Sionismo e religione (*)

Michel Warschawski (**)

Presentazione

Il testo che qui pubblichiamo è la trascrizione di una conferenza tenuta a Parigi nel 2003 da Michel Warschawski.

Spesso il conflitto israeliano-palestinese viene presentato come uno scontro religioso perché, fondamentalmente, esso ha come teatro la Palestina, terra di riferimento per l'Ebraismo, il Cristianesimo e l'Islam. Nelle pagine che seguono Michel Warschawski ricolloca con la sua analisi l'influenza dell'elemento religioso sia nella costruzione dello Stato d'Israele, sia nel conflitto stesso. Per questo motivo, a sette anni di distanza, questo testo nulla ha perso della sua attualità e offre gli elementi per valutare ciò che avviene in Israele e in Palestina ponendo il conflitto nella giusta cornice.

Michel Warschawski è un protagonista della vita politica e culturale israeliana e anche palestinese da lungo tempo. Nasce a Strasburgo nel 1949, primogenito di una famiglia ultraortodossa. Il padre, Maxime, per lunghi anni è rabbino capo di una delle più antiche sinagoghe di Francia. Nel 1965 si trasferisce a Gerusalemme per i propri studi rabbinici. Muta il proprio orientamento allo scoppio della guerra dei Sei giorni, nel giugno 1967, prendendo coscienza lentamente, ma definitivamente, della vera natura del progetto coloniale sionista e inizia la sua attività politica, a partire dal 1968. Grazie al suo impegno diviene una figura di punta e di riferimento di quella minoranza che in Israele e anche all'estero si oppone alle politiche vessatorie dello Stato di Israele verso il popolo palestinese.

Dopo aver contribuito a fondare, a cavallo degli anni '70 del XX secolo, l'Organizzazione Socialista Israeliana (OSI), meglio conosciuta con il nome della rivista Matzpen, nel 1984 contribuisce alla nascita dell'Alternative Information Center - AIC - la prima vera organizzazione israeliano-palestinese.

La mappa politica della società israeliana, della sua classe dominante e del suo governo,, pone immediatamente la domanda in merito al ruolo della religione in questo Stato e in questa società. Non è un fenomeno marginale, tutt'altro: è un fenomeno visibile, nella società, nel governo, nel parlamento. Alcune cifre ad esempio: nel parlamento precedente (non ho ancora fatto la statistica relativa a quello attuale), più di un quarto dei deputati, in realtà quasi un terzo, erano religiosi, appartenenti sia ai partiti religiosi (20%) che ai partiti non religiosi (soprattutto il Likud e gli altri partiti di estrema destra). C'è una presenza, direi una onnipresenza, della religione nella legislazione israeliana, nella classe politica, nel governo, nel parlamento e nel dibattito pubblico.

Si pone allora evidentemente la questione della natura politica dello Stato.

d'Israele. Alcuni per esempio, in particolare in pubblicazioni arabe, definiscono Israele come uno Stato religioso, come una teocrazia. È vero? Penso che per rispondere a questa domanda occorra tornare alle origini del rapporto tra sionismo e religione, analizzando come questo rapporto è in seguito cambiato.

Il sionismo, un movimento antireligioso

Alle origini il sionismo intende essere un'alternativa alla religione. Questo movimento si sviluppa come un altro modo di essere ebreo e con l'idea di concepire l'esistenza del popolo ebraico in termini che lo opponessero formalmente, pubblicamente e consapevolmente ad ogni tipo di concezione religiosa. Il mondo religioso reagisce al sionismo in modo simmetrico: vede in questo movimento un nemico mortale (1). A cavallo del ventesimo secolo, quando il sionismo comincia a prendere forma, quasi non esiste il sionismo religioso: il sionismo è contro la religione e la religione è contro il sionismo, punto e basta. Esiste però una eccezione di cui parlerò più avanti.

Per il sionismo, la religione ha reso il popolo ebraico un'entità passiva che aspetta l'arrivo del Messia per la sua salvezza e per la sua emancipazione. L'arrivo del Messia consentirà il ritorno del popolo ebraico nella sua patria storica, un ritorno nel quadro di un progetto divino. E non sarà invece un progetto politico concepito dagli uomini per porre fine alla sofferenza del popolo ebraico. Finché Dio non deciderà altrimenti, gli ebrei dovranno sopportare la diaspora, la punizione dell'esilio.

Il sionismo è una delle due correnti - ultra minoritaria, quasi marginale - che pensano la questione ebraica in termini di modernità e di battaglia politica. La grande maggioranza delle risposte non religiose, se non addirittura antireligiose, si concentra nel movimento operaio, in primo luogo il Bund (2), che progetta l' emancipazione degli ebrei nel quadro di una rivoluzione in comune con tutti gli altri. Un contrasto di fondo divide i sostenitori della risposta socialista alla questione ebraica. Da un lato, ci sono coloro che vogliono dare una dimensione nazionale all'esistenza delle comunità ebraiche dell'Europa dell'Est (insisto nell'Europa dell'Est) e che sentono l'urgenza di una nazione ebraica e di una nazionalità ebraica. Costoro pensano ad una lingua e con una cultura proprie, e a una divisione del popolo in classi sociali. Dall'altro lato, ci sono coloro che vedono nel giudaismo soltanto una religione e quindi intendono l'emancipazione del popolo ebraico come una sua assimilazione e cioè, di fatto, come la scomparsa stessa degli ebrei. Questo è il grande dibattito all'interno della socialdemocrazia russa tra Lenin e il Bund (3).

Paragonato alle correnti socialiste, il sionismo è una corrente ultraminoritaria che pone la questione dell'antisemitismo e dell'emancipazione ebraica al di fuori del socialismo e all'interno di un quadro coloniale, partendo da un'ipotesi opposta a quella del movimento socialista, e cioè sostenendo che per realizzare l'emancipazione degli ebrei era necessaria la loro separazione da ogni altra nazionalità. Il progetto socialista sosteneva che l'emancipazione ebraica esigeva una presa in carico della questione ebraica da parte del movimento operaio per un'emancipazione dell'umanità intera e quindi anche degli ebrei. Il sionismo, al contrario, sosteneva che occorreva separarsi dalle nazioni per garantire un'esistenza normalizzata.

Ma nell'uno e nell'altro caso, la religione era percepita come un'ideologia retrograda, sorpassata e dannosa per l'avvenire degli ebrei. Proprio per questa stessa ragione il mondo religioso e i suoi rabbini (che erano molto potenti nell'Europa centrale e soprattutto nell'Europa dell'Est), vedevano sia nel socialismo che nel sionismo un pericolo mortale.

Per ciò che riguarda il socialismo è evidente che si tratta di una lotta che emerge fin dal 1880: è una lotta chiaramente e provocatoriamente antireligiosa all'interno del movimento operaio ebraico, mentre, all'opposto, è un rifiuto categorico dei valori del movimento operaio ebraico da parte del movimento religioso. Questo significava rifiutare la modernità, atteggiamento che andava a beneficio naturalmente del movimento sionista.

Il Mizrahi, una corrente sionista-religiosa

In questa lotta tra sionismo e religione c'è un'eccezione che tenta di fare una sintesi tra queste due filosofie: il Mizrahi, marginale nel sionismo, che è a sua volta una corrente marginale. Il Mizrahi è un movimento religioso che non vede contraddizioni tra la fede che lo anima e il sionismo. È un movimento religioso che si ricollega a questa concezione di modernità e che riprende i valori della rivoluzione borghese nel contesto dei paesi dell'Europa centrale e dell'Europa dell'Est.

Questa tendenza non solo rifiuta l'esistenza di una contraddizione tra sionismo e religione, ma rapidamente ne fa una sintesi. Abraham Isaac Hacohen Kook sarà il primo gran rabbino ashkenazita d'Israele, negli anni trenta, che proporrà una sistematizzazione di questa sintesi e che farà del sionismo un elemento della teologia ebraica (4). Abraham Isaac Kook vedeva nel sionismo l'espressione dell'èra messianica, anzi, si potrebbe dire, l'anticamera dell'èra messianica. Ciò è radicalmente nuovo e se questa nuova teologia resta per molto tempo marginale, in seguito ha però assunto un significato politico essenziale, fino ai nostri giorni. Il Mizrahi, che era una corrente ultraminoritaria anche tra i religiosi e tra i sionisti, è divenuto dominante a partire dagli anni ottanta anche tra i sedicenti laici.

