2005

Approcci europei alla globalizzazione

Lucia Re

In Europa, negli ultimi quindici anni si è discusso molto di "globalizzazione". Il termine, per quanto diffuso, non è mai stato definito univocamente. Di esso esistono tante interpretazioni, quante sono le letture dei fenomeni cui si riferisce. Il termine "globalizzazione" è quindi talmente polivalente da apparire vago e fuorviante, ma, anche per l'ampiezza del dibattito che si è sviluppato intorno a questa 'nozione-contenitore', sembra ormai difficile rinunciarvi.

Vorrei qui presentare un aspetto parziale del dibattito che si è svolto in Europa intorno alla "globalizzazione", intesa, non solo come fenomeno storico ma anche come nozione filosofica e sociologica. La discussione su questi temi è ancora in corso ed è di grande complessità, io mi limiterò ad analizzare due approcci critici, trascurando il pensiero degli apologeti della globalizzazione. Riferendomi agli "approcci europei alla globalizzazione", intendo indicare quelle interpretazioni che del fenomeno sono state date dai principali protagonisti del dibattito inglese, francese e tedesco (il dibattito italiano è sostanzialmente debitore di quello svoltosi in questi paesi). L'aggettivo "europeo" dunque deve essere inteso in senso restrittivo: non intendo affermare che si possano considerare queste interpretazioni come espressioni di una sorta di "scuola di pensiero europea", benché sia possibile cogliere alcune costanti nella riflessione degli autori europei su questi temi.

Articolerò la mia esposizione intorno ad una grande divisione che si può individuare nell'ambito del pensiero critico europeo: quella fra coloro che ritengono che la "globalizzazione" sia un "fatto" o un "processo storico" e coloro che invece ritengono che essa possa essere considerata come mera "doxa", come una "ideologia". Solo i primi si sono sforzati di definire il fenomeno cercando di cogliere i tratti di quella che spesso hanno ritenuto essere una grande rottura nella storia del Novecento. Mi propongo quindi di analizzare questi due atteggiamenti che -semplificando - mi paiono riconducibili, rispettivamente, il primo, a teorici e sociologi come Anthony Giddens, Ulrich Beck, Zygmunt Bauman e il secondo alla 'scuola francese' di Pierre Bourdieu e degli intellettuali legati al noto mensile di politica internazionale "Le monde diplomatique".

Per quanto riguarda la prima corrente di pensiero, mi soffermerò in particolare sul tema del declino dello Stato nazione al quale autori come Giddens, Beck e Bauman hanno dedicato grande attenzione. Per la seconda, tenterò di illustrare la critica che Bourdieu e altri intellettuali francesi hanno rivolto alla "globalizzazione", intesa come "ideologia che produce effetti reali", che condiziona le scelte politiche dei paesi socialdemocratici europei, determinando il progressivo abbandono del cosiddetto Welfare State.

Infine, accennerò alla sfida che la globalizzazione muove all'Europa in costruzione. La globalizzazione - e soprattutto una delle sue principali conseguenze, la migrazione - sembra infatti aver fatto riscoprire all'Europa il Mar Mediterraneo dove è nata la sua civiltà. L'Europa ha risposto con difficoltà a questa sfida, divisa fra la tentazione della chiusura nella fortezza occidentale e la spinta verso la costruzione di una nuova dimensione mediterranea.

Fra coloro che ritengono che la globalizzazione sia un "fatto" e che come tale essa non possa essere contrastata, vi sono alcuni fra i più noti sociologi europei, come Bauman, Giddens, Beck. Secondo questi autori è sterile una discussione intorno alla auspicabilità della globalizzazione, poiché questa è un processo storico ormai compiutosi. Dobbiamo quindi chiederci non se la globalizzazione sia buona o cattiva, ma come governarne gli effetti. Questo non significa tuttavia che il termine "globalizzazione" debba essere assunto "come una norma che non si discute" (1). Scrive Bauman: "la parola globalizzazione è sulla bocca di tutti; è un mito, un'idea fascinosa, una sorta di chiave con la quale si vogliono aprire i misteri del presente e del futuro (...). Per alcuni, "globalizzazione" vuol dire tutto ciò che siamo costretti a fare per ottenere la felicità; per altri, la globalizzazione è la causa stessa della nostra infelicità" (2). Secondo Bauman, al di là della valutazione che diamo del fenomeno, tutti percepiamo che cosa significhi vivere nella globalizzazione, ne abbiamo un'esperienza diretta. Non ha quindi senso rifiutare la globalizzazione. Dobbiamo piuttosto imparare a conoscerla, dobbiamo comprendere come essa presenti "molti più aspetti di quanto comunemente si pensi" (3) e sottoporla a critica.

