2011

La norma e l'eccezione nel governo delle migrazioni
Lampedusa, le rivolte arabe e la crisi del regime confinario europeo (*)

Giuseppe Campesi (**)

Abstract

Le cosiddette rivolte Arabe hanno distrutto il precario equilibrio su cui negli ultimi anni era stato costruito il regime di controllo della frontiera Euro-mediterranea. Il punto di rottura è stato senza dubbio l'aumento di sbarchi sulle coste italiane a partire dal gennaio 2011 che ha innescato un complesso dibattito a livello europeo sulla necessità di riformare la Schengen governance. L'articolo analizza come il governo italiano abbia letteralmente "prodotto" la recente emergenza sbarchi attraverso la sua retorica discorsiva e le sue prassi di governo della frontiera, illustrando anche come la prerogativa sovrana di definire l'emergenza sia stata messa in questione tanto a livello sovra-nazionale che a livello sub-nazionale. L'analisi è svolta a partire da una discussione dei principali assunti della teoria della securitarizzazione e punta ad analizzare il complesso reticolo di rapporti istituzionali e politici all'interno del quale si è svolto il processo di produzione dell'emergenza. In conclusione l'articolo discute i possibili esiti della crisi del regime confinario Europeo, analizzando le proposte per una ridefinizione del meccanismo di governo del sistema Schengen recentemente avanzate dalla Commissione e dal Consiglio dell'Unione europea.

1. Introduzione. 2. Teoria della securitarizzazione. 3. Definire l'emergenza. 4. Governare l'emergenza. 5. Spazi d'indistinzione. 5.1. Lampedusa campo a cielo aperto. 5.2. La militarizzazione dell'asilo. 5.3. Campi temporanei. 6 Chiudere il rubinetto e svuotare la vasca. 6.1. Dispersione fisiologica. 6.2. Spazi di frontiera. 7. Lo spirito di Schengen. 8. Conclusioni.

1. Introduzione

Dal gennaio 2011 al maggio 2011 sono arrivati circa 28.000 migranti sulle coste italiane, e soprattutto sulla piccola isola Lampedusa, da anni ormai simbolo della lotta alle migrazioni irregolari che il governo italiano e l'Europa conducono nel Mediterraneo. Di questi la maggioranza sono immigrati provenienti dalla Tunisia, insieme ad altri migranti di origine sub-sahariana provenienti in parte dalla Libia. Numeri significativi, se si considera che nell'interno anno 2008, in cui si è registrato il record di sbarchi, sono arrivate circa 36.900 persone. Gli sbarchi degli ultimi mesi segnano certamente un punto di svolta rispetto ai dati degli ultimi due anni, durante i quali, come sia il governo italiano in carica che l'agenzia Frontex sostenevano, il modello di controllo della frontiera messo in campo sembrava aver definitivamente chiuso la rotta centro-mediterranea, spostando i flussi migratori irregolari in entrata verso l'Europa verso il confine greco-turco (1). Se analizzato dal punto di vista dell'Italia, il recente incremento del numero di sbarchi è certamente degno di nota, ma non legittima forse i toni allarmistici con cui è stato dipinto nel dibattito pubblico. È tuttavia dal punto di vista di Lampedusa che la vicenda va guardata, poiché è nella piccola isola pelagica che il governo ha provato a confinare il problema, producendo, letteralmente, un'autentica emergenza sbarchi.

Ciò che è avvenuto a Lampedusa dall'inizio del 2011 rappresenta forse il simbolo della crisi del modello di gestione dei confini costruito nell'ultimo decennio. A testimoniare il raggiungimento di un punto di rottura si può assumere un evento, la cui valenza simbolica non può essere sottovalutata: la riapertura del centro di primo soccorso di Lampedusa, in contrada Imbricola. La sua chiusura era, infatti, considerata il simbolo dei successi nella lotta all'immigrazione clandestina basata sugli accordi con i paesi terzi e la delocalizzazione del confine sulla sponda meridionale del Mediterraneo; essa certificava i successi di un governo che, attraverso la sua spregiudicata "diplomazia delle migrazioni" e la partnership con la Libia di Gheddafi, sosteneva di aver definitivamente risolto il problema degli "sbarchi clandestini" sui lembi meridionali del territorio italiano (2).

Le rivolte arabe hanno dunque distrutto il precario equilibrio su cui si basava tale modello e che, come sono adesso costretti ad ammettere anche gli osservatori meno critici, si reggeva sul lavoro sporco svolto da una serie di stati di polizia governati in regime di stato d'eccezione permanente. La crisi del regime confinario europeo è dunque soprattutto una crisi politica, non migratoria. Essa è stata innescata dal crollo delle strutture politiche e della rete di accordi e relazioni istituzionali che avevano consentito di bloccare le rotte migratorie che dall'Africa portano all'Europa passando per il Mediterraneo centro-meridionale, finendo per riverberarsi sulla complessa struttura istituzionale che a livello europeo era stata costruita negli ultimi dieci anni per la governance dei confini dell'Unione. Per questo, saremo forse costretti a considerare questa crisi come un punto di rottura simile a quelli che a partire dal 2001 hanno punteggiato la storia delle politiche migratorie europee, innescando delle accelerazioni nel processo di riforma: gli attentati del 2001, del 2004 e del 2005, il processo di allargamento a Est dei confini dell'Unione. Tutti eventi che hanno spinto ad una decisa riforma del sistema di gestione comune dei confini europei, alimentando un processo di scuritarizzazione della politica migratoria che è forse l'impronta originaria della politica europea in materia (3).

Il concetto di securitarizzazione è stato sviluppato della cosiddetta Copenhagen School of Critical Security Studies per indicare il processo attraverso il quale la comprensione di un particolare fenomeno politico e sociale è mediata da un "prisma securitario". Il concetto indica il processo di costruzione sociale che spinge un settore ordinario della politica nella sfera delle questioni relative alla sicurezza per mezzo di una retorica del pericolo che punta a giustificare l'adozione di misure speciali che eccedono il quadro giuridico e le ordinarie procedure di decisione politica (4). In altre parole, la securitarizzazione è il processo attraverso il quale una questione viene trasformata in un problema relativo alla sicurezza del tutto indipendentemente dalla sua natura obiettiva, o dalla rilevanza concreta della supposta minaccia. Il prisma securitario è un particolare frame teorico-politico attraverso cui una varietà sempre crescente di questioni vengono tematizzate. Tale frame è prodotto da attori politici e burocrati della sicurezza i quali riescono a canalizzare paure e ansie verso determinati argomenti, costruendo una legittimazione per il loro intervento o l'estensione delle loro prerogative. Come suggerisce Ole Weaver, "when a problem is securitized, the act tend to lead to specific ways of addressing it: threat, defence, and often state-centred solutions" (5). Anche le migrazioni, negli ultimi decenni, sono andate incontro ad un processo di securitarizzazione che è stato estensivamente studiato dalle scienze sociali (6). Ciò è avvenuto in parallelo ad uno scivolamento del significato di sicurezza nei cosiddetti "security studies" che ha portato alla securitarizzazione di nuovi ambiti come le minacce ambientali, o le questioni legate agli squilibri sociali, economici e demografici (7).

Uno dei limiti più evidenti della teoria della securitarizzazione è l'assenza di riflessione teorica sul concetto di "eccezione", che ha al contrario una lunga tradizione nella storia del pensiero poltico-giuridico ed è stato al centro del dibattito della teoria politica e giuridica contemporanea (8). Il paradigma classico della teoria della securitarizzazione si riferisce, infatti, ad una nozione essenzializzata di "stato di eccezione", costruita attorno al riferimento delle minacce esistenziali di natura militare alla sicurezza nazionale che è stato tradizionalmente al centro degli interessi dei teorici delle relazioni internazionali (9). Eccezione si confonde secondo questa prospettiva con l'"eccezione costituzionale", vale a dire la proclamazione dello stato d'assedio e la legge marziale in caso di guerra effettuata secondo le procedure che numerose costituzioni democratiche prevedono (10). In questa prospettiva la violazione delle ordinarie procedure di decisione politica e le deroghe al quadro normativo vigente che sostanziano i poteri d'emergenza si confondono con i cosiddetti "pieni poteri" attribuiti all'esecutivo durante lo stato d'assedio o lo stato di guerra, mentre il potere sovrano governa l'emergenza per mezzo di decreti e ordinanze che colmano il vuoto giuridico creatosi con la sospensione dell'ordinamento e facendo assumere alla sue decisioni "forza di legge".

Partendo da una simile nozione ristretta di emergenza molti hanno criticato l'idea che le migrazioni siano governate attraverso la logica dell'emergenza, sottolineando piuttosto come il regime migratorio europeo si caratterizzi per essere centrato su un modello di gestione del rischio in cui la deriva securitaria e la limitazione delle libertà personali si svolgono quotidianamente, penetrando gli ordinari strumenti giuridici senza la necessità di una drammatica proclamazione dello stato di emergenza (11). In realtà a partire dalla seconda metà del XX secolo la nozione di emergenza è stata progressivamente allargata rispetto alle previsioni delle costituzioni e ai classici della filosofia politico-giuridica moderna. Nella prassi costituzionale delle democrazie avanzate si assiste all'utilizzo di poteri straordinari attraverso leggi ordinarie di delega, senza il ricorso di una formale dichiarazione dello stato di emergenza nazionale, solitamente limitata a casi di gravi disordini interni o di minaccia militare proveniente dall'esterno. Questo, secondo l'opinione di Pasquino e Ferejohn, ha dato luogo ad un vero e proprio nuovo modello di governo dell'emergenza, che essi definiscono legislative model per distinguerlo dal modello costituzionale (12). Un modello in cui i poteri speciali vengono istituiti direttamente attraverso la legge ordinaria, oppure si delega in maniera permanente la facoltà di dichiarare lo stato d'emergenza e di attribuire i corrispondenti poteri eccezionali all'esecutivo. La nozione di emergenza, così come quella di sicurezza nazionale, ha subito in questo senso una forte diluizione, finendo per essere utilizzata per riferirsi anche ad altri tipi di crisi ambientali, economiche, umanitarie, ben al di là delle gravi minacce alla sicurezza nazionale che caratterizzano la teoria classica dell'emergenza e i poteri previsti dall'emergenza di tipo costituzionale.

La crisi di Lampedusa è un caso di studio particolarmente interessante per analizzare il rapporto tra norma ed eccezione in gioco nel processo di securitarizzazione delle migrazioni. Nel corso di tale vicenda si è assistito ad un aspro conflitto tra gli attori in campo circa il frame giuridico-politico da utilizzare per definire e governare l'emergenza, sino al punto che l'intero assetto della politica di governo della mobilità all'interno dello spazio europeo sembra essere radicalmente messo in questione. Analizzeremo la gestione della crisi da parte del governo italiano cercando di illustrare come la sua prerogativa sovrana di "definire l'emergenza" sia stata messa in questione da altri attori politici che agiscono tanto a livello sovranazionale, che a livello subnazionale. L'uso di poteri eccezionali da parte del governo, oltre a porre notevoli problemi per la garanzia dei diritti fondamentali delle persone coinvolte dal governo dell'emergenza, ha anche stimolato un ampio dibattito a livello europeo la cui posta in gioco sembra proprio la prerogativa sovrana di definire l'emergenza nel campo delle politiche migratorie. Anche in questo caso, come molte altre volte è avvenuto in occasione dell'invocazione dei poteri eccezionali, la sospensione momentanea del quadro giuridico ordinario effettuata per preservarne la tenuta in momenti e situazioni di crisi, secondo il modello della dittatura commissaria cui si è riferito Carl Schmitt, che ispira i poteri di emergenza previsti in molte democrazie occidentali, rischia di scivolare in un'alterazione permanente della sua struttura, come avviene nei casi di dittatura sovrana in cui la definizione dell'emergenza possiede sempre una carica eversiva in grado di ridefinire l'ordine giuridico-politico dato (13). Ci pare, infatti, che l'esito della crisi del regime confinario europeo innescata dalle rivolte arabe possa essere proprio una complessiva ridefinizione del meccanismo di governo di Schengen che rischia di assumere tratti apertamente securitari, con alcuni tra i paesi membri più influenti che richiedono un'estensione della loro prerogativa di sospendere gli accordi di Schengen in caso di crisi ai confini esterni d'Europa.

2. Teoria della securitarizzazione

Il modello classico della teoria della securitarizzatione si concentra sull'analisi linguistica dei securitarian speech-acts, secondo una prospettiva che pone l'enfasi sull'intenzione significante dell'autore dell'atto illocutorio (14). Coloro che hanno analizzato il processo di securitarizzazione delle migrazioni hanno sostanzialmente seguito tale prospettiva, ponendo l'enfasi sul comportamento strategico ora degli attori politici, ora degli esperti di sicurezza in quanto autori di securitarian speech acts funzionali alla conquista del consenso politico o di nuovi poteri e prerogative. L'enfasi sul ruolo e gli interessi dell'autore del discorso ha tuttavia in qualche misura fatto sì che il ruolo strutturante del contesto all'interno del quale tali attori si muovono venisse messo in secondo piano.

La base teorica per sviluppare un'analisi contestuale del processo securitarizzazione era tuttavia stata fornita dalla medesima scuola di Copenaghen allorché, ispirati dalla nozione di felicity condition teorizzata da Austin per l'esistenza degli atti illocutori, Ole Waever e Barry Buzan hanno tracciato il profilo delle facility conditions della securitarizzazione. Accanto alle condizioni interne, linguistico-grammaticali, all'atto illocutorio essi hanno, infatti, identificato una serie di condizioni esterne, non-discorsive, che possono facilitare o limitare il processo di securitarizzazione. Accanto all'atto linguistico in senso stretto, venivano identificati quali elementi del processo di securitarizzazione l'attore dello stesso e l'audience inteso quale contesto politico-sociale di riferimento (15). Nessuna comprensiva spiegazione è stata tuttavia fornita circa le relazioni che legano i diversi elementi contestuali da prendere in considerazione, di modo che la teoria della securitarizzazione della scuola di Copenaghen è rimasta intrappolata in una sorta di indecisione teorico-epistemologica tra una prospettiva in cui l'enfasi è posta sulla securitarizzazione in quanto atto illocutorio che produce la sicurezza per mezzo della sua sola capacità performativa, e una visione della securitarizzazione in quanto processo intersoggettivo che coinvolge diversi attori nel quadro di un determinato contesto sociale e politico (16).

Nella nostra analisi privilegeremo tale seconda prospettiva, provando a mettere in luce la rilevanza del contesto ambientale all'interno del quale gli attori del processo di securitarizzazione agiscono. Non è il linguaggio di per sé, ma il potere simbolico associato alla parola di determinati attori sociali ad avere un'efficacia performativa, producendo l'effetto di securitarizzazione, solo che tale potere non si situa nella sola performatività dell'atto linguistico medesimo, ma anche nell'azione concreta degli attori sociali e nella capacità che questi hanno di incidere sul contesto ambientale in cui agiscono. Il contesto è appunto la struttura di vincoli culturali, giuridici, istituzionali e politici che determinano le azioni strategiche che gli attori possono intraprendere in vista di un processo di securitarizzazione. Questo non per dire che gli attori siano completamente sovra-determinati dal ruolo delle strutture che definiscono i loro spazi d'azione, tant'è vero che continuiamo a riferirci all'idea di una strategia discorsiva, ma che il contesto determina una preliminare riduzione delle opzioni a disposizione, vincolando le risposte dei vari attori in gioco a determinati modelli strategici.

Il contesto del processo di securitarizzazione assume, come ha suggerito Holger Stritzel, due dimensioni differenti: una dimensione socio-linguistica ed una dimensione politico-istituzionale (17). Esso si svolge, infatti, all'interno di un quadro culturale che concretamente fornisce il repertorio semantico e simbolico cui l'attore può fare ricorso. L'atto illocutorio non è mai un atto puramente creativo, esso non può essere guardato come un evento isolato, ma si radica in un contesto di significati più o meno condivisi socialmente che determinano, in misura maggiore o minore, le condizioni di successo del processo di securitarizzazione. Quest'ultimo dipende dall'esistenza di un "empowering audience" (18) che legittima e conferma il frame securitario proposto dall'attore, per questo motivo egli deve essere capace di identificare i sentimenti, gli interessi e i bisogni del suo audience per ottenere l'effetto desiderato, utilizzando un linguaggio che sia in qualche misura in grado di comunicare con la prospettiva del suo uditorio. Il successo della securitarizzazione è legato all'esistenza di un ambiente ricettivo rispetto al linguaggio che viene utilizzato e al significato che il lessico della sicurezza che si utilizza assume in quel dato contesto. Come vedremo, gran parte degli sforzi definitori degli attori coinvolti nel processo di securitarizzazione della crisi di Lampedusa sono stati un tentativo di adattare la regolarità semantica del linguaggio della sicurezza ordinariamente utilizzato per parlare delle migrazioni, con le particolari circostanze contestuali. La difficoltà del caso è stata dettata dal fatto che diverse definizioni della situazione, con il relativo repertorio simbolico, si sono contese il campo, evidenziando tutta la complessità del contesto politico-istituzionale di riferimento.

