri di Salamanca, apportando però il nuovo e originale contributo della dettagliata disanima dei quattro tipi di barbari. (24) Ogni uomo è un riflesso dell'immagine di Dio e quindi non possono esistere distinzioni "naturali" fra liberi e schiavi, ma tutti gli uomini hanno una comune identità. Anche quegli esseri umani che non manifestano caratteri di razionalità sono figli di Dio e vanno trattati come fratelli. Così dice Vitoria a rispetto degli amentes, (25) che possono soffrire offese (pati iniurias); così afferma Las Casas rispetto ai barbari: anche per loro Cristo ha sparso il suo sangue.

La concezione naturalista delle differenze fra gli uomini che è possibile leggere nella teoria aristotelica era incompatibile con la tradizione cristiana di un Dio provvido e buono: qualsiasi uomo, per quanto "inferiore", vizioso, pagano, barbaro può sempre risollevarsi dalla sua condizione e convertirsi a Cristo. L'universalismo cristiano rendeva impossibile difendere una teoria della superiorità permanente di un popolo o civiltà. Anche Sepúlveda è obbligato in qualche modo a modificare la teoria aristotelica per poter giustificare l'azione "educatrice" dei sapientiores e ammettere quindi che gli homunculi possano diventare uomini. (26)

La discussione ritorna quindi al punto in cui era stata lasciata dai filosofi medievali nel loro tentativo di dare un referente empirico alla categoria "vuota" degli aristotelici "schiavi per natura", categoria che era stata troppo sbrigativamente "riempita" dai teologi e dai giuristi che l'avevano applicata ai barbari del Nuovo Mondo. Gli indigeni sono davvero "schiavi per natura"? Sono uomini pienamente razionali oppure inferiori, degli amentes, o di poco superiori agli amentes?

Vitoria su questo punto è oscillante: da un lato riconosce che gli indios erano, senza alcun dubbio, veri signori pubblicamente e privatamente, come i cristiani (sine dubio barbari erant et publice et privatim ita veri domini, sicut christiani); e che pertanto non potevano essere privati, sia in quanto principi, sia in quanto singole persone, dei loro beni, come se non fossero veri padroni. (27) Dall'altro, sembra ritornare sui suoi passi: se essi sono davvero, ut dicitur, poco differenti dagli amentes e quindi incapaci di governarsi da soli hanno bisogno della tutela dei sapientiores. Questa tutela non giustifica la loro sottomissione forzata e la spoliazione dei loro beni, ma è comunque un vulnus al riconoscimento della loro capacità di dominio e autogoverno (28).

I maestri di Salamanca, a differenza di Sepúlveda, non riconoscono la naturalità della relazione dominus/servus perché essa va a unico beneficio del signore e non del servo; sostengono invece un tipo di relazione che deve essere esercitata in favore degli indigeni, in modo che, attraverso una buona educazione, possano essere condotti verso costumi e comportamenti più civili e umani. Le loro tesi non coincidono con quelle di Sepúlveda, ma appaiono, in alcuni punti cruciali, vicine a quelle del retore di Cordova che, da parte sua, non perderà occasione per citare l'autorità dei maestri di Salamanca in suo favore.

Las Casas si muove in modo diverso. Innanzitutto non manifesta nessun dubbio quanto alla piena umanità delle popolazioni indigene. L'immagine che ci presenta degli indigeni, sia delle civiltà più complesse e raffinate, sia dei popoli più "primitivi", è sempre estremamente positiva, (29) al punto che alcuni interpreti vi hanno visto una delle fonti ispiratrici del mito del "buon selvaggio" rousseauniano. Las Casas inoltre non ha nessun timore di ferire l'orgoglio dei suoi connazionali, affermando che i veri barbari e selvaggi sono gli spagnoli che si comportano peggio degli animali più feroci. (30) Egli prende molto sul serio quel sicut christiani di Vitoria: gli indigeni sono a pieno titolo dei sudditi liberi dell'Imperatore e come tale devono essere trattati. Non si giustifica perciò il loro asservimento, la distruzione delle loro culture, e le pratiche per ridurli in schiavitù come il repartimiento e la encomienda, come non si giustificherebbe se così fossero trattati i sudditi spagnoli di sua Maestà. Occorre ripristinare i loro signori legittimi, restituire i loro beni ingiustamente sottratti e punire chi ha commesso tali atrocità e ingiustizie. L'unica forma di dominio legittima deriva dalla volontaria sottomissione di queste nazioni all'autorità dell'Imperatore, che può chiedere in cambio unicamente quello che chiede agli altri suoi sudditi, cioè la riscossione dei tributi. La reciprocità dei diritti viene qui portata fino alle estreme conseguenze.

Che resta, allora dell'autorità dell'Imperatore e della legittimità del dominio politico degli spagnoli nel Nuovo Mondo? Il dibattito a questo punto si spinge inevitabilmente verso un terreno propriamente politico.

Dominio e giurisdizione

Il termine dominium, dice De Soto, è proprio dell'ambito del diritto privato; in termini aristotelici, dell'ambito domestico (oikos). (31) Quando viene utilizzato in ambito politico indica il regime dispotico di cui parla Aristotele, quel regime cioè nel quale il potere è esercitato a beneficio del monarca e non dei sudditi, che si addice solo ai regimi barbarici, dove tutti sono schiavi, e non ai greci, dove i cittadini sono liberi. In questo caso il termine più appropriato sarebbe quello di potestas o di imperium che hanno una specifica valenza politica. Siccome però esso viene utilizzato anche per indicare il potere politico si tratta di indagare l'uso che se ne può fare in questo campo.

Occorre, in primo luogo, distinguere fra dominium e iurisdictio. I re e i principi non hanno la proprietà delle persone e delle cose dei sudditi, ma solo una iurisdictio, che è cosa totalmente diversa perché non implica il possesso, ma solo il governo, l'amministrazione delle cose.

Si riconosce quindi l'esistenza di una sfera che viene sottratta al potere politico, cioè quella della libertà originaria dei sudditi su se stessi e sui loro beni; è un ambito "privato" che il principe non può invadere, ma deve solo difendere. Egli infatti è stato scelto dal popolo per governare in suo favore e per garantire la libertà di tutti e non per agire a proprio beneficio.

