2009

I diritti alla prova del 'politico' (*)

Geminello Preterossi

Una teoria dei diritti non può che essere 'impura'. Cioè confrontarsi con il 'politico' (inteso in senso generale come nesso tra conflitto e ordine, potere e obbedienza, ostilità e pacificazione), assumerlo come 'sfida' interna al suo discorso, come condizione strutturale del proprio dispiegamento. L'esigenza di riconoscere la centralità di tale terreno, e quindi la necessità di ammettere l'insufficienza di un approccio teorico puramente 'normativo', è a mio avviso costantemente confermata dal riproporsi del tema problematico delle 'garanzie' (vera crux ineludibile eppure spesso negletta della teoria dei diritti), la cui assenza non può essere sempre derubricata a mera questione 'pratica' o 'lacuna' (1) (contingenza apprezzabile empiricamente, sociologicamente, sanabile con la 'buona volontà' politica, ma non fonte di contraddizioni teoriche interne al modello normativo). Il punto decisivo, soprattutto a livello internazionale, è rappresentato invece dalle ragioni strutturali, e perciò teoricamente rilevanti, delle lacune. Ovvero concerne i presupposti concettuali, teorico-giuspolitici e istituzionali della costruzione delle garanzie. Cioè la tenuta, e l'intendimento, dell'analogia domestica e di una terzietà efficace 'oltre lo Stato'. Oppure l'ipotizzazione di alternative credibili a tale paradigma, non solo perché realizzabili, ma perché in grado di assicurare una prestazione in termini di efficacia paragonabile a quella fornita dal modello giuspubblicistico calcato sullo Stato.

I diritti presuppongono un assetto di potere in grado di eseguirli. Così come, genealogicamente, una matrice generativa agonistica, fatta di lotte socio-politiche e culturali, dell'avanzamento di pretese di riconoscimento e della costruzione di discorsi egemonici su di esse. Ovvero, ancora, presuppongono uno 'spazio pubblico' non desertificato. Tanto più ciò vale per i progetti di 'realizzazione dei diritti' su scala globale, così come nelle promesse del globalismo giuridico liberal. Essi non a caso entrano in crisi, solitamente, sulla mancata consapevolezza critica della insuperabile genesi politica anche dei diritti (non solo del diritto o dell'ordine in generale). Una teoria non irrealistica e astrattamente autoreferenziale, o ideologica e strumentale, dei 'diritti presi sul serio' dovrebbe presupporre invece prioritariamente l'interrogativo - e la sua previa risoluzione concettuale, modellistica - sulla costruibilità, la natura, la legittimazione, i vincoli di un ordine internazionale dotato di effettività.

Partendo però dalla lucida considerazione di un'ipoteca non rassicurante: il discorso dei diritti nasce e soprattutto viene politicamente implementato all'interno di una logica - quella dello Stato-nazione liberale e poi dello Stato democratico di diritto - che entra in contraddizione con la tendenza universalista all'eccedenza dei confini (territoriali e simbolici) propria della 'dinamica' dei diritti stessi (oltre che con la crisi che le democrazie contemporanee, in quanto basate sulla forma-Stato, stanno conoscendo, pur nella loro 'persistenza' come soggetti politico-istituzionali concreti e ancora centrali, che certo a mio avviso sarebbe un errore analitico sottovalutare).

Quella che doveva essere la carta da giocare per 'universalizzare' l'universalismo giuridico, cioè per portarlo alle sue estreme conseguenze, coerentizzandolo, - l'analogia domestica appunto, la proiezione su scala globale del modello contrattualista - si è rivelata aporetica e paradossale, perché tale modello ha implicazioni 'leviataniche', si intreccia alla distinzione interno/esterno e alla natura 'pluriversa' della politica (evidente sul piano internazionale). Quindi contraddice l'esito cui mira, serbando un'inestricabile ambivalenza: tanto le ragioni dell'oltrepassamento della sovranità, quanto quelle della sua intensificazione 'mondiale' e della negazione delle sue premesse 'situanti' (ma produttive di efficacia, anche in funzione dei diritti), cioè della 'matrice' da cui proviene, intesa sia come 'problema' ipotecante sia come meccanismo di risposta funzionante sulla base di precisi vincoli 'politici' contro-cosmopolitici (2).