È quest'ultimo, infatti, che mette determinati attori in condizione di incidere con minore o maggiore successo sul processo di securitarizzazione, fissando al contempo i limiti attorno ai quali il processo di definizione della norma e dell'eccezione si svolge. Nel caso della crisi di Lampedusa, il contesto giuridico, istituzionale e politico all'interno del quale gli attori si sono mossi era particolarmente complesso poiché frutto dell'articolarsi di tali dimensioni sui tre livelli di scala differenti: il livello sovranazionale; il livello nazionale; e il livello sub-nazionale. Se è vero che sono ancora gli Stati nazione a conservare il supremo potere di "definire l'emergenza", che è centrale per il processo di securitarizzazione, spingendo eventualmente per l'adozione di misure eccezionali in deroga alle ordinarie procedure di decisione politica e al quadro normativo di riferimento, è altrettanto vero che in numerosi settori della politica la loro sovranità è stata progressivamente erosa tanto a livello sovranazionale, che a livello subnazionale, dove un numero crescente di attori affiancano i governi nazionali nelle procedure di decisione politica e i vincoli giuridici internazionali limitano la possibilità di manipolare e sospendere il diritto interno per governare le emergenze.

  Livello sopranazionale Livello nazionale Livello subnazionale
Quadro giuridico Diritto internazionale ed Europeo Diritto nazionale  
Quadro istituzionale Commissione; Frontex Governo; Agenzie di Pubblica Sicurezza; Agenzie di protezione civile; Consiglio Italiano dei rifugiati. Enti locali
Quadro politico Relazioni diplomatiche a livello bilaterale con i paesi terzi
Relazioni diplomatiche con gli altri paesi membri (EU Council)
Relazioni diplomatiche con l'Unione (EU Commission)
Relazioni con le agenzie ONU che si occupano di migrazioni e asilo (UNHCR).
Relazioni politiche interne alla maggioranza
Relazioni politiche con le opposizioni.
Relazioni con altre agenzie e ONG coinvolte nella gestione delle migrazioni (IOM; Croce Rossa; Medici Senza Frontiere).
Relazioni politiche con le amministrazioni e i politici locali

Ciò è particolarmente vero nel campo delle politiche migratorie, dato che in Europa gli attori che operano a livello sovranazionale nella definizione e gestione delle politiche migratorie sono diversi e dotati di numerosi poteri per incidere sulla definizione e gestione delle crisi: il Consiglio dell'Unione europea agisce come organo di decisione politica e frame-work istituzionale per le relazioni diplomatiche tra gli Stati Membri dell'Unione, mentre la Commissione, che ha un ruolo di coordinamento fondamentale in materia di controllo delle frontiere esterne tramite la sua agenzia Frontex, svolge una funzione di mediazione istituzionale cruciale nella definizione delle politiche migratorie tra la prospettiva degli stati membri e la prospettiva dell'Unione. Un ruolo più marginale svolgono altre agenzie internazionali, come l'United Nations High Commissioner for Refugees (HNHCR) e l'International Organization for Migration (IOM), coinvolte molto spesso nella governance delle crisi migratorie, ma meno incisive nell'imporre una loro definizione politico-giuridica dei fenomeni che si tratta di governare. A livello subnazionale, invece, i governi nazionali sono costretti a confrontarsi con i poteri locali, sovente chiamati a gestire importanti competenze in materia di politica migratoria, pubblica sicurezza e protezione civile, ma soprattutto determinanti nella lotta politica nazionale per la conquista del consenso quando questa si gioca attorno alle paure e alle insicurezze della popolazione.

Questo complesso reticolo di attori è stato concretamente coinvolto nella definizione dell'emergenza nel caso della recente crisi migratoria verificatasi in Italia, dando vita ad uno scontro i cui esiti sono ancora in qualche misura incerti. Tale processo di interazione si è svolto all'interno di un contesto politico-istituzionale al di fuori del quale le diverse "definizioni dell'emergenza" proposte perdono gran parte della loro intelligibilità. L'audience, che nella versione classica della teoria della securitarizzazione è concepito come un elemento passivo che si limita a ricevere le definizioni di sicurezza proposte dagli attori politici dominanti, è al contrario una parte attiva dell'interazione sociale, per questo possiamo dire con Thierry Balzacq che il "processo di securitarizzazione non è una pratica autoreferenziale, ma un processo intersoggettivo" (19). Il contesto politico-giuridico all'interno del quale l'attore del processo di securitarizzazione è costretto a muoversi assume dunque una particolare forza strutturante, finendo per esercitare una pressione sulla strategia discorsiva adottata e costringendo l'attore principale ad una continua negoziazione in cui le immagini di pericolo e sicurezza, norma ed eccezione vengono costantemente ridefinite.

3. Definire l'emergenza

Il governo italiano, soprattutto attraverso il suo Ministro dell'interno Roberto Maroni, è stato il principale protagonista del processo di definizione dell'emergenza, solo che, come accennato, nel fare ciò si è dovuto confrontare con una serie di limiti politici e istituzionali che hanno concretamente strutturato il suo campo d'azione e la sua strategia discorsiva. Quest'ultima, inoltre, per risultare efficace ha dovuto essere calibrata secondo una diversa varietà di repertori semantici in base all'interlocutore principale del processo di securitarizzazione. Quello che si registra analizzando i documenti ufficiali e la rassegna stampa del periodo, è che il Ministro Maroni (e il governo per estensione) ha oscillato tra una posizione in cui vestiva i panni del "ministro della protezione civile", cavalcando la logica dell'"emergenza umanitaria" ed una in cui vestiva i panni del "ministro delle polizie" spingendo verso una decisa securitarizzazione della crisi. Tali oscillazioni sono state chiaramente dettate dalla diversa maniera di relazionarsi con i suoi interlocutori istituzionali per la gestione della crisi a livello sopranazionale e subnazionale da un lato, e la maggioranza politica che sostiene il governo dall'altro, spingendo il governo ad attingere alternativamente ad una riserva simbolica che faceva appello, non senza ambiguità, ora al tema della sicurezza umana dei migranti, ora a quello canonico della sicurezza nazionale.

La strategia discorsiva del governo è stata abbastanza chiara. Laddove si trattava di confrontarsi con le istituzioni europee, per ottenere supporto tecnico e finanziario, o la possibilità di derogare alle ordinarie procedure di controllo alla frontiera e per il rilascio dei titoli di soggiorno previste dal codice Schengen attraverso l'avvio delle procedure di protezione straordinaria previste della Direttiva 2001/55/CE, l'enfasi è stata posta sul piano dell'"emergenza umanitaria", lasciandosi andare a dichiarazioni esplicitamente allarmistiche soprattutto quando è esplosa la crisi libica. Il governo ha fatto ripetutamente riferimento al rischio di una "migrazione epocale", o addirittura di "dimensioni bibliche", azzardando in molti casi anche previsioni circa il numero di profughi che l'Italia si sarebbe trovata costretta ad accogliere ed accusando esplicitamente i suoi partner europei di inerzia politica.

Siamo davanti ad un esodo biblico e di fronte a questo l'Europa non sta facendo nulla. Tace: non ho sentito il presidente Barroso dire qualcosa. L'Italia è stata lasciata da sola (...) le persone che scappano da un Paese allo sbando hanno diritto a una protezione internazionale. (20)

Laddove invece i principali interlocutori politici del governo erano gli enti locali, chiamati a collaborare nella gestione dell'emergenza e ad accettare la violazione delle ordinarie procedure di decisione politica per mezzo della nomina di commissari speciali dotati di pieni poteri, la retorica discorsiva del Ministro e dei sui più stretti collaboratori è stata quella della "catastrofe umanitaria", con espliciti richiami alle situazioni in cui una calamità naturale impone unità d'intenti e decisioni rapide.

D'altronde, la crisi tunisina è una catastrofe umanitaria, come dopo un terremoto. E proprio come dopo un terremoto noi dobbiamo procedere. Stessi criteri di assistenza. (21)

Se va avanti così rischiamo di superare gli 80mila arrivi. È per questo che l'intervento è necessario e urgente. Questa crisi è come il terremoto d'Abruzzo, per questo abbiamo mobilitato la protezione civile. (22)

Né a livello europeo, né a livello locale gli interlocutori istituzionali del governo italiano sono stati convinti dalla retorica discorsiva dell'emergenza umanitaria, proponendo una lettura alternativa della crisi.

A livello sopranazionale gli attori coinvolti sono stati in parte ambigui nella definizione dell'emergenza. La Commissione si è inizialmente dimostrata possibilista rispetto all'avvio della procedura di protezione straordinaria, facendo alcune concessioni rispetto al supporto richiesto con insistenza dall'Italia. Tale insistenza ha tuttavia successivamente indotto la Commissione a sminuire la portata dell'emergenza e sottolineare l'adeguatezza del supporto fornito per gestire la situazione, spingendo verso un inquadramento della crisi di Lampedusa come un afflusso di immigrati irregolari certo particolarmente significativo, ma nondimeno gestibile per mezzo degli ordinari strumenti messi a disposizione dalla politica migratoria europea. Tale è stato invece l'orientamento seguito sin dal principio da parte del Consiglio dell'Unione europea, soprattutto per bocca dei rappresentati dei governi dei paesi membri, decisamente orientati a sminuire l'emergenza e ridurla ad un'ordinaria questione migratoria che l'Italia avrebbe il compito e gli strumenti per affrontare, seppure con il doveroso supporto delle istituzioni europee.

La posizione assunta dalle istituzioni europee ha finito, in sostanza, per proporre un frame interpretativo in base al quale l'afflusso di persone dalla Tunisia, per quanto particolarmente intenso, non è considerabile alla stregua una "crisi umanitaria", né può giustificare l'attivazione di strumenti straordinari, da riservare al caso degli eventuali profughi che potrebbero arrivare dalla Libia. Le persone sbarcate a Lampedusa dall'inizio del 2011 sono state così trattate alla stregua di migranti economici comuni giunti irregolarmente sul territorio europeo, persone da sottoporre alle ordinarie procedure di identificazione ed espulsione di cui le forze di polizia italiane sarebbero tenute a farsi carico. Una definizione simile dei fenomeni in atto è stata peraltro sin dal principio proposta dall'UNHCR, per bocca della sua rappresentante in Italia Laura Boldrini, che ha parlato di un tipico caso di mixed migration in cui, accanto ai normali migranti economici, vi sono alcuni potenziali richiedenti asilo. I suoi interventi pubblici sono sempre andati nella direzione di un invito ad abbassare i toni ed evitare eccessivi allarmismi, rafforzando in questo senso il frame interpretativo che veniva proposto dalle istituzioni europee.

L'Italia ha già dato prova d'essere pronta a gestire flussi migratori importanti. Negli anni '90 decine di migliaia di albanesi sbarcarono da noi al crollo del regime. E nel '99 arrivarono sulle coste pugliesi 35 mila kosovari. Non so valutare le minacce di Gheddafi. Posso dire però che il flusso tunisino ha già una componente europea. I migranti tunisini sono giovani, hanno motivazioni economiche, dicono di voler esercitare il loro diritto alla libertà, non credono al cambiamento politico del paese e temono che la fuga del turismo aggravi la povertà. La maggior parte guarda alla Francia, all'Olanda, non all'Italia (23).

Il rifiuto del frame dell'emergenza umanitaria è stato ancora più deciso, se pure per ragioni opposte, da parte degli interlocutori del governo che si muovo a livello subnazionale. In questo caso la spinta è stata immediatamente nel senso di una decisa securitarizzazione della crisi migratoria in atto. Gli enti locali, supportati in molti casi dalla maggioranza politica che appoggia il governo, hanno, infatti, invocato una completa assunzione di responsabilità da parte del Ministero dell'Interno, auspicando l'adozione di misure di sicurezza straordinarie per bloccare l'afflusso o limitare il rischio per l'ordine e la sicurezza che i "clandestini" giunti sul territorio nazionale sono supposti rappresentare. I riferimenti alla pericolosità presunta dei migranti in arrivo, alla loro natura di "falsi rifugiati", sono stati ricorrenti, soprattutto da parte degli esponenti politici degli enti nel cui territorio in cui il governo pensava di creare strutture di accoglienza.

Lampedusa non è invasa da rifugiati politici o disperati, ma da tunisini che fuggono da un territorio nel quale è ripresa la vita normale e sono state riaperte le aziende: lo so perché laggiù lavorano tante imprese venete. Laggiù la vita è tornata alla normalità. C`è un'evidente ripresa delle attività imprenditoriali. E quindi se arrivano da lì significa che sono clandestini. Che vanno portati nei CIE e poi espulsi. Quelli che arrivano con le scarpe da ginnastica firmate, il giubbottino all'occidentale e il telefonino in mano di sicuro non è gente che può chiedere asilo politico (...) Gli italiani sono indignati da questo spettacolo. Barconi di vera emergenza umanitaria, in passato, ne abbiamo visti tutti: erano carichi di gente di ogni tipo, donne, vecchi, bambini. Oggi sbarcano soltanto ragazzi di 25-35 anni senza famiglia che appaiono in carne, ben messi e non così sprovveduti. Qualche barcone così posso anche capirlo; questi invece sono tutti maschi che sborsano duemila euro agli scafisti per fare la traversata. (24)

Sulla medesima lunghezza d'onda si è posta la maggioranza di governo, soprattutto gli esponenti del partito della Lega Nord, spingendo sin dal principio verso una più decisa securitarizzazione delle migrazioni e inasprendo il tono delle loro dichiarazioni a partire dallo scoppio della crisi libica. In questa fase il controcanto costante delle dichiarazioni del governo che evocava la catastrofe umanitaria sono state le richieste di praticare un "blocco navale" per impedire lo sbarco dei profughi in arrivo, i respingimenti di massa e il trattenimento generalizzato nei centri per migranti dei nuovi arrivati. Tanto che lo stesso Ministro Maroni, soprattutto quando si trattava di giustificare la parziale militarizzazione delle operazioni di soccorso o ancora calmare gli animi del suo elettorato e dei governatori "amici" in vista dell'apertura di campi e centri di accoglienza, si è lasciato andare a dichiarazioni nel senso di una più schietta securitarizzazione dell'emergenza alludendo al fatto che gli sbarcati potessero essere criminali scappati dalle galere o, peggio, potenziali terroristi che tentano di infiltrarsi; comunque soggetti da sottoporre ad uno stretto di controllo di polizia alla stregua di "clandestini" comuni (25).

Più ambiguo in questo frangente è stato invece il ruolo dei professionisti della sicurezza impegnati a dare esecuzione alle direttive del governo. Questi hanno manifestato una chiara tendenza a contrastare, nei limiti della loro possibilità di intervenire nel dibattito pubblico, la tendenza da parte di alcuni attori politici ad invocare un'emergenza securitaria. Ciò, probabilmente, per due ordini di ragioni: da un lato perché le misure straordinarie proposte da alcuni esponenti politici avrebbero esposto coloro che sono chiamati concretamente ad attuarle a rischi eccessivi dal punto di vista della sicurezza professionale, apparendo come misure al limite della realizzabilità pratica oltre che giuridica; dall'altro perché una delle strategie discorsive tipiche dei burocrati della sicurezza è quella di rilanciare all'opinione pubblica un'immagine tranquillizzante di efficienza e professionalismo che chiaramente contrasta con la logica dell'emergenza. "Siamo pronti a qualunque impatto", dichiarava ad esempio il prefetto Ronconi, responsabile della polizia delle migrazioni e delle frontiere, "ogni immigrato sarà accolto e avrà un posto, com'è sempre accaduto finora." (26)

D'altra parte però, è possibile mantenere il controllo della situazione solo nella misura in cui l'occhio delle forze di sicurezza è sempre vigile per prevenire i rischi d'infiltrazioni criminali e terroristiche, che da sempre i burocrati della sicurezza vedono annidarsi nelle migrazioni. Per questo la retorica discorsiva degli esperti di sicurezza implica una permanente securitarizzazione delle migrazioni, anche senza invocare misure eccezionali. "Siamo in un'emergenza umanitaria", ribadiva il prefetto, "ciò non significa rinunciare alla lotta all'immigrazione clandestina"; soprattutto quella agli "stranieri delinquenti". La gestione della prima accoglienza viene tinta così di toni esplicitamente securitari, in una strana mescolanza di primo soccorso e analisi dei rischi: "all'arrivo siamo presenti subito insieme alle associazioni umanitarie, con i mediatori culturali che lavorano con noi. I mediatori aprono il dialogo con i migranti e riconoscono la loro lingua. Così ci consentono di identificare rapidamente la loro nazionalità". In pochi attimi bisogna riconoscere tra gli sbarcati i potenziali sospetti, scafisti, trafficanti di essere umani o addirittura potenziali terroristi infiltrati; il tutto con discrezione, cercando di non farsi ingannare da chi dissimula: "partono i colloqui dei nostri uomini, con tutti. Tra noi c'è chi parla, ma soprattutto chi osserva: occhi e orecchie ben aperte. Pochi agenti, massima osservazione (...) e nessuno può sfuggire!" (27)

Il linguaggio dell'emergenza utilizzato dal governo italiano è stato volutamente ambiguo, evitando una precisa definizione della crisi di Lampedusa secondo un frame puramente umanitario o securitario. Certamente tale ambiguità è stata dettata da ragioni di opportunismo politico, consentendo al governo di negoziare una soluzione della vicenda con diversi interlocutori istituzionali. In particolare si è tentato di esportare a livello europeo un linguaggio dell'emergenza tipico del contesto politico-giuridico italiano, con i suoi continui richiami alla catastrofe umanitaria, per giustificare una deroga alle ordinarie regole che disciplinano l'accesso dei cittadini dei paesi terzi allo spazio Schengen. Tale tentativo veniva condotto in parallelo ad una definizione schiettamente securitaria della crisi, resa necessaria dal confronto con gli interlocutori politici nazionali e sub-nazionali del governo, che finiva per mescolare pericolosamente le esigenze di protezione umanitaria degli immigrati sbarcati, con le esigenze di ordine pubblico tout court. La vicenda ha prodotto un esempio particolarmente interessante del potenziale securitario che il linguaggio della protezione umanitaria può assumere allorché viene cooptato dagli attori politici statali, aprendo la strada meccanismi emergenziali di governo in cui il beneficiario delle misure di sicurezza adottate tende a confondersi (28). Nella retorica e più ancora nella prassi emergenziale del Governo italiano, non è mai stato chiaro, infatti, se le misure adottate fossero dettate dalla necessità di rispondere ai bisogni di protezione umanitaria dei migranti sbarcati a Lampedusa, ovvero al bisogno di protezione della cittadinanza messa in pericolo dall'afflusso incontrollato di immigrati.