Al pensiero critico Bauman affida quindi il compito di esaminare le differenti pratiche umane che vengono assorbite dal termine "globalizzazione" per comprendere le trasformazioni in atto ed evitare che i "processi reali" scompaiano ai nostri occhi, occultati da parole d'ordine oscure e cariche di fatalismo. La globalizzazione è quindi sì un fatto storico, ma non è un destino al quale abbandonarsi. Il primo sforzo della critica è dunque, per Bauman, quello di dare alla nozione "globalizzazione" dei confini, di definirla.

Le definizioni del termine "globalizzazione" sono numerosissime; una delle più note è stata data da Anthony Giddens nel suo saggio intitolato Le conseguenze della modernità. Secondo Giddens, il termine "globalizzazione" designa "l'intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località distanti, facendo sì che gli eventi locali vengano modellati dagli eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa" (4). Nonostante le numerose critiche che le sono state mosse, questa definizione appare ancora oggi una delle più esaustive. Essa rappresenta infatti un tentativo di descrivere il processo di globalizzazione, senza attribuire un ruolo predominante a una sola dimensione. La "interconnectedness" di Giddens presuppone la rivoluzione informatica e tecnologica, ma non esclude il contemporaneo verificarsi di dinamiche altrettanto rilevanti in altri settori dell'agire istituzionale (come l'economia, la politica internazionale, la cultura...). La definizione di Giddens inoltre ha il pregio di indicare l'effetto principale del processo di globalizzazione: la globalizzazione modifica la percezione della 'distanza' e ridisegna i confini esistenti. Ridisegnare i confini non significa tuttavia abbatterli, ma collegare fra loro, 'connettere', luoghi un tempo 'distanti' e, contemporaneamente, allontanare, 'disconnettere', luoghi che erano ritenuti 'vicini'. Com'è stato da più parti sottolineato, l'Africa appare oggi molto più distante del Giappone dal continente europeo.

Anche per Ulrich Beck (5), la globalizzazione non è un processo totale, che avvolge in un'unica tela tutto il globo, ma significa piuttosto 'transnazionalizzazione': essa rompe la cornice degli Stati nazionali, cosicché questi "non vengono più concepiti solo in una prospettiva internazionale" e "nasce qualcosa di nuovo, uno spazio intermedio che non può più essere ricondotto nelle vecchie categorie" (6). La dimensione transnazionale, inoltre, conferisce una nuova importanza al luogo: la dimensione locale e la dimensione globale prevalgono sulla dimensione nazionale. La nazione cessa di essere l'istanza mediatrice fra la località e il resto del mondo. Questa interpretazione della globalizzazione individua le conseguenze politiche e istituzionali di questo processo. In quest'ottica, l'avvento della globalizzazione non determina la 'fine della politica' (né tantomeno la "fine della storia", come paventato da Francis Fukuyama (7)), determina invece, come ha rilevato Robert O'Brien, l'inizio di una nuova geografia (8).

Indissolubilmente connesso al tema della globalizzazione c'è dunque per questi autori quello della trasformazione dello Stato nazione. La politica non sarebbe eliminata dal mutamento radicale in corso, essa sarebbe però collocata "al di fuori del quadro categoriale dello Stato nazione" (9). La nuova economia capitalistica, che si muove a livello globale, ignorerebbe i vincoli e le esigenze dello Stato nazionale. Le distanze riformulate dalla rivoluzione tecnologica permetterebbero infatti agli attori sociali, e in particolare a quelli dotati di ingenti capitali, di dislocare le proprie attività in differenti zone del pianeta, scegliendo di volta in volta la sede più conveniente. Secondo Zygmunt Bauman, uno dei principali effetti della globalizzazione è proprio la rottura del legame tipico della prima modernità fra le "forze essenziali", che creano "dipendenze", e gli "strumenti di azione" (10). Le prime si muovono infatti a livello globale, mentre i secondi restano ancorati a una dimensione locale. Le istituzioni politiche create nella prima modernità esistono in quanto sono in rapporto con un territorio determinato, il territorio sul quale si esercita la sovranità statale. Esse sono quindi "glebae adscriptae" (11), mentre le principali forze economiche, tecnologiche e culturali si muovono nel cyberspazio (12), svincolate da ogni relazione necessaria con il territorio.