Di fronte alla crisi dell'età dei diritti e all'archiviazione di tutte le illusioni ireniche post-'89 (non so se più ingenue o ciniche), sono emersi modelli di risposta diversi, e in taluni casi opposti, che hanno delineato di fatto una frattura all'interno del cosiddetto 'Occidente'. Di tale spesso opaco quadro teorico, tenterò una sintetica topologia in chiave critica:

  1. C'è una linea di tendenza genericamente liberal, che persegue una valorizzazione blandamente 'costituzionale' del globalismo, nel senso di una sua correzione riformistica: una sorta di 'freno' debole, che non fornisce una lettura radicale della globalizzazione, anche se ne vede i rischi anomici e asimmetrici, e gioca tutta la sua scommessa ordinativa puntando sull'autonomia del diritto. Il problema è che la medicina è stata già per gran parte neutralizzata dalla malattia, e per certi aspetti contribuisce all'infezione. Si pensi alla crisi del modello giuridico ma impolitico europeo: non è efficace nei conflitti veri, e sconta un grave deficit di legittimazione, come dimostrano il no al Trattato costituzionale europeo e lo scarso ruolo politico dell'Europa sulla scena internazionale, anche laddove il contesto geopolitico lo renderebbe possibile e necessario. Espressione 'alta' di questa empasse sono le posizioni dell'ultimo Habermas, che coglie acutamente lo scarto di paradigma tra 'legalizzazione' ed 'eticizzazione' delle relazioni internazionali determinato dalla nuova dottrina americana della 'guerra preventiva' e dall'invasione dell'Iraq, ma si rifugia nell'edificio fragile di un costituzionalismo internazionalistico destatalizzato ("un sistema a più livelli il quale nel suo complesso manca per buoni motivi del carattere statale" (3)), che tuttavia, constatata come si è detto l'aporia strutturale insita nell'analogia domestica, pretende di sfruttare le risorse politiche degli Stati, involvendosi in molte contraddizioni. Con una sorta di petizione di principio, Habermas assume che non vi sia un nesso cogente, strutturale, condizionante sia da un punto di vista teorico-giuspolitico sia da un punto di vista storico-istituzionale, tra "i tre elementi essenziali che si sono fusi nella forma storicamente fortunata dello Stato nazionale (statalità, solidarietà tra cittadini e costituzione)" (4). Come se si fosse trattato di una contingenza occasionale concettualmente irrilevante, questi senza pagare dazio "al di là di esso si separano" (5). Tale atto di fede consente ad Habermas di affermare che "lo Stato non è affatto un presupposto necessario per gli ordinamenti costituzionali" (6). A conferma di ciò, Habermas richiama l'esperienza di comunità sovranazionali come l'ONU (!) e l'Unione Europea, le quali non dispongono del monopolio dei mezzi per l'utilizzo legittimo della forza, ma nonostante ciò "rivendicano la preminenza del diritto sovranazionale sugli ordinamenti giuridici nazionali" (7). Ora, a parte il fatto che storicamente fino ad oggi è stato vero precisamente il contrario, cioè il nesso Stato-costituzione si è rivelato assai stringente (e lo stesso discorso vale per la democrazia moderna nel suo rapporto con la forma statuale dell'unità politica), bisogna dire che rivendicare è cosa diversa dall'ottenere effettivo riconoscimento ed essere in condizione di implementare; inoltre, siamo sicuri che il diritto sancito a Bruxelles e Lussemburgo sia 'costituzionale', come sostiene Habermas, cioè assorba le funzioni e le attese che assegniamo alle costituzioni (quelle nazionali diverrebbero così quasi superflue)? Per evitare che il costituzionalismo mondiale dei diritti risulti una facciata del diritto egemonico, Habermas escogita due blandi contrappesi: la strutturazione di regimi continentali sul modello dell'Unione Europea nelle diverse regioni del mondo per la discussione e il negoziato 'transnazionali' sulle grandi questioni dell'economia mondiale, dell'ecologia ecc.; l'opzione per cui, poiché il quadro normativo del costituzionalismo mondiale deve risultate sganciato dal potere dei global players - e in particolar modo dell'unico oggi 'di fatto' in grado di appropriarsene e utilizzarlo, gli Stati Uniti -, quel 'quadro' deve "rimanere collegato almeno indirettamente ai flussi di legittimazione assicurati dagli Stati costituzionali" (8). Ovvero gli Stati, ricacciati dalla porta principale del globalismo giuridico e sostanzialmente delegittimati perché retaggio sorpassato, rientrano, e in una funzione decisiva di legittimazione e di garanzia, dalla solita breccia che il 'politico' si incarica di riaprire (per evitare che una politica ben più intensa, benché travestita da 'tecnica oggettiva' e/o da 'etica occidentale', paradossalmente strumentalizzi e rovesci il costituzionalismo, in nome di un 'umanitarismo di potenza'). Chiudo questo primo punto con una postilla: il discorso di Habermas funziona abbastanza in Fatti e norme perché può presupporre lo Stato, ovvero un attore concreto, un soggetto 'portatore' frutto della vicenda che dallo Stato sovrano porta allo Stato democratico di diritto: non a caso Habermas cerca di minimizzare l'apporto di Hobbes, ma sa bene che nella costruzione della mediazione giuridico-politica moderna rappresenta un passaggio imprescindibile, e disperatamente tenta di mostrare come quel diritto laico e formale, che da Hobbes concettualmente origina, si sarebbe 'autonomizzato' grazie al costituzionalismo liberandosi dei cascami della verticalità e unità politica, sostituita da procedure e principi, come se potesse funzionare senza di essa o una sua qualche 'replica' (9): una neutralizzazione del 'politico' che scava il terreno sotto l'edificio del diritto, contribuendo a determinare quella crisi di legittimazione degli ordinamenti liberaldemocratici cui Habermas oggi cerca di dare risposta, esibendo la sua autocontraddizione, attraverso il ricorso a risorse 'esterne', ricercate soprattutto nell'esperienza religiosa e nel portato 'normativo' depositato nelle grandi tradizioni etico-metafisiche dell'Occidente, opportunamente secolarizzate (con un sostanziale appiattimento di filosofia e religione) (10). In ogni caso, se qui Habermas può di fatto presupporre, giovandosene, quanto si propone e dice di superare, ciò non funziona quando si passa alla sfera internazionale, dove la sconnessione diritto-politica nella sua impostazione si fa completa e non può trovare agganci realistici, se non deflettendo dai propri standard, producendo enormi problemi di effettività e astrattezza, oppure di coerenza (11).