4. Governare l'emergenza

La mediazione simbolica attraverso cui si produce la securitarizzazione può essere svolta anche attraverso pratiche non-discorsive, come l'uso di particolari strumenti istituzionali, di determinate tecnologie, la creazione di poteri e competenze speciali. Il contesto politico-istituzionale fornisce certamente parte del vocabolario attraverso cui effettuare la securitarizzazione di un dato problema sociale, ciò sopratutto attraverso l'uso di determinate categorie giuridiche che, qualificando status soggettivi o situazioni particolari come pericolose, assumono concretamente la funzione di strumenti di securitarizzazione. Ma tale processo avviene anche attraverso l'attribuzione di specifiche competenze e la creazione di poteri in capo ai professionisti della sicurezza chiamati a governare il pericolo e le minacce. Come hanno sottolineato Didier Bigo e Thierry Balzacq (29), tali strumenti operativi assumono la forma di complessi istituzionali che, seguendo una prospettiva foucaultiana, potrebbero essere compresi come particolari aggregati di elementi discorsivi e non discorsivi. Tali dispositivi istituzionali sono naturalmente dispositivi di sicurezza che vengono attivati per il governo di determinati problemi, contribuendo a loro volta al framing securitario degli stessi. Essi svolgono un ruolo determinante nella gestione delle crisi, svolgendo al contempo una funzione definitoria delle minacce per il solo fatto di essere attivati (30).

Coloro che si sono concentrati sullo studio delle pratiche, in contrapposizione all'enfasi posta inizialmente dalla teoria della securitarizzazione sui discorsi, hanno tuttavia sottolineato la differente dinamica che guida il processo di securitarizzazione a seconda che si considerino le une a gli altri. Laddove i discorsi tendono, infatti, ad avere un carattere drammatizzante, teso ad enfatizzare la minaccia e ad invocare la rottura del quadro giuridico-politico ordinario, le pratiche securitarie sembrano funzionare attraverso una logica incrementale, che erode lentamente e quotidianamente il quadro giuridico-politico senza drammatiche invocazioni dello stato d'emergenza. Il governo dell'insicurezza nelle società contemporanee avrebbe in sostanza favorito una pervasiva diffusione della logica securitaria, finendo per produrre una sorta di stato d'emergenza a bassa intensità permanente basato sull'ampio utilizzo di dispositivi di governo del rischio (31). Quello che la vicenda di Lampedusa ci offre è un esempio di rottura dell'equilibrio securitario creato dal funzionamento quotidiano dei dispositivi basati sulla logica del risk management, con apertura di una fase di crisi acuta in cui vengono invocati i dispositivi di governo dell'emergenza e legittimata una prassi esplicitamente in deroga al quadro giuridico-politico di riferimento.

L'ordinamento italiano si caratterizza per una regolazione debole dello stato d'emergenza. La nostra costituzione regola esplicitamente solo lo stato di guerra, disciplinato dall'art. 11 e 78 della Costituzione sulla dichiarazione da parte del Parlamento dello stato di guerra e il conferimento al governo dei poteri necessari; e la decretazione d'urgenza, disciplinata dall'art. 77 della Costituzione che prevede la possibilità di attribuire in via provvisoria in "casi straordinari" di "necessità ed urgenza" il potere legislativo in capo al governo, senza però prevedere possibilità di deroghe all'ordinamento giuridico. Accanto a tali strumenti dell'emergenza costituzionale, esiste un vasto sottosistema dell'emergenza disciplinato dalla legislazione ordinaria (32). Nello specifico, particolarmente rilevante per la prassi di governo si è rivelato il potere di sostituzione degli ordinari organi di governo previsto dall'art. 5 Legge 225/1992 sulla protezione civile, che costituisce l'ombrello giuridico per mezzo del quale il governo può delegare poteri emergenziali a organi speciali, detti commissari straordinari, incaricati di agire in vista del superamento di una determinata situazione di crisi. Tale norma stabilisce che sia il governo a decretare lo stato d'emergenza per mezzo di un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (Dpcm), nominando un commissario dotato di poteri d'azione straordinari anche, eventualmente, in deroga alle norme dell'ordinamento giuridico.

Nonostante la giurisprudenza si sia affannata per cercare di limitare e regolare l'uso di tali poteri straordinari, è evidente che la normativa italiana prevede una sostanziale delega in bianco del potere di decretare l'emergenza in capo al governo in tutti quei casi in cui non sia in questione una minaccia alla sicurezza nazionale in senso stretto. Di fatto, nella prassi costituzionale e amministrativa italiana si è registrata la tendenza ad abusare di tali poteri d'emergenza per la gestione delle crisi più disparate: economiche, ambientali, umanitarie, securitarie, creando una sorta di modello di governo parallelo alle strutture politiche e giuridiche ordinarie (33). La gestione della politica migratoria ed in particolare il governo della prima accoglienza nelle regioni dove si registrano il numero maggiori di sbarchi di immigrati irregolari (la Sicilia in particolare) è, ad esempio, di fatto sottoposto al regime di stato di emergenza dal 2002, tanto che ormai la nozione di "emergenza sbarchi" diffusa nella retorica politico-giornalistica è diventata una nozione giuridica fondamentale per giustificare l'adozione e la reiterazione da parte del governo dei decreti previsti dalla legge 225/1992 (34).

Nella gestione della crisi di Lampedusa, il governo italiano ha fatto ricorso a questi poteri emergenziali quasi immediatamente. Il 12 febbraio 2011, infatti, per mezzo di un Dpcm è stato dichiarato lo stato di emergenza sul territorio nazionale, definendo tale emergenza come "umanitaria". Il provvedimento oscillava, tuttavia, come già la strategia discorsiva degli uomini di governo, tra un frame interpretativo umanitario e uno securitario, in cui esigenze di protezione dei migranti ed esigenze di difesa dell'ordine pubblico si sono mescolate. Vista la probabilità di un aggravarsi della situazione, il decreto ravvisava, infatti, "la necessità di approntare misure di carattere straordinario ed urgente finalizzate alla predisposizione di strutture idonee per le necessarie forme di assistenza umanitaria, assicurando nel contempo l'efficace contrasto dell'immigrazione clandestina e l'identificazione di soggetti pericolosi per l'ordine e la sicurezza pubblica nazionale" (35).

Con una successiva Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri (Opcm) n. 3924 del 18 febbraio 2011, il governo ha poi nominato commissario straordinario all'emergenza sbarchi il prefetto di Palermo Giuseppe Caruso, attribuendogli una vasta serie di poteri speciali in deroga all'ordinamento giuridico. Il prefetto, in deroga alle norme vigenti "in materia ambientale, paesaggistico territoriale, igienico-sanitaria, di pianificazione del territorio, di polizia locale, e salvo l'obbligo di assicurare le misure indispensabili alla tutela della salute e dell'ambiente" (Opcm n. 3924/18 febbraio 2011, art. 1.2), definisce i programmi di azione per il superamento dell'emergenza, censisce ed identifica i cittadini sbarcati sul territorio, identifica "strutture ed aree anche da attrezzare" (art. 1.2c), destinate al governo dell'emergenza, vale a dire identifica ed eventualmente che crea ex-novo i luoghi in cui effettuare il primo soccorso, l'identificazione e la definizione dello status giuridico delle persone sbarcate. A tal fine può requisire, espropriare beni di privati per ragioni di pubblica utilità, e si avvale della collaborazione della forza pubblica, nonché di un contingente straordinario di 200 militari messigli a disposizione dal Ministero della Difesa. In particolare, nello svolgere le sue funzioni, il prefetto non è tenuto ad alcuna forma di concertazione con gli enti locali e le altre organizzazioni ordinariamente coinvolte nelle governance delle migrazioni, dato che, come recita l'ordinanza, egli può "attivare le necessarie forme di collaborazione con la Regione, altri soggetti pubblici, e, per i profili umanitari e assistenziali con la Croce Rossa Italiana, con l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, e l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni" (art. 3.1).

In questa prima fase, pur creando un sistema parallelo di gestione dell'emergenza in capo al prefetto di Palermo e del suo contingente speciale di polizia, vigili del fuoco e militari, il governo lascia aperta la strada della concertazione e della condivisione delle scelte con gli enti locali e le altre organizzazioni coinvolte. Anche se, sin dal principio, la scelta di optare per la strada dell'azione d'imperio o della concertazione è apparsa sopratutto legata alle relazioni politiche tra i responsabili del governo e i rappresentati dei poteri locali, con il Ministro Maroni attento a tenere conto delle esigenze dei governatori locali vicini alla sua maggioranza politica. È chiara inoltre l'intenzione di confinare lo "stato di emergenza" al solo territorio siciliano, evidenziata dalla nomina come commissario straordinario del prefetto di Palermo e dalle sue mosse iniziali, indirizzate a cercare un dialogo con interlocutori istituzionali legati al territorio siciliano (gli altri colleghi responsabili della pubblica sicurezza e della protezione civile sul territorio, gli esponenti politici delle aree territoriali coinvolte dall'emergenza). Tale intenzione era riflessa nel medesimo preambolo dell'Opcm del 18 febbraio, il quale sottolineava la necessità di interventi straordinari per far fronte "all'insufficienza delle attuali strutture destinate all'accoglienza o al trattenimento dei cittadini sbarcati sulle coste italiane rispetto all'eccezionalità del flusso migratorio registrato negli ultimi giorni, con particolare riferimento a quelle situate nel territorio della Regione siciliana".

Il tentativo di governare l'emergenza confinandola al territorio siciliano e, come vedremo, all'isola di Lampedusa si sarebbe rivelato fallimentare, costringendo il governo a concepire nello spazio di un mese e mezzo un piano nazionale per l'accoglienza e la dislocazione su tutto il territorio nazionale dei migranti sbarcati in Sicilia. Lo sviluppo di tale piano è stato particolarmente difficoltoso, poiché il governo si è trovato costretto a tentare preliminarmente la strada della concertazione con gli enti locali, soprattutto per evitare di irritare i politici locali vicini alla maggioranza di governo alla vigilia di importanti elezioni amministrative.

La nuova fase della gestione dell'emergenza si è aperta ufficialmente con l'emanazione dell'Opcm n. 3933 del 13 aprile 2011, anche se le trattative con gli enti locali per la definizione del piano erano cominciate già a fine marzo. Con questa ordinanza il Capo del Dipartimento della protezione civile nazionale ha rilevato il prefetto di Palermo nel suolo di commissario straordinario per la gestione dello "stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale" legato "all'eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa". Tutta la macchina dell'emergenza è stata così affidata alla Protezione Civile, bypassando sostanzialmente il sistema ordinario di accoglienza previsto dalla normativa italiana e centrato sul Servizio di protezione per i richiedenti asilo (Sprar) che opera di concerto con gli enti locali nella gestione dei progetti di accoglienza e inserimento sociale dei richiedenti asilo, nonché la rete dei centri di accoglienza per immigrati prevista dalla ordinaria normativa sull'immigrazione (36). L'ordinanza stabilisce, infatti, che il commissario delegato: "individua, adegua, allestisce o realizza, con procedure d'urgenza, le strutture per il ricovero e l'accoglienza, avviandole alla gestione anche per il tramite dei Prefetti all'uopo nominati soggetti attuatori. Il Commissario delegato può altresì utilizzare, previa intesa con il Ministero della Difesa, beni immobili militari destinati alla dismissione ancora in uso al medesimo Dicastero per il periodo necessario a fronteggiare l'emergenza, al termine del quale i medesimi beni destinati alla dismissione rientrano nella disponibilità esclusiva del Ministero della difesa" (Opcm 13 aprile 2011 n. 3933, art. 1.4).

La strategia di governo dell'emergenza del governo italiano ha avuto, da subito, quali interlocutori privilegiati anche le istituzioni e i partner europei, anche se a livello europeo non sono previsti poteri emergenziali analoghi a quelli che sono attribuiti agli stati nazionali. Tuttavia, tra i meccanismi di governo delle migrazioni esiste uno strumento che consente di attivare una forma di "protezione temporanea" per ragioni umanitarie in base alle disposizioni della Direttiva 2001/55/CE, prevedendo anche un piano per la distribuzione dei profughi su tutto il territorio dell'Unione. La strategia discorsiva del governo italiano, con i suoi costanti riferimenti alla "emergenza umanitaria" e il ricorso all'immagine di un imminente "esodo biblico", puntava evidentemente a raccogliere il consenso politico necessario a livello Europeo per attivare la protezione temporanea; anche se nella prima fase la richiesta di attivazione del meccanismo della protezione temporanea non venne ufficialmente effettuata, ma solo evocata tramite il riferimento alla necessità di attivare un meccanismo di burden sharing.

L'appello all'Europa è stato immediato da parte dell'Italia, che ha indirizzato una formale richiesta di aiuto alla Commissione Europea e a Frontex già il 15 febbraio (37). Al centro delle richieste del Ministro Maroni, come precisa la sua portavoce, vi sono "l'intervento di Frontex per controllare il Mediterraneo, gestire i centri per gli immigrati e rimpatriare i clandestini, ma soprattutto il rispetto del principio del burden sharing nella gestione di quella che il governo italiano presenta ai sui interlocutori EU come una "crisi umanitaria" (38). Nel suo intervento del 15 febbraio 2011 davanti alla sessione plenaria del Parlamento Europeo, la commissaria europea agli Affari Interni Cecilia Malmström si è inizialmente dimostrata disponibile rispetto alle richieste dell'Italia, ribadendo come la questione dell'afflusso di immigrati dai pesi del nord-africa fosse "questione che riguarda l'intera Unione Europea", e annunziando l'attivazione di un piano di aiuti finanziari e supporto tecnico da parte dell'agenzia Frontex. Tuttavia il suo discorso evidenziava al contempo l'intenzione di rifiutare il frame dell'emergenza umanitaria su cui insisteva l'Italia, invitando a mettere in campo azioni politiche per favorire il rimpatrio dei migranti irregolari giunti dalla Tunisia verso il loro paese d'origine (39). A testimoniare l'attitudine dell'Unione a considerare la crisi di Lampedusa come un'ordinaria questione di migrazioni irregolari da governare per mezzo degli strumenti di controllo delle frontiere a disposizione degli stati membri, è giunto l'intervento dell'agenzia Frontex, la quale ha anticipato di qualche settimana l'avvio della Joint Operation HERMES che si svolge nell'area del Mediterraneo centrale. All'operazione hanno preso parte circa 50 esperti nelle procedure di identificazione degli immigrati, nonché mezzi tecnici come navi e aerei messi a disposizione da diversi paesi europei. L'opzione per l'impiego di una delle ordinarie Joint Operation che nel quadro dell'European Patrol Network si svolgono ogni anno nel Mediterraneo, senza effettuare ricorso allo strumento di intervento straordinario che pure Frontex avrebbe a disposizione, il cosiddetto RABIT che è stato operativo da ottobre 2010 a marzo 2011 al confine greco-turco, rafforza l'impressione che la Commissione fosse sin dal principio orientata nel senso di rifiutare un inquadramento emergenziale della situazione creatasi a Lampedusa.

I passaggi istituzionali successivi a livello europeo hanno confermato le indicazioni iniziali. Il Consiglio in materia di giustizia e affari interni (JHA Council) del 24 febbraio, che secondo le background notes aveva in agenda numerose questioni fondamentali relative alla politica migratoria e alla gestione delle frontiere EU (40), ha dibattuto eccezionalmente anche la crisi di Lampedusa, originariamente non calendarizzata, rigettando duramente gli allarmismi del governo italiano. I partner europei si sono dichiarati disposti a concedere supporto tecnico e finanziario all'Italia, rafforzando la missione Frontex operativa nell'area, ma hanno respinto le proposte del Ministro Maroni di distribuire quelli che il governo italiano definiva "profughi" su tutto il territorio europeo. Durante il Consiglio dell'Unione europea (EU Council) straordinario dell'11 marzo, i paesi membri hanno in seguito ulteriormente rinnovato la loro solidarietà ai paesi colpiti dai flussi migratori, invitando la Commissione a rafforzare l'azione di Frontex e preparare un piano per la migliore gestione dei flussi da discutersi entro il Consiglio previsto per fine giugno.

The Member States most directly concerned by migratory movements require our concrete solidarity. The EU and the Member States stand ready to provide the necessary support as the situation evolves. The EU, in particular through the Frontex Hermes 2011 operation, will continue to closely monitor the impact of events on migratory movements both within and from the region. In particular, Member States are urged to provide further human and technical resources to Frontex, as required. The Commission is invited to make additional resources available. The European Council calls for rapid agreement to be reached on the regulation enhancing the agency's capabilities. (41)

Conclusioni che sono state reiterate, senza sostanziali variazioni nella forma e nella sostanza, in occasione del Consiglio dell'Unione del 25 marzo.