Il rifiuto della religione e dei religiosi da parte del sionismo è una caratteristica che appartiene alla volontà di creare un nuovo popolo ebraico. La religione è una delle caratteristiche dell'ebreo della diaspora che il sionismo vuole superare. Da Herzl fino alla generazione di Ben Gurion compresa, c'è un disprezzo dichiarato mille volte nei confronti dell'ebreo della diaspora e in particolare della sua dimensione religiosa, con dichiarazioni che non sarebbero state fuori posto nei giornali apertamente antisemiti. Per Herzl era un'ossessione l'immagine dell'ebreo effeminato (5), non sufficientemente virile. Il processo di emancipazione sionista non doveva essere semplicemente un riscatto di fronte alle nazioni europee, ma doveva essere anche un'emancipazione dall'ebreo, e una sua emancipazione in ciò che più tardi si chiamerà l'israeliano o l'ebreo nuovo. Il religioso era percepito dai pionieri negli anni venti e trenta (e anche successivamente, nel periodo della creazione d'Israele), come la caricatura di ciò che non si voleva più essere. E questo fenomeno si è aggravato dopo il massacro degli ebrei d'Europa per mano di Hitler.

Erano da rifiutare quegli ebrei barbuti, con i boccoli, in genere sporchi, che si erano lasciati condurre come montoni al macello e i loro rabbini ne erano i responsabili perché non avevano insegnato loro a combattere. L'ebreo che pregava entrando nelle camere a gas era percepito - oggi non è più così - come qualcuno di cui vergognarsi, un miserabile, e non un eroe da rispettare. La generazione del 1948 e quella degli anni cinquanta e sessanta - la generazione successiva, coloro che oggi hanno 30 anni, è diversa - sono state educate a disprezzare sia gli ebrei della diaspora sia gli ebrei religiosi, identificando senz'altro gli uni con gli altri.

Aggiungo infine che i religiosi sono stati sempre identificati con gli ashkenaziti (6), e questo si deve al fatto che nell'immaginario sionista la storia ebraica è la storia del giudaismo ashkenazita. Che cosa c'è nella testa dell'israeliano medio quando pensa a un religioso? C'è l'immagine di un cassidico (7). Nonostante anche gli ebrei arabi siano profondamente religiosi, non esistono nell'immaginario collettivo israeliano. Il progetto israeliano è totalmente ashkenazita ed europeo: nasce in Europa centrale, si sviluppa nell'Europa dell'Est e ha un moderato sostegno in Europa occidentale.

La prima svolta qualitativa si compì con la creazione di Israele, nel momento in cui Ben Gurion decise di stipulare un patto tra lo Stato e la religione. Questo patto si basava su tre presupposti essenziali.

Ben Gurion temeva l'opinione pubblica. I rapporti di forza, nel mondo ebraico e in Israele, erano totalmente a favore degli ambienti religiosi e ciò ancora prima dell'arrivo in Israele degli ebrei provenienti dai Paesi arabi. Tutti gli ebrei provenienti dallo Yemen, come la gran parte degli ebrei dei Paesi arabi, erano religiosi o almeno tradizionalisti. Vi era ben poca laicità, nel senso di assenza di religiosità, nella cultura araba in generale. E proprio in quegli anni iniziava un processo di modernizzazione e separazione del campo culturale religioso dallo Stato. Ciò era vero per i musulmani ed anche per gli ebrei che vivevano nel mondo musulmano. Il patto con la religione mirava a valorizzare e a legittimare Israele presso la maggioranza religiosa e tradizionalista di questi nuovi cittadini del nuovo Stato.

Era necessario trovare un comune denominatore tra la diaspora e lo Stato di Israele che non fosse limitato al sostegno finanziario. Era necessario anche un denominatore comune a livello culturale. La religione serviva a creare questo legame ideologico tra la diaspora e Israele. In quell'epoca, la diaspora era essenziale per il progetto sionista e rappresentava la riserva d'immigrazione verso Israele, che era ancora simile a un bambino debole tra le nazioni, la cui esistenza, negli anni cinquanta, era lungi dall'essere garantita ed evidente. Erano rari coloro, in quegli anni, pronti a scommettere sulla longevità di questo Stato, nato in modo strano e che ha voltato le spalle a tutti gli Stati che lo circondano.

Il terzo presupposto era il più importante. La necessità di trovare un comune denominatore tra le diverse ondate migratorie, giunte nel Paese in tempi molto ristretti, che hanno finito per comporre la nuova società. La grande maggioranza degli israeliani presenti in Palestina/Israele, agli inizi degli anni cinquanta, erano arrivati tra il 1933 (soprattutto dalla Germania, dall'Austria e dalla Cecoslovacchia) e il 1950 (una parte era rappresentata dagli scampati al genocidio degli ebrei europei e una parte da ebrei arabi, soprattutto provenienti dallo Yemen e dall'Iraq).

In questo modo si costruiva una nuova società in maniera casuale. Composta da culture molto differenti, così come diverse erano le lingue e le esperienze. Alcuni provenivano dalla modernità europea ed altri dallo Yemen medievale. Come costruire qualcosa insieme? La religione poteva essere un elemento unificante per l'ideologia e, soprattutto, per l'identità di questa nuova comunità.

Lo statu quo

Tra il 1949 e il 1950 si attuò quella che Leibowitz (8) chiamava una doppia prostituzione. La religione si prostituiva allo Stato e lo Stato alla religione. In altri termini, fu stipulato un accordo: lo Stato non si trasformava in una teocrazia e la Torah, la sharia ebraica se si preferisce, non diventava legge. Sarebbe esistita una legge laica, votata da un parlamento eletto e non da un'assemblea di rabbini che legiferava sulla base di testi religiosi. In questo senso, Israele non sarebbe diventata una teocrazia, ma una «democrazia» parlamentare (le virgolette intendono relativizzare questa nozione di democrazia), ma, d'altro canto, la religione avrebbe avuto un ruolo centrale nello Stato democratico.

Perché parlare di prostituzione? In primo luogo perché lo Stato si impegnava affinché non ci fosse una separazione tra Chiesa e Stato e, inoltre, si impegnava anche a pagare gli stipendi dei rabbini e a finanziare le istituzioni religiose. Questo fu un grande apporto finanziario per tutto il mondo religioso. Ma penso che questo aspetto sia, tuttavia, secondario.

Era l'epoca dell'immigrazione di massa che, si può sostenere senza tema di smentita, rappresentava il grande capitale di Israele. Nell'arco di quattro anni, circa seicentomila persone si erano stabilite in Israele. Questa immigrazione veniva letteralmente suddivisa tra i partiti al potere, a seconda della loro forza.

Dalla creazione dello Stato di Israele, nel 1948, fino al 1977, il potere politico si identificava con il Mapai (9) ed i suoi due partiti satelliti: alla sua sinistra il Mapam (la sinistra laburista) e alla sua destra il Mizrahi, il quale successivamente cambierà nome in «Partito nazionale religioso», PNR, divenendo, in un periodo ancora successivo, capofila dell'attuale estrema destra.

Questa situazione ricordava molto da vicino quella dei Paesi dell'Europa dell'Est: in cui era egemonico il partito comunista che divideva il potere, generalmente, con due o tre partiti satelliti (il partito dei contadini o un piccolo partito composto da fuoriusciti dalla Socialdemocrazia). Questi partiti satelliti coprivano il partito egemonico che non era semplicemente un'organizzazione politica, ma si identificava con lo Stato. Il partito-Stato che organizzava direttamente, o tramite i sindacati da questo controllati e usati come cinghie di trasmissione, le istituzioni della società civile: lo sport, la cultura, le cooperative e il mondo del lavoro (10).

Tutte le ondate migratorie venivano suddivise tra il Mapai (70-80%) e i partiti satelliti (10-15%) che mandavano gli immigrati in villaggi o piccole città da essi controllate. Anche oggigiorno in Israele le città, i villaggi e le istituzioni appartengono a dei partiti o sono legati ad essi. In questo contesto, gli immigrati, inquadrati e dipendenti dal partito che li aveva accolti, votavano in massa a suo favore. Ancora oggi la situazione non è mutata.

La tale nave carica di immigrati in arrivo dal Marocco veniva data (sottolineo, data) al partito Mizrahi che li suddivideva tra i suoi moshavim (11) (villaggi agricoli). Coloro che tra gli immigrati erano in condizioni migliori venivano inviati nei kibbutzim. La stessa sorte era riservata a quel 10% di immigrati affidati al Mapam. Il resto, ossia la fetta più grande della torta, andava al Mapai, che successivamente diventerà il partito laburista.

Contemporaneamente avveniva la divisione delle risorse: non solo il budget del movimento sionista veniva suddiviso tra i partiti sionisti in base alle loro proporzioni, ma anche una parte delle risorse nazionali venivano usate dal partito al potere, come se gli appartenessero. Mi riferisco ai partiti e non agli individui, che generalmente vivevano in modo molto modesto, quasi poveramente. Un po' come accadeva al Presidente Yasser Arafat talvolta di gestire parte delle risorse palestinesi fuori dal circuito ufficiale, ma non per intascarsi il denaro. Il piccolo taccuino nero di Pinhas Sapir, ministro israeliano delle Finanze negli anni settanta, ricorda molto il piccolo taccuino di Yasser Arafat, dove scriveva le richieste e annotava: «Vada per 200.000 dollari, telefonate al mio segretario...».