  2. Percorre sotto traccia molte analisi (12) sul nesso diritto-diritti-politica globale un senso comune che definirei inconsapevolmente 'weltgeschichtlich', il quale veicola una lettura molto fiduciosa dell'orizzontalità 'neo-contrattuale' della globalizzazione ('post-statuale' e 'post-moderna' (13), come si ama dire, ma per taluni si tratterebbe addirittura di una specie di 'ritorno alle origini medievali', alla lex mercatoria): staremmo assistendo al trionfo del diritto, del 'vero' diritto ('post-leviatanico'). Sorvolando sul fatto che ormai il nostro mondo è irrimediabilmente 'post-sostanziale' (e quindi destinato all'artificio giuspolitico, inabilitato a riconoscere un'unica auctoritas - neanche del diritto o dei diritti, curvati in senso 'sapienziale' -, se non a prezzo di imporre con la forza una veritas, coartando 'il fatto del pluralismo' e negando la valenza emancipativa insita nel principio di uguaglianza, pur con tutti i limiti e le contraddizioni); sulla sfida controversistica e la crisi di legittimità scaturita dalla crisi del mondo tardo-medievale e proto-moderno, così come sulla funzione pacificante che la prestazione 'sovrana' del diritto moderno ha assicurato; sui nuovi rischi polemogeni che si aprono con la crisi della forma moderna del 'politico' e la pretesa del diritto di farsi sconfinato, svincolandosi da appartenenze e legittimazioni democratiche; sul fatto che il cosiddetto 'diritto globale' è essenzialmente privato e commerciale, ed è quindi un diritto degli interessi forti; sui prezzi sociali (in termini di rigerarchizzazione tradizionalista, di organicismo e naturalismo indotti) che questo nuovo 'particolarismo' giuridico-culturale potrebbe implicare. Se lo Stato moderno è in crisi, se cioè non c'è più la sua forma eurocentrica e westfaliana, ciò non significa affatto che non ci sia più lo Stato (come forma, meno 'nitida' quanto si vuole, di unità politica) o che se ne possa fare facilmente a meno. Il compito della teoria è quello di esercitare una salutare diffidenza e cautela rispetto ai luoghi comuni troppo scontati: in questo senso, sarà o no un dato su cui interrogarsi il fatto che, nonostante di 'crisi dello Stato' si parli da un secolo, gli Stati persistano e anzi nel Novecento siano cresciuti incredibilmente di numero, né si vedano all'orizzonte sostituti realistici se non forse nella forma di 'grandi spazi' egemonizzati da potenze regionali (statuali!)? Tanto poco, oggi, si riesce a fare a meno del 'discorso della sovranità' che siamo di fronte ad una sorta di sua estremizzazione che lo rovescia, ovvero a tentativi di ricostruzione di uno status privilegiato e discriminatorio della statualità, ad una sorta di paradossale età dell'Iper-Stato.
  3. C'è poi un filone culturale che punta decisamente alla liquidazione sostanziale dell'età dei diritti (o che comunque sottovaluta pericolosamente i rischi della sua 'sospensione'), ponendosi come risposta all'altezza della sfida della 'nuova politica assoluta' rappresentata dal cosiddetto 'terrorismo globale' (in realtà a mio avviso co-producendone la logica): si va dalla legittimazione della tortura alla difesa di una legislazione emergenziale che mina le garanzie delle libertà fondamentali e l'Habeas corpus, introducendo di fatto una sorta di 'stato di eccezione normalizzato' all'interno degli ordinamenti liberaldemocratici. Per Alan Dershowitz - uno dei più noti avvocati americani, docente alla Law School di Harvard, ex attivista per i diritti civili negli anni Settanta, e oggi autore del discusso Why Terrorism Works? -, di fronte al 'terrorismo anti-occidentale' occorre adottare una strategia utilitarista, volta alla minimizzazione del rischio per la maggioranza. Il contraltare di tale impostazione è da un lato la neutralizzazione degli standard etico-normativi impliciti nel costituzionalismo dei diritti, aprendo la strada a una delle ennesime forme di 'discriminazione inumano-umanitaria' che significativamente caratterizzano il nostro tempo (in nome della compassione per gli innocenti, per le potenziali vittime, si sceglie di pagare un prezzo in termini di de-umanizzazione dei 'sospetti'); dall'altro la delega in bianco a un potere che, per quanti vincoli e controlli Dershowitz proponga, riceve di fatto un mandato supremo alla protezione e un investimento fiduciario 'assoluto' che difficilmente può essere limitato e condizionato sul serio, perché la logica di tale potere sregolato è proprio quella della monopolizzazione del lavoro sporco, del perseguimento esclusivo dell'efficacia e del tempismo (rispetto alla quale si può al massimo prevedere il contentino moralisticamente auto-rassicurante di verifiche e risarcimenti ex post). Infine, l'Occidente viene rappresentato come una sorta di identità monolitica, astratta dal contesto storico-politico: ciò consente