Las Casas, nel trattato politico intitolato De Regia Potestate, (32) parte da questo presupposto, che lo accomuna ai maestri di Salamanca, per criticare la concessione in perpetuità della schiavitù degli indigeni (encomiendas): il principe non può alienare qualcosa che non gli appartiene, ma che appartiene per diritto naturale al singolo individuo e al popolo nel suo insieme. Per giungere a questa conclusione Las Casas elabora una vera e propria dottrina politica che ha come suo fondamento l'originaria libertà non solo dei singoli, ma dei popoli: Omnium una libertas.

La schiavitù non appartiene al diritto naturale, ma è un "fenomeno accidentale imposto agli uomini dal caso e dalla fortuna": tutti gli uomini e i beni erano originariamente liberi per diritto naturale, per cui anche "presso gli infedeli esiste una legittima proprietà dei beni", come De Soto e Vitoria avevano affermato. Il popolo, eleggendo il re, non perse la sua libertà perché il potere di governare procede immediatamente dal popolo, che ne è la causa efficiente e finale, mentre il Re ha bisogno del consenso di tutti quando si tratta di questioni di interesse generale. (33)

Non dobbiamo qui, però, confondere il linguaggio degli scolastici con quello dei moderni. In Vitoria e Las Casas, convivono, senza contrasto, un momento naturalista e uno contrattualista dell'origine del potere politico che verranno poi separati a partire da Thomas Hobbes. Infatti, ciò che è originario non è l'individuo della tradizione giusnaturalista che vive in uno stato di natura, nel quale è già titolare di diritti naturali; tale individuo è, per Aristotele, come per tutta la tradizione dell'aristotelismo politico, l'apolide, l'asociale, l'ex lege cioè il barbarus simpliciter dell'esegesi medievale della Politica.

Nello stato di natura originario gli individui sono invece già pensati non come una multitudo ma come un populus, come facenti parte di una comunità politica naturale che è espressione della naturale (cioè istintiva) socialità umana dello zoón politikón. Il momento propriamente contrattualistico (il pactum subiectionis) avviene solo quando la comunità, per sua libera scelta (electio) decide di sottomettersi all'autorità di un re. Lo stesso discorso vale per il carattere organico della comunità politica, perché, come afferma Las Casas: "unità politica non consiste in un'integrazione puramente organica, quanto piuttosto in una unione di volontà". (34)

Questa dottrina, nonostante presenti elementi di affinità con le successive teorie giusnaturaliste, non è però moderna: non solo per le differenze che abbiamo messo in evidenza, ma perché mantiene la concezione ministeriale del potere politico. In questo tutti gli interlocutori sono tributari in maniera diversa dell'agostinismo politico e differiscono solo nella sua interpretazione (35). Sepúlveda lo intende nel modo più tradizionale e ortodosso, alla maniera dei teologi teocratici e cesaropapisti come l'Ostiense e conferisce alla Chiesa il potere di coazione (compelle intrare). (36) Vitoria ne limita la portata, nella misura in cui assume il principio tomista che Cristo, e quindi la Chiesa, possiede la potestas negli affari temporali solo ed esclusivamente in ordine ad spiritualia, sed escluso illo fine, nullam habebat, ma ammette un uso ampio della forza in certe circostanze. (37)Las Casas riprende la concezione ministeriale in un duplice senso, attenendosi al significato letterale del termine: il re è ministrum, cioè servitore del popolo, perché, come aveva già affermato Aristotele, un potere esercitato a beneficio di chi comanda e non della collettività, non è legittimo. Il potere deve promuovere il bene comune; re e governanti non sono dei signori (domini) del loro regno ma dei rettori e degli amministratori della cosa pubblica. Ma il re, come cristiano, è anche un ministrum della Chiesa e quindi deve porre la sua autorità al servizio della sua missione evangelizzatrice.

Su questo punto esiste un elemento di dissenso importante fra Las Casas e i dottori di Salamanca. Mentre Vitoria e De Soto negavano all'Imperatore e al Papa non solo il dominium, ma anche la iurisdictio totius orbis, Las Casas afferma più volte una certa autorità suprema dell'Imperatore e del Papa sul mondo intero. Dobbiamo notare che tale concezione è però molto diversa da quella dei teologi imperiali o curiali. Per Las Casas, infatti, le due autorità universali non sono tali per diritto naturale (lo impedisce l'originaria e naturale libertà dei popoli), nemmeno per diritto delle genti o ius commune, ma solo per diritto divino, cioè in funzione del mandato che Cristo aveva dato alla Chiesa di evangelizzare il mondo, in virtù del quale tutti gli uomini sono, sebbene solo "in potenza" e non "in atto", sudditi di Cristo.

Tale mandato è però è stato vincolato strettamente dallo stesso Cristo che ha ordinato come "unico mezzo" la predicazione pacifica del vangelo, "come agnelli in mezzo ai lupi". La concezione ministeriale del potere politico trova quindi un limite molto chiaro e forte che impedisce la giustificazione delle "guerre sante" di conquista ammesse da Sepúlveda. Ma qui ci siamo già addentrati nel tema delle relazioni internazionali.

Il diritto internazionale: fra ius gentium e ius inter gentes

Su questo tema il testo paradigmatico è senz'altro quello della terza parte della De Indis relativo ai titoli legittimi. (38) In questa Relectio, Vitoria prende posizione in modo preciso per l'inclusione dello ius gentium nell'ambito del diritto naturale o derivato dal diritto naturale. Vitoria inoltre, sostituisce l'omnes homines della tradizione con l'omnes gentes, attribuendo quindi alle nazioni il ruolo di soggetti del diritto internazionale. (39)

Questa posizione è stata valutata dagli interpreti in modo del tutto opposto. Carl Schmitt ha sottolineato come, nonostante gli elementi di novità, la concezione vitoriana della communitas orbis non esca dai limiti della Respublica Christiana. Vitoria - egli afferma - non pone cristiani e non cristiani sullo stesso piano e non livella le differenze sociali, giuridiche e politiche prodottesi nel corso della storia dell'umanità. (40) Basti pensare alla dottrina dei perpetui hostes che escludeva i giudei e i saraceni, ma anche, come sottolinea Mechoulan, i popoli indigeni i quali, nonostante tutti i riconoscimenti del loro vero dominio, alla fine vengono qualificati come perfidi hostes. (41) Insomma rimane valida anche per Vitoria la concezione ministeriale del potere nonostante la sua critica al totus orbis dei teologi curiali e la conseguente delegittimazione della bolla di Alessandro VI Inter Cætera. Vitoria rimane quindi nell'ambito dello ius gentium della Respublica Christiana e non dello ius inter gentes del moderno ius publicum Europaeum.