The European Council also looks forward to the presentation by the Commission of a Plan for the development of capacities to manage migration and refugee flows in advance of the June European Council. Agreement should be reached by June 2011 on the regulation enhancing the capabilities of Frontex. In the meantime the Commission will make additional resources available in support to the agency's 2011 Hermes and Poseidon operations and Member States are invited to provide further human and technical resources. The EU and its Member States stand ready to demonstrate their concrete solidarity to Member States most directly concerned by migratory movements and provide the necessary support as the situation evolves.

Il vero punto di rottura si è tuttavia registrato in occasione del JHA Council dell'11 aprile 2011, quando il governo italiano ha formalmente chiesto alla Commissione e ai partner EU di attivare il meccanismo di protezione straordinaria previsto dalla Direttiva 2001/55/CE. La reazione dei partner europei è stata decisa, chiudendo definitivamente ogni possibilità per l'attivazione della protezione straordinaria nella gestione del caso degli immigrati provenienti dalla Tunisia. Come ha dichiarato Cecilia Malmström all'esito del Consiglio: "la maggioranza dei paesi ritiene che la direttiva può essere utilizzata ma che non siamo ancora al punto di farlo". "La Commissione ha ragione", ha osservato, da parte sua, il Ministro dell'Interno spagnolo Rubalcaba, "non si può attivare la clausola di solidarietà di fronte a questa situazione. I migranti tunisini sono illegali, e bisogna riportarli in Tunisia." (42)

Le conclusioni ufficiali del Consiglio dell'Unione sono state naturalmente più velate. Da un lato si è riaffermata la necessità:

for genuine and concrete solidarity towards Member States most directly concerned by migratory movements and calls on the EU and its Member States to continue providing the necessary support as the situation evolves, such as by assisting the local authorities of the most affected Member States in addressing the immediate repercussions of migratory flows on the local economy and infrastructure" (...) "Considering the need for further resources to respond to the situation, the Council welcomes the intention of the Commission to mobilize supplementary funds that can be made available to Member States or FRONTEX at short notice when needed. (43)

Dall'altro però, le medesime conclusioni sottolineavano con decisione come le risposte messe in campo dalle istituzioni europee sarebbero state sufficienti nel breve termine per gestire la situazione creatasi nel Mediterraneo centrale, chiudendo la porta a qualsiasi definizione in senso emergenziale della crisi migratoria in corso:

The Council underlines that the measures mentioned in the paragraphs above represent the immediate answer to the crisis situation in the Mediterranean, but that it is also crucial to put in place a more long-term sustainable strategy to address international protection, migration, mobility and security in general, and taking also the secondary movements to other Member States into account. (44)

Lo scontro tra governo italiano e istituzioni europee replica una dinamica piuttosto consolidata nel modello di governance dei confini esterni dell'Unione che è stato sviluppato negli ultimi dieci anni, con i paesi membri più esposti ai flussi migratori provenienti da sud pronti ad invocare l'emergenza per ottenere supporto tecnico-finanziario da parte dei partner europei, oltre che una più ampia condivisione di responsabilità, e le istituzioni dell'Unione che invitano ad una gestione delle frontiere secondo le procedure e gli strumenti ordinari messi a disposizione dalla politica europea (45). Apparentemente, dunque, la spinta nel senso di una securitarizzazione del controllo della frontiera sembrerebbe provenire dai paesi membri, con le istituzioni europee a svolgere il ruolo virtuoso dell'attore de-securitizzante. In realtà il quadro è più complesso di come potrebbe apparire ad una lettura superficiale delle relazioni tra governi nazionali ed istituzioni europee. Come la vicenda della crisi di Lampedusa illustra bene, infatti, entrambe le posizioni finiscono per produrre un effetto di securitarizzazione: da un lato il linguaggio emergenziale utilizzato dal governo italiano è stato fortemente ambiguo, certo esso è servito per provare a coinvolgere i partner europei nella gestione della crisi, ma al contempo, di fronte alle loro resistenze, ha come vedremo legittimato un modello di governo della crisi basato su una prassi di aperta in violazione dell'ordinamento giuridico e delle garanzie costituzionali, con pesanti conseguenze per i diritti dei migranti. Dall'altro lato la risposta delle istituzioni europee, pur cercando di limitare gli allarmismi, continuava a parlare il linguaggio della sicurezza e del controllo delle migrazioni irregolari, spingendo verso una criminalizzazione degli immigrati in arrivo dalla Tunisia e rafforzando le spinte nel senso di una più decisa securitarizzazione della crisi che, come vedremo, sono venute dal livello subnazionale.

5. Spazi d'indistinzione

Come accennato, il governo dell'emergenza è stato impostato secondo due fasi successive dal Ministero dell'Interno italiano. In una prima fase si è tentato di gestire l'emergenza confinandola sul territorio siciliano, prevalentemente a Lampedusa; in una seconda fase, quando la situazione sull'isola pelagica si è fatta insostenibile, il governo si è trovato costretto a pianificare la dislocazione degli immigrati su tutto il territorio nazionale. Tratto distintivo di tale modello di gestione dell'emergenza è stato il ricorso allo strumento del trattenimento degli immigrati in luoghi che, seguendo le indicazioni di Giorgio Agamben, potremmo definire spazi di indistinzione giuridica. Tali spazi assumono, infatti, la configurazione di campi, nel senso di strutture istituzionali che funzionano al di fuori del quadro giuridico che regola gli ordinari luoghi di reclusione e detenzione, ma sono governati da un regime di stato d'eccezione (46). Le ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri che abbiamo discusso sopra hanno ripetutamente attribuito il potere ai commissari straordinari nominati per la gestione dell'emergenza di istituire "strutture", o "aree anche da attrezzare", in cui trattenere i migranti. Pur non prevedendo deroghe esplicite alla normativa italiana ed europea che regola il trattenimento degli immigrati in centri di detenzione, i loro generici riferimenti alla possibilità di violare le norme dell'ordinamento giuridico per superare la situazione di emergenza hanno legittimato una prassi che ha aperto una breccia nel quadro normativo, producendo spazi ai margini della legge in cui l'ordinamento giuridico è di fatto sospeso e la polizia agisce provvisoriamente come sovrana, colmando con i suoi pieni poteri il vuoto giuridico creatosi (47).

Secondo la normativa italiana esistono tre tipologie di centri per immigrati: (a) i Centri di accoglienza (CDA), due dei quali sono anche Centri di Primo Soccorso ed Accoglienza (CPSA), disciplinati dalla Legge n. 563/1995 e destinati a garantire un primo soccorso allo straniero irregolare rintracciato sul territorio nazionale. L'accoglienza in questo tipo di centri è limitata al tempo strettamente necessario per stabilire l'identità e la legittimità della sua permanenza sul territorio o per disporne l'allontanamento. (b) I Centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA), disciplinati dal Dpr. n. 303/2004 e dal D.Lgs n. 25/2008, nei quali viene inviato e ospitato per un periodo variabile di 20 o 35 giorni lo straniero richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento o che si è sottratto al controllo di frontiera, per consentire l'identificazione o la definizione della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato. (c) I Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), strutture disciplinate dall'art. 14 del Testo Unico sull'Immigrazione D.Lgsn. 286/1998 destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, degli stranieri extracomunitari irregolari e destinati all'espulsione. Dall'8 agosto 2009, con l'entrata in vigore della Legge n. 94/2009, il termine massimo di permanenza degli stranieri in tali centri è passato da 60 a 180 giorni complessivi.

Le aree attrezzate e le strutture create sotto l'ombrello dei poteri di emergenza concessi dal governo hanno a lungo funzionato in una situazione di incertezza giuridica circa la loro natura e circa lo status delle persone ospitate al loro interno. Tale situazione è stata volontariamente prodotta dal governo italiano per evitare che i migranti sbarcati a Lampedusa fossero sottoposti tanto al regime giuridico dei richiedenti asilo, tanto al regime giuridico degli immigrati irregolari. In entrambi i casi, infatti, dopo un transito di breve durata nei CDA, gli immigrati avrebbero dovuto essere instradati o verso un CARA, per la definizione della loro domanda di protezione internazionale, o verso un CIE per avviare le procedure di allontanamento dal territorio dello stato. Entrambe le soluzioni avrebbero costretto il governo ad accettare il rischio di dover rilasciare sul territorio dello Stato gli immigrati: nel caso d'inoltro di una richiesta d'asilo, infatti, l'immigrato viene schedato nel sistema di EURODAC ed in attesa della definizione della sua domanda è parzialmente libero di circolare sul territorio, ma senza poter lasciare l'Italia verso altri paesi Europei; nel caso di un provvedimento di espulsione emanato in base all'art. 14 del Testo Unico sull'Immigrazione, è ormai di diretta applicazione anche sul territorio dello Stato la direttiva 2008/115/CE, c.d. "direttiva rimpatri", che introduce un meccanismo per effettuare il rimpatrio dello straniero "ad intensità graduale", privilegiando la partenza volontaria dell'immigrato rispetto al rimpatrio coatto con trattenimento nei centri di detenzione (art. 7). In quest'ultima ipotesi, a meno che la polizia non provi che sussiste il pericolo di fuga o che il soggetto in questione rappresenta un pericolo per l'ordine e la sicurezza (art. 7.4), lo straniero deve essere rilasciato con in mano un ordine di abbandonare il territorio dello Stato, ma essendo ormai schedato nel Sistema Informativo Schengen (SIS) resta impossibilitato a muoversi all'interno dello spazio europeo.

Il governo italiano ha dunque consapevolmente protratto nel tempo la situazione di incertezza giuridica degli immigrati, confinandoli nello spazio di indistinzione di aree, campi e strutture il cui statuto legale non è mai stato chiarito, allo scopo di poter protrarre nel tempo la detenzione arbitraria degli immigrati sbarcati a Lampedusa in attesa che le trattative diplomatiche in corso con gli altri paesi europei e la Tunisia consentissero una soluzione dell'emergenza che evitasse la permanenza degli stranieri sul territorio italiano.

5.1. Lampedusa campo a cielo aperto

Nonostante il costosissimo sistema di risk analysis gestito da Frontex (48)e l'esito già determinato della rivolta politica tunisina, scoppiata a dicembre 2010, le autorità italiane sono state colte impreparate dal volume degli sbarchi. L'impreparazione è tanto più sorprendente se si considera che, come già accennato, è dal 2002 che l'isola è sottoposta ad uno stato di emergenza permanente. Nella prima fase dell'emergenza, sull'isola di Lampedusa scarseggiava anche il personale di pubblica sicurezza, i medici e il personale di protezione civile in grado di gestire l'afflusso di persone. Il centro di primo soccorso di Lampedusa, che ha una capienza di 850 posti ed era stato chiuso sulla base dell'assunto che gli accordi siglati con la Libia avrebbero definitivamente risolto il problema degli sbarchi, è rimasto inizialmente inattivo in conseguenza di direttive ministeriali (49). La prima accoglienza si è svolta dunque all'addiaccio e tale situazione si è protratta fino al momento in cui il prefetto Giuseppe Caruso non ha deciso di riaprire il centro di contrada Imbricola, dopo tre giorni di sbarchi ininterrotti e quasi 3000 arrivi. Il numero di sbarchi di questa prima fase, ma sopratutto le direttive ministeriali che suggerivano di trattenere tutti gli sbarcati sull'isola in attesa di nuove disposizioni, hanno tuttavia rapidamente saturato il centro di Lampedusa, che è arrivato ad ospitare oltre 2500 persone nelle fasi più critiche, costringendo il resto delle persone sbarcate sull'isola a trovare una sistemazione di fortuna per passare la notte.

In questa fase si sono segnalate anche una serie di ordinanze di polizia del sindaco di Lampedusa De Rubeis, una prima contro l'abuso di alcool e una seconda contro l'accattonaggio e il bivacco. Provvedimenti diretti ad impedire, secondo le parole del sindaco, la libera circolazione dei migranti sull'isola, e limitare i "comportamenti non decorosi utilizzando luoghi pubblici come sito di bivacco e deiezioni". Simili provvedimenti diretti nei confronti di persone letteralmente accampate sull'isola e costrette alla ricerca di sistemazioni di fortuna in assenza di servizi igienici, hanno avuto il sapore di un tentativo di istituire una sorta di coprifuoco permanente. Non a caso essi hanno attirato le attenzioni del Questore di Agrigento, che ha poteri di controllo sul potere di ordinanza del sindaco, il quale ha inoltrato un esposto alla Procura della Repubblica contro il sindaco De Rubeis per incitazione all'odio razziale. La preoccupazione del Questore era evidentemente quella che eccessive limitazioni della libertà di circolazione dei migranti sull'isola avrebbero potuto rendere la situazione ingestibile, alimentando le tensioni (50). Tensioni che, nonostante le cautele delle forze in campo sono progressivamente montate, fino ad esplodere in una serie interminabile di proteste, rivolte, risse, scontri verbali ed atti di autolesionismo a partire dalla prima settimana di marzo.

Lampedusa è stata dunque trasformata in un autentico centro di accoglienza a cielo aperto, con gli immigrati liberi di scorazzare per l'isola, costretti a dormire all'aperto in mezzo ai rifiuti e alle deiezioni, trattenuti sulla stessa in attesa di un trasferimento sul continente in una situazione assolutamente ambigua dal punto di vista giuridico. Il loro confino di polizia sull'isola era testimoniato dal fatto che la forza pubblica controllasse attentamente tutti i mezzi che si imbarcavano sui traghetti diretti verso il continente (51). Solo alcuni immigrati, tra cui i casi più difficili dal punto di vista sanitario, venivano trasferiti sul continente nei CARA o CIE, in gran parte senza nessun criterio e solo sulla base della disponibilità di posti e in evidente violazione delle norme che regolano il trattenimento nelle diverse strutture. La maggior parte degli sbarcati è rimasta letteralmente confinata sull'isola ben oltre il tempo necessario alle operazioni di primo soccorso e identificazione, anche in questo caso in violazione delle norme che dispongono che il trattenimento nelle strutture di prima accoglienza deve essere di breve durata. La Legge n. 563/1995, anch'essa frutto di un decreto di necessità e urgenza convertito solo in secondo momento in legge, stabilisce che i CSPA e i CDA servano per il primo soccorso e l'identificazione. Tale normativa non fissa a dire il vero i diritti degli stranieri trattenuti in tali strutture, né determina il tempo massimo per il trattenimento, anche se a tal fine giunge in soccorso il disposto dell'art. 13 della Costituzione, che stabilisce che qualsiasi provvedimento di privazione della libertà personale deve essere convalidato dall'autorità giurisdizionale entro 96 ore. Per questo motivo si era nel tempo stabilita una prassi che prevedeva il rapido trasferimento delle persone giunte a Lampedusa e ospitate nel CPSA presso le altre strutture di accoglienza dislocate sul continente. Tra il mese di febbraio e di marzo 2011, gli immigrati giunti a Lampedusa sono stati al contrario trattenuti indebitamente sull'isola, senza che un giudice potesse pronunziarsi sul provvedimento limitativo della libertà personale e senza che la loro posizione giuridica rispetto alle norme che regolano l'accesso al territorio dello Stato fosse chiarita (52).

Questa fase di confino di polizia dei migranti è perdurata per tutto il mese di marzo, fino a quando il Ministro Maroni si è deciso ad avviare un massiccio piano di dislocazione dei migranti sul continente in campi o centri di accoglienza allestiti ex novo. La data che segna il passaggio alla fase successiva è l'arrivo della nave militare San Marco, annunziata per il 23 marzo a Lampedusa con la missione di prendere a bordo circa 700 migranti per trasferirli sul continente verso una destinazione ignota. La prassi seguita per questo primo trasbordo di massa sarebbe stata caratteristica di tutte le operazioni di deportazione effettuate a partire dalla fine di marzo, con notizie contraddittorie sulla destinazione finale del "carico di migranti" e gli enti locali che scoprono solo alla fine di essere stati eletti come luogo d'accoglienza. Secondo le cronache, dopo aver imbarcato il suo carico di oltre 500 migranti, sono servite più di sei ore al comandante della nave prima di capire quale sarebbe stata la sua destinazione finale, quando finalmente da Palermo è arrivata l'indicazione di fare rotta verso Augusta. Gli immigrati, che secondo le dichiarazioni del governo erano tutti richiedenti asilo (53), sarebbero stati trasferiti nelle strutture del residence Mineo, scatenando le proteste degli amministratori locali.