di assegnargli per principio una presunzione di irresponsabilità politica rispetto alle contraddizioni del mondo cosiddetto 'globale' e un 'plusvalore di civiltà' che ne eticizza la violenza (14). Rispetto a posizioni del genere, credo che debba essere ancora una volta sottolineata la stringente, sobria coerenza, e quindi la validità teorica - al di là delle diverse opzioni politiche e dell'asprezza dei dilemmi morali di fronte alla violenza sugli inermi -, della tesi di Bobbio (15) sui diritti, che ne riconosce la storicità, l'impossibilità di fondazione 'assoluta' e il carattere antinomico, ma ne coglie anche il nucleo minimo di indisponibilità: di fronte a opzioni certo possibili e persino per certi aspetti argomentabili dal punto di vista di una razionalità puramente 'scopo-conforme', ma che conducono all'abbandono della logica dei diritti e dei suoi presupposti stessi (la soggettività giuridica, che implica necessariamente il divieto di trattare l'essere umano come una 'cosa', sia torturandolo sia schiavizzandolo), non sono ammessi bilanciamenti e deroghe. Peraltro, aggiungerei, anche dal punto di vista dell'efficacia politica, tale mix di presunto realismo politico e 'ideologia occidentalista' si sta rivelando profondamente irrealista, poiché alimenta le radici del risentimento e dell'odio, assicurando l'esatto contrario di una pacificazione.
  4. Una variante più soft della torsione cui i diritti vengono sottoposti dalle urgenze della politica contemporanea è quella che punta su un interventismo umanitario 'pragmatico' e su un 'compromesso' (oneroso e attraversato da molte contraddizioni) tra universalismo liberal e potere egemonico, diritti e sicurezza. Le posizioni di autori come Ackerman, Ignatieff, Walzer sono accomunate a mio avviso da una sostanziale subalternità all'analisi neoconservatrice (16), e dall' illusione di mitigarla attraverso un confuso dispositivo giuridico-morale. Un modello che produce più rischi per il diritto (e per la tradizione del costituzionalismo) di quanti pretende di evitare. In The Emergency Constitution di Bruce Ackerman (ma anche nel successivo Before The Next Attack), vi è il tentativo di delineare una sorta di 'stato di eccezione' bonificato, 'limitato' (17): poiché certe derive sono già in atto, proviamo perlomeno a governarle. Riallacciandosi (a dire il vero senza mostrarne un'adeguata, approfondita comprensione) al dibattito weimariano sull'opportunità e i rischi, ai fini della salvaguardia della democrazia, di prevedere istituzionalmente lo 'stato di eccezione', tentando di giuridificarlo, Ackerman prova a definire i vincoli dell'emergenza sostenibile, sforzandosi di immaginare un sistema di controlli e garanzie (voto del parlamento sul conferimento dei pieni poteri all'esecutivo, breve durata degli stessi, vigilanza sull'informazione affidata all'opposizione, singolari 'compensazioni' economiche alle 'vittime innocenti' delle misure straordinarie, ecc.). Nonostante ciò, colpisce la previsione di fattispecie come 'detenzione preventiva di massa', 'rastrellamenti', 'azioni preventive' sulla base della 'distinzione elementare amico-nemico' (18), nel tentativo di 'ri-razionalizzarle'. Ma oltre alle specifiche incongruenze e ai gravi cedimenti, ciò che emerge è l'ingenua pretesa intellettuale di sottoporre a trattamento 'analitico' neutralizzante ciò che strutturalmente ad esso si sottrae, rappresentando una dismisura non irreggimentabile in nome della 'decenza'. Non a caso, Ackerman stesso afferma che il vero fine della 'costituzione di emergenza' è simbolico: non tanto l'efficacia repressiva, quanto la 'funzione rassicurativa' (19), ovvero la riaffermazione del potere dopo la 'ferita', la sua rilegittimazione presso il pubblico. L'emergenza è cioè una questione psicologica, perché si tratta di dare l'impressione di una reazione: "Nonostante l'orrore, le morti e il dolore il governo americano sopravviverà dopo la tragedia. E dovrà dimostrare - rapidamente - di non essere stato demoralizzato dal nemico terrorista in agguato" (20). Il meccanismo teorico di Ackerman è simile a quello di Ignatieff: l'assunto di fondo è che l'universalismo giuridico e i diritti fondamentali ci appartengano, siano una riserva aurifera occidentale, che è sempre utile richiamare per legittimarsi e rispetto alla quale siamo comunque in una posizione di vantaggio, perché fa parte del nostro orizzonte. Quindi, la prima mossa, magari in buona fede, è sempre quella di affermarne la rilevanza. Ma si tratta di una sorta di validità 'ideologico-morale', perché quando si passa all'effettività, alle tecniche di garanzie, alle concrete politiche del diritto, quella validità diviene assai meno perentoria e tassativa. Incominciano i tentativi di produrre argomenti 'ragionevoli' e 'pragmatici' - ma talvolta paiono sofismi palesemente autocontraddittori - a favore di deroghe, limitazioni dei diritti e distinguo tra essi, aggiustamenti di piani. Ad esempio, Ignatieff in The lesser Evil riconosce con enfasi che una 'società liberale' è quella che si impegna a rispettare i diritti di chi non rispetta affatto i diritti e a trattare come 'umani' coloro che si sono comportati inumanamente. Al di là del solito uso ambiguo e storicamente discutibile del termine 'liberal' per 'democratico-costituzionale', e dell'immunizzazione inadeguata, puramente retorica rispetto al possibile uso discriminatorio della nozione di umanità e alle sue aporie, è quando si va al concreto che le incongruenze e le asimmetrie negate dell'internazionalismo liberal emergono duramente: i diritti umani, dice Ignatieff, sono indipendenti dalla condotta; ma, come i diritti politici possono essere sospesi