Si realizzava, quindi, un'alleanza tra lo Stato e le istituzioni religiose, anche per ciò che riguardava la legislazione. Tutto ciò che riguarda il diritto di famiglia (matrimonio, figli, eredità e sepolture) è affidato ai religiosi ed è gestito da tribunali rabbinici. In Israele non esiste lo stato civile, ma una sorta di "stato civile religioso": fino ad oggi non ci si può sposare che con rito religioso, anche se da una decina di anni vi sono dei modi per aggirare questa realtà. Si può essere sposati solo da un rabbino, da un cadi o un parroco.

Questa situazione, d'altronde, crea un grande paradosso: dato l'alto numero di persone che non possono sposarsi ufficialmente, la legislazione ha dovuto legittimare tutta una serie di pratiche parallele molto liberali. In Israele abbiamo avuto i PACS (12) (ossia il riconoscimento legale di una coppia che non è sposata religiosamente) ben prima che in Francia, in modo da permettere la normalizzazione di una relazione al di fuori della formalizzazione matrimoniale. La stessa cosa vale per i divorzi e tutto ciò che riguarda la gestione dei beni in comune e il modo di condividere le responsabilità verso i figli.

Nel contesto di una simile relazione tra Stato e religione, è stata assunta la decisione che lo shabat non solo è un giorno festivo, ma anche non lavorativo. Un giorno in cui anche i trasporti pubblici e il settore commerciale si fermano. Si decide anche che tutte le istituzioni devono essere kasher (ossia pure, con un'estensione dei principi religiosi che stabiliscono l'ammissione del cibo). In questo modo si stabilisce un vero e proprio contratto, che fino ad oggi è stato definito lo statu quo. Lo Statu quo è una sorta di compromesso tra teocrazia e democrazia, ossia: uno Stato che non è religioso, ma che integra alcuni dettami religiosi nella propria legge e nelle proprie istituzioni. Integrazione che è volontaria. Se si preferisce, lo Stato rinuncia ad una parte della propria dimensione civile a favore della religione e delle istituzioni religiose e la religione rinuncia ad una parte importante della propria autonomia. In questo si traduce di ciò che Leibowitz chiamava la doppia prostituzione. Egli sosteneva che non è solo lo Stato che si è prostituito verso la religione, ma, cosa ancora peggiore per un ebreo rigidamente praticante come lui, è che i rabbini si siano prostituiti allo Stato. In cambio di finanziamenti e posizioni di rilievo questi ultimi hanno accettato di offrire la copertura ideologica dello Stato di Ben Gurion.

I religiosi di fronte allo Stato di Israele: tre correnti

In questo modo viene neutralizzata da Ben Gurion la minaccia rappresentata dalla religione e dai movimenti religiosi, come anche il loro impatto su una parte importante della popolazione viene drasticamente ridotto.

Nel mondo laico, o meglio non religioso, il compromesso di Ben Gurion viene accettato con molta facilità. Nessuno, compreso nel Mapam (composto da mangiatori di carne di porco e picchiatori di ebrei con la barba), metteva in dubbio la lealtà verso Ben Gurion e che fosse necessario compromettersi con la religione, perché si riteneva che lo Stato ebraico avesse bisogno della dimensione religiosa, sia per stabilizzarsi, sia per darsi una legittimazione. Per questa ragione in Israele non esiste, propriamente parlando, la laicità.

Di maggiore interesse è il modo in cui hanno reagito i religiosi e le loro espressioni politiche e istituzionali. Si possono individuare tre tipi diversi di reazione: quella del Mizrahi; quella delle correnti religiose non-sioniste e antisioniste; quella di coloro che si oppongono per ragioni religiose all'esistenza dello Stato di Israele. Ma, prima di descrivere queste tre diverse posizioni, è interessante analizzare i rapporti di forza delle tre correnti che attraversano le comunità religiose in Israele.

Negli anni cinquanta e sessanta - sto parlando di cose che conosco bene perché all'epoca vivevo in questo ambiente - il partito nazionale religioso aveva circa dodici deputati (su centoventi), il partito non sionista, Agudat Israel e la sua appendice, Poalei Agudat Israel, ne avevano rispettivamente quattro e due. Per ciò che riguarda i religiosi rigidamente antisionisti e contrari allo Stato di Israele, di cui si è spesso parlato nei circoli pro-palestinesi, in realtà erano molto marginali: qualche migliaio di persone, concentrate in uno o due quartieri a Gerusalemme e nel quartiere di Bnei Brak, in prossimità di Tel Aviv.

Il Mizrahi

Il Mizrahi, come abbiamo visto, era il partito del sionismo religioso. A quell'epoca dominante nel mondo religioso, ma non perché la sua ideologia fosse egemonica nell'opinione pubblica religiosa, ma perché rappresentava parte del potere e, quindi, aveva la possibilità di gestire la maggior parte degli immigrati. Dalla fine degli anni settanta il Mizrahi ha perso i due terzi della sua forza perché questa era artificiale. In questo modo il Mizrahi è tornato a quelle che si possono definire le sue dimensioni naturali. Prima si aderiva al Mizrahi sbarcando dalle navi e non si poteva avere altra opinione perché si era dipendenti dal sindacato legato al Mizrahi. Si era dipendenti dalla cooperativa di distribuzione del Mizrahi, i bambini frequentavano le scuole gestite dal Mizrahi, il lavoro si trovava grazie al Mizrahi: in una parola «si era Mizrahi».

A livello politico il Mizrahi rivendicava la sua appartenenza organica allo Stato, soprattutto nella sua dimensione religiosa: «Noi siamo i credenti del sionismo», dicevano. In termini religiosi il Mizrahi rappresentava un'interpretazione molto moderata della religiosità. Adattava la propria religiosità alla vita moderna. Per esempio, nei kibbutzim, nelle fattorie e nei villaggi agricoli del Partito nazionale religioso vennero sviluppate delle «tecniche» per aggirare le leggi religiose (ad esempio, quelle che riguardano l'anno sabbatico - il settimo anno - durante il quale è vietato coltivare la terra). Cosa si faceva nei villaggi del Mizrahi? Si vendeva la terra agli arabi per ricomprarla successivamente, oppure si stendeva uno strato di sabbia. In questo modo si poteva sostenere che non era della terra, ma della sabbia. Non si poteva usare l'elettricità il sabato: come fare per la mungitura delle vacche? Si inventavano delle tecniche che permettessero di aggirare il divieto. Alcune di queste tecniche hanno permesso delle acquisizioni tecnologiche interessanti, ma percepite dai religiosi ortodossi come un imbroglio.

Agudat Israel

Agudat Israel rappresentava, nei fatti, la maggioranza dei religiosi rigidamente praticanti, coloro che vengono chiamati ortodossi, chiaramente non sionisti. Si definivano spesso antisionisti. Anche se, contrariamente ad una opinione diffusa ma sbagliata, costoro non erano contro l'esistenza dello Stato di Israele. Essi erano contro il sionismo, che ritenevano totalmente estraneo alla propria fede e alla propria teologia. Secondo loro, Israele era uno Stato come un altro, nel quale avanzare delle rivendicazioni in quanto comunità. Si consideravano, quindi, una comunità, come ad esempio quella di New York, con le proprie esigenze che dovevano essere negoziate con lo Stato.

Da questo punto di vista Israele è ben più simile agli Stati Uniti che alla Francia e ciò lascia, quindi, ampi spazi di negoziazione tra lo Stato e le comunità (ebraiche, ben inteso) che lo compongono. Ciò ha consentito il conseguimento di diritti specifici, tra cui i finanziamenti per le istituzioni legate ai partiti religiosi (questi finanziamenti vengono ottenuti grazie alla mediazione delle ONG, organizzazioni che in Israele esistono da decenni) o come la relativa autonomia (ad esempio, il riconoscimento da parte dello Stato del loro sistema educativo, in un certo senso come in Francia è la «libera scuola», anche se nel caso israeliano s'intende "libertà" dal controllo statale).

L'esempio più conosciuto dell'autonomia degli ebrei ortodossi è la dispensa dal servizio militare. Per diverse migliaia di giovani studenti delle scuole talmudiche questo è rinviato all'infinito e di fatto annullato. Nel corso degli anni, queste migliaia di studenti, sono diventate decine di migliaia di pseudo-studenti. La relazione tra il movimento religioso non-sionista e lo Stato si può così sintetizzare: noi rispettiamo la sovranità dello Stato, voi rispettate la nostra autonomia. Così, per un breve periodo, dei dirigenti di Agudat Israel hanno partecipato al governo e in un periodo successivo a coalizioni governative, pur non facendo parte del governo (cosa cui erano contrari i loro rabbini per ragioni teologiche), gestendo, generalmente, la direzione della commissione finanze (13).