Luigi Ferrajoli, e con lui gli studiosi che hanno partecipato alla sessione del "Tribunale permanente dei diritti dei popoli", sottolineano invece che lo ius prædicandi et annuntiandi evangelium viene posto da Vitoria solo in seconda battuta (fatto abbastanza singolare per un teologo), quasi fosse una conseguenza e un corollario di un diritto originario e fondante che è lo ius peregrinandi et degendi e lo ius commercii. (42) Vitoria appare quindi come il teorico del moderno diritto internazionale che riconosce come unici soggetti di diritto le nazioni che non hanno più un'autorità sopranazionale alla quale sottomettersi (43) e come unico diritto che regola le loro relazioni internazionali quello del libero commercio delle merci, delle persone, delle idee; insomma come il teorico del liberalismo economico moderno.

È un diritto internazionale apparentemente ugualitario ma minato da una profonda asimmetria che permette, di fatto, solo ai popoli europei di usufruire del libero commercio e quindi di iniziare il lungo processo di conquista e colonizzazione del mondo intero.

Forse è possibile capire il perché di due concezioni così distanti su questo argomento, se le riferiamo ai diversi e opposti obiettivi che gli autori si prefiggono nel commentare queste pagine. Per Schmitt, "all'inizio del nuovo diritto internazionale europeo sta l'esclamazione di Alberico Gentili, che ingiunge ai teologi di tacere sulla questione della guerra giusta: Silete theologi in munere alieno!". (44) Solo con la fine dell'intromissione dei teologi nel campo giuridico e politico si è resa possibile la creazione di un nuovo diritto fondato sulla sovranità degli stati che ha permesso di considerare i nemici non più come perpetui hostes, ma come iusti hostes, e di razionalizzare e limitare i danni della la guerra. (45)

Ferrajoli invece ha un obiettivo del tutto opposto. Se da un lato riconosce in Vitoria il teorico del libero mercato, dall'altro ritiene che si debba riscattare l'aspetto politico del sua teoria del diritto internazionale. Egli afferma che la dottrina della communitas orbis, è un'"idea rivoluzionaria" (46) perché non si tratta dello ius publicum europaeum di Schmitt che non riconosce nessuna autorità giuridica o vincolo etico superiore a quello degli stati sovrani, bensì di una concezione del totus orbis nella quale il diritto delle genti vincola i rapporti tra gli Stati con forza di legge: l'umanità viene considerata come parte di una respublica universalis rappresentativa di tutto il genere umano. (47)

Le due letture sono condizionate dagli intenti diversi degli autori che rispondono ai problemi del dibattito contemporaneo sul diritto internazionale: per Schmitt si trattava di delegittimare l'autorità del tribunale di Norimberga che aveva trattato i vinti, lui compreso, non come iusti hostes, ma come criminali di guerra; per Ferrajoli l'intento era quello di fondare le relazioni internazionali su un "nuovo costituzionalismo" mondiale che, attraverso le autorità soprannazionali, potesse garantire l'effettività del diritto delle genti. (48)

Se rimaniamo nell'ambito delle intenzioni degli autori cinquecenteschi senza sovrapporre schemi e problemi a loro estranei, possiamo, forse, riuscire a comprendere meglio il loro pensiero. L'obiettivo principale di Vitoria è l'allargamento della Respublica Christiana fino all'inclusione dei nuovi popoli scoperti, i quali si dimostravano un terreno fertile per la propagazione della fede, una volta che essa fosse stata predicata nei dovuti modi, cioè pacificamente, con l'esempio, la predicazione ecc..., ma anche contro la loro volontà (illis invitis), ricorrendoalla guerra, nel caso ci si trovasse di fronte a un rifiuto violento alla propagazione del vangelo, che rendeva gli indigeni perfidi hostes.

Se avesse valore solo il principio della communitas orbis anche i saraceni, perpetui hostes, avrebbero potuto rivendicare il diritto di peregrinari et degendi e di annunciare la loro religione: (49) ma difficilmente Vitoria avrebbe ammesso una tale ipotesi. Ma le altre potenze cristiane non avevano forse anch'esse il diritto di libero commercio e della libera propagazione della fede? Per rafforzare questa obiezione Vitoria ricorre all'autorità suprema del Papa; solo a lui spetta decidere il modo più conveniente per la propagazione della fede. D'altra parte una volta enunciati i principi generali della naturale "sociabilità" e comunicazione, Vitoria forniva potenti argomenti alle potenze protestanti che infatti, a partire da Grozio, utilizzeranno i principi vitoriani per difendere la libertà dei mari, dei commerci e della predicazione del "loro" Vangelo.

Las Casas si muove anch'egli nell'ambito dell'allargamento della Respublica Christiana e non elabora una teoria generale dello ius gentium comparabile a quella di Vitoria. Il suo pensiero è, su questo punto, meno innovatore perché si fonda sul riconoscimento della iurisdictio totius orbis dell'Imperatore e di una certa potestas spiritualis universale del Papa, in base alla quale egli ritiene legittime le bolle di papa Alessandro VI. Egli elabora un progetto, per certi versi simile a quello degli erasmiani, di una Monarchia Universalis, (50) nella quale l'Imperatore governa su di una Federazione di Stati indigeni politicamente autonomi che mantengono i loro signori naturali, che si sono convertiti al cristianesimo attraverso un'evangelizzazione pacifica e si sono sottoposti volontariamente all'Imperatore. I sovrani hanno ricevuto dal Papa un "diritto-dovere esclusivo alla missione evangelizzatrice", che però esclude sia il ricorso alla guerra, sia la riduzione in schiavitù dei popoli indigeni e implica la restituzione di tutti i beni ingiustamente tolti agli indigeni.