se si viene condannati per certi reati, così 'altri diritti' civili, ad esempio il "diritto a un controllo giurisdizionale sulla detenzione" (the right of judicial review of detention) - ovvero l'Habeas corpus - "potrebbero essere revocabili in casi di emergenza, se la necessità lo imponga" (might be revocable in emergencies if necessity dictates) (21). Insomma, i diritti umani sono universali; anzi, proprio tale generica 'universalità' fornisce all'Occidente un arsenale assiologico pronto per essere speso politicamente; a rigore, da tale qualificazione 'universalista' deriverebbe un preciso obbligo di coerenza. Ma, dice Ignatieff con un'inversione impressionante del piano di discorso dal normativo al pragmatico, da questioni di legittimazione a un assai spiccio realismo politico, poiché non si può intervenire dappertutto, bisogna "razionare" le risorse (22). La domanda ovvia è: chi 'ci' autorizza (come 'Occidente'), anche solo a porci queste domande, che presuppongono un'avvenuta gerarchizzazione dell'umano, e preparano sempre nuove de-umanizzazioni? Una politica dei diritti umani così intesa finisce per risolversi paradossalmente in una sorta di auto-autorizzazione di un potere che, proprio perché custode etico di un'effettività discriminatoria dei diritti, non può che essere sregolato, saltando ogni mediazione autoriflessiva, giuridica e non. Da un lato, Ignatieff dilata i criteri e le fattispecie dell'intervento umanitario, ampliando eccessivamente il margine di incertezza, così da renderlo disponibile a un uso arbitrario e ideologico (23). Una prospettiva quindi che, a dispetto della critica del fondamentalismo umanitario', è ben lontana dal 'diritto umanitario minimo', 'hobbesiano' se si vuole, della 'sopravvivenza del ghénos', dell'interrogazione politica di fronte a un genocidio in atto o in procinto di essere realizzato (pur con tutto i problemi sia di autorizzazione che di accertamento, sia di consenso che di mezzi che anche tale prospettiva 'per sottrazione' comporta). Dall'altro lato, viene introdotto un criterio per il razionamento degli interventi che fa saltare ogni impegno 'normativo' alla coerenza: "Nella pratica, un quarto criterio entra in gioco: la regione in questione deve essere di vitale interesse, per ragioni geopolitiche, strategiche o culturali per una delle potenze del pianeta e non deve esserci l'opposizione di un'altra potenza all'uso della forza. L'intervento in Kosovo fu giustificato sulla base di questo misto di motivazioni legate agli interessi nazionali e ai diritti umani: le violazioni dei diritti umani sopportate dai kosovari minacciavano di destabilizzare l'Albania, la Macedonia e il Montenegro e costituivano una minaccia alla pace e alla sicurezza della regione" (24). In singolare sintonia con le posizioni del neoconservatorismo americano, anche per Ignatieff 'valori' e 'interessi' possono essere indistinguibili (quanto si tratta dell'interesse nazionale americano) (25). Del resto, la stessa formula della 'coalizione dei volenterosi' è stata coniata da Ignatieff, liquidando di fatto il diritto internazionale (sia classico sia cosmopolitico), pretendendo però di monopolizzarne la 'rappresentazione' morale: "La mancata formalizzazione del diritto internazionale nel sistema dell'Onu significa semplicemente che le coalizioni dei volenterosi che sono pronti a intervenire lo faranno evitando del tutto la procedura di autorizzazione delle Nazioni Unite" (26).
  5. L'impostazione opposta ma speculare rispetto a queste tendenze americane 'occidentaliste' (più o meno aggressive) è quella che mira a portare alle estreme conseguenze la crisi del globalismo muovendo da assunti 'radicali', coinvolgendovi anche l'eredità del cosmopolitismo e del costituzionalismo dei diritti: si tratta delle posizioni tra 'Impero e moltitudine', caratterizzate, al di là del linguaggio alla moda, da uno schema vetero-marxista risciacquato in acque post-strutturaliste: la fides negli effetti liberatori dello scatenamento della struttura produttiva (iper-)capitalistica, che creerebbe le condizioni per far saltare la funzione integrativa/ideologica svolta dalla mediazione giuridica, liberando una politicità immediata, dal basso, pura 'potenza' immanente alla società, immune al problema dell'ordine e dell'istituzionalizzazione del potere. In questa linea, anche l'intento, in sé condivisibile, portato avanti nelle analisi del pensiero femminista e negli studi post-coloniali, volto a combattere, o comunque a criticare, una politica e un diritto identitari, corrono sempre il rischio di negare il problema rovesciandolo, ovvero di sottovalutare la funzione sociale che la 'costruzione' delle identità svolge, il fatto che comunque certe dinamiche coesive, differenzianti si producono iterativamente anche quando le identità tradizionali sono revocate in dubbio, e soprattutto che anche prassi 'critiche' non possono certo affermarsi nel vuoto di un globalismo senza spazio simbolico e senza progettualità giuspubblicistica, ma solo riqualificando la democrazia, con tutto ciò che questo significa in termini di risignificazione e ridefinizione politica - per quanto in chiave non essenzialistica ed 'etnocentrica' - di nozioni 'istituzionali' come potere legittimo, rappresentanza, mediazione, appartenenza, ordine. Senza sottovalutare mai il prezzo di un abbassamento della guardia, o peggio dell'abbandono a un discorso egemonico regressivo, su temi centrali (per quanto ambivalenti) nella storia concreta delle 'emancipazioni parziali' che hanno segnato le società occidentali, quali quelli dei diritti umani, del consenso, della legittimazione democratica, del garantismo procedurale.