5.2. La militarizzazione dell'asilo

Sin dalle prime fasi dell'emergenza il prefetto Caruso è stato chiamato ad individuare, di concerto con i colleghi responsabili della pubblica sicurezza in Sicilia e gli enti locali, una serie di luoghi in cui approntare l'accoglienza degli immigrati qualora la situazione sull'isola di Lampedusa fosse divenuta ingestibile. Il governo, come accennato, programmava di trattenere tutti gli immigrati in Sicilia attrezzando una serie di centri temporanei, magari nei vari siti militari in disuso sparsi per l'isola e ritenuti particolarmente adatti a garantire la sorveglianza di persone che non devono fare perdere le tracce in attesa dell'identificazione e della definizione del loro status giuridico. Come dichiarava il Ministro Maroni: "Non voglio fare tendopoli. Sarebbe (...) facile, ma sono clandestini e devono stare in luoghi controllabili." (54)

Sin dal 16 febbraio il governo comincia a discutere l'eventualità di attrezzare il "Residence degli Aranci" a Mineo (CT), che ospitava i militari NATO di stanza presso la base militare di Sigonella, per trasformarlo in un centro di accoglienza in grado di ospitare sino a 6000 persone contemporaneamente. Con l'Opcm del 18 febbraio la struttura viene definitivamente destinata a funzioni di accoglienza e si stanziano i fondi per una sua ristrutturazione. La confusione sullo statuto giuridico del centro è stata tuttavia immediata. Forse a causa delle veementi proteste degli esponenti politici locali, il governo è stato costretto ad affermare che ad essere ospitati presso la struttura sarebbero stati solo i richiedenti asilo o coloro che godono di una qualche forma di protezione internazionale; anche se ciò non escludeva in linea di principio la possibilità di ospitare i tunisini giunti a Lampedusa, dato che in questa fase non era chiaro quale fosse il loro status giuridico. Il governatore della Sicilia Raffaele Lombardo ha riceve a riguardo le immediate rassicurazioni del Ministro Maroni, il quale confermava con decisione che "al villaggio di Mineo non saranno destinati gli immigrati giunti nelle ultime settimane sulle sponde siciliane. Si prevede, invece, di ospitare i richiedenti asilo, per il tempo necessario alla valutazione dell'istruttoria." (55)

Il governo sembra dunque costretto ad orientarsi suo malgrado verso un complicato piano che prevede di dislocare tutti i richiedenti asilo ospitati nei vari CARA presenti sul territorio italiano verso Mineo, per poi dislocare nei posti così liberati nel resto d'Italia le persone sbarcate a Lampedusa. Secondo i piani del prefetto Caruso, circa 2000 dei 2300 rifugiati ospiti dei vari CARA potrebbe essere trasferito a Mineo, ma il trasferimento può essere effettuato solo su base volontaria. Un progetto che sostanzialmente significa lo svuotamento del sistema dell'accoglienza per i richiedenti asilo basato sulla loro dislocazione territoriale e non ha mancato di attirare le dure critiche dell'UNHCR (56). Il residence di Mineo (404 villette, 25 ettari di verde, negozi e altre infrastrutture) è infatti situato a 8 km di distanza dal primo centro abitato, in mezzo al nulla, in un'area fortemente depressa dal punto di vista economico; mentre i CARA sono strutture di piccole dimensioni sparse su tutto il territorio nazionale che in questi anni hanno consentito l'avvio di concreti processi d'integrazione dei richiedenti asilo nelle comunità locali.

Nonostante le rassicurazioni circa lo status giuridico di quello che il governo definisce enfaticamente Villaggio della Solidarietà, le polemiche con gli esponenti degli enti locali sono continuate, fino al punto che il governatore Lombardo si è sovente lasciato andare a dichiarazioni che finivano per equiparare i richiedenti asilo con criminali comuni e terroristi.

Da quelle parti ho una campagna, di proprietà di mio padre - ha commentato Lombardo - e non so se potrò andarci tranquillamente e serenamente e invece se non devo stare col mitra in mano, ma mitra non ne ho. Con la scusa degli sbarchi si stanno portando da dieci centri diversi 2.000 richiedenti asilo. Sono afghani piuttosto che iracheni, palestinesi che si sentiranno magari perseguitati dagli ebrei, qualcuno magari appartenente ad Hamas, e saranno liberi di circolare nelle nostre campagne. (57)

Per fare accettare il piano ai politici locali il Ministro Maroni è stato costretto a promettere un nuovo "patto per la sicurezza"; un piano straordinario per la gestione dell'ordine pubblico minacciato dalla presenza dei richiedenti asilo ospiti del Villaggio della Solidarietà. A tal fine, il prefetto Caruso ha deciso di dislocare circa 50 militari per presidiare la struttura e svolgere funzioni di controllo del territorio in supporto delle forze di polizia che già presidiano il centro dal momento in cui è stato preso in consegna dalle autorità italiane. Il patto con gli enti locali ha insomma comportato una vera e propria militarizzazione del sistema dell'asilo italiano, con l'aumento delle forze in campo, l'impiego di sistemi di videosorveglianza e la fortificazione di una struttura che, dovendo ospitare soggetti che godono della protezione internazionale, dovrebbe essere organizzata secondo il regime dei CARA e dunque funzionare come un centro aperto, con gli ospiti liberi di entrare uscire nelle ore diurne.

I patti sarebbero stati tuttavia subito violati. I ritardi nell'individuazione di strutture in cui accogliere gli immigrati sbarcati a Lampedusa e la situazione critica creatasi sull'isola pelagica verso la fine di marzo costringeranno alla fine il governo ad utilizzare anche tale struttura per alleggerire la pressione. È stata proprio la nave militare San Marco, che abbiamo già menzionato, a sbarcare il 23 marzo i primi tunisini diretti verso Mineo nel porto di Augusta. L'operazione ha scatenato le reazioni indignate dei politici locali, che hanno addirittura tentato un blocco stradale per evitare l'ingresso nel centro degli immigrati, accusando esplicitamente il governo di aver tradito i patti.

Il Villaggio degli Aranci doveva essere destinato ad ospitare i richiedenti asilo presenti su tutto il territorio nazionale: nutrivamo già delle forti perplessità su questa scelta. Ma aprire le porte di Mineo ai profughi sbarcati a Lampedusa, di cui non si sa nulla e di cui in molti casi non si conosce neanche la vera identità è inaccettabile. (58)

La situazione è ancora sotto controllo, ma presto potrebbe degenerare perché, con il rapido accrescersi delle fila degli immigrati ospiti della struttura, potrebbero aumentare i rischi per la sicurezza sia delle comunità vicine, sia degli stessi extracomunitari, come dimostra già la presenza di molti di loro lungo la pericolosa Ss 417 Catania-Gela, già teatro di numerosi incidenti anche mortali. (59)

Le proteste sarebbero seguite nei giorni successivi, con ulteriori manifestazioni dei sindaci della zona che denunciano l'incertezza giuridica della struttura, in cui era stato promesso di ospitare solo richiedenti asilo, che finisce per ospitare quelli che tecnicamente andrebbero considerati come clandestini. "Non sappiamo se questa struttura è un CARA o altro" sottolinea Giuseppe Catania, sindaco di Mineo (60), mentre il governatore della Sicilia si spinge fino a definire il Villaggio della Solidarietà "una sorta di grande Lager" (61).

Le denunce dei politici siciliani, tutti peraltro appartenenti a partiti che sostengono la maggioranza di governo, sono certo parte di un gioco politico che punta ad ottenere una migliore e più equa distribuzione tra le regioni d'Italia del "rischio per l'ordine pubblico" rappresentato dalla presenza di immigranti sul territorio, in polemica con quelle settentrionali che il Ministro Maroni è accusato di proteggere scaricando i costi dell'emergenza sul mezzogiorno. Ma sono anche il segno evidente dell'aprirsi di un'altra breccia giuridica nel sistema della politica in materia di migrazione e asilo del nostro governo, con la creazione di una struttura che apparentemente sarebbe chiamata a svolgere le funzioni dei CARA senza possederne però i requisiti stabiliti dalla legge (D.Lgs n. 140/2005 e D.lgs n. 25/2008). Il centro di Mineo continua, infatti, ad assomigliare più a un centro di accoglienza, sia per il tipo di misure di sicurezza che lo circondano, pensate per evitare la fuga di chi ancora deve essere identificato, sia per il fatto che concretamente presso tale struttura sarebbero stati ospitati nelle varie fasi dell'emergenza anche migranti in arrivo da Lampedusa, il cui status giuridico continua ad essere incerto. La confusione tra esigenze di protezione umanitaria e di difesa dell'ordine pubblico che caratterizza sin dal principio il governo dell'emergenza giustifica dunque una sostanziale militarizzazione del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo, producendo una sorta di cortocircuito securitario in cui la solidarietà viene praticata attraverso patti per la sicurezza e impiego di un contingente di militari a "protezione" degli ospiti della struttura.

5.3. I campi temporanei

La dislocazione nei centri presenti sul territorio italiano degli immigrati giunti a Lampedusa (o in misura minore altrove), è molto problematica dal punto di vista giuridico per diversi motivi. In primo luogo perché spesso vengono utilizzate a tal fine strutture che giuridicamente sarebbero destinate ad altro scopo, modificandone la natura, come quando si dirottano persone che sarebbero destinate all'espulsione verso i CARA; in secondo luogo perché si trasferiscono persone il cui statuto giuridico ancora non è stato chiarito in centri come i CIE, che sono strutture chiuse e sorvegliate pensate per l'esecuzione dei provvedimenti di allontanamento dei migranti irregolari dal territorio dello Stato. Questa confusione si è verificata soprattutto nella prima fase, quando le dislocazioni venivano svolte in ragione della disponibilità dei posti nei vari centri. Nelle prime settimane della crisi, infatti, appena possibile gli immigrati venivano trasferiti con ponti aerei verso gli altri centri del continente (62), senza distinzione di tipologia del centro e in una situazione di incertezza giuridica rispetto al loro status personale. Il governo ha in questa fase accuratamente evitato di definire l'orientamento che avrebbe seguito per inquadrare giuridicamente la posizione degli immigrati sbarcati a Lampedusa, tanto che sembrava più il caso (vale a dire il fatto che si liberasse un posto in un luogo piuttosto che in un altro) a determinare la decisione se ospitare qualcuno in una CARA o in un CIE. Tali persone permanevano dunque in una sorta di limbo giuridico, come se fossero ancora nella fase della prima accoglienza e senza che il provvedimento di trattenimento venisse convalidato dal giudice come previsto dall'art. 13 della Costituzione e dalla disciplina per il trattenimento nei CIE. Non è un caso che si siano registrati numerosi casi di proteste già a partire dalla metà di marzo inscenate da individui che si vedevano trattenuti illegalmente da settimane senza avere chiarezza circa il loro status giuridico e circa il loro destino.

Non appena è stato evidente che il progetto di confinare in Sicilia tutte le persone sbarcate non sarebbe stato realizzabile, anche perché il solo residence Mineo non avrebbe potuto liberare posti a sufficienza nei vari centri della penisola per accogliere tutte le persone che si temeva potessero arrivare, il governo Maroni e il prefetto Caruso hanno cominciato i colloqui con gli organi periferici e gli enti locali al fine di concordare un piano per la dislocazione degli immigrati su tutto il territorio nazionale. La scelta iniziale di Maroni è stata quella di tentare la strada della concertazione, senza agire d'imperio utilizzando i poteri speciali assegnati al prefetto. Da un primo incontro con l'Associazione Nazionale Comuni Italiani (Anci) e l'Unione delle Provincie d'Italia (Upi), il 22 marzo, il Ministro ha ottenuto un accordo con gli enti locali che prevede la redistribuzione di 50mila profughi su tutto il territorio nazionale tenendo conto di un criterio di proporzione demografica (mille per milione) e un piano di accoglienza straordinaria che sarebbe stato messo a punto dai tecnici del Ministero, ma che al momento di questo primo incontro ancora non esisteva.

Si trattava dunque di un'intesa di massima, circondata ancora da molte incertezze circa lo status giuridico delle persone che sarebbero state accolte dalle varie regioni, tanto che le polemiche dei giorni successivi avrebbero costretto il governo ad effettuare i primi distinguo. Gli enti locali non intendevano infatti ospitare sul loro territorio "clandestini" ma solo "autentici profughi"; nessuno di quelli che era attualmente a Lampedusa, specificavano i governatori delle regioni, ma solo gli eventuali profughi in arrivo dalla Libia. Il punto era che molti governatori insistevano nel ribadire che gli immigrati sbarcati a Lampedusa sino a questo momento non erano altro che normali clandestini che andavano espulsi e che tale questione era di esclusiva competenza del Ministero dell'Interno. "Sia chiaro che si parla soltanto dei profughi libici che al momento non ci sono. Quelli di Lampedusa sono clandestini ed il Veneto non è disponibile ad accoglierli", sottolineava Luca Zaia governatore del Veneto; da parte sua Cota, governatore del Piemonte gli faceva eco confermando che "il piano del governo non prevede la possibilità di accogliere nelle varie regioni italiane i clandestini provenienti dalla Tunisia o da altri paesi del Nordafrica" (63).

In coincidenza dell'incontro tra governo ed enti locali è cominciata una dura campagna di stampa, sostenuta dai quotidiani di destra più vicini al governo, volta a definire in maniera chiara e definitiva il frame politico-giuridico attraverso cui inquadrare lo status delle persone ospitate a Lampedusa come "clandestini". Oltre alle dichiarazioni di Zaia e Cota già menzionate, si legga ad esempio il brano di questo editoriale del il Giornale pubblicato il 24 marzo ed intitolato: I veri dati sui profughi? L'80% sono clandestini. Ora l'Italia deve respingere questi finti profughi:

Non c'è logica nello scappare da una libertà ritrovata, non ci sono le basi per dichiararsi perseguitato politico o sentirsi in pericolo di vita. E, in effetti, sui ventimila arrivi degli ultimi giorni, soltanto tremila hanno fatto richiesta di asilo. Sono praticamente solo uomini. Dubito che tutti siano davvero nelle condizioni di dover scappare, fosse solo per il fatto che non conosco uomini che lascerebbero moglie e figli a casa in balìa di presunti aguzzini. Più facile che tra questi tremila la maggior parte millanti e la restante sia in fuga sì, ma non dal tiranno. Più probabilmente scappano dalla polizia dopo essere evasi dalle carceri (nelle quali si trovavano per reati comuni) durante i giorni della rivolta.

Solo adesso vengono illustrati i dati effettivi delle richieste di asilo presentate dalle persone sbarcate, 2.347 dall'inizio dell'anno, ponendo il governo di fronte alla responsabilità di definire una volta per tutte lo status dei restanti 13.000. È ancora una volta il Giornale a condurre la battaglia, invitando il governo a considerare tali persone come "comuni clandestini", in molti casi anche "pericolosi", poiché si tratta di persone con precedenti penali evase dalle carceri tunisine approfittando dei disordini. La pericolosità di tali persone sarebbe ulteriormente testimoniata dal fatto che in queste ultime settimane hanno messo a soqquadro i centri dove sono stati ospitati, riuscendo a guadagnare la fuga in molti casi (64).

La spinta proveniente dai colleghi di partito e dalla stampa di destra costringe il governo ad esporsi circa lo status giuridico dei tunisini presenti a Lampedusa, tanto che Maroni dichiara esplicitamente che si tratta di "clandestini, non rifugiati o profughi"; seguito anche dal Ministro della difesa La Russa, il quale sottolinea che si tratta di "clandestini perché in Tunisia non c'è guerra, non c'è motivo di fuga. Vanno spediti in Tunisia, come dice la legge, vanno identificati ed espulsi". Clandestini nei confronti dei quali "si applicheranno le procedure previste dalla Bossi-Fini, ossia l'identificazione e il trattenimento nei Cie per procedere poi al rimpatrio, come avviene con tutti i clandestini", salvo gli accertamenti necessari per verificare che tra loro non vi siano infiltrazioni terroristiche (65). Tuttavia, in assenza di spazio sufficiente per alloggiare tutti i "clandestini" nei CIE esistenti, il governo si è trovato costretto a disegnare un piano alternativo diretto all'individuazione di strutture in cui effettuare il trattenimento degli immigrati che "devono essere tenuti sotto controllo prima di essere rimpatriati", come sottolineava il Ministro Maroni (66).

Il progetto di allestire 13 tendopoli per ospitare i migranti presenti a Lampedusa in attesa delle procedure di rimpatrio verrà ufficialmente presentato agli Enti locali il 1 aprile. Secondo le dichiarazioni rilasciate alla stampa, il governo aveva già individuato i luoghi in cui attrezzare i campi, che sarannorealizzati in siti militari dismessi e messi a disposizione dal Ministero della Difesa, ma ha ritenuto opportuno informare privatamente gli enti locali tentando una sorta di concertazione per evitare successive proteste (67). Al momento dell'incontro, tuttavia, una tendopoli era già stata allestita a Manduria (provincia di Taranto) e, a causa della difficile situazione a Lampedusa, aperta sin dal 26 marzo per accogliere i primi migranti fatti sbarcare a Taranto ancora una volta dalla nave militare San Marco. A partire dal 27 marzo le cronache registrano un susseguirsi di fughe dal campo, che a tratti assumono le dimensioni di una fuga di massa. Tali disordini nella gestione dei campi hanno spinto gli enti locali a rigettare il piano del governo, costringendo il Ministero dell'Interno a gestire del tutto autonomamente la dislocazione delle tendopoli sul territorio (68).

Nell'impossibilità di raggiungere un'intesa con i governatori e gli altri enti locali, il governo individua d'imperio i siti militari presso cui allestire i nuovi centri, badando bene però a non irritare i governatori amici e collocando tutte le strutture temporanee nelle regioni centro-meridionali. Le sedi individuate sono, oltre Manduria, S. Maria Capua Vetere presso l'ex caserma Andolfato dove ha sede l'amministrazione penitenziaria militare; Coltano, un sito tra Pisa e Livorno che ospitava il centro Radar della NATO; Kinisa (Trapani), anche in questo caso in un'area militare dismessa. I campi allestiti sono composti da un numero variabile tra le 100 e le 120 tende, da sei posti ciascuna, per una capacità di accoglienza che oscilla tra le 500 e le 720 persone. Anche in questo caso, come già nella vicenda del residence Mineo, la costruzione dei campi temporanei ha scatenato numerose proteste. Immediate quelle a Manduria, dove i cittadini si sono organizzati in ronde spontanee per presidiare il territorio ed acciuffare i migranti in fuga dal centro; ma anche a Trapani, Pisa e Santa Maria Capua Vetere le autorità locali hanno protestato vivamente una volta appresa la notizia, tentando di bloccare i lavori ed inscenando manifestazioni nei pressi dei luoghi deputati ad accogliere le tendopoli (69). Ciò che è interessante notare a proposito di tali proteste, è che esse replicano uno schema consolidato, con i politici locali che cavalcano l'onda della paura e dell'insicurezza, associando strettamente la presenza dei centri per immigrati al rischio di aumento criminalità e disordini sul territorio, denunciando al contempo l'iniqua politica di distribuzione dei "costi dell'emergenza" effettuata dal governo a svantaggio delle regioni centro-meridionali.