Come afferma la storica italiana Carla Forti: "Non resta per la corona spagnola nelle Indie altro che il dovere di una predicazione che gli indios non sono tenuti ad ascoltare e non sono tenuti neanche a lasciar svolgere. Insomma, anche se sarebbe vano cercare il passo in cui Las Casas lo proclama, non è arbitraria la conclusione che per lui gli spagnoli debbano andarsene dal Nuovo Mondo: come è stata inequivocabilmente ingiusta la guerra di conquista, così è inevitabilmente ingiusto il dominio acquisito". (51)

Pur condividendo la concezione ministeriale del potere tipica dell'agostinismo politico, Las Casas la svuota interamente di tutte le conseguenze più radicali nella misura in cui rifiuta di accettare l'uso della coazione e della guerra per la propaganda del Vangelo (compelle intrare).

Il punto discriminante si rivela allora la discussione sulla guerra giusta.

Il diritto di guerra

Il pensiero di Sepúlvedasi sviluppa in un contesto "bellico" e "bellicista" Il suo manifesto intento è giustificare la compatibilità fra militarismo e religione cristiana e l'uso della violenza e del terrore come indispensabile mezzo previo per aprire il cammino all'evangelizzazione. (52)

Le posizioni di Vitoria sono diverse, ma hanno degli evidenti punti di affinità con quelle del retore di Cordova. Quanto allo ius ad bellum Vitoria non ammette la liceità della guerra a motivo dell'infedeltà, dell'idolatria, della diversità di religione e nemmeno a causa dei peccati contro natura. Per il teologo di Salamanca e per i teologi e giuristi suoi discepoli che affrontano la quaestio de bello, la guerra è lecita e giusta nel caso di difesa della vita di innocenti, vittime del cannibalismo o dei sacrifici umani e in caso di resistenza violenta alla predicazione del Vangelo. (53) sempre come reazione ad una iniuria Quanto allo ius in bello i suoi argomenti si muovono in un crescendo: all'inizio egli ammette la guerra puramente difensiva che non dà diritto a sottomettere il nemico e a farlo prigioniero (54) e ammette addirittura la possibilità che, per l'ignoranza invincibile dei barbari, la guerra possa essere giusta da entrambi i lati. (55) In seguito ammette la guerra preventiva e offensiva fino alla possibilità di trattare gli indigeni come perfidi nemici, spogliarli dei loro beni, ridurli in schiavitù, deporre i loro prìncipi e sostituirli con altri, (56) utilizzando espressioni che sono molto vicine a quelle di Sepúlveda. (57) Vitoria infine non riconosce nella risposta armata degli indigeni una forma di legittima guerra di difesa dall'aggressione, ma una iniuria allo ius praedicandi evangelium che può essere riparata con la guerra. (58)

Las Casas, nonostante i toni del suo discorso antibellicista che ricordano quelli di Erasmo, (59) non è un irenista e un pacifista: giustifica l'uso della forza verso gli eretici (60) e le sue posizioni verso i mussulmani non sono meno dure di quelle di Vitoria. Però sulla liceità della guerra verso gli indigeni il dissenso di Las Casas sia rispetto alle posizioni di Sepúlveda che a quelle di Vitoria è totale: egli si dichiara sempre contrario all'uso della violenza e della forza come metodo di evangelizzazione e considera illegittime tutte le guerre condotte dagli spagnoli, anche quelle fatte per salvare vittime innocenti. Inoltre è l'unico a considerare legittime e giuste le guerre difensive degli indigeni contro le aggressioni e le atrocità dei conquistadores. (61)

In questo modo Las Casas non solo rifiutava il compelle intrare e tutta la "teologia della storia" che Sepúlveda aveva elaborato pretestuosamente su di esso a partire dall'esempio della conquista della Terra Promessa, (62) ma anche negava la legittimità al più potente argomento giuridico della conquista, cioè la guerra giusta. Se infatti Vitoria non riconosce un diritto di scoperta (ius inventionis), se ammette che gli indios erano veri domini, se la loro ipotetica condizione di servi naturali non era sufficiente per spogliarli dei loro beni e sottometterli violentemente agli spagnoli, se nemmeno l'idolatria e i peccati contro natura erano motivi di guerra giusta, rimaneva come unica giustificazione della conquista l'intervento armato per salvare degli innocenti e per rispondere alla resistenza armata allo ius praedicandi evangelium. L'attacco di Las Casas a quest'ultimo argomento toglieva ogni residua legittimità all'intera conquista: non solo non c'era nessuna iniuria da riparare, ma, al contrario dovevano essere riparate le iniuriae sofferte dagli indigeni che li avevano spinti a muovere una giusta guerra verso gli spagnoli: la conquista non aveva quindi più nessuna plausibile giustificazione teologica, giuridica e politica.

Aristotele e gli indios

Come hanno sottolineato vari interpreti, "in assenza di un adeguato vocabolario, gli Europei furono dapprima costretti a identificare l'ignoto con il noto, a pensare gli americani entro le categorie familiari della cultura classico-cristiana". (63) Questo vale sia per le immagini più o meno fantastiche che gli europei proiettarono sul Nuovo Mondo, vedendo in esso quello che essi si aspettavano di vedere: dalle Indie di Colombo alle amazzoni dei conquistadores, sia per il dibattito teorico: le categorie per interpretare il nuovo sono quelle messe a disposizione dalla tradizione.

D'altra parte questa è una caratteristica tipica della Scolastica che deve presentare la novitas come parte del bagaglio della tradizione e non come originale e inaudita. Le categorie fondamentali per comprendere il mondo erano quelle aristoteliche, riscoperte e reinterpretate dalle varie scuole medievali e rinascimentali. Il pensiero aristotelico viene chiamato in gioco non solo per la teoria della schiavitù naturale, ma costituisce l'orizzonte culturale comune, la koiné di lessico e di significati che tutti gli autori avevano a disposizione e che conoscevano bene.

Abbiamo riscontrato tre tipi di attitudini verso il pensiero aristotelico. Sepúlveda che conosceva più da vicino il pensiero di Aristotele come traduttore delle sue opere, ne dà un'interpretazione letterale, senza mai mettere in dubbio l'autorità del Filosofo. Ma, come è noto, la fedeltà letterale e acritica ad un grande pensatore non è sempre il miglior servizio che si presta al suo pensiero. Anche l'utilizzo ideologico della dottrina degli "schiavi per natura" lo avvicina al suo maestro: (64) come essa era servita ad Aristotele per legittimare la schiavitù legale, così serve a Sepúlveda per legittimare un altro stato di fatto, l'istituto dell'encomienda. Ed è in funzione della legittimazione dell'encomienda (cioè dell'assegnazione degli indios a padroni spagnoli, come schiavi da sfruttare) che egli apporta, senza dirlo, una correzione al pensiero di Aristotele ammettendo la possibilità che gli esseri e i popoli per natura inferiori possano giungere a un più alto grado di educazione e civiltà per poter ricevere il messaggio cristiano.