Naturalmente questa fenomenologia, non esaustiva, che ho cercato di tracciare ci lascia insoddisfatti, e soprattutto ci dice che non ci sono ricette, perché siamo tutti coinvolti in uno smottamento categoriale che dovrebbe innanzitutto consigliare, prudentemente, da un lato il rafforzamento delle prassi difensive - anche nelle società liberaldemocratiche - degli standard di tutela dei diritti, dall'altro l'attrezzarsi a uno scavo teorico-critico di lunga lena, che metta in discussione il rifugio illusorio della neutralità formale (senza scantonamenti irrazionalistici, ovviamente). Dal punto di vista progettuale, si tratta forse di far giocare politicamente (quindi non su piani tecnici, spoliticizzati) i livelli statuale, regionale, internazionale e sovranazionale, in rapporto con i flussi conflittuali e le istanze critiche che si manifestano nella incipiente 'sfera pubblica globale'. Combattendo da un punto di vista innanzitutto culturale l'idea di un Occidente come blocco compatto, favorendo un approccio multipolare, alimentando il confronto con culture diverse ma anch'esse non monolitiche. Al fine di mantenere aperto un orizzonte di responsabilità e di universalismo 'critico' (quindi con molte cautele, avvertenze e autolimitazioni), contro la liquidazione neo-liberista (ma anche per tanti aspetti post-strutturalista e post-moderna) del razionalismo politico moderno e dell'illuminismo giuridico. Questa strada è culturalmente percorribile, però, solo a patto di non rimuovere Hobbes, di rileggere la tradizione moderna dei diritti e del costituzionalismo nella sua complessità e interezza, senza limitarsi al suo esito opaco e alle sue autorappresentazioni bonificanti. Senza pensare che il diritto basti a se stesso, si porti e sostenga da sé, e soprattutto possa permeare di sé il mondo consumando una volta per sempre l'opaco nucleo decisionistico della politica. Il diritto moderno non si è affermato nonostante la sopravvivenza della cupola sacrale secolarizzata della sovranità, come pensa Habermas (27), ma operando sul quel nucleo, presupponendolo. Quindi si tratta di recuperare concettualmente quel limite 'costitutivo' (nel senso che lo rende possibile, efficace) del diritto rappresentato dal nesso potere-ordine-sopravvivenza-riconoscimento, anche quando si tratta di diritti e diritto internazionale. Oltre il 'politico' c'è solo la sua deriva, l'assolutizzazione 'negata' dell'ostilità.