La corrente antisionista militante

Questa corrente vede nello Stato di Israele, come anche nel sionismo, un'eresia che va combattuta. In questo caso si tratta di una corrente molto piccola, ma che ha avuto fino agli anni ottanta un grande potere di pressione sulla cerchia più ampia rappresentata da Agudat Israel. Era, in un certo senso, la cattiva coscienza di Agudat Israel...I suoi membri erano coloro che bruciavano la bandiera israeliana il giorno della festa dell'indipendenza e che innalzavano bandiera bianca ogniqualvolta che c'era una guerra. Coloro che volevano fare la pace con gli arabi alle spalle dello Stato di Israele, affermando: «non siamo lo Stato di Israele, che presto o tardi sarà distrutto, ma siamo con voi per salvare ciò che potrebbe essere la comunità ebraica in Palestina». Il ministro degli «affari ebraici» nel governo di Yasser Arafat, Moshe Hirsh, è l'ultimo rappresentante di questa comunità che, tuttavia, era maggioritaria tra i religiosi in Israele fino alla creazione dello Stato. Poiché, fino alla creazione di Israele, la grande maggioranza della comunità ebraica ashkenazita è stata contraria alla creazione dello Stato (14). Solo dopo Hitler, che ha suonato le campane a morto per gli ebrei ortodossi in Europa dell'Est e dopo l'arrivo in massa degli scampati al giudeocidio e l'inizio dell'immigrazione in Palestina, i rabbini accettarono il fatto che il mondo fosse cambiato e che occorresse cambiare anche le relazioni con la politica e verso lo Stato di Israele. Anche se gli ortodossi non si sentivano parte pregnante del progetto sionista, direi che lo hanno comunque accettato con un certo sollievo, dicendosi: non è il nostro Stato, o meglio, lo è come potrebbe esserlo la Francia o il Belgio o l'Inghilterra. Siamo cittadini di questo Stato, ma tuttavia non è uno «Stato ebraico», tutt'al più è uno Stato dove, per caso o meno, vi è una maggioranza ebraica, ma senza alcuna particolare essenza spirituale. Quindi la relazione che lega gli ortodossi allo Stato è simile a quella che esiste tra una comunità confessionale e lo Stato in cui vive.

L'inesistenza della laicità in Israele

Farò, ora, una lunga digressione sul concetto di laicità. È un grossolano errore tradurre la parola ebraica hiloni con «laico». In ebraico non esiste una parola che renda il significato di laicità per come, se ben ricordo, l'ho appreso alla scuola primaria qui in Francia, ossia: la separazione dell'ambito religioso da quello politico. Intendendo la religione riservata a un ambito privato, tutelato in quanto tale dallo Stato laico. Mio padre, un rabbino ortodosso, si considera, grazie a questa definizione di laicità, profondamente laico: difende la totale separazione tra la religione e lo Stato, come anche rivendica la protezione dello Stato perché possa esercitare la sua fede nella sfera privata (anche se, a Strasburgo dove lui ha esercitato, non era così, a causa del Concordato). Si può essere religiosi, anche molto religiosi e credenti praticanti, pur essendo laici.

Ciò in Israele non è possibile, poiché il concetto di laicità non esiste. In Israele, la parola hiloni, che generalmente si traduce con laico, in effetti significa non religioso, che nulla ha a che vedere con laicità. La Hiloniut è piuttosto, direi, una filosofia religiosa e politica. È un rapporto (in negativo) con Dio, oppure può essere considerata come un rapporto (in negativo) con la pratica religiosa. In assoluto non un rapporto con la politica.

Per questa ragione è un grande controsenso definire laico lo Shinui, il partito che ha avuto un grande risultato alle ultime elezioni. La traduzione letterale della sigla Shinui non è «partito laico», ma «partito delle classi medie non religiose». Lo Shinui è ben lungi dal rivendicare la separazione tra la religione e lo Stato. Esso, piuttosto, rivendica un cambiamento delle relazioni tra la religione e lo Stato e la marginalizzazione dei partiti e delle comunità religiose. È un partito effettivamente non religioso, o anche antireligioso.

La parola hiloni, quindi, significa non religioso, perfino mangia preti. In Israele non esistono partiti laici, che rivendichino la propria laicità. Se, nel corso degli ultimi quindici anni, il Meretz e lo Shinui sono stati caratterizzati da una volontà di laicità, penso sia più corretto parlare di una richiesta di un peso minore della religione e di un maggiore liberalismo (nel senso statunitense del termine) nelle relazioni cittadini-Stato.

A mio parere, i soli veri laici sono i nuovi immigrati russi. Dalla creazione dello Stato fino alla metà degli anni ottanta, la questione della laicità è stata espunta dal dibattito pubblico. Ma, nel frattempo è avvenuto un grande cambiamento. Questa svolta è rappresentata dal 5 giugno 1967. Fino a quel momento essere religioso significava essere marginalizzato - per spiegare cosa significava essere religioso prima del 1967 farò ricorso alla descrizione che ho fatto nel mio libro Sulla frontiera (15) e alla mia esperienza personale.

Si trattava di una marginalizzazione in parte volontaria come avveniva negli ambienti di Agudat Israel, che rifiutavano di appartenere al «collettivo nazionale». Ancora oggi, non sono considerati dei veri israeliani e non vogliono esserlo. Sono degli ebrei all'interno dello Stato israeliano. Interessati esclusivamente alla difesa della loro ebraicità e non tentano neanche di «diventare israeliani», dei quali pensano: «Che Dio ci salvi, sono dei miscredenti che nulla hanno da spartire con la storia ebraica e la sua tradizione».

Ma vi erano dei religiosi (che rappresentavano la maggioranza organizzata dal partito nazionale religioso, o meglio, all'epoca, dal Mizrahi) che vivevano la marginalità come una tara e che vivevano ai margini della società malgrado la loro volontà. Avrebbero voluto essere israeliani al 100% e facevano tutto il possibile per rassomigliare al modello che si faceva loro balenare.

In Sulla frontiera ho citato una delle mie zie che mi indicava con orgoglio un parà religioso della nostra sinagoga, dicendomi: «vedi, anche noi abbiamo dei parà, siamo dei veri israeliani». Esattamente la stessa reazione di mio nonno che si era battuto a Verdun e che ci ripeteva sempre: «gli ebrei erano anche dei grandi combattenti, che fossero nell'esercito tedesco o in quello francese». Questo bisogno di dimostrare che non erano diversi, che erano dei veri israeliani, derivava da un fenomeno di esclusione, dal fatto che l'Altro non li accettava veramente come parte integrante del collettivo nazionale. Lo stesso fatto di indossare uno zucchetto era percepito come una prova di non essere dei veri israeliani. Dato che questi ultimi non dovevano essere religiosi, perché la religione era considerata una caratteristica negativa della diaspora. Le spalle curve, il colorito pallido e gli occhiali erano la diaspora. Nel suo libro, Il settimo milione, Tom Segev (16) ha descritto bene l'atteggiamento dello Yishuv (17) prima della creazione di Israele, negli anni della sua proclamazione e anche in quelli immediatamente successivi, nei confronti degli ebrei della diaspora. Era un atteggiamento terribilmente razzista. Anche quando questa diaspora in Israele diventava visibile, non solo con i religiosi con i riccioli, ma anche con i religiosi che cercavano di essere moderni ed uguali agli altri, con gli short e le mitragliette al collo e le pistole che spuntavano dai pantaloni, ma indossavano un piccolissimo copricapo (perché non fosse troppo visibile); questi religiosi moderni continuavano ad essere esclusi. Certamente, erano migliori degli altri, ma la loro trasformazione non era ancora sufficiente.

1967: la grande svolta

Il 1967 segna una doppia svolta. Innanzitutto, non è stato solamente il momento in cui i sionisti religiosi sono usciti dalla marginalità in cui erano stati relegati, ma anche il momento in cui si sono trasformati nell'avanguardia e sono diventati la punta di lancia della colonizzazione.

Fin dal luglio 1967, l'ideologia del rabbino Kook, che ho citato prima, che individua nel sionismo l'inizio dell'èra messianica si afferma. Il discorso pubblico di conseguenza esalta la vittoria in questo modo: abbiamo liberato i nostri Luoghi Santi, abbiamo rioccupato il Monte del Tempio e il Muro del Pianto, dove ricostruiremo il Tempio, abbiamo unificato Gerusalemme, infine abbiamo riunificato il Grande Israele. Questo discorso sarà devastante sia tra i religiosi, sia tra i non religiosi. I non religiosi diventeranno i portatori di questo messianismo conquistatore e della velleità di conquista impregnata di messianismo laico (o meglio non religioso).