Gli scolastici di Salamanca mantengono formalmente il loro rispetto e la loro ammirazione per il filosofo, ma sono obbligati a rendere compatibile il suo pensiero con i principi del cristianesimo, come aveva fatto Tommaso. Vitoria e De Soto sostengono che Aristotele ha dimostrato eleganter et accurate l'esistenza di "schiavi per natura", ma modificano la dottrina aristotelica in due punti essenziali: tolgono la relazione padrone/schiavo dall'ambito del diritto naturale e affermano che essa deve essere esercitata non per beneficio del padrone, ma dello schiavo. Per questo ammettono che gli indigeni possono e devono essere sottoposti a un tipo di governo che deve essere esercitato a beneficio loro e non degli Spagnoli. (65) Si discostano poi da Aristotele nel negare che possa esistere uno stato di inferiorità permanente, ma affermano che ogni condizione umana può essere migliorata e perfezionata con una buona educazione.

Anche Las Casas si dedica ad uno studio dettagliato, mediato da Tommaso, del filosofo greco, ma conserva una grande libertà di giudizio: a Juan de Quevedo che gli oppone l'autorità di Aristotele risponde che: "Aristotele è un pagano che brucia nel fuoco dell'inferno, la cui dottrina noi non abbiamo bisogno di seguire eccetto nel caso che sia conforme alla verità cristiana"; e nell'Apologia non esita a prendere congedo dal filosofo: "Valeat Aristoteles! A Christo enim qui est Veritas Aeterna habemus: 'Diliges proximum tuum sicut teipsum'". (66)

Ma il frate domenicano continua usando le categorie e gli argomenti aristotelici, mostrando una conoscenza precisa del testo, fin dove gli possono servire nella difesa degli indigeni: ricorre al principio della perfezione della natura per negare che intere popolazioni possano esistere in uno stato permanente di barbarie, mostra che l'alto grado di civiltà dei popoli indigeni è un chiaro segno di autogoverno e che quindi gli indigeni non possono essere confusi con i servi a natura di Aristotele. A differenza del filosofo greco nega inoltre che i barbari possano essere cacciati come bestie feroci perché, anche per essi, Cristo ha sparso il suo sangue e anche in essi è presente l'imago Dei. (67) Di fatto tutto il suo discorso è finalizzato allo "svuotamento" della categoria dei barbari simpliciter dei medievali che Maior e Sepúlveda avevano identificato negli indigeni: questa definizione rimane di nuovo senza un reale referente empirico come una pura ipotesi di ragione che si può applicare a casi isolati e mostruosi ma non a interi popoli.

Nonostante ciò, Las Casas mutua da Aristotele non solo il linguaggio, le categorie e i principi ma anche il metodo dialettico: il suo discorso prende l'avvio dai principi condivisi dagli interlocutori (gli endoxa) per arrivare, in modo dialettico, a conclusioni sempre più consistenti e coerenti attraverso gli espedienti della retorica forense. Il Frate Domenicano è certamente un missionario e un Vescovo, ma è soprattutto, il Procurador de los indios, titolo che gli viene conferito dagli stessi caciques indigeni che lo costituiscono come loro rappresentante presso le Cortes. (68) Per questo il suo discorso è una interminabile arringa di difesa intessuta di argomenti giuridici che egli utilizza con molta competenza, come ha osservato Tierney, e che si inserisce in quel tipo di dialettica che Aristotele chiama retorica giudiziaria. (69)

Affermare il carattere retorico del suo discorso non significa sminuirne la sua validità, ma aiuta forse a collocare il suo pensiero in una nuova luce e a spiegare il suo stile farraginoso, pieno di excursus e di ripetizioni: egli non si rivolge agli studenti dell'università ma ai giudici delle Cortes e della juntas che avevano il compito di emettere delle sentenze, di promulgare delle leggi e di proporre soluzioni concrete. Il suo obiettivo è quello di convincere e "scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun oggetto". (70) Ed è questo che egli fece nel 1551, leggendo la sua monumentale Apologia davanti alla junta di Valladolid, composta dai maggiori teologi e giuristi dell'epoca durante cinque giorni consecutivi, (71) ed è questo che egli non smise mai di fare durante tutta la sua lunga battaglia in difesa dei diritti degli indigeni che mai avevano trovato un così tenace e abile avvocato difensore.

Alle origini della modernità

Abbiamo cercato, in questo saggio di esporre le posizioni di alcuni protagonisti del dibattito sulla "Conquista delle Indie", e di cercare di capire i loro problemi, molti dei quali, pur nel cambiamento dei contesti e dei linguaggi, continuano ad essere i nostri problemi.

L'improvvisa e inaspettata apparizione di un intero continente e di popolazioni totalmente sconosciute poneva delle questioni nuove alla "coscienza" europea che allora si identificava con la coscienza cristiana. Come era possibile che intere popolazioni fossero rimaste, durante migliaia di anni, sconosciute agli europei e senza alcuna notizia del messaggio cristiano, praticando usi e costumi così diversi e per certi aspetti aberranti e contro natura? Ciò metteva in dubbio i concetti consolidati di tempo e di spazio che si fondavano sulla cronologia biblica e sulla geografia aristotelico-tolemaica, ma anche tutto l'edificio giusnaturalista veniva scosso profondamente. Infatti esso prevedeva che l'uomo potesse essere completamente tale solo riconoscendo e accettando il messaggio cristiano; ma affermava anche che senza di esso, tutti gli uomini, attraverso il lume della ragione naturale, fossero depositari delle verità fondamentali iscritte da Dio nei loro cuori e nelle loro menti.

I teologi non sapevano o non potevano portare una luce in questo cono d'ombra che si proiettava sul passato dal quale i nuovi popoli erano improvvisamente emersi, se non appellandosi ai voleri misteriosi di Dio. Ma la questione più urgente e drammatica riguardava il presente, cioè la maniera di includere questi nuovi popoli nella Respublica Christiana e di condurli alla conoscenza della vera religione.

