2008

Sui beduini le ruspe di Sharon (*)

Michele Giorgio

La notte del 19 gennaio nel Negev è nata Givat Bar, sulle terre tra le città di Beersheva e Rahat appartenenti alla tribù beduina di Al Okbi. Dozzine di manovali hanno cominciato a costruire il primo nucleo di 10 abitazioni della nuova città, sotto gli occhi soddisfatti del ministro dell'edilizia israeliano Effi Eitam. Il progetto indica una nuova volontà di espansione in quel deserto che il «padre della patria» David Ben Gurion diceva di amare moltissimo ma che, dopo 56 anni dalla nascita di Israele, rimane il luogo più isolato del paese (del quale copre oltre la metà del territorio). Per una città che nasce 38 villaggi beduini, piccoli e grandi, sono invece destinati a sparire per sempre. Il premier Ariel Sharon e il suo vice Ehud Olmert hanno comunicato nei giorni scorsi a Jaber Abu Khaf - capo del consiglio dei villaggi del Negev - che la sua gente dovrà rassegnarsi a lasciare le sue terre e a confluire negli unici sette centri su 45 che il governo intende riconoscere. Diventeranno township a tutti gli effetti. In questo modo lo Stato confischerà enormi estensioni di terra e confinerà circa 70.000 beduini in poche centinaia di ettari. È il primo passo verso la realizzazione di quel piano quinquennale approvato nell'aprile del 2004 che prevede la costruzione di 14 insediamenti abitativi destinati ad ospitare, nelle speranze del governo Sharon, 350.000 nuovi immigrati ebrei nei prossimi 7-8 anni. I 38 villaggi destinati a scomparire già non esistono. Lo Stato non li ha mai riconosciuti, mentre almeno altri 40 piccoli centri abitati palestinesi in Galilea attendono il riconoscimento da oltre cinquanta anni. E il governo Sharon non ha mancato di mettere in chiaro la sua intenzione di non perdere tempo.

Aerei leggeri ed elicotteri hanno sparso su 120 ettari di terre coltivate ed edificate grosse quantità di erbicidi per spingere i beduini a partire e a concentrarsi nei centri indicati dal piano governativo. Lo stesso era accaduto, senza preavviso, il 4 marzo e il 2 aprile del 2003. In quell'occasione vennero investiti dalla pioggia chimica anche alcuni bambini che giocavano nei campi. Le autorità comunicarono che i prodotti usati non rappresentavano un pericolo per la salute ma le comunità beduine riferirono che nei giorni seguenti diverse persone furono costrette a ricoverarsi in ospedale. «Questa politica volta a confiscare le terre e a chiudere in ghetti i beduini viene spiegata con la volontà di dare ai nomadi una vita migliore ma ciò in gran parte non è vero», ha spiegato al Manifesto Nadim Nashef, direttore di Baladna, associazione che da anni lavora con i giovani beduini. «Negli anni `70 - ha ricordato Nashef - migliaia di beduini vennero costretti a rinunciare alla loro vita nomade e, dopo grandi promesse di lavoro e benessere, a concentrarsi in sette insediamenti che si rivelarono dei dormitori a tutti gli effetti senza infrastrutture e isolati dal resto del paese». Il direttore di Baladna ha sottolineato che la scelta di lasciare la vita nomade «deve essere lasciata ai beduini e non imposta con la forza, la confisca delle terre e le espulsioni». I beduini nel Negev sono circa 130.000 e la loro presenza è sempre stata vista dalle autorità un ostacolo alla realizzazione di progetti volti a colonizzare il deserto con i nuovi arrivati (olim hadashim) nel paese. Eppure l'esperienza ha dimostrato che i flussi migratori si sono sempre tenuti a distanza dal Negev, preferendo le città sulla costa del Mediterraneo: Ashqelon, Ashdod, Tel Aviv, Haifa, Akka.

Nel 1951 rimanevano nel Negev appena 13.000 dei circa 90.000 beduini che vivevano nel deserto negli anni `40. Nel 1953 l'Onu riportò l'espulsione di circa 7.000 beduini verso la Giordania e l'Egitto. Le politiche dei vari governi, di destra e di sinistra, sono state simili verso questa parte della popolazione che pure spesso si è dimostrata fedele verso lo Stato (non pochi giovani beduini scelgono volontariamente il servizio militare di leva dal quale, come gli altri arabi, sarebbero per legge esclusi). Proprio Sharon, proprietario di un ranch nel Negev, costituì negli anni `70 la «polizia verde» incaricata di limitare al minimo i movimenti delle tribù. Altre migliaia di beduini vennero confinati alle periferie di città del centro del paese come Ramle e Lod. Il resto vive in Galilea (in totale sono il 13% della minoranza araba in Israele). Il non riconoscimento dei villaggi ha costretto per decenni migliaia di persone a vivere senza elettricità e acqua, scuole e sanità, una situazione che danneggia soprattutto i giovani. L'ospedale Soroka di Beersheva ha riferito che il 90% dei bambini ricoverati in un anno sono beduini. L'unica prospettiva che al momento i nomadi hanno davanti a loro è il risarcimento previsto dallo Stato. Si tratta tuttavia di somme minime rispetto al valore effettivo delle terre confiscate.

Il centro arabo Mossawa ha riferito che il governo lo scorso anno ha ulteriormente tagliato il fondo annuale per gli indennizzi agli abitanti del Negev portandolo da 30 a 26 milioni di dollari. Ciò significa che ogni beduino riceverà meno di 1.000 dollari per la sua terra confiscata. Lo Stato spenderà molto di più, 80 milioni di dollari, invece per demolire le abitazioni. Il ministro Ehud Olmert in ogni caso l'11 aprile del 2003 era stato perentorio nel ribadire che il governo non rinuncerà ai suoi progetti. «Porteremo avanti contatti con i beduini - disse - ma la loro, quasi certa, opposizione, non ci indurrà a modificare i piani, l'esecutivo è determinato ad andare avanti».


*. Da il Manifesto, 3 febbraio 2004.