È necessario cercare di tenere presente questo periodo e i forti sentimenti che agitavano la società israeliana, così come una parte delle comunità ebraiche nel mondo. Il periodo maggio-giugno 1967, è l'ultimo in cui gli israeliani hanno avuto veramente paura (non come oggi, che è una sensazione finta). La paura derivava dall'incapacità di valutare realisticamente i rapporti di forza e si pensava concreta la possibilità di essere buttati a mare. È possibile che i generali e i politici non siano caduti nella trappola, l'opinione pubblica, invece, vi cadde certamente. Sono convinto che anche Levy Eshkhol, il primo ministro dell'epoca, condividesse la stessa angoscia. Si diceva che piangesse spesso perché era un ebreo della diaspora e non un vero israeliano, al contrario di quel che erano Moshe Dayan e compagni che sapevano bene cosa sarebbe stata quella guerra. Comunque sia, la vittoria del giugno 1967 provocò un sollievo che aveva qualcosa di mistico: quando si era certi di essere massacrati e buttati a mare, ecco che in sei giorni viene conquistato mezzo Medio Oriente, viene occupato il Sinai e viene preso il controllo di tutto Eretz Israel. Tre Stati arabi vengono schiacciati e questo ha del miracoloso e viene vissuto proprio come tale.

Jeannine Lazar, un'ebrea di sinistra di origine francese e imbevuta di razionalismo cartesiano, spiegava a una delegazione di pellegrini francesi venuti a Gerusalemme, che, all'epoca, aveva vissuto una specie di eclissi mistica. Credo, dicesse la verità.

Nel giugno 1967, una parte importante del mondo religioso ottiene la legittimazione della comunità nazionale, anche quella laica (non religiosa). Diventava, infine, degno di far parte della collettività nazionale. A vedere i poster della guerra del 1967, si può notare che per la prima volta vi compaiono molti parà con lo zucchetto, mentre in realtà non ve ne erano molti nell'esercito, ma vengono valorizzati, come anche i loro discorsi, nell'intera società israeliana. Il ritorno ai Luoghi Santi e al Muro del Pianto, fa fremere tutti, o quasi. Bisognava vederli, quei miscredenti del Mapam, con un asciugamano in testa perché non possedevano gli zucchetti, mentre pregavano al Muro del Pianto, con al fianco la loro mitraglietta. C'è chiaramente qualcosa di osceno in questa simbiosi tra l'ideologia religiosa e un progetto nazionale, in questo nazionalismo conquistatore imbevuto di promesse divine.

Dal 1968, i dirigenti non religiosi, ossia i laburisti che sono rimasti al potere per i dieci anni successivi, hanno definito i religiosi come i «nuovi pionieri», mentre fino a poco tempo prima li emarginavano. Ed in effetti, sono stati i religiosi, armati di fucili e con i libri del rabbino Kook sotto il braccio, i primi a colonizzare la Cisgiordania; lasciando ai militanti di Hashomer Hatsair e altri movimenti «sionisti di sinistra» il compito di colonizzare le zone frontaliere, il Golan e la valle del Giordano.

La colonizzazione ideologica, che aveva perso un poco del suo slancio, ha ripreso forza con un dinamismo senza precedenti, grazie al partito nazionale religioso che si basava sulla filosofia del rabbino Kook, che fino a quel momento era marginale, quasi eretica, anche per molti religiosi. Per i seguaci di Abraham Isaac Hacohen Kook, il sionismo era un movimento quasi religioso, un fenomeno con una dimensione teologica. Si integrava il sionismo nella religione e viceversa.

Questa sintesi che inizia a delinearsi fin dall'autunno del 1967, apre un processo di demarginalizzazione dei religiosi. Non solo come esponenti di partiti politici con i quali fare alleanze, come era avvenuto per il Mizrahi, ma come corrente di pensiero. Dalla marginalità alla legittimità e, successivamente, se non proprio all'egemonia sono arrivati a svolgere un ruolo centrale nella politica dominante (18).

L'evoluzione successiva, ma caricaturale, di questa dinamica è rappresentata da Ehud Barak. Il quale come è noto viene venerato dai coloni religiosi di estrema destra. La prima cosa che fece, dopo essere stato eletto nel 1999, fu di recarsi a Ofra, cuore della colonizzazione messianica, tra i pazzi mistici, allievi di seconda generazione del rabbino Kook, che chiamò «miei carissimi fratelli», non per demagogia, ma dal profondo del cuore.

Ehud Barak preferisce l'estrema destra religiosa perché gli ricorda la generazione dei suoi genitori mentre per il suo elettorato tradizionale nutre un dichiarato disprezzo. Quella generazione che aveva realizzato la colonizzazione in sella a un trattore, con in una mano una zappa e nell'altra una mitraglietta Uzi, che altro non è che un'arma americana. Si identifica con essi fino al punto di affermare: « Ciò che vorrei è che i miei figli fossero come io sono stato e prima di me è stato mio padre. Ma chi sono i miei figli? I miei elettori? Questi deboli? Questi smidollati che dicono di voler vivere normalmente, gente che non vuole più la guerra, non hanno più l'energia per fare la guerra?».

La gioventù laburista è sprofondata nell'edonismo (questo è il termine che viene utilizzato), che vuole vivere normalmente, come può portare avanti il progetto dello Stato ebraico, il nostro sogno? Non resta, quindi, che l'alternativa di salire in corsa sul treno messianico, la cui locomotiva è per definizione religiosa.

Ehud Barak, non lo si è scritto sufficientemente nelle sue autobiografie, ha un rapporto con la religione che è l'esatto contrario di quello che ha avuto Yitzhak Rabin. Yitzhak Rabin ha rappresentato la generazione precedente, laica, o meglio antireligiosa, che disprezzava i religiosi. Per questo motivo disprezzava i coloni, che gliela hanno fatta pagare molto cara. Il suo disprezzo verso il loro messianismo mistico non era celato, ma esplicito. Invece, Ehud Barak è un'altra cosa: rappresenta la vittoria (per i prossimi decenni) della nuova sintesi tra il sionismo non religioso e il messianismo conquistatore. Egli riesce nell'intento di portare a compimento una doppia svolta e cioè legittimare la convivenza della religione e dei religiosi con il collettivo sionista dominante, integrando così la propria ideologia (il nazionalismo sionista) con il discorso religioso dominante.

Centro e periferia: nuovi equilibri

A partire dagli anni ottanta si è giunti alla seconda tappa di questo cambiamento del rapporto tra religione e Stato. Questo cambiamento non è iniziato a causa di una "questione religiosa", ma ha riguardato la questione della periferia generalmente intesa nello Stato di Israele. I religiosi venivano percepiti come una sorta di immigrati che arrivavano in città dalla campagna e che (almeno per quel che riguarda la prima generazione) non erano dei veri cittadini. Dovevano attraversare una specie di fase preparatoria.

La relazione di Israele con gli immigrati dai Paesi arabi e con coloro che sono rimasti religiosi era come quella verso dei candidati alla "israelità". Una situazione di transizione, in cui, in sostanza, si diceva loro: tra una generazione o due sarete dei veri israeliani, getterete via il vostro zucchetto, avrete un colorito meno pallido e gli occhi un po' più blu. Questo era il sogno. Per capirlo, è sufficiente guardare i poster degli anni cinquanta e sessanta in cui il "bell'israeliano" è rappresentato sempre senza lo zucchetto, con i capelli biondi o al più castani (come scoloriti al sole), con gli occhi sempre un po' più blu e le ragazze vengono rappresentate generalmente con indosso short molto corti. Nel 1998 in occasione di una esposizione di poster degli anni cinquanta e sessanta queste caratteristiche erano tanto accentuate che era lecito chiedersi se non fosse stato imitato lo stile sovietico e perfino quello nazista. Uno dei maggiori esperti israeliani nel campo della critica d'arte grafica scrisse una lunga introduzione per cercare di spiegare questa ambiguità.

In questo modo si spiega il fatto che coloro che non corrispondevano ai canoni descritti sopra siano stati emarginati dalla società, che invece mirava ad un modello laico, non religioso e occidentale. Tutti gli altri venivano chiamati «l'altro Israele», o, più recentemente, la «periferia», ossia: coloro che vivono ai margini (19). Contrariamente alle attese dei padri fondatori dello Stato, questa marginalità non è stata integrata. Negli anni ottanta la «periferia» viene più che mai marginalizzata, accentuando il fossato tra il «centro» e la «periferia» molto più di quanto non fosse trenta o quaranta anni prima e questo è avvenuto, senza dubbio, perché gli emarginati hanno smesso di credere nella possibilità di integrarsi. Questa è la grande differenza. Se il centro non ha saputo integrare la periferia ciò è stato dovuto al fatto che esso non era laico - questa volta nel senso francese del termine - ma perché aveva una concezione dello Stato come un insieme di comunità a se stanti. Sarebbe stata necessaria una filosofia laica, ma questa, evidentemente, era incompatibile con l'idea di Stato ebraico. Infatti, dove non c'è integrazione non è possibile l'assimilazione.

