2006

Le radici coloniali del Medio Oriente moderno (*)

Danilo Zolo

'Il Ponte', una piccola casa editrice bolognese, coraggiosamente diretta da Pietro Montanari, pubblica libri importanti su temi che la grande editoria italiana tende a lasciare in ombra: la filosofia politica islamica, i paesi arabi del Mediterraneo, la storia del Medio Oriente, le ragioni del terrorismo. L'ultimo volume, appena uscito, si deve a Roger Owen, docente di storia del Medio Oriente all'Università di Harvard. Si intitola Stato, potere e politica nella formazione del Medio Oriente moderno ed è considerato uno dei più autorevoli trattati di storia del Medio Oriente che siano stati prodotti in Occidente.

Questo libro merita di essere segnalato per l'accurata ricostruzione storica della 'formazione' del Medio Oriente moderno: dalla dissoluzione, tra ottocento e novecento, degli imperi ottomano e persiano alla creazione, per opera delle potenze coloniali europee, degli Stati mediorientali moderni e sino alle vicende contemporanee, inclusa la seconda intifada palestinese. Ma è un libro importante soprattutto perché, entro la cornice di una ricca documentazione storica, mette a fuoco alcuni temi cruciali per la comprensione sia della situazione attuale del Medio Oriente, sia, più in generale, dei rapporti fra il mondo arabo-islamico e le strategie globali delle potenze occidentali.

Nei primi decenni del secolo scorso inglesi e francesi erano i padroni indiscussi del Medio Oriente. Stati come la Siria e il Libano sono nati sotto l'egida coloniale francese mentre l'Iraq, la Palestina e la Giordania sono stati letteralmente creati dalla Gran Bretagna e sottoposti al suo controllo grazie all'istituto giuridico del 'mandato', lo strumento di legalizzazione del colonialismo inventato dalla Società delle Nazioni. Da loro dipendeva la definizione dei confini degli Stati, la designazione dei leader e delle elite poste ai vertici del potere statale, la modellazione dei regimi politici, con la preferenza normalmente accordata alla monarchie ereditarie. Inglesi e francesi decidevano, con il consenso degli Stati Uniti, sulla allocazione delle risorse naturali della regione, in particolare delle riserve petrolifere che allora cominciavano ad essere scoperte nel Golfo Persico e nel distretto settentrionale iracheno di Mosul. La forza delle due potenze coloniali era tale che anche i governi dei paesi formalmente indipendenti - la Turchia, l'Egitto, la Persia - erano costretti a riconoscere i nuovi confini statali e ad accettare il nuovo ordine mandatario.

Le prassi politiche ed economiche di state building imposte alle popolazioni del Medio Oriente dai funzionari britannici e francesi comportavano l'accentramento del potere di governo, l'emanazione di leggi e regolamenti standardizzanti e l'imbrigliamento del nomadismo tribale. E includevano il censimento e il controllo delle popolazioni che vivevano entro i confini definiti dalla cartografia coloniale senza tener conto degli aspetti demografici ed etnografici. La preoccupazione prevalente era la sicurezza, anche per tutelare i privilegi delle comunità dei coloni bianchi. La maggior parte del reddito nazionale - circa i due terzi degli investimenti totali - veniva speso per creare e sviluppare forze di polizia e, talora, anche gendarmerie rurali. Naturalmente, l'enfasi sulla sicurezza lasciava scarse risorse per l'educazione, la salute pubblica e un minimo benessere delle popolazioni colonizzate.

Ai fini della sicurezza, anche in Medio Oriente si erano affermate alcune prassi tipicamente coloniali, come l'alleanza con i grandi proprietari terrieri, gli accordi con gli sceicchi delle tribù più potenti e una strategia del divide et impera che sfruttava le divisione settarie, etniche e tribali. Il modello di gestione economica normalmente adottato faceva della colonia una riserva economica della potenza europea, imponeva il pareggio dei bilanci e un regime fiscale e monetario rigidamente dipendente dalla convenienze dell'economia metropolitana, senza alcuna possibilità di controllo da parte dei colonizzati.