Come ha sottolineato Fulvio Vassallo Paleologo, la creazione di tali campi è avvenuta in aperta violazione delle norme previste dall'art. 14 del Testo Unico sull'immigrazione, che prevede per la creazione di centri per immigrati appositi decreti del Ministero dell'Interno. Solo l'art. 23 del regolamento attuativo n. 394/1999 prevede la possibilità di svolgere il primo soccorso e la prima accoglienza al di fuori delle strutture previste dalla legge ordinaria, in vista dell'avvio di tali soggetti verso i centri ordinari e dunque senza possibilità di trattenerli ulteriormente (70). Anche il trattenimento nei centri temporanei, che inizialmente appaiono in tutto e per tutto come strutture di prima accoglienza temporanee istituite per far fronte alla necessità di decongestionare Lampedusa, ricadrebbe dunque sotto le garanzie di convalida previste dall'art. 13 della Costituzione e non potrebbe protrarsi oltre le 96 ore. Di fatto però, a causa dell'iniziale incertezza circa lo statuto giuridico di tali campi, nessuno dei provvedimenti di trattenimento è stato sottoposto a convalida giurisdizionale. Al contrario, i campi sono stati sottoposti ad un regime di emergenza che li ha sottratti al controllo giudiziario e della società civile, tanto che le forze di polizia responsabili della sicurezza delle strutture hanno ripetutamente vietato l'accesso agli stessi anche ai parlamentari che hanno diritto di visita in tutti i luoghi di detenzione, arrivando a impedire l'accesso a tali strutture dello stesso Mauro Palma, presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura. (71)

Lo stesso regime interno di tali strutture è stato definito dalle forze di pubblica sicurezza, in attuazione dei poteri speciali attribuiti al Ministero dell'Interno con i decreti e le ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri di febbraio, che hanno regolato la vita e il regime di detenzione all'interno dei campi per mezzo di ordini e circolari. Ad esempio, inizialmente l'amministrazione del campo di Manduria aveva fornito un permesso speciale agli ospiti per uscire dal campo durante il giorno, secondo il modello di accoglienza tipico dei CARA. Tale permesso è stato in seguito bocciato dalla Questura di Trapani e dunque ritirato, scatenando le proteste degli ospiti delle tendopoli (72). L'incertezza a riguardo è stata totale, con orientamenti diversi a seconda della Prefettura responsabile, sovrana assoluta circa il regime giuridico cui sottoporre il campo.

Sostanzialmente i centri, che in teoria ospitavano persone il cui statuto giuridico non era stato ancora chiarito, avrebbero dovuto essere sottoposti al regime dei Centri di accoglienza, ma di fatto le proteste delle autorità locali, come già nel caso di Mineo, hanno spinto verso una decisa militarizzazione degli stessi, trasformandoli in dei CIE informali. Nemmeno quando con l'Opcm del 13 aprile il Capo del Dipartimento della Protezione Civile è stato nominato commissario all'emergenza, con attribuzione di poteri speciali per organizzare e gestire l'accoglienza delle persone in arrivo dal nord-africa, è stato chiarito del tutto lo statuto giuridico di tali campi. Il piano d'accoglienza siglato con le regioni, cui l'ordinanza faceva menzione, era stato concepito per i profughi in arrivo dalla Libia. Esso veniva adesso esteso anche a coloro che godono della protezione temporanea che sarebbe stata concessa con il Dpcm del 5 aprile (cfr. oltre), ma la medesima ordinanza specifica che le condizioni giuridiche soggettive non sono ancora definite, prevedendo anche poteri in capo alle forze di pubblica sicurezza ed al Ministero dell'Interno per il controllo e la gestione della sicurezza all'interno dei campi, nonché la definizione dello status giuridico dei cittadini provenienti dal nord-africa. La soluzione prospettata in questa Opcm sembra in sostanza quella di considerare tali centri alla stregua di centri di prima accoglienza in cui viene definito lo status in attesa di essere dislocati nei vari CARA o CIE a seconda delle situazioni.

In seguito, a complicare ulteriormente il quadro, una Opcm del 21 aprile avrebbe trasformato alcune di tali strutture (S. maria Capua Vetere; Palazzo San Gervasio-Potenza, Kinisia-Trapani) in CIE temporanei in cui trattenere coloro che non possono accedere ad alcuna forma di protezione temporanea e dunque devono essere espulsi/respinti. Come afferma l'ordinanza, i campi suddetti "operano a far data dalla presente ordinanza e fino a cessate esigenze, e comunque non oltre il 31 dicembre 2011, come centri di identificazione e di espulsione nel numero massimo di 500 posti da ripartire nelle predette strutture". Tale trasformazione delle tendopoli in CIE-Temporanei (CIE-T) ha scatenato le proteste dei sindacati di polizia, preoccupati per la sicurezza delle condizioni di lavoro e pronti a denunciare lo stato di agitazione permanente all'interno delle strutture in questione (73). Le preoccupazioni degli agenti si sono rivelate tali, tanto che le notizie di fughe e tensioni nelle strutture trasformate in CIE-T sono giunte quasi immediatamente, costringendo le forze di polizia responsabili della sicurezza a rendere ancora più afflittivo il regime detentivo, tenendo gli ospiti del campo sotto strettissima sorveglianza. Da più parti si sono levate proteste per le condizioni di detenzione in tali strutture e, quando finalmente il presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, senatore del Partito Democratico Pietro Marcenaro, è riuscito a visitare la tendopoli di Santa Maria Capua Vetere (il 2 maggio) ha pubblicamente denunciato le pessime condizioni di detenzione che determinano una situazione di tensione permanente all'interno della struttura.

6. Chiudere il rubinetto e svuotare la vasca

Il 5 aprile è stata una data cruciale nella gestione della crisi. È in questa data che viene siglata l'intesa con la Tunisia e che viene approvato il decreto del Presidente del Consiglio per la concessione del permesso temporaneo ai sensi dell'art. 20 del Testo Unico sull'immigrazione. Tali provvedimenti suggellano una strategia che Umberto Bossi, leader del partito xenofobo della Lega Nord, con il suo solito gusto per le immagini forti aveva sintetizzato dicendo "dobbiamo chiudere i rubinetti e cominciare a svuotare la vasca" (74). La strategia adottata per superare la crisi puntava a favorire l'abbandono del territorio italiano da parte degli immigrati giunti dall'inizio di gennaio e alla ricostruzione dei rapporti bilaterali con la Tunisia per prevenire un ulteriore afflusso di migranti irregolari.

6.1. Dispersione fisiologica

Sin dal principio della crisi il sistema di centri e strutture deputate all'accoglienza degli immigrati sbarcati a Lampedusa ha mostrato numerose crepe. Le cronache riportano notizie di disordini e fughe costanti dai centri del continente in cui a fatica gli immigrati venivano dislocati. Un operatore del centro di Lampedusa ad esempio, commentando il fatto che ancora a metà marzo non si riuscisse a decongestionare l'isola a causa dell'assenza di un sistema di accoglienza e dei ritardi nella risposta del governo, si domandava "dove (avessero) messo quelli arrivati fino ad adesso, a fare due conti i centri dovrebbero essere già pieni da settimane" (75). C'è stato in sostanza un tasso di "dispersione fisiologica" che si è notevolmente innalzato nel momento in cui il governo ha creato la rete di campi temporanei; strutture improvvisate difficilmente controllabili da cui le fughe sono state continue. Le stesse forze di polizia, chiamate a gestire la sicurezza dei campi, hanno più volte denunziato il livello di tensione creatosi all'interno, lasciando intendere che entro certi limiti la dispersione degli ospiti fosse una strategia di governo dei campi indispensabile al mantenimento dell'ordine e della tranquillità (76).

Tale situazione è perdurata fino al momento in cui il governo italiano non ha deciso di definire lo status degli immigrati giunti a Lampedusa rinunziando al proposito di una completa securitarizzazione dell'emergenza cui pure era spinto dalla maggioranza politica e dai governatori degli enti locali. Nell'evidente impossibilità di gestire le strutture di internamento temporaneo prolungando ulteriormente la detenzione arbitraria degli immigrati, il governo ha optato per la concessione di una forma di "protezione umanitaria temporanea" ai tunisini giunti sul territorio italiano a partire dal gennaio 2011 utilizzando l'art. 20 del Testo Unico sull'immigrazione che consente appunto il rilascio di un permesso di soggiorno della validità di sei mesi per motivi umanitari. Il problema è stato naturalmente convincere la Lega ad accettare questa ipotesi, dato che per alcuni esponenti del partito si trattava di una sostanziale sanatoria mascherata. L'accordo con la Lega alla fine è stato raggiunto in un vertice con il Primo Ministro, che ha spiegato le autentiche intenzioni del governo: fornire gli immigrati di un titolo valido per circolare in tutta l'area Schengen, alleggerendo così la pressione migratoria sul nostro paese e lasciando che i giovani tunisini raggiungano, come si prevede che facciano, i loro parenti e amici nel resto d'Europa. È lo stesso Bossi a dirlo esplicitamente "sono d'accordo se se ne vanno in Francia e Germania..." (77)

Prima di agire unilateralmente, il governo italiano ha a più riprese tentato la strada della trattativa con le istituzioni europee. La stessa commissaria Malmström aveva paventato la possibilità di richiedere al Consiglio dell'Unione l'attivazione della protezione temporanea in vista dell'arrivo di profughi dalla Libia; cosa che dava qualche speranza al governo italiano di vedersi legittimare anche in sede europea la sua scelta di concedere un permesso temporaneo. L'agenda del JHA Council del 11 aprile 2011 prevedeva infatti una preliminare discussione sulla eventuale attivazione di tale procedura. L'indicazione era confermata dal memorandum della Commissione sulle misure adottate per fronteggiare la crisi migratoria e le ulteriori misure che sarebbe stato possibile adottare, tra le quali si prevedeva anche l'eventualità di ricorrere all'attivazione della direttiva sulla protezione temporanea "if the conditions foreseen in the directive are met. Consideration could only be given to taking this step if it is clear that the persons concerned are likely to be in need of international protection, if they cannot be safely returned to their countries-of-origin, and if the numbers of persons arriving who are in need of protection are sufficiently great." (78)

Il Ministro Maroni prevedeva dunque di chiedere l'attivazione della direttiva 55/2001 per la protezione dei rifugiati in modo da fornire il decreto italiano di una copertura a livello europeo, o al limite di ottenere una sostanziale equiparazione del Dpcm del 5 aprile con lo strumento della protezione temporanea regolato dal diritto europeo. I partners europei hanno, come illustrato, rifiutato il frame emergenziale proposto dal governo italiano, considerando il decreto alla stregua di una sanatoria mascherata, un atto unilaterale da parte del governo italiano privo di fondamento giuridico. Ciò avrebbe scatenato una serie di reazioni politico-istituzionali i cui esiti per la tenuta del sistema di Schengen discuteremo a breve. Ciò che ci preme segnalare adesso, è come l'emanazione di tale provvedimento abbia chiuso la fase dell'emergenza umanitaria nell'accoglienza dei tunisini giunti sul territorio italiano, aprendo quella della pura gestione securitaria, destinando coloro che sarebbero sbarcati a partire dal 6 aprile alla procedura di rimpatrio coatto prevista dagli accordi con la Tunisia. Le stime iniziali del governo parlavano di 14.500 potenziali beneficiari. Tuttavia se si considera che dall'inizio di gennaio i tunisini sbarcati in Italia erano oltre 25.000, di cui 2.300 dalla Libia e altri 2.200 che hanno chiesto lo status di rifugiati, ci si rende facilmente conto di quante persone mancassero all'appello già nell'aprile 2011: almeno 5000 (79). Sono i numeri della dispersione fisiologica.

6.2. Spazi di frontiera

Sul piano del controllo delle frontiere esterne è stato da subito chiaro che l'afflusso fosse dovuto al collasso delle strutture di potere dello Stato tunisino. La Tunisia è stata esplicitamente definita un failed state, tanto che, con una particolare applicazione della dottrina del diritto di ingerenza, inizialmente si era prevista la possibilità di intervenire sul territorio tunisino per gestire direttamente il controllo delle frontiere; proposta rifiutata con sdegno dalle autorità del governo provvisorio. Partita con il piede sbagliato, la trattativa con la Tunisia sarebbe stata molto lunga e complicata. Le visite di stato dei ministri italiani si sono, infatti, susseguite a partire dalla metà di febbraio ed hanno registrato un'oscillazione vertiginosa nei toni, con l'Italia costretta ad utilizzare il bastone e la carota per strappare un accordo di cooperazione di polizia e di riammissione degli immigrati irregolari. In certi momenti il Ministro degli Esteri si è spinto fino ad offrire, oltre a consistenti mezzi economici e tecnici, il pagamento di una somma di circa 2000 euro per ogni immigrato rimpatriato (80); in altri l'Italia ha minacciato esplicitamente azioni unilaterali chiaramente ai limiti del diritto internazionale quali il blocco navale o i rimpatri forzosi degli immigrati irregolari, come suggerisce un intervento dello stesso Ministro Maroni:

La Tunisia aveva promesso un impegno immediato per fermare i flussi migratori, ma le barche continuano ad arrivare. Se non ci sarà un segnale concreto entro i prossimi giorni, procederemo con i rimpatri forzosi (...) Mercoledì mattina si riunisce l'unità di crisi a Palazzo Chigi. Io confido che il governo tunisino faccia quello che ha annunciato, però se non ci sarà un intervento vero per fermare le partenze chiederò al governo di attuare la proposta di Bossi e di procedere ai rimpatri forzosi. Siamo attrezzati per farlo. Li mettiamo sulle navi e li riportiamo a casa. (81)

Che questa sia stata un'ipotesi concretamente considerata dal governo lo confermano tanto le indiscrezioni del Corriere della Sera, il quale sosteneva che il governo stesse considerando di dirigere verso Tunisi i traghetti utilizzati per il trasbordo dei migranti sul continente (82), quanto la reazione delle medesime forze di polizia, che hanno pubblicamente bocciano la proposta del Ministro Maroni. È Claudio Giardullo, segretario del sindacato Silp Cgil a sollevare perplessità:

La riammissione necessita dell'accordo del Paese d'origine perché le alternative sono due: o si abbandonano in acque internazionali i tunisini a bordo delle navi, oppure si deve violare la territorialità di uno Stato estero. E poiché le scorte a bordo sarebbero indispensabili, bisogna evidenziare come questo tipo di missione non rientri nelle regole di ingaggio della polizia e delle altre forze dell'ordine. (83)

Da parte sua il governo provvisorio tunisino, ha posto sin dal principio due condizioni per il raggiungimento dell'intesa: da un lato ha rifiutato decisamente qualsiasi forma di ingerenza delle forze di sicurezza italiane nel territorio tunisino e dunque anche l'ipotesi più blanda dei pattugliamenti congiunti; dall'altro ha preteso che i rimpatri avvengano con la massima discrezione possibile e a piccoli gruppi, massimo 50 immigrati alla volta, questo per non irritare l'opinione pubblica tunisina scatenando un'immediata crisi di legittimazione che avrebbe potuto travolgere un governo provvisorio appena uscito da una rivolta popolare (84).

Alla fine, dopo più di nove ore di faccia a faccia tra Maroni e la sua controparte tunisina Habib Essid e una lunga preparazione tra i tecnici dei due ministeri, è stato siglato quello che i giornali definiscono un "protocollo d'intesa", o ancora "processo verbale". Si tratta di un accordo tecnico di cooperazione di polizia tra Italia e Tunisia che contiene anche un accordo di riammissione dei tunisini identificati sul territorio italiano. A tal fine personale di collegamento tunisino sarebbe stato inviato in Italia per procedere alle pratiche di identificazione e autorizzare il rimpatrio. Procedure che vengono definite "semplificate", e consistono sostanzialmente nel riconoscimento consolare diretto senza ricorso alle schede foto-segnaletiche. L'Italia si è impegnata in cambio a fornire al governo tunisino 6 motovedette, 4 pattugliatori, 100 fuoristrada, più un pacchetto di aiuti economici allo sviluppo. Così com'è ormai tipico di molte intese di cooperazione in materia di controllo delle migrazioni, anche tale accordo conserva un carattere informale a tutto svantaggio della trasparenza (85). Il testo dell'accordo non è stato pubblicato in gazzetta ufficiale, né ratificato dal Parlamento come previsto per gli accordi internazionali, al momento di scrivere il suo contenuto non è noto.