Oggi, in Israele esiste una periferia che quantitativamente sta diventando maggioranza e che non ha più le timidezze di un tempo. Gli ebrei iracheni, tunisini e yemeniti o gli ebrei religiosi della prima generazione aspiravano a diventare dei veri israeliani. Accettavano il modello dominante e ammiravano gli israeliani: Moshe Dayan e Yitzhak Rabin. Sognavano di diventare come il «bell'israeliano» dei poster e soffrivano di senso di inferiorità. Dopo una o due generazioni non è più così, il loro atteggiamento è del tutto cambiato: la nuova rivendicazione degli ebrei di cultura araba e degli ebrei religiosi è quella di essere considerati come parte integrante del collettivo nazionale. Sostengono: «Anch'io ho fatto il servizio militare, ho bevuto come gli altri, come tanti ho avuto dei morti negli attentati, perché, allora, devo ancora essere considerato come non-israeliano? Voglio anch'io far parte del centro, voglio l'uguaglianza».

Dopo questa trasformazione, tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta, Israele è diventato un Paese più liberalizzato, più individualistico, in cui usare l' «io» e far carriera sono diventate cose legittime. Era anche un Paese, all'epoca, che si avviava ad uscire da un modello unico, di cui si doveva far parte pienamente per non essere esclusi. Questa rivendicazione di uguaglianza, a livello politico, si è espressa attraverso l'ascesa del partito Shass.

Lo Shass è un movimento che rappresenta contemporaneamente gli ebrei religiosi e gli ebrei arabi ed esprime al meglio la rivendicazione di uguaglianza, come anche quella di non essere considerati arabi. Questa battaglia, all'inizio, si è espressa con la richiesta di avere un ruolo maggiore nei centri politici decisionali.

In questo contesto, sia lo Shass che il partito nazionale religioso cessano di essere dei partiti satelliti del partito laburista, acquistando totale autonomia e rafforzando, di conseguenza, il loro ruolo nei centri del potere dominante (20) (dal parlamento fino alle amministrazioni locali). Inoltre, questa trasformazione dello Shass e del partito nazionale religioso è una delle cause della caduta del partito laburista. In questo modo, quindi, i partiti religiosi sono diventati una componente politica egemonica, soprattutto della classe politica al potere. Ho sottolineato della classe politica (non della classe dominante nel senso marxista del termine), perché, invece, l'economia rimane saldamente nelle mani di coloro che da sempre l'hanno controllata.

Gli opinionisti, i mass media, i settori che producono cultura e, soprattutto, il sistema giuridico sono rimasti sotto il controllo del «vecchio Israele», l'Israele occidentale e laico. Invece, il potere politico si è trasformato e, in questo nuovo contesto, il ruolo dei religiosi è aumentato, frenando il processo di laicizzazione, o meglio, di allontanamento dalla religione che attraversava la società israeliana.

In questo senso, i religiosi hanno del tutto ragione quando affermano che nel corso degli anni ottanta e all'inizio degli anni novanta Israele ha conosciuto un processo di normalizzazione, aspirando a diventare una società democratica e liberale «normale». Israele, vorrebbe essere come tutti gli altri Paesi e per raggiungere questo obiettivo doveva mettere un freno ai rapporti con il popolo ebraico, doveva smetterla di arroccarsi alla storia, finirla con il sionismo militante, ossia mettere fine all'occupazione. L'aspirazione è quella di vivere normalmente: basta con l'esercito, la bandiera e il morire per la patria. Queste erano cose che andavano bene per le generazioni precedenti. Come mi ripete mio figlio: abbiamo già dato, avete già dato, vogliamo vivere. Questo è, in sintesi, il nuovo discorso dominante. Un effetto di questo nuovo atteggiamento è che la società è diventata più laica, o, almeno, meno religiosa e, quindi, i religiosi cominciano a comprendere che occorre che si battano per mantenere lo statu quo. In questo senso è vero che la loro è una battaglia di autodifesa, contrariamente a ciò che pensano i miei amici sedicenti laici che invece sostengono che fossero i religiosi a voler cambiare lo statu quo e imporre con nuove leggi la religione. Questo è materialmente falso. Nel corso della seconda metà degli anni ottanta e la prima metà degli anni novanta, i religiosi hanno condotto una battaglia difensiva per ristabilire lo statu quo.

Per spiegare meglio questo fenomeno prendiamo ad esempio la città di Gerusalemme, in cui è forte l'influenza religiosa. Fino agli inizi degli anni ottanta nella città (qui mi riferisco unicamente a Gerusalemme Ovest) vi erano solo due macellerie non kasher (di cui una era proprietà di un arabo) e un solo ristorante che rimaneva aperto il sabato, dove per accedere bisognava entrare dal retro. A metà degli anni ottanta, sono stati aperti dozzine di ristoranti che non rispettano la chiusura del sabato e un quartiere è dedicato ai bar e alle discoteche aperti il venerdì sera. Tutto questo avveniva già prima dell'arrivo degli immigrati russi, successivamente al loro arrivo le macellerie non kasher hanno iniziato a proliferare, inizialmente in modo discreto e con il passare del tempo sempre più apertamente. Ancora per ora i trasporti pubblici verso i kibbutzim sono vietati il sabato (salvo che a Haifa, che da sempre gode di uno statuto speciale), ma sono state create delle linee semi pubbliche che, nei fatti, aggirano il divieto. Per questa ragione i religiosi si sono inquietati e hanno puntato i piedi, ottenendo una serie di nuove leggi che mirano ad imporre il divieto di tutte quelle pratiche percepite come antireligiose. Ma, al contrario di un'opinione diffusa, si tratta di una legislazione di autodifesa. La popolazione israeliana, o se si preferisce la «società civile», è meno religiosa di trenta anni fa ed esattamente perché con il tempo l'uso della carne di maiale si è imposto è stato necessario varare una legge che lo vietasse, perché il suo uso stava diventando troppo visibile. Finché questo era quasi clandestino e la vendita di carne di maiale limitata ad una sola macelleria, che conoscevano quasi solamente gli immigrati di origine berlinese, non vi era bisogno di un divieto imposto per legge. Esisteva, certamente, una legge che vietava di allevare il maiale, ma niente impediva di venderne la carne o di mangiarla. Un altro esempio è la legge che vieta di mangiare il pane durante la Pasqua o qualsiasi altro alimento a base di pane, perché secondo la tradizione ebraica a Pasqua il pane è vietato. La legge si è resa necessaria perché con il tempo si era diffuso l'uso, nei ristoranti, di vendere pane durante le feste pasquali.

Visto il diffondersi di queste abitudini che ignoravano queste restrizioni tradizionali, i religiosi hanno iniziato a chiedersi: «ma cosa succede? Questo non è più lo Stato degli ebrei se si vede carne di maiale in tutte le vetrine e il sabato i negozi sono aperti». A questo punto è iniziata una vera e propria guerra culturale tra una società che tende a liberalizzarsi e a laicizzarsi (nel senso israeliano del termine) e un mondo religioso, che è anche una corrente politica, che ha un ruolo sempre più importante nell'apparato politico, che si traduce nel varo di nuove leggi che, però, visto il clima generale, non vengono applicate perché sono, in realtà, inapplicabili.

È necessario, anche, sottolineare un altro fenomeno opposto. Mentre la società si allontana dalla religione, lo Stato diventa più religioso. Questo fenomeno è iniziato all'epoca dell'elezione a primo ministro di Menahem Begin nel 1977. Fino ad allora erano i laburisti al potere, notoriamente non religiosi e perfino antireligiosi, anche se non laici. Invece, Begin e il suo partito affondano le loro radici negli ambienti religiosi. Al contrario che nella tradizione del movimento operaio sionista, di origini socialdemocratiche e populistiche a causa della provenienza russa, lo Herut (che rappresenta il nucleo originario del Likud) è lungi dall'avere un approccio non religioso od ostile alla religione; è, invece, impregnato di religiosità. Begin celebrava lo shabat, non come un fanatico religioso, ma si recava in sinagoga e indossava lo zucchetto per recitare i versetti biblici, cosa che erano incapaci di fare Ben Gurion e Rabin. Per ciò che riguarda Rabin e la sua generazione, addirittura non sapevano di cosa si trattasse, visto che non avevano più alcun legame con la cultura ebraica. All'interno del Likud, invece, la situazione è diversa, i suoi fondatori sono cresciuti con valori religiosi e hanno una formazione religiosa, anche se non eccessivamente. Questa generazione di dirigenti del Likud, pur non essendo in senso stretto religiosa, non considera la religione come qualcosa di estraneo alla propria cultura e alla propria identità. Ciò ha consentito un dialogo più semplice con i religiosi che vi hanno visto un alleato più naturale.