Le civiltà iberiche, che per prime erano venute a contatto diretto con le nuove popolazioni, furono, per quasi due secoli, le uniche a occuparsi intensamente e sistematicamente dell'interpretazione, del significato e delle conseguenze di questo straordinario avvenimento storico.

La risposta più "facile" e immediata fu quella di Sepúlveda: riconoscere in questo fatto storico una manifestazione di superiorità. Per un misterioso disegno provvidenziale Dio aveva permesso che tali popoli inferiori cadessero sotto la dominazione di popoli a loro superiori che per questo avevano tutto il diritto di sottometterli: il cammino verso l'eurocentrismo era iniziato. L'Europa cominciava a sentirsi il centro del mondo, incaricata di una missione civilizzatrice universale condotta, inizialmente, in nome della religione, poi della civiltà, del progresso, della razza, e finalmente del libero mercato, dei diritti dell'uomo, della democrazia o di tutti questi motivi allo stesso tempo. Le successive filosofie della storia non saranno che potenti giustificazioni ideologiche di tale presupposto. Per questo, gli storici non registrano una discussione così accesa e profonda da parte delle altre potenze coloniali europee: l'ideologia della superiorità culturale (quando non razziale) aveva ormai preso il sopravvento e bastava da sola a giustificare la colonizzazione. (72)

Ma, agli albori dell'espansione europea, la partita era ancora aperta e la coscienza dell'Europa come centro del mondo ancora in formazione; perciò fu possibile il sorgere di interpretazioni diverse che diedero origine al dibattito che abbiamo affrontato. Esse venivano espresse soprattutto dai missionari che vivevano un conflitto di identità, fra i doveri verso gli interesse dei nascenti Stati nazionali, e quelli della loro missione, che ne costituiva la ragion d'essere: portare il messaggio evangelico a tutti gli uomini indistintamente, senza eccezioni. Per molti di essi la missione religiosa e quella temporale si identificavano e agivano come agenti della "conquista spirituale" a fianco di quella "materiale"; altri percepirono l'impossibilità di conciliare le due appartenenze e cercarono altre strade.

Su questo terreno si mossero sia i maestri di Salamanca sia Bartolomé de Las Casas. Tutti concordavano che la scoperta del Nuovo Mondo significava un'opportunità unica per l'allargamento degli orizzonti della Respublica Christiana. I primi avevano però intuito che questo allargamento non poteva avere come soggetti le antiche autorità universali del Medioevo e che si apriva una nuova stagione dove le nazioni avrebbero giocato un ruolo primario.

Vitoria, attraverso lo ius peregrinandi et degendi, apre la stagione del nuovo diritto internazionale delle potenze europee fondato su una asimmetria ineliminabile fra i paesi centrali e periferici. Asimmetria che viene rafforzata dalla relazione di ambigua alleanza che egli stabilisce fra lo ius commmercii e lo ius praedicandi evangelium e che offre argomenti per la giustificazione di una politica aggressiva di espansione coloniale. (73) Mentre Vitoria cerca degli argomenti che possano conciliare l'interesse del commercio e quello della fede, Las Casas denuncia la cobicia por el oro come il vero motivo e movente della Conquista e afferma che la vera idolatria da estirpare non è quella degli indigeni ma quella dei conquistadores per il dio oro. (74)

Las Casas rimase "ancora" nell'orizzonte della cristianità medievale e delle sue supreme autorità, l'Impero e il Papato. Egli mantenne la concezione ministeriale del potere: se Dio, nel suo misterioso piano provvidenziale, aveva lasciato queste popolazioni lontano dal suo messaggio e le aveva fatte "scoprire" dagli spagnoli ciò non costituiva un segno della superiorità degli stessi, ma della loro responsabilità verso tali popoli. Gli indios dovevano essere considerati come uomini pienamente razionali come noi e come nostro prossimo. Ciò comportava il rispetto, per diritto naturale e per carità cristiana, delle loro istituzioni politiche e dei loro costumi sociali e il dovere di portare a pieno compimento la loro umanità attraverso la propagazione pacifica e non violenta del Vangelo. Nonostante fosse espressa in categorie più antiche e tradizionali la proposta di Las Casas era quella che andava più a fondo nella radicalità dell'analisi, della denuncia e delle soluzioni.

Il pensiero dei maestri di Salamanca e di Las Casas fece scuola in Europa e non solo in ambito cattolico, ma esula totalmente dal nostro proposito affrontare la storia di questo influsso. Ci appare però suggestiva l'ipotesi di Brian Tierney secondo la quale la persistenza della dottrina dei diritti naturali elaborata dagli scolastici, ma che affonda le sue radici nella giurisprudenza medievale, può avere esercitato un influsso decisivo sul giusnaturalismo moderno che apparirebbe così come una secolarizzazione dei principi cristiani. Tierney riferendosi al dibattito fra Karl Löwith e Hans Blumemberg sulla modernità come processo di secolarizzazione del cristianesimo suggerisce l'ipotesi che la teoria dei diritti naturali degli scolastici spagnoli del Cinquecento possa fornire degli elementi storiografici per dimostrare come essi costituiscano le figure di transizione che legano alcune teorie medievali e la loro versione moderna secolarizzata. (75)

Utilizzando questa chiave di lettura Tierney afferma che la vera novità degli scolastici è l'introduzione nel corpo del diritto naturale tomista del concetto dei diritti soggettivi. Il pensiero degli scolastici costituirebbe così il ponte attraverso il quale si effettua la transizione fra Medioevo e Modernità, inserendosi fra il diritto oggettivo degli antichi e i diritti soggettivi dei moderni.

Quanto all'America Latina è indubbio che l'esempio di Las Casas ispirò generazioni di missionari e di modelli di evangelizzazione, sia nel quotidiano della Chiesa latinoamericana sia negli esperimenti eccezionali come quello delle reducciones o misiones gesuitiche che realizzarono in grande scala i tentativi di evangelizzazione pacifica di Las Casas.