I rimpatri sono cominciati l'8 aprile 2011, con diversi voli che trasportavano 30 immigrati alla volta scortati da un notevole contingente di forze di polizia (1/1 il rapporto). La prassi adottata per effettuare tali rimpatri è fortemente problematica dal punto di vista del diritto internazionale, europeo ed italiano. In primo luogo il governo italiano per rimpatriare gli immigrati tunisini utilizza lo strumento giuridico del respingimento differito (art. 10 Testo Unico sull'immigrazione), applicabile quando l'immigrato irregolare si trova ancora nella "zona di frontiera" ed è intercettato immediatamente dopo aver attraversato illegalmente il confine. L'utilizzabilità di tale strumento è molto problematica rispetto a persone che sono giunte sul territorio italiano da settimane e, in molti casi, sono state già dislocate in altre strutture di accoglienza. Il governo italiano, utilizzando tale prassi, equipara il centro di Lampedusa e gli altri campi temporanei a zone di extraterritorialità in cui il migrante, pur essendo entrato fisicamente in territorio italiano, finisce per non raggiungere mai il confine giuridico di vigenza dei diritti e delle garanzie (86). Tale sganciamento tra territorio e diritto serve sostanzialmente a limitare i diritti degli immigrati, sottoponendoli a un regime giuridico e di controllo più afflittivo. Il governo italiano riesce così ad evitare di dover utilizzare per praticare l'allontanamento dell'immigrato irregolare l'ordinario strumento dell'espulsione che, a differenza del provvedimento di respingimento differito, è circondato di maggiori garanzie e in base alla direttiva 2008/115 deve essere prima "intimata" sotto forma di ordine di lasciare il territorio e solo successivamente eseguita con la forza e il trattenimento in luoghi di detenzione. La stessa direttiva stabilisce, infatti, che i paesi membri possono decidere di disapplicarne il contenuto laddove si tratti di rimpatriare un immigrato soggetto ai provvedimenti di respingimento ex art. 13 dello Schengen Border Code (art. 2.2(a)).

Tale prassi puntava inizialmente a fare di Lampedusa la base operativa per le operazioni di rimpatrio, concentrando sull'isola anche il personale di collegamento tunisino chiamato ad effettuare i riconoscimenti "semplificati" previsti dall'accordo. Tuttavia, a causa dei forti disordini che si sono scatenati in occasione dei primi voli diretti verso la Tunisia, la polizia ha deciso di operare secondo una prassi che prevede un preliminare smistamento sul continente nei vari CIE ed il rimpatrio successivo (87). Più in generale poi, secondo le denuncie di attivisti e avvocati, per evitare disordini durante le procedure di rimpatrio, i provvedimenti di respingimento e di trattenimento non vengono comunicati agli immigrati, che sono sostanzialmente tenuti all'oscuro rispetto alla destinazione del loro viaggio. Gli immigrati non ricevono, dunque, il decreto di respingimento in accordo con quanto previsto dalla normativa europea e in particolare dagli art. 15, 13 dello Schengen Border Code, che disciplina il diritto a presentare ricorso e l'obbligo da parte dell'autorità di fornire un documento scritto che motivi il respingimento, finendo per essere privati del diritto ad un'adeguata tutela giurisdizionale (88).

7. Lo spirito di Schengen

La concessione del permesso straordinario ha scatenato un aspro conflitto circa la sua compatibilità con gli accordi di Schengen. Già in occasione del JHA Council del 11 aprile l'Italia era esplicitamente accusata di "violare lo spirito Schengen", come sottolineava il Ministro dell'Interno tedesco Hans Peter Friederich nel corso della riunione con i suoi colleghi europei in Lussemburgo.

Non possiamo accettare che immigrati economici in gran numero vengano in Europa passando per l'Italia. Constatiamo che gli italiani stanno concedendo dei permessi di soggiorno provvisori che de facto permettono ai migranti di venire in Europa. I francesi stanno rafforzando i controlli, e l'Austria ci sta riflettendo. Non sarebbe nell'interesse dell'Europa essere costretti a introdurre nuovi controlli alle frontiere; speriamo che gli italiani compiano il loro dovere. (89)

Già da tempo però, i rapporti tra Italia e Francia non erano più animati dallo "spirito di Schengen". La prefettura delle Alpes-Maritimes, aveva rafforzato i controlli alla frontiera denunziando il passaggio di quasi 3000 di tunisini privi di permesso di soggiorno provenienti dall'Italia. Mentre la cittadina di Ventimiglia, al confine italo-francese, si è riempita d'immigrati accampati alla stazione, o negli immediati dintorni, in attesa del momento propizio per salire su un treno diretto in Francia evitando i controlli della gendarmerie. Molti di questi erano stati respinti in base agli accordi bilaterali tra Italia e Francia di Chambery del 1997, anche se non sono mancate accuse circa la prassi utilizzata dalle forze di polizia francesi per dimostrare "oggettivamente" che l'immigrato rintracciato sul territorio francese provenisse dall'Italia. Ad aggravare la situazione, il fatto che la questione migratoria fosse al centro anche della battaglia politica francese, soprattutto per la conquista dell'elettorato di destra che vede in competizione il partito del presidente Nicolas Sarkozy (Union pour un Mouvement Populaire) e il Front National di Le Pen. Non è un caso se Marie Le Pen, da poco alla guida del Front National, sia più volte stata in visita a Lampedusa durante le fasi della crisi, accompagnata dal suo collega europarlamentare Mario Borghezio della Lega Nord, trasformando l'isola in una sorta di tribuna politica da cui illustrare le sue proposte per contrastare il fenomeno dell'immigrazione clandestina: "invece di accoglierli a Lampedusa, l'Italia dovrebbe inviare le navi con acqua e alimenti e assistere i migranti in mare, evitando che sbarchino sull'isola." (90)

Una volta concesso il permesso temporaneo sono cominciate le diatribe politico-giuridiche circa la compatibilità della normativa italiana e del titolo di residenza previsto dall'art. 20 del Testo Unico sull'immigrazione con la normativa europea. Il Ministro dell'interno francese, in particolare, ha indirizzato una circolare a tutte le prefetture per stimolare maggiori controlli alla frontiera e una verifica più attenta dei requisiti previsti dall'art. 5 dello Schengen Border Code per l'attraversamento del confine da parte dei cittadini dei paesi terzi, assicurando però che tali controlli sarebberostati non sistematici in conformità con quanto previsto dall'art. 21.a(iii) del medesimo testo. In particolare, la circolare ribadiva come i cittadini di Paesi terzi in possesso di un documento di soggiorno rilasciato da uno Stato membro non possono essere considerati in situazione regolare, a meno che non soddisfino le cinque condizioni seguenti, da verificare in questo ordine: a) essere minuti di un documento di viaggio in corso di validità (passaporto) riconosciuto dalla Francia; b) essere in possesso di un documento di soggiorno in corso di validità; c) poter dimostrare di avere risorse economiche sufficienti (62 euro al giorno a persona, 31 euro se si dispone già di un alloggio); d) non costituire una minaccia per l'ordine pubblico; e) non essere entrati in Francia da più di tre mesi (91). Simili misure sono state al contempo annunziate da altri paesi come Belgio, Austria, Germania, Danimarca, alle frontiere terrestri e negli aeroporti, scatenando le reazioni dell'Italia che ha denunziato un esplicito atteggiamento di ostilità e una patente violazione delle regole di Schengen che prevedono il divieto di ripristinare i controlli alle frontiere interne.

In realtà una volta superata la fase più calda della crisi, legata all'annunzio da parte dell'Italia del rilascio del permesso temporaneo, tutti i paesi membri hanno dovuto accettare la legittimità delle misure assunte dai rispettivi ministeri dell'interno (92). Se pure legittime in punto di diritto, tali misure hanno tuttavia creato una serie di tensioni politiche che hanno finito per fare scricchiolare pericolosamente il sistema di Schengen; come ha ammesso lo stesso presidente del Consiglio dell'Unione, Herman van Rompuy: "né Italia né Francia, fino ad ora, hanno fatto qualcosa di illegale. Detto questo, resta il rischio che non sia rispettato lo spirito del Trattato Schengen" (93). Alla vigilia della decisione circa l'ammissione di Romania e Bulgaria nel sistema Schengen, con la Grecia che da qualche anno viene considerata l'anello debole del sistema di controllo delle frontiere esterne, tanto che Frontex è presente a pieno regime sul territorio Greco sin dall'ottobre 2010 (94), ecco che la crisi tra Italia e Francia fornisce la spinta per una proposta ufficiale di revisione del sistema Schengen, contenuta nel testo della Comunicazione varata il 4 maggio dalla Commissione europea e discussa in via preliminare dal JHA Council del 12 maggio 2011.

Il testo, che sarà definitivamente discusso al prossimo Consiglio europeo di fine giugno, descrivendo la natura del flusso in arrivo verso l'Italia conferma il frame politico-giuridico che definisce gli immigrati in arrivo dalla Tunisia come semplici "migranti economici" che "dovrebbero essere espulsi verso i loro paesi d'origine" (95), sottolineando come al momento non si ravvisano le condizioni necessarie ad attivare la direttiva sulla protezione temporanea. La parte più importante della comunicazione è tuttavia quella relativa alla revisione della Schengen governance. Secondo l'opinione della Commissione, infatti, "debolezze in alcune sezioni del confine esterno minano la credibilità della capacità dell'Unione di controllare l'accesso al suo territorio, indebolendo la fiducia reciproca", per questo è necessario sviluppare "una cultura condivisa tra le autorità nazionali" e creare un "sistema più chiaro per il governo di Schengen". A questo scopo:

A mechanism must also be put in place to allow the Union to handle situations where either a Member State is not fulfilling its obligations to control its section of the external border, or where a particular portion of the external border comes under unexpected and heavy pressure due to external events. A coordinated Community-based response by the Union in critical situations would undoubtedly increase trust among Member States.

Formalmente tale meccanismo viene presentato come uno strumento per evitare il ripetersi delle tensioni createsi nel mese di aprile, con i paesi membri pronti a svuotare il sistema di Schengen per mezzo di azioni unilaterali.

It would also reduce recourse to unilateral initiatives by Member States to temporarily reintroduce internal border controls or to intensify police checks in internal border regions which inevitably slow down the crossing of internal borders for everyone. Such a mechanism may therefore need to be introduced, allowing for a decision at the European level defining which Member States would exceptionally reintroduce internal border control and for how long. The mechanism should be used as a last resort in truly critical situations, until other (emergency) measures have been taken to stabilize the situation at the relevant external border section either at European level, in a spirit of solidarity, and/or at national level, to better comply with the common rules. The Commission is exploring the feasibility of introducing such a mechanism, and may present a proposal to this effect shortly. (96)

Si tratta, com'è evidente, di un tentativo di sottrarre ai paesi membri la prerogativa di definire l'eccezione nella sfera della politica migratoria e della circolazione all'interno dello spazio Schengen, un progetto certamente ambizioso che inevitabilmente si scontrerà con la resistenza dei governi nazionali, solitamente molto gelosi della loro sovranità in materia di ordine e sicurezza pubblica. Oltretutto non si vede come le istituzioni europee, con i loro complessi meccanismi di decisione politica, possano attivare una risposta istituzionale con la rapidità necessaria a gestire le situazioni di emergenza. Più probabile che le proposte di riforma del meccanismo di Schengen assumano i tratti auspicati da Francia e Germania, che da tempo spingono per l'istituzione di un meccanismo più flessibile per riattivare i controlli di polizia alle frontiere interne. Ciò che alcuni paesi membri immaginano è, infatti, una sorta di frontiera mobile, in grado di arretrare e avanzare in base alle circostanze, che servirebbe forse a ricostituire quel cordone sicurezza che la dimensione esterna della politica di controllo delle migrazioni aveva costruito alla periferia d'Europa e che le rivolte arabe sembrano aver distrutto. Tale progetto finirebbe per creare uno spazio Schengen a due velocità, con i paesi alla periferia d'Europa, esplicitamente considerati come l'anello debole della catena di controlli, destinati ad essere trasformati all'occorrenza in una zona cuscinetto in cui filtrare i rischi in transito verso l'area di libertà, sicurezza e giustizia dei paesi core.

8. Conclusioni

L'analisi che abbiamo condotto ha illustrato tutta la complessità del processo di securitarizzazione delle migrazioni in Europa, tanto a causa della varietà degli attori in campo e degli aspri conflitti creatisi attorno alla prerogativa di definire l'emergenza, quanto in ragione della complessità dei linguaggi securitari disponibili. La crisi di Lampedusa è stata un caso di studio particolarmente interessante proprio perché ha testimoniato quanto lo studio del processo di securitarizzazione possa essere arricchito da una prospettiva che non si limiti alla sola analisi dei discorsi securitari, ma si spinga fino allo studio dettagliato delle prassi securitarie. I due attori politici fondamentali di questa vicenda, il Governo italiano e le istituzioni europee, hanno, infatti, parlato un linguaggio in apparente contraddizione con la logica securitaria in senso stretto, lasciando quest'ultima solo agli attori politici sub-nazionali. Il governo italiano ha da un lato esplicitamente fatto ricorso al frame dell'emergenza umanitaria, utilizzando un linguaggio che almeno teoricamente dovrebbe avere un effetto di de-securitarizzazione essendo centrato sui bisogni di protezione dei migranti; a livello europeo, dall'altro lato, si è utilizzato il linguaggio della gestione ordinaria delle frontiere, invitando ad evitare gli allarmismi secondo una logica che è stata sostenuta anche dall'UNHCR. Se si guarda tuttavia anche alla prassi, e non solo alle retoriche discorsive, si nota come entrambe le strategie abbiano avuto un effetto chiaramente securitizzante, stimolando la produzione di una vera e propria emergenza che ha legittimato prassi al di fuori del quadro politico-giuridico ordinario ed è destinata a ridefinire l'assetto del regime confinario europeo.

Il linguaggio emergenziale del Governo italiano è stato, infatti, fortemente ambiguo. Esso ha fatto un uso strumentale del paradigma dell'emergenza umanitaria per tentare di coinvolgere i partner europei nella gestione della crisi e far accettare la violazione delle ordinarie procedure di decisione politica alle amministrazioni locali, ma all'ombra della retorica dell'emergenza umanitaria è stata legittimata una gestione della crisi secondo prassi in aperta violazione dell'ordinamento giuridico e dei principi costituzionali, con pesanti conseguenze per i diritti fondamentali dei migranti. La cooptazione del paradigma della protezione umanitaria da parte del Governo italiano ha finito per trasformare la cosiddetta human security in un potente, e più subdolo, strumento di securitarizzazione, producendo la paradossale situazione per cui la protezione della vita dei migranti passa attraverso una violazione dei loro diritti fondamentali.

La risposta delle istituzioni europee è stata, come illustrato, sin dal principio centrata sul rifiuto della retorica emergenziale proposta dal Governo Italiano, parlando piuttosto il linguaggio dell'ordinario controllo delle migrazioni irregolari. Così facendo le istituzioni europee invitavano le autorità italiane ad un'assunzione di responsabilità rispetto alla crisi in atto, rigettando al contempo il potenziale de-securitizzante che pure era presente nella retorica dell'emergenza umanitaria cui ricorreva il Ministro Maroni. I migranti in arrivo dalla Tunisia venivano così accomunati ai comuni migranti economici secondo un frame che spingeva inevitabilmente verso la criminalizzazione e rafforzava, seppure involontariamente, le spinte verso una più decisa securitarizzazione della crisi che provenivano dal livello sub-nazionale. La sostanziale attitudine securitaria dei partner europei è stata infine confermata dal dibattito apertosi attorno alla questione della riforma del meccanismo di governance del sistema Schengen, tutto centrato sulla necessità di creare un meccanismo di protezione più efficace per lo spazio europeo di freedom, security and justice quando le turbolenze politico-sociali alla periferia appaiono incontrollabili.

La crisi del regime confinario europeo sembra, infatti, aver spinto i paesi membri ad una riflessione più attenta sul confine tra norma ed eccezione nel governo delle migrazioni, aprendo un processo di riforma il cui esito sarà appunto una rideterminazione della prerogativa sovrana di definire l'emergenza nel campo delle politiche migratorie. Il sistema attuale si basava su una strana mescolanza tra i poteri conservati dagli Stati nazione, soprattutto quando venivano in questione l'ordine e la sicurezza pubblica, e vincoli politico-giuridici posti dal diritto europeo all'azione unilaterale; esso si è dimostrato inefficace a governare il crollo del sistema di protezione dei confini europei creato negli anni de-localizzando i controlli sull'altra sponda del Mediterraneo, innescando un violento conflitto politico-istituzionale tra Italia, paesi membri ed istituzioni europee. L'esito di tale scontro è ancora in parte incerto, anche se le alternative possibili sono sufficientemente chiare: da un lato la Commissione ha in mente l'ambizioso progetto di avocare la prerogativa sovrana di definire l'emergenza, creando un meccanismo istituzionale che limiti i poteri di azione unilaterale degli Stati membri in materia; dall'altro questi ultimi spingono per una maggiore flessibilità nell'uso del potere di riattivare i controlli alle frontiere interne, in modo da rispondere prontamente alle crisi migratorie che potrebbero verificarsi ai confini esterni creando un filtro di controlli ulteriore nel cuore dello spazio Schengen.

L'esito probabile di tale processo di riforma appare essere proprio quello di una complessa ri-definizione del borderscape europeo secondo una logica che ridisegna la frontiera come spazio a geometria variabile in grado di modificarsi a seconda delle circostanze (97). Quello che è interessante notare è come tale geometria variabile serva per produrre un filtro securitario governato secondo differenti modelli di legalità in base ai quali, all'avvicinarsi al centro dell'area di freedom, security and justice aumentano le garanzie giuridiche che negli spazi periferici sono parzialmente o totalmente negate. I paesi periferici dell'Unione si affiancano così ai paesi terzi vicini nel costituire un cordone securitario di legalità limitata, questa volta interno allo spazi europeo, che occasionalmente può essere escluso dallo spazio di libertà, sicurezza e giustizia dei paesi core allo scopo di confinarvi le funzioni di filtraggio delle migrazioni irregolari che i paesi terzi vicini non sono in grado di svolgere.