In questo modo si è rotta l'alleanza tra i laburisti e i religiosi, che era basata su un programma moderato in ambito politico. Partendo da elementi culturali comuni, si forma una nuova alleanza tra i religiosi e la destra che ben presto si allarga all'ambito politico-ideologico. Il denominatore comune tra i religiosi e la destra è rappresentato prima di tutto dal rifiuto dell'anti religiosità e dell'anti «orientalità», in realtà della pseudo-modernità laburista. Questo rifiuto della politica laburista, della sua ideologia come della sua cultura, rappresenta il l'elemento unificante del blocco che riunisce i religiosi, gli ebrei sefarditi e la destra. Contrariamente a ciò che spesso si crede, la base del blocco di destra non è l'ideologia antiaraba, ma l'antilaburismo. Ciò che unisce le componenti del blocco di destra è un progetto di società. Ma, come avviene in tutte le simbiosi, le ideologie delle diverse componenti si compenetrano: le une diventano sempre più religiose e le altre sempre più nazionalistiche. Nell'arco di dieci anni, la religione diventa il discorso ufficiale di Israele: indossare lo zucchetto diventa una moda, non vi sono più eventi pubblici senza preghiere, tutte le sessioni parlamentari si aprono con questa o quella preghiera. In altri termini, la religione entra nella politica e il nazionalismo nella religione. Negli anni precedenti, partiti come lo Shass o Agudat Israel erano moderati e nelle loro ideologie la questione del Grande Israele non aveva alcun ruolo, anzi arrivavano a considerare il messianismo nazionalistico come un'eresia. Successivamente hanno, invece, integrato nella loro filosofia questo messianismo. Si è creato, quindi, contemporaneamente un nazionalismo della religione e un confessionalismo dello Stato. Ma questi fenomeni sono emersi all'interno di una società che era comunque entrata in una dinamica di laicizzazione, o, quantomeno, di allontanamento dal rispetto delle regole religiose. Questo processo ha avuto un'accelerazione con l'arrivo di un milione di russi, che sono tutto tranne che religiosi e, spesso, tutto tranne che ebrei. In questo senso siamo entrati in una situazione assolutamente esplosiva.

Ciò che ora dirò potrà sorprendervi, ma a mio avviso tutte le dinamiche descritte fin'ora hanno portato all'assassinio di Yitzhak Rabin. In quell'atto il ruolo giocato dagli accordi di Oslo e dalla pace con i palestinesi è relativo. Il vero motivo di quell'assassinio è lo scontro e la rottura tra progetti diversi di società, il risultato di una vera e propria guerra culturale. Un conflitto in cui si scontrano due mondi, quello che alcuni chiamano la «società degli ebrei» e alcuni «società degli israeliani»: Giudea e Israele. Si è creata una situazione tale per cui quando i religiosi parlano di Tel Aviv spesso la chiamano Sodoma e Gomorra, mentre quando i laici si riferiscono a Gerusalemme la definiscono il Vaticano oppure, l'Iran degli ayatollah. Rabin rappresenta per l'Israele religioso la minaccia che questa trasformazione giunga fino in fondo. È bene ricordare che il governo Rabin ha rappresentato, inoltre, il ritorno dei laburisti al potere dopo diciassette anni di governo della destra e del rafforzamento della dimensione religiosa di Israele nell'apparato politico. Per quanto alla formazione del suo governo, Rabin, per ridurre l'impatto dello scontro, vi integra il partito nazionale religioso (che deve convivere con forze anti religiose) e per il quale, nonostante egli fosse diventato più religioso di vent'anni prima, non cessa di rappresentare una minaccia.

La rottura finale, quella che porta all'odio puro e semplice, si produce intorno a una domanda: quale Israele vogliamo? Siamo ebrei o israeliani? Qual è la nostra cultura, qual è la nostra identità? La questione dei territori e della pace, direi, diventa a questo punto un elemento pressoché secondario, che non ha un ruolo reale nel quadro globale dei due progetti di società che si scontrano. È questa vera e propria guerra culturale che conduce all'assassinio del Primo ministro.

Anche le questioni economiche e sociali in queste dinamiche giocano un ruolo. La sinistra insieme a Yitzhak Rabin rappresentano le classi ricche del Paese, che hanno fatto del thatcherismo la propria ideologia. Tutti i partiti e tutti i governi che si sono susseguiti hanno fatto, in verità, dalla metà degli anni ottanta, della privatizzazione e della deregulation il centro delle loro politiche economiche. Ma per ottenere il consenso i dirigenti di punta del laburismo e della sinistra sono diventati gli ideologi di questo approccio presentandolo come il nuovo paradigma del progresso. Questi sono Shimon Peres e i peresboys ed in una certa misura anche il Meretz.

Il crollo dello Stato sociale era legato, secondo molti israeliani, al processo di pace: lo Stato protettore e lo Stato provvidenza era per i cittadini ebrei come il papà e la mamma (era lo Stato che, come è stato segnalato all'inizio di questa relazione, aveva in mente Ben Gurion). Secondo questa visione, la pace è coincisa con l'aumento della disoccupazione, con l'affossamento di un sistema sanitario, considerato uno dei migliori al mondo, e con la disintegrazione, nell'arco di un decennio, del sistema educativo. I partiti religiosi e le loro istituzioni hanno iniziato ad offrire quella protezione che lo Stato non offriva più. Le scuole dello Shass e di Agudat Israel erano le sole dove i bambini potevano restare fino alle quattro pomeridiane, con il pasto di mezzogiorno e lo scuolabus gratuiti, ecc. Certo, sono scuole in cui non si apprende letteralmente alcunché, come delle vere madrasse, dove si leggono a stento delle stupidaggini e dove si raccontano leggende infantili. Ma, nonostante tutto ciò, per una famiglia che deve crescere sei o sette figli, che vive a Ofaqim (una delle tante periferie delle città israeliane che sono in piena crisi economica e sociale e ancora vengono chiamate, dopo quarant'anni, «città di immigrati»), la scuola religiosa rappresenta una vera e propria ancora di salvezza. Inoltre, vi sono i movimenti giovanili. E se in quegli ambienti si insegnano ai giovani delle bestialità tanto peggio, almeno non fanno uso di droga.

In questo senso, l'integralismo in Israele è identico a quello che esiste in altri Paesi, è uguale a quello di Hamas o del FIS (21) in Algeria: cresce nei consensi perché prima di ogni cosa risponde alla domanda di alcuni bisogni sociali e alla richiesta di solidarietà sociale. Nei quartieri religiosi e nelle città di immigrati, lo Shass ha organizzato una vera e propria struttura sociale. Nel momento in cui lo Stato si è deresponsabilizzato una parte della società si è fatta carico di queste responsabilità: aprendo ospedali, dispensando cure dentistiche (che in Israele sono molto care), ecc. Oggi, per poter avere lo stesso livello di cure sanitarie che si aveva dieci anni addietro bisogna pagare. La sanità formalmente è gratuita, vi è una forma di assistenza pubblica, ma per poter avere lo stesso livello di un tempo bisogna aggiungere molto denaro. I più poveri, che sono legioni, possono permettersi un buon livello di assistenza solo grazie all'intervento delle associazioni legate ai partiti religiosi.

Conclusioni

L'assassinio di Yitzhak Rabin ha messo fine al processo di normalizzazione ed ha rafforzato molto più di prima il blocco di destra che è tornato al potere e facendo assumere alla religione un ruolo sempre più importante. Anche se, parallelamente, la società non è cambiata, anzi con l'arrivo di un milione di russi si è allontanata ancora di più dalla religione.

Alla vigilia della Seconda Intifada, Israele si è trovato minacciato da quella che i nostri mass media hanno definito una guerra tra due culture. Uno scontro che contrappone i sostenitori di uno Stato moderno (tale tra molte virgolette) e laico e i sostenitori, invece, di uno Stato che riconosca l'esistenza e il ruolo della periferia in quanto comunità religiosa, tradizionalista e orientale. In questa situazione di guerra civile strisciante, l'ascesa del partito Shinui è significativa. Con i suoi quindici deputati, questo partito non ha alcun programma sul conflitto israelo-arabo e se a questo proposito lancia qualche idea è più di destra che di centro. Lo Shinui ha incentrato la sua campagna elettorale sul concetto israeliano di laicità, ossia: l'odio verso i religiosi, con sfumature addirittura antisemite. Diffondendo giornali e riviste in cui le caricature degli ebrei praticanti non avrebbero sfigurato nelle pubblicazioni antisemite europee. Lo Shinui è il partito che rappresenta coloro che hanno, dal loro punto di vista giustamente, paura della periferia povera, non occidentale, tradizionalista e religiosa. Questo è l'elemento unificante di centinaia di migliaia di elettori ed elettrici dello Shinui. Non è, infatti, un caso se questo partito si chiama - ed è il suo nome ufficiale - delle «classi medie». Ossia, di quelle classi che sono in conflitto con i poveri.