Nonostante tutte le atrocità, le ingiustizie e i tentativi di "pacificazione" c'è sempre stata in America Latina una resistenza tenace dei popoli indigeni alla loro assimilazione e a loro asservimento, una lotta tenace per il riconoscimento dei loro diritti che, dopo cinquecento anni, vengono ancora violati e calpestati. Emblematica è al riguardo la lotta dei popoli indigeni del Chiapas del Messico, in quella stessa regione dove Las Casas aveva tentato invano di esercitare la sua missione di Vescovo.

Per questo l'importanza storica del Procuratore degli indios è molto cresciuta in questi anni ed è stata rivalutata soprattutto dai movimenti di Liberazione dell'America Latina e in particolare dai teologi e filosofi della liberazione, che hanno riletto la storia del continente dal punto di vista dei vinti, dei poveri e di tutti quei soggetti che, durante questi lunghi secoli, sono state e continuano ad essere le vittime di una struttura sociale che affonda le sue radici nelle profonde ingiustizie dei primi tempi della conquista delle Americhe che Las Casas non aveva mai cessato di denunciare.


Note

1. Cf. G. Fioravanti, Servi, rustici, barbari: interpretazioni medievali della "Politica" aristotelica, in "Annali della Scuola Normale", Classe di Lettere e Filosofia, XI, 2 (1981), pp. 399-429.

2. Cf.: G. Tosi, La teoria della schiavitù naturale nel dibattito sul Nuovo Mondo (1510-1573). "Veri domini" o "servi a natura"?, Divus Thomas, (33/2002), pp. 40-55.

3. Cf. Aristotele, Politica, I, 2, 1252b 5-9.

4. Cf. Id., Etica Nicomachea, VII, 1, 11145a 28-33; VII, 6, 114818-25; VII, 6 1149a 7-12.

5. Cf. J. G. de Sepúlveda, Democrates segundo o de las justas causas de la guerra contra los indios, a cura de A. Losada, Madrid 1984 (1951), p. 22; cf. G. Tosi, op. cit., pp. 132-147.

6. Cf: V. CARRO, La teologia y los teólogos-juristas españoles ante la conquista de América, Salamanca 1951, pp. 287-292.

7. Citato in G. Gutierrez, Alla ricerca dei poveri di Gesù Cristo. Il pensiero di Bartolomé de Las Casas, Queriniana, Brescia 1995, pp. 43-44.

8. F. De Victoria, Relectio de Indis, I, 7, p. 10.

9. De Soto, Domingo: Relección de Dominio, a cura de Jaime Brufrau-Prats, Universidade de Grenada 1964.

10. Cf. I. Pérez Fernandez, Cronologia comparada de las intervenciones de Las Casas y Vitoria en los asuntos de América, in I diritti dell'uomo e la pace nel pensiero di Francisco de Vitoria e Bartolomé de Las Casas, atti del Congresso Internazionale tenuto alla Pontificia Università S. Tommaso (Angelicum), Roma 4-6 marzo 1985, Massimo Editore, Milano 1988, pp. 539-568, a p. 567

11. Cf. D. Composta, Il concetto di diritto nell'umanesimo giuridico di Francisco de Vitoria, in I diritti dell'uomo e la pace..., cit., p. 273.

12. Cf. ibid., p. 289.

13. VITORIA, F., De Indis, I, I, 12, p. 26.

14. Pur con motivazioni e giudizi diversi sono d'accordo su questo punto Michel Villey, Paolo Grossi, B. Tierney, Daniel Deckers; invece propendono per una stretta continuità fra i teologi di Salamanca e S. Tommaso, il padre Venancio Carro, Jaime Brufau Pratz e Philippe André Vincent. Cf: Villey, M.: La promotion de la loi et du droit subjectif dans la seconde scolastique¸ in "Quaderni Fiorentini per La Storia del Pensiero Giuridico Moderno, 1973, nº 1, p. 54; P. Grossi, La proprietà nel sistema privatistico della seconda Scolastica, in "Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno", nº 1, 1973, p. 123. Tierney, B.: The Idea of Natural Rights. Studies on Natural Rights, Natural Law and Church Law (1150 - 1625), Emory University, Emory 1997. Deckers, D.: Gerechtigkeit und Recht. Eine historisch-kritische Untersuchung der Gerechtigkeitslehere des Francisco deVitoria (1483-1546), Freiburg i. Ue. -Freiburg i. Br., Universitätsverlag-Herder 1991. Carro, V.: La teologia y los teólogos-juristas españoles ante la conquista de América, Salamanca 1951, pp. 711. BRUFAU PRATS, J. La aportación de Domingos de Soto a la doctrina de los derechos del hombre y las posiciones de Bartolomé de las Casas, in Las Casas e la politique des droits de l'homme, Aix-en-Provence 1976. Vincent, A. o. p.: La dialectique lascasienne du droit naturel concret. Las Casas et les droits de l'homme, in I diritti dell'uomo e la pace... cit., pp. 639-649.

15. Cf. P. Grossi, La proprietà, cit. p. 123.

16. Ibid., pp. 134-135.

17. Ibid., p. 139.

18. Cf. B. Tierney, Aristotle and the American Indians-Again. Two critical discussion, in "Cristianesimo nella Storia", Bologna 12 (1991), pp. 295-322, a p. 299.

19. Cf. R. Tuck, Natural Rights Theories: their Origin and Development, Cambridge University Press, Cambridge 1979, p. 46.

20. Cf. A. Vincent o. p., La dialectique lascasienne... cit., pp. 639-640.

21. Cf. G. Tosi, op. cit., pp. 132-147.

22. Cf. T. Todorov, La conquista dell'America. Il problema dell'altro, Torino 1984 (1982); Le morali della storia, Torino 1995, pp. 231-233.

23. B. de Las Casas, Apologia, a cura di Angel Losada, in "Obras Completas", vol. 9, Madrid 1988.

24. Secondo la Apologia di Las Casas, i quattro tipi di barbari sono: gli uomini crudeli e inumani; quelli che non possiedono la scrittura; i barbari intesi in senso vero e proprio; tutti coloro che non conoscono Dio (cf. G. Tosi, op. cit., pp. 168-178).

25. Cf. G. Tosi, op. cit., pp. 121-122.

26. Gliozzi, G.: Adamo e il nuovo mondo. La nascita dell'antropologia come ideologia coloniale: dalle genealogie bibliche alle idee razziali (1500-1700), La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 279.