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  • Paoletti E., Pastore F., Sharing the dirty job on the southern front? Italian-Libyan relations on migration and their impact on the European Union, International Migration Institute Working Papers, Oxford, 2010.
  • Saint-Bonnet F., L'état d'exception, Presses Universitaire de France, Paris, 2001.
  • Schmitt C., Die Diktature, Duncker & Humblot, München-Leipzig, 1921.
  • Smith S., "The increasing insecurity of security studies: Conceptualizing security in the last twenty year", Contemporary Security Policy, 20 (1999), 3, pp. 72-101.
  • Stritzel H., "Towards a Theory of Securitization: Copenhagen and Beyond", European Journal of International relations, 13 (2007), 3, pp. 357-383.
  • Vassallo Paleologo F., "Lampedusa, Mineo, Manduria. Detenzione arbitraria e violazione dei diritti dei migranti", Melting Pot, 28 marzo 2011.
  • Vassallo Paleologo F., Ballerini A., "Respingimenti, rimpatri e decreti speciali. Dallo stato di emergenza allo Stato di Polizia", Melting Pot, 13 aprile 2011.
  • Waever O., "Securitization and Desecuritization", in Lipschuts R. D. (a cura di), On security, Columbia University Press, New York, 1995, pp. 46-86.
  • Walters W., "The Frontiers of the European Union: A Geostrategic Perspective", Geopolitics, 9 (2004), 3, pp. 674-698.
  • - "Border/Control", European Journal of Social Theory, 9 (2006), 2, pp. 187-203.
  • Williams M.C., "Words, Images, Enemies: Securitization and International Politics", International Studies Quarterly, 47 (2003), 4, pp. 511-531.

Note

*. Il presente lavoro è frutto delle ricerche che ho svolto in qualità di Jean Monnet Post-Doctoral Fellow presso l'European University Institute nel corso dell'anno accademico 2010/2011.

**. Università di Bari "Aldo Moro".

1. Frontex, Annual Report, Warsaw 2009, p. 5; Ministero dell'Interno, Iniziative dell'Italia: sicurezza, immigrazione e asilo, Roma, 2010, pp. 27.

2. Cfr. E. Paoletti, A Critical Analysis of Migration Policies in the Mediterranean: The Case of Italy, Libya and the EU, RAMSES Working Paper, Oxford, 2009; E. Paoletti, F. Pastore, Sharing the dirty job on the southern front? Italian-Libyan relations on migration and their impact on the European Union, International Migration Institute Working Papers, Oxford, 2010; E. Paoletti, "Power Relations and International Migration: The Case of Italy and Libya", Political Studies, (2010), pp. 1-21.

3. J. Huysmans, "The European Union and the Securitization of Migration", Journal of Common Market Studies, 38 (2000), 5, pp. 751-777; J. Huysmans, The Politics of Insecurity. Fear, migration and asylum in EU, Routledge, London, 2006; R. van Munster, Securitizing Immigration. The politics of Risk in the EU, Palgrave MacMillan, London, 2009.

4. O. Waever, "Securitization and Desecuritization", in R. D.Lipschuts (a cura di), On security, Columbia University Press, New York, 1995, pp. 46-86.

5. O. Weaver, Securitization and Desecuritization, cit., p. 65.

6. Oltre a ai contributi citati alla nota 3, cfr. anche R. Lynn Doty, "Immigration and the politics of security", Security Studies, 8 (1998), 2, pp. 71-93; A. Ceyhan, A. Tsoukal, "The securitization of Migration in Western Societies: Ambivalent Discourses and Policies", Alternatives, 27 (2002), pp. 21-39; G. Karyotis, "European Migration Policy in the aftermath of September 11", Innovation: The European Journal of Social Science Research, 20 (2007), 1, pp. 1-17; E. Guild, Security and Migration in the 21st Century, Polity Press, Cambridge, 2009.

7. Cfr. K. Krause, M.C. Williams, "Broadening the Agenda of Security Studies: Politics and Methods", Mershon International Studies Review, 40 (1996), 2, pp. 229-254; S. Smith, "The increasing insecurity of security studies: Conceptualizing security in the last twenty year", Contemporary Security Policy, 20 (1999), 3, pp. 72-101.

8. F. Saint-Bonnet, L'état d'exception, Presses Universitaire de France, Paris, 2001; G. Agamben, Stato d'eccezione. Homo sacer II, Bollati e Boringhieri, Torino, 2003.

9. Cfr. M.C. Williams, "Words, Images, Enemies: Securitization and International Politics", International Studies Quarterly, 47 (2003), 4, pp. 511-531.

10. J. Ferejohn, P. Pasquino, "The law of the exception: A typology of emergency powers", International Journal of Constitutional Law, 2 (2004), 2, pp. 210-239; M. Neocleous, "The problem with normality: taking exception to permanent emergency", Alternatives, 31 (2006), 2, pp. 1-20.

11. D. Bigo, "Security and Immigration: Toward a Critique of the Government of Unease", Alternatives, 27 (2002), pp. 63-92; A. W. Neal, "Securitization and Risk at the EU Border: The Origins of FRONTEX", Journal of Common Market Studies, 40 (2009), 2, pp. 333-356.

12. J. Ferejohn, P. Pasquino, "The law of the exception: A typology of emergency powers", cit., pp. 215.

13. C. Schmitt, Die Diktature, Duncker & Humblot, München-Leipzig, 1921.

14. Per una revisione critica della teoria della securitarizzacione cfr. M. McDonald, "Securitization and the Construction of Security", European Journal of International Relations, 14 (2008), 4, pp. 563-587; T. Balzacq, "The Three Faces of Securitization: Political Agency, Audience and Context", European Journal of International Relations, 11 (2005), 2, pp. 171-201; T. Balzacq, "A theory of securitization: origins, core assumptions and variations", in T. Balzacq (a cura di), Securitization Theory. How security problems emerge and dissolve, Routledge, London, 2011, pp. 1-30.

15. B. Buzan, O. Wæver, J. de Wilde, Security: a new framework for analysis, Lynne Rienner Publishers, London, 1998, p. 33.

16. H. Stritzel, "Towards a Theory of Securitization: Copenhagen and Beyond", European Journal of International relations, 13 (2007), 3, p. 364.

17. Ivi, p. 369.

18. T. Balzacq, "A theory of securitization: origins, core assumptions and variations", cit., p. 13.

19. Ivi, p. 3.

20. Roberto Maroni, Corriere della Sera, 14 febbraio 2011.

21. Prefetto Giuseppe Caruso, Commissario speciale all'emergenza sbarchi, Il Messaggero, 14 febbraio 2011.

22. Roberto Maroni, Avvenire, 15 febbraio 2011.

23. Laura Boldrini, La Stampa, 22 febbraio 2011.

24. Luca Zaia, Governatore della Regione Veneto, Quotidiano Nazionale, 24 marzo 2011.

25. Si vedano La Repubblica del 15 e del 17 febbraio 2011; La Stampa del 15 febbraio 2011.

26. Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2011.

27. Ibid.

28. Sull'ambiguità del paradigma della cosiddetta human security cfr. in particolare R. Floyd, "Human Security and the Copenhagen School's Securitization Approach. Conceptualizing Human Security as a Securitizing Move", Human Security Journal, 5 (2007), pp. 38-49; M. De Larrinaga, M. G. Doucet, "Sovereign Power and the Biopolitics of Human Security", Security Dialogue, 39 (2008), 5, pp. 517-537.

29. Cfr. in particolare D. Bigo, "Globalized (in)Security: the Field and the Ban-opticon", in D. Bigo (a crua di), Illiberal Practices of Liberal Regimes: The (in)security games, L'Harmattan, Paris, 2006, pp. 5-49.

30. T. Balzacq, "A theory of securitization: origins, core assumptions and variations", cit., p. 16.

31. Cfr. i contributi di Didier Bigo già menzionati.

32. A. Fioritto, L'amministrazione dell'emergenza tra autorità e garanzie, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 48.

33. Oltre al lavoro di Alfredo Fioritto, già menzionato, si veda la bella inchiesta di E. Bonaccorsi, Potere assoluto. La protezione civile ai tempi di Bertolaso, Edizioni Alegre, Roma, 2009.

34. Si vedano in particolare il Dpcm del 20 marzo 2002 n. 21128, con cui è stato dichiarato lo stato di emergenza "per fronteggiare l'eccezionale afflusso di extracomunitari", e le successive proroghe decretate con i Dpcm 11 dicembre 2002 n. 25687; 7 novembre 2003 n. 12206; 23 dicembre 2004 n. 16289; 28 ottobre 2005 n. 19729; 16 marzo 2007 n. 25760; 14 febbraio 2008 n. 29956; 19 novembre 2009 n. 42326; 17 dicembre 2010, n. 49972, che hanno di fatto reso l'emergenza permanente.

35. Dpcm 12 febbraio 2011 n. 50936; pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 42 del 21 febbraio 2011.

36. Come ha pubblicamente rilevato la direttrice dello Sprar, Daniela Di Capua, "nelle cosiddette emergenze, improvvisamente lo Sprar - che dovrebbe essere il perno nella gestione dell'accoglienza - è stato completamente ignorato e scavalcato, come se non esistesse, se si dovesse ricominciare da capo e tutto dovesse essere ancora inventato nell'ambito dell'asilo in Italia" (Redattore Sociale, 14 aprile 2011)

37. Come specifica un press release del 16 febbraio 2011 dell'agenzia Frontex, "The Italian Government requested assistance in strengthening the surveillance of the EU's external borders in the form of a Joint Operation. In addition, Italy requested a targeted risk analysis on the possible future scenarios of increased migratory pressure in the region in the light of recent political developments in North Africa and the possibility of the opening up of a further migratory front in the Central Mediterranean area."

38. Avvenire, 15 febbraio 2011.

39. SPEECH/11/106 - 15 febbraio 2011.

40. Il JHA Council avrebbe dovuto infatti discutere, tra le altre cose, il piano sulla politica in materia migratoria e di asilo della Grecia, la bozza di accordo di riammissione con la Turchia e l'ingresso nell'area Schengen di Romania e Bulgaria; tutte questioni cruciali relative al controllo della frontiera orientale dell'Unione.

41. Consiglio dell'Unione Europea, Extraordinary European Council Declaration, Brussels, 20 April 2011 (EUCO 7/1/11), p. 4

42. La Stampa, 12 aprile 2011.

43. Consiglio dell'Unione Europea, Council Conclusions on the management of migration from the Southern Neighborhoods, 3081st Justice and Home Affairs Council meeting, Luxembourg, 11 and 12 April 2011, p. 2.

44. Ivi, p. 3.

45. Per una discussione di un altro caso di crisi del modello di gestione dei confini esterni, cfr. S. Carrera, The EU Border Management Strategy FRONTEX and the Challenges of Irregular Immigration in the Canary Islands, CEPS Working Document, Brussels, 2007.

46. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 1995, p. 24.

47. G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 195; G. Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati e Boringhieri, Torino, 2006, p. 39.

48. Si consideri che dal 2006 al 2010 la voce di bilancio relativa alle risk analysis è passata da 187.000 euro a 1.800.000 euro.

49. La Repubblica, 11 febbraio 2011.

50. Avvenire, 1 marzo 2011.

51. La Stampa, 21 febbraio 2011.

52. Cfr. F. Vassallo Paleologo, "Lampedusa, Mineo, Manduria. Detenzione arbitraria e violazione dei diritti dei migranti", Melting Pot, 28 marzo 2011.

53. Dichiarazioni peraltro prontamente smentite dall'UNHCR, ber bocca della sua rappresentante in Italia, Laura Boldrini, la quale ha dichiarato che "a Lampedusa non vengono formalizzate domande d'asilo"(Avvenire, 24 marzo 2011).

54. La Repubblica, 17 Febbraio 2011.

55. Avvenire, 23 febbraio 2011.

56. L'Unità, 17 febbraio 2011.

57. Avvenire, 8 marzo 2011.

58. Raffaele Lombardo, Governatore Regione Sicilia, Corriere della Sera, 25 marzo 2011.

59. Pignataro Francesco, Sindaco di Caltagirone, Avvenire, 24 marzo 2011.

60. La Repubblica, 27 marzo 2011.

61. Corriere della Sera, 25 marzo 2011.

62. Soprattutto presso i centri di Bari Palese e Isola Capo Rizzuto, che svolgono le funzioni sia di CARA che di CIE e possono ospitare oltre 1.500 immigrati contemporaneamente.

63. Il Giornale, 23 marzo 2011.

64. Il Giornale, 24 marzo 2011.

65. Avvenire, 24 marzo 2011; Libero, 24 marzo 2011.

66. Corriere della Sera, 28 marzo 2011.

67. Alle regioni si chiede un'intesa di massima sui siti, ma non un contributo nella gestione. Del resto la scelta dei siti in questo caso non è di competenza della protezione civile, dato che non si tratta di strutture di accoglienza umanitaria, ma di strutture per esigenze di "difesa civile" di competenza del Ministero dell'Interno che può agire indipendentemente da un'intesa con gli enti locali (cfr. Avvenire, 1 aprile 2011.

68. l'Unità, 1 aprile 2011.

69. Avvenire, 1 aprile 2001.

70. F. Vassallo Paleologo, "Lampedusa, Mineo, Manduria. Detenzione arbitraria e violazione dei diritti dei migranti", cit.

71. Cfr. l'Unità, 4 aprile 2011; Terra, 8 aprile 2011. L'accesso alle strutture è stato disciplinato da una Circolare Interna del Ministero dell'Interno, n. 1305 del 01.04.2011, in base alla quale l'ingresso nelle strutture di accoglienza e di detenzione è consentito, "fino a nuova disposizione", solo ad esempio organismi non governativi che contribuiscono alla gestione del centro (quali IOM, CRI, Caritas) e parlamentari europei, deputati e senatori della Repubblica, consiglieri regionali. Come accennato, le cronache registrano ripetuti casi di diniego del diritto di accesso anche a parlamentari, mentre l'accesso da parte dei giornalisti è stato vietato anche presso strutture formalmente non sottoposte al regime dei centri detentivi chiusi.

72. l'Unità, 4 aprile 2011.

73. Cfr. il documento che il 22 aprile 2011 la Segreteria Nazionale del COISP (Coordinamento per l'Indipendenza Sindacale delle Forze di Polizia) ha inviato all'Ufficio per le relazioni sindacali del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell'Interno (Prot. 689/11 S.N.; Roma, 22 aprile 2011).

74. Quotidiano Nazionale, 6 aprile 2011.

75. La Stampa, 15 marzo 2011.

76. Il Fatto quotidiano, 1 aprile 2011.

77. Quotidiano Nazionale, 6 aprile 2011.

78. MEMO/11/226 Brussels, 8 April 2011, p. 3.

79. Il sole 24 Ore, 7 aprile 2011.

80. Il sole 24 Ore, 28 marzo 2011.

81. Reuters Italia, 28 marzo 2011.

82. Corriere della Sera, 29 marzo 2011.

83. Corriere della Sera, 4 aprile 2011.

84. Corriere della Sera, 4 aprile 2011; Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2011.

85. J.-P- Cassarino, "Informalising Readmission Agreements in the EU Neighbourhood", The International Spectator, 42 (2007), 2, pp. 179-196.

86. T. Basaran, "Security, Law, Borders: Spaces of Exclusion", International Political Sociology, 2 (2008), pp. 339-354.

87. ANSA, 12 aprile 2011.

88. Cfr. F. Vassallo Paleologo, A. Ballerini, "Respingimenti, rimpatri e decreti speciali. Dallo stato di emergenza allo Stato di Polizia", Melting Pot, 13 aprile 2011.

89. Corriere della Sera, 12 Aprile 2011.

90. La Repubblica, 15 marzo 2011.

91. Cfr. l'instruction aux préfets, emanata il 6 aprile 2011 dal Ministero dell'Interno francese. Il testo è stato reso noto da Le Figaro.

92. Tanto il decreto italiano quanto le reazioni francesi appaiono conformi al diritto europeo: da un lato il codice Schengen prevede la possibilità di derogare ai requisiti che gli extracomunitari devono possedere per l'ingresso in caso di "motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali" (punto 4.c art. 5, Schengen Border Code - Regulation (EC) No 562/2006); dall'altro lato, la Francia si è limitata a pretendere dalla sua polizia di frontiera un più stretto controllo dei requisiti previsti dal comma 1 dell'art. 5 del medesimo codice.

93. Avvenire, 18 aprile 2011.

94. Cfr. E. Guild, S. Carrera, Joint Operation RABIT 2010 - FRONTEX Assistance to Greece's Border with Turkey: Revealing the Deficiencies of Europe's Dublin Asylum System, CEPS Working Document, Brussels, 2010.

95. Commissione dell'Unione europea, Communication on migration, Brussels, 4 maggio 2011 (COM(2011) 248 final), p. 5.

96. Ivi, p. 8.

97. Sulle implicazioni geopolitiche della nozione di borderscape cfr. W. Walters, "The Frontiers of the European Union: A Geostrategic Perspective", Geopolitics, 9 (2004), 3, pp. 674-698; W. Walters, "Border/Control", European Journal of Social Theory, 9 (2006), 2, pp. 187-203.