La propaganda dello Shinui può essere sintetizzata in questo modo: «voi che avete paura del popolo perché è religioso, primitivo, non occidentale perché povero e che minaccia il vostro tenore di vita, unitevi, quindi, a noi, al di là delle divergenze sul conflitto israelo-arabo». Questa campagna elettorale si è rivelata vincente: quindici deputati è un grande risultato, soprattutto nel momento in cui lo Shass ha perso una parte non trascurabile del suo elettorato.

La guerra culturale, la Kulturkampf, in cui abbiamo vissuto per quindici anni e che minacciava la stabilità e l'organicità sociale israeliana, non è finita. Oggi essa è oscurata dal conflitto con gli arabi, ma nel profondo la società resta spaccata. Al di là del discorso politico dominante («dobbiamo lottare per la sopravvivenza, gli arabi ci vogliono distruggere, quindi viva Ariel Sharon») vi sono due società ben più lontane tra loro di quanto non fosse qualche tempo fa.

Concludo con una previsione, per quanto nella tradizione ebraica si dica che fin dalla distruzione del Tempio, da due millenni, la profezia è stata inventata per i bambini e gli imbecilli. Ma per me sono importanti anche le prossime elezioni amministrative. Durante le precedenti elezioni amministrative la guerra tra le due culture descritte fin'ora si è sentita fortemente. Questo perché alle elezioni amministrative la posta in gioco non è la grande politica, ma, al contrario, all'ordine del giorno vi sono i problemi quotidiani. Durante la precedente tornata elettorale, quindi, si è notata, in alcune città - soprattutto dove c'era una forte presenza di immigrati russi - una forte tensione sociale. Erano tensioni legate sicuramente allo scontro politico, ma anche al tipo di organizzazione sociale che le diverse forze in campo intendevano sviluppare localmente.

L'influenza della comunità russa non è relativa. Oggi, città come Ashdod, Beit-Shemesh o Askelon, un tempo abitate in maggioranza da comunità ebraico-marocchine, kurde e irachene (città di «sviluppo» in cui si concentravano gli immigrati, dicendo loro: «questa è casa vostra, questo è il vostro posto»), sono diventate miste. In queste città, le rispettive comunità russe, rapidamente, hanno iniziato una battaglia per controllare il potere locale. Nel caso dell'immigrazione russa, al contrario di ciò che avveniva in passato, non si tratta di un'ondata migratoria che attende pazientemente il suo turno: non rispetta la coda e passa subito in testa. Questa lotta per l'egemonia e il potere ha già provocato diverse volte delle vere e proprie risse. Se ancora non è scorso il sangue, non ne siamo lontani, sia che avvenga ad Askelon o ad Ashdod. Sono curioso di vedere ciò che succederà alle prossime elezioni, per quanto l'attenzione sia rivolta verso l'Iraq, verso Ramallah o verso Gaza...

Qualche tempo fa è accaduto un episodio che più di ogni altro rispecchia questa situazione. Nella città di Beit-Shemesh, ad una quindicina di chilometri da Gerusalemme, che un tempo era abitata in maggioranza da ebrei marocchini ed era molto povera, si è recentemente insediata una grande comunità di immigrati russi, molto combattiva. Questo ha prodotto una crescita economica e demografica senza precedenti. A Beit-Shemesh sono stati fatti investimenti di rilievo, ma le due comunità, quella marocchina e quella russa, hanno continuato a guardarsi con sospetto. Vivono in due parti differenti della città.

L'arrivo dei russi ha comportato anche l'apertura di molte macellerie non kasher e questo fatto è stato vissuto dai religiosi, la maggioranza degli abitanti della città fino a quel mento, come una vera e propria aggressione. Hanno tentato, con delle leggi municipali, di ottenere la chiusura di queste macellerie. Ma, nonostante tutto, dei commandos, apparentemente legati allo Shass, hanno dato fuoco alle macellerie non kasher. Episodi simili non erano una novità, erano già avvenuti in altre città. Ciò che ha destato l'interesse è stata la reazione della comunità degli immigrati russi, che si sono radunati sotto il municipio e al vicesindaco, davanti a tutta la stampa, hanno detto: «la prossima volta che ci bruciate una macelleria, noi vi bruciamo una sinagoga». Questa è l'immigrazione ebraica nello Stato ebraico nel 2001.


Note

*. Trascrizione della conferenza del 20 marzo 2003 tenuta a Parigi. A cura dell'Associazione Francia-Palestina. Testo originale: Sionisme et religion. Traduzione di Cinzia Nachira.

**. Michel Warschawski è autore di molti testi. In italiano sono disponibili: Sionismo e questione ebraica. Storia e attualità , con (Antonio Moscato e Jakob Taut), edizioni Sapere 2000, Roma, 1983; Israele-Palestina. La sfida binazionale. Un «sogno andaluso» del XXI secolo, edizioni Sapere 2000, Roma 2002; A precipizio. La crisi della società israeliana, Bollati Boringheri, Torino, 2004; La guerra dei 33 giorni. Un libanese e un israeliano sulla guerra di Israele in Libano (con Gilbert Achcar), edizioni Alegre, Roma, 2007

1. Cfr. Levy Yitshak Hayerushalmi, La kippa dominante, in ebraico, Hakibbutz Hamehaud publishers, Tel Aviv, 1997

2. Bund: «Unione generale dei lavoratori ebrei di Russia, Polonia e Lituania», fondato nel 1897 a Minsk. L'anno successivo aderì al POSDR, il partito socialdemocratico russo. NdT

3. Cfr. V. I. Lenin, Notes critiques sur la question nationale (Note critiche sulla questione nazionale), Editions du progrès, Moscou, 1968, pp. 13-59; Nathan Weinstock, Le pain de misère, tome I, pp. 190-195, Enzo Traverso, Les marxismes et la question juive, La Brèche, 1990, pp. 77-110

4. Cfr., tra gli altri, Abraham Isaac Hacohen Kook, Orot (luci), in ebraico, Mossad Harav Kook publishers, Gerusalemme, 1958

5. Cfr, Daniel Boyarin, Unheroic conduct, The rise of heterosexuality and invention of the Jewish man, University of California Press, Berkeley, 1997, pp. 271-312

6. Ashkenazita è il nome dato agli ebrei originari dell'Europa centrale e orientale. La comunità ashkenazita si differenzia dalle altre comunità ebraiche per alcuni riti religiosi particolari e la pronuncia dell'ebraico. NdT

7. Seguaci del Cassidismo, movimento ebraico misticheggiante, diffuso nella seconda metà del '700 nell'Europa orientale. Dove ha lasciato una grande eredità di canti e racconti. NdT

8. Yeshayahu Leibowitz, filosofo ebreo israeliano (Riga 1903 - Gerusalemme 1994). Figura di pensatore poliedrico (biochimico, medico e filosofo), formatosi a Berlino, si trasferì in Palestina nel 1936. Ottenne, nel 1941, la cattedra di biochimica all' Università ebraica di Gerusalemme, dove successivamente insegnò anche chimica organica e neurologia. Dopo il pensionamento, nel 1970, continuò a insegnare filosofia e storia della scienza. Fin dalla Guerra dei sei giorni, nel 1967, assunse una posizione critica verso la politica espansionistica e colonialistica del governo israeliano. Posizione che ha conservato fino alla sua morte, nel 1994. Da quel momento divenne un punto di riferimento per i movimenti culturali e politici anticolonialistici in Israele. NdT

9. «Partito degli operai di Eretz Israel» diretto da Ben Gurion ed egemonico fino al 1977.

10. Cfr, Isaac Deutscher, La révolution inachevée (La rivoluzione incompiuta), Oxford University Press, 1967, ultimo capitolo.

11. Moshavim: plurale della parola Moshav. Cooperative agricole costituite da diverse fattorie. Istituiti fin dagli anni venti dai sionisti socialisti, i moshavim si differenziano dai kibbutzim per l'enfasi data al lavoro comune. NdT

12. In Europa questa legislazione riguarda anche le unioni matrimoniali con rito solamente civile. NdT

13. Cfr, Levy Ishak Hayerushalmi, The Domineering Yarmulke (Il potente Yarmulke), Hakibbutz Hameuchad Publishing House, 1997, pp. 77-116

14. Cfr, The Domineering Yarmulke, op. cit., 159-163.

15. Michel Warschawski, Sulla frontiera, Città aperta edizioni, Enna, 2003

16. Tom Segev, Le Septième Million, les israélien et le génocide(Il settimo milione, gli israeliani e il genocidio), Liana Levi, 2003 (Edizione italiana, Mondadori)

17. La comunità ebraica presente in Palestina prima della costituzione dello Stato d'Israele.

18. Cfr. Seffi Rachlevski, Messiah's Donkey, Yedioth Aharonot publications, Tel Aviv, 1998, pp. 164-195.

19. Cfr. Sulla frontiera, op. cit. pp. 222-234

20. Messiah's Donkey, op. cit., pp. 196-217

21. Front Islamique du Salut: organizzazione algerina integralista islamica, nata nel 1992. NdT