Note

*. Intervento al Seminario "Il futuro dei diritti: minimalismo o proliferazione?", Ferrara giugno 2007. Una versione successiva di questo testo è stata pubblicata su Ragion Pratica, 28 (2008), pp. 279-89. L'autore ringrazia il Direttore della rivista e l'Editore per aver consentito la ripubblicazione in formato elettronico.

1. Il riferimento ovviamente è qui, anche, alla fondamentale opera di L. Ferrajoli sui Principia iuris (in particolare cfr. il vol. 1, Teoria del diritto, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 684 ss.). Di cui però in questo articolo non tratterò, avendole dedicato un saggio ad hoc, di prossima pubblicazione sulla rivista spagnola Doxa.

2. E' significativo che anche Habermas abbia preso atto, nelle sue ultime riflessioni sulla crisi attuale del progetto di costituzionalizzazione del diritto internazionale, del carattere "fuorviante" dell'analogia domestica: cfr. J. Habermas, L'Occidente diviso, trad. it. a cura di M.Carpitella, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 123. Così come da sottolineare sono le recenti analisi di un 'rawlsiano' acuto come Thomas Nagel, il quale ha colto efficacemente l'ipoteca 'hobbesiana' implicita nel progetto 'post-hobbesiano': cfr. Th. Nagel, The Problem of Global Justice, Philosophy and Public Affairs, 33/2005, pp. 113 ss., in particolare pp. 145-147.