Quest'ordine coloniale avrebbe lasciato tracce indelebili nel destino dei popoli mediorientali e ne condiziona ancora oggi, pesantemente, l'evoluzione politica ed economica. Ed è in questo contesto coloniale che nel 1922 la Società delle Nazioni assegna alla Gran Bretagna il 'mandato' sul territorio palestinese, con il compito di attuare le disposizioni della Dichiarazione Balfour del 1917: si trattava, assecondando le richieste del movimento sionista, di creare un "focolare nazionale ebraico" in Palestina. Il sionismo ha solide radici in questa strategia coloniale europea, e questo spiega, sostiene Owen, perchè Israele, lo Stato sionista, abbia tenuto con i vicini arabi "relazioni basate quasi esclusivamente sulla forza o sulla la minaccia dell'uso della forza, secondo una politica sviluppata sin dai primi anni cinquanta dal ministro David Ben-Gurion e del suo establishment della difesa" (p. 120).

E' in nome di questa logica coloniale che inizia l'esodo forzato di grandi masse di palestinesi grazie anche al terrorismo praticato da alcune organizzazioni sioniste. L'area occupata dagli israeliani si espande progressivamente sino a raggiungere il 78% della Palestina mandataria, includendo fra l'altro Gerusalemme. A conclusione della guerra dei sei giorni, nel 1967, Israele si impadronisce anche del restante 22%, imponendo un regime di occupazione militare agli oltre due milioni di abitanti della striscia di Gaza e della Cisgiordania. Il tutto accompagnato dalla sistematica espropriazione delle terre, dalla demolizione di migliaia di case, dalla cancellazione di interi villaggi, dalla progressiva colonizzazione anche di quell'esiguo 22 per cento rimasto ai palestinesi sotto occupazione militare.

Attendersi che in queste condizioni possa fiorire la democrazia in Palestina, conclude Owen, è una semplificazione e una palese strumentalizzazione poiché, salvo che la democrazia non venga idealizzata come una formula universale, essa è sostanzialmente estranea alla cultura islamica. E per un altro verso la democrazia è una struttura delicata che "per funzionare realmente deve essere sostenuta da un complesso e sofisticato apparato giuridico, organizzativo e amministrativo", ciò che è sempre mancato ai palestinesi a partire dall'invasione e dall'occupazione dei loro territori (p. 219). E invece raccomandabile - sostiene Owen - una riconsiderazione storico-politica del terrorismo suicida, un fenomeno che ha purtroppo trovato nel dramma del popolo palestinese un fertile terreno di cultura. "Per il Presidente Bush e per chi la pensa come lui - scrive Owen - le organizzazioni terroristiche vanno considerate come la personificazione del male" (p. 278), mentre, in generale, nella percezione dell'opinione pubblica occidentale, si è stabilita una stretta connessione fra terrorismo suicida e fondamentalismo islamico. Questa connessione trascura che hanno fatto ricorso al terrorismo suicida gruppi etnici e religiosi molto diversi fra loro, come, ad esempio, le Tigri dei Tamil in Sri Lanka. In secondo luogo - e qui Owen cita Robert Pape - questa connessione equivale a ignorare che "ciò che accomuna quasi tutte le campagne terroristiche suicide è il fine strategico specifico di costringere le democrazie liberali a ritirare le loro forze militari da un territorio che i terroristi considerano loro patria" (p. 279). Robert Pape è autore di un libro, Morire per vincere (Dying to Win, New York, 2005) nel quale, con una amplissima documentazione, viene argomentata la tesi della razionalità strategica del terrorismo, incluso quello suicida. Anche questo libro apparirà prossimamente presso la Casa editrice il Ponte.


*. Da il Manifesto, 13 gennaio 2006.