27. De Indis, I, I, 16, p. 30.

28. Idem, I, 3, 17, p. 97.

29. Cf. B. De Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Mondadori, Milano 1991, pp. 29-30.

30. Cf. ibid., pp. 30-31.

31. Cf. G. Tosi, op. cit., pp. 61-70.

32. Cf. TOSI, G. Il de Regia Potestate di Bartolomé de Las Casas. Atti e memorie dell'Accademia Galileiana di Scienze, Lettere e Arti, Padova: Vol. CXI, (1998-99), p. 25-50, 1999.

33. Cf. B. De Las Casas, De Regia Potestate, CSIC, Madrid 1984, p. 17.

34. Ibid., p. 88.

35. L'opera classica sull'argomento rimane ancora quella di Arquilliere, H. X.: L'augustinisme politique. Essai sur la formation des théories politiques du Moyen-âge, Vrin, Paris 1955.

36. Cf. G. Tosi, op. cit., pp. 141-14 4.

37. Vitoria, Relectio de Indis, cit., 1, 2, 2, p. 40; I, 2, 4, p. 46.

38. Cf. G. Tosi, op. cit., pp. 109-128.

39. Vitoria, Relectio de Indis, cit., I, 3, 1, p. 77.

40. Cf. C. Schmitt, Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello "ius publicum europeum", cit., pp. 109-110.

41. H. Mechoulan, Vitoria, père du droit international?, in "Actualitè de la pensée juridique de Francisco de Vitoria", cit., pp. 15-17.

42. Cf. G. Tosi, op. cit., pp. 117-120.

43. Secondo Pierre Mesnard Vitoria è l'autore che "più ha contribuito a precisare l'idea di sovranità", che sarà poi chiaramente definita da Bodin; cf. P. Mesnard, Il pensiero politico rinascimentale, Laterza, Bari 1964, pp. 127-128.

44. Cf. C. Schmitt, Il Nomos della terra..., cit., p. 141.

45. Cf. ibid., p. 133-134.

46. Ferrajoli, La conquista delle Americhe..., cit., pp. 442-443.

47. Cf. ibid., p. 443.

48. Cf. ibid., p. 461.

49. Cf. G. Tosi, op. cit., pp. 113-114.

50. Cf. A. Pagden, Lords of all the World. Ideologies of Empire in Spain, Britain and France, c. 1500-c. 1800, Yale University Press, New Haven-London 1995.

51. C. Forti, La disputa sulla "guerra giusta" nella conquista spagnola dell'America, in "Critica Storica", anno XXVII (1991-1992), pp. 251-296, a p. 290.

52. G. Sepúlveda, Democrates Secundus... cit. p. 73.

53. F. De Vitoria, Relectio de Indis, I, 3, 14, p. 93.

54. ibid., I, 3, 5, p. 84.

55. Ibidem, I, 3, 5, p. 85.

56. Ibidem.

57. Ibidem, I, 3, 7, pp. 86-87:

58. F. De Vitoria, Relectio de Jure Belli, CSIC, Madrid 1981, III, 3.4 e III, 4. 5.

59. Francesca Cantù afferma che la totale e radicale condanna della guerra come mezzo di penetrazione religiosa da parte di Las Casas fa venire in mente "l'irenismo evangelico di stampo erasmiano, per il quale la conquista pacifica basata sul perfezionamento interiore è sempre preferibile alla crociata. In fin dei conti, che cos'è la guerra - scrive il Domenicano - se non 'multorum homicidium commune et latrocinium?"; F. Cantù, Bartolomé de Las Casas nel quadro del suo tempo, in I diritti dell'uomo e la pace ... cit., p. 69. Il testo più importante per la discussione dell'evangelizzazione pacifica è il De unico vocationis modo omnium gentium ad veram religionem, cf. B. De Las Casas, Del único modo de atraer a todos los pueblos a la verdadera religión, testo latino e trad. in spagnolo, Mexico, 1942 (con introduzione di L. Hanke).

60. Las Casas accetta la dottrina di Tommaso che considerava l'eresia un delitto non solo contro l'unità della Chiesa ma anche una minaccia all'ordine sociale e quindi passibile persino della pena di morte. Secondo Gustavo Gutierrez: "Las Casas non sottopone a un rigoroso esame critico la posizione di Tommaso d'Aquino sull'eresia. Nelle Indie non era questo il suo problema. Se lo ricorda è per dimostrare che non è questo il caso degli abitanti di queste terre, e rifiuta quindi che il comportamento accettato da Tommaso nei confronti degli eretici venga loro applicato: essi vanno condotti alla fede con la persuasione e non con la coercizione"; cf. G. Gutierrez, Alla ricerca dei poveri di Gesù Cristo... cit., p. 201.

61. B. de Las Casas, Brevissima relazione... cit., p. 42.

62. Cf. G. Tosi, op. cit., pp. 141-144.

63. G. Gliozzi, Tre studi sulla scoperta culturale del nuovo mondo, in "Rivista storica italiana", p. 166.

64. Cf. G. Tosi, op. cit., pp. 133-138.

65. Vitoria, Relectio de Indis, cit., I, 3, 17, p. 97.

66. Las Casas, Apologia, cit., 3, 21, p. 99.

67. G. Tosi, op. cit., pp. 174-176.

68. Idem, pp. 166-167.

69. Aristotele, Retorica I, 1368b 1 - 1377b 12.

70. Ibid., 1355b 25, p. 11.

71. Sul dibattito de Valladolid rimane sempre attuale l'opera classica di L. Hanke, Aristotle and the American Indians. A study in Race prejudice in the modern world, London-Chicago 1959, pp. 16-17.

72. Su questo aspetto hanno insistito i filosofi della liberazione latinoamericani. Cf. E. Dussel, L'occultamento dell'altro. Alle origini del mito della modernità, Celleno 1993, p. 23. Vedi dello stesso autore: Filosofia della liberazione, edizione italiana a cura di Armando Savignano, Brescia 1992 (1977, 1989 Mexico).

73. Cf. G. Tosi, op. cit., pp. 114-120.

74. Cf. Rizzi, A.: L'oro del Perú: la solidarietà dei poveri, Quaderni ASAL, Bologna 1984; Coscienza Cristiana e Nuovo Mondo, Quaderni di S. Apollinare, Fiesole 1992.

75. B. Tierney, Aristotle and the American Indians... cit., p. 320.