3. J.Habermas, L'Occidente diviso, cit., p. 130.

4. Ivi, p. 132

5. Ibidem.

6. Ibidem.

7. Ibidem.

8. Ivi, p. 135.

9. Anzi, per Habermas, come c'è un telos all'intesa nel discorso pubblico, così ci sarebbe un telos immanente, intrinseco alla modernità politica, alla sua giuridificazione (piena): "Questa concezione del diritto razionale scopre nella forma del diritto moderno una caparbietà normativa che dà a tale strumento la forza di razionalizzare il potere politico invece di conferirgli soltanto una espressione razionale. Tutto il senso del lavoro di ricostruzione del diritto razionale sta nella dimostrazione che nel potere politico, in forza della sua costituzione in forma giuridica, è insito il germe concettuale di una legalizzazione del potere 'irrazionale', cioè decisionistico senza regole dello Stato" (J. Habermas, L'Occidente diviso, cit., p. 125). Il punto è: quanto può essere 'piena' tale giuridificazione? Può essere completa e definitiva senza autocontraddirsi? O non si tratta piuttosto di una dialettica sempre aperta (da mantenere tale)? E non è rischioso ascrivere il 'lavoro' della ragione pratica esclusivamente al 'giuridico', escludendo che possa darsi anche in forme politico-simboliche e socio-agonistiche?

10. Cfr. J.Habermas, Tra scienza e fede, trad. it. a cura di M.Carpitella, Roma-Bari, Laterza, 2006.

11. Si veda in questo senso i passaggi complessi, gli aggiustamenti e le precisazioni, cui Habermas deve ricorrere nel delineare l'evoluzione non lineare dal diritto internazionale a quello cosmopolitico, "che non si può intendere come logica continuazione dell'addomesticamento costituzionale di un'autorità statale che opera naturalmente" (J.Habermas, L'Occidente diviso, cit., p. 126 e ss.)

12. Penso alle posizioni di Francesco Galgano, Sabino Cassese, Paolo Grossi e Maria Rosaria Ferrarese: si tratta di letture autorevolissime, che però scontano a mio avviso una concezione 'salvifica', eccessivamente ottimistica del diritto (più o meno 'globale'), in sé immunizzabile rispetto al potere (sia politico sia economico, seppur in forme diverse), se solo liberato dal volontarismo politico moderno e rimesso alla sua 'autonoma' logica adesiva rispetto alla realtà socio-economica concreta (la quale non mi sembra tuttavia così scevra da dinamiche di potere e asimmetrie, né oggi, né nel mondo pre-moderno).

13. Sulle semplificazioni insite nelle visioni 'ireniche' (di vario segno, anche 'radicale'), che troppo spicciamente danno per tramontata la forma-Stato (la quale invece ritorna in forma 'fantasmatiche' e paradossalmente si rafforza in chiave discriminatoria, facendo della crisi della statualità un fattore di incattivimento politico), e addirittura vagheggiano improbabili liberazioni dal 'Politico', così come sui rischi impliciti nella mera liquidazione della tradizione giuridica moderna, mi permetto di rinviare al mio: Filosofia politica e pensiero critico, in Filosofia politica, 1/2007, pp. 35 e ss.

14. Cfr. J. Butler, Critica della violenza etica, trad. it. a cura di F. Rahola, Milano, Feltrinelli, 2006. Ma mi permetto di rinviare anche al mio: L'Occidente contro se stesso, Roma-Bari, Laterza, 2004.

15. Il riferimento è ovviamente a N. Bobbio, L'età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990, in particolare pp. 5 ss.

16. Per un efficace quadro d'insieme, cfr. I nuovi rivoluzionari. Il pensiero dei neoconservatori americani, a cura di J. Lobe e A. Oliveri, Milano, Feltrinelli, 2003.

17. B. Ackerman, La costituzione di emergenza. Come salvaguardare libertà e diritti civili di fronte al pericolo del terrorismo, ed. it. a cura di A. Ferrara, Meltemi, Roma, p. 15.

18. Ivi, pp. 55, 56, 61.

19. Ivi, p. 24.

20. Ivi, p. 23.

21. M. Ignatieff, The lesser Evil. Political Ethics in an Age of Terror, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2005, p. 34.

22. M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, trad. it. a cura di S.d'Alessandro, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 44.

23. Ivi, pp. 43, 46-47.

24. Ivi, p. 45. Per una ricostruzione ben più complessa e lucidamente critica della guerra in Kosovo, colta nel suo carattere 'paradigmatico' di 'nuova guerra', cfr. D.Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, Einaudi, 2000; da vedere anche F.Mini, La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell'epoca della pace virtuale, Torino, Einaudi, 2003.

25. Ibidem: dove si fa proprio l'esempio della Bosnia e del Kosovo.

26. Ivi, p. 47.

27. Cfr. J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, trad. it a cura di L. Ceppa, Milano, Guerini e Associati, 1996, p. 175.