Da questo quadro, tuttavia, autori come Bauman, Beck, Giddens, non deducono l'imminente scomparsa degli Stati nazionali. La globalizzazione determina un trasferimento di sovranità dagli Stati ai mercati - secondo la definizione riduttiva ma efficace di Susan Strange (13) - ma tende a conservare i contenitori statali. Questi appaiono indeboliti soprattutto nell'esercizio delle proprie prerogative sovrane in ambito internazionale e nella capacità di garantire ai propri cittadini quel "benessere" che lo Stato sociale novecentesco si era proposto di realizzare.

A questa stessa constatazione pervengono anche quegli autori che muovono alla nozione di "globalizzazione" una critica più radicale, affermando che essa non si limita, come sostiene Bauman, a occultare la complessità dei "processi reali" in corso, ma legittima una lettura falsata dei fenomeni sociali, determinando così il prodursi degli effetti che essa sostiene di "descrivere". La globalizzazione sarebbe insomma, coma hanno sostenuto Pierre Bourdieu e Loic Wacquant, una "profezia autorealizzantesi" (14).

In alcuni dei suoi scritti più esplicitamente politici, raccolti nei volumi Contre-feux e Contre-feux 2 - fra gli ultimi pubblicati quando era ancora in vita - Bourdieu attacca frontalmente i teorici della globalizzazione. La parola "globalizzazione" è secondo Bourdieu uno "pseudoconcetto allo stesso tempo descrittivo e prescrittivo" (15): da una parte esso indica infatti "l'unificazione del campo economico mondiale" (16) pretendendo di descrivere un fenomeno, dall'altra esso gioca un ruolo "performativo" (17), designando "una politica economica mirante a unificare il campo economico attraverso una serie di misure giuridiche e politiche volte ad abbattere tutti i limiti che tale unificazione si trova di fronte, tutti gli ostacoli a questa estensione, che per lo più sono legati alla esistenza dello Stato nazione" (18). L'ambiguità della nozione "globalizzazione" sarebbe quindi il presupposto della forza simbolica di tale concetto. Il termine "globalizzazione" ha secondo Bourdieu una funzione "naturalizzante": esso mira a legittimare l'idea che la globalizzazione economica - ossia la unificazione dei mercati finanziari - sia un effetto meccanico delle leggi della tecnica o dell'economia e non il prodotto di scelte politiche. Nelle scienze sociali la parola "globalizzazione" ha secondo Bourdieu sostituito il termine "modernizzazione", "a lungo utilizzato nelle scienze sociali statunitensi come un modo eufemistico di imporre un modello evoluzionista ingenuamente etnocentrico che permette di classificare le diverse società secondo la loro distanza dalla società economicamente più avanzata, ovvero dalla società americana, istituita così come termine e fine di tutta la storia umana" (19). La "globalizzazione" - intesa sia come nozione sia come modello - incarnerebbe così "la forma più completa dell'imperialismo dell'universale, quella che consiste, per una società, a universalizzare la propria particolarità istituendola tacitamente a modello universale" (20). La parola "globalizzazione" permette secondo Bourdieu di trasformare il processo di unificazione del campo mondiale dell'economia e della finanza in "un destino ineluttabile e in un progetto politico di liberazione universale, nel fine di una evoluzione naturale, in un ideale civico ed etico che, in nome del legame postulato fra la democrazia e il mercato, promette un'emancipazione politica ai popoli di tutti i paesi" (21). Inoltre, la nozione di "globalizzazione", per assolvere il suo compito "performativo", si inserirebbe in una retorica che viola tutte le regole del discorso sociologico. Essa si fonda secondo Bourdieu (22) su: constatazioni normative, veri e propri "mostri logici", quale ad esempio la frase spesso ripetuta: "l'economia si globalizza; dobbiamo globalizzare la nostra economia"; "eufemismi tecnocratici", come quello che sostituisce alla parola "licenziare" la locuzione "ristrutturare l'impresa"; nozioni o locuzioni preconfezionate, semanticamente indeterminate, banalizzate dall'uso automatico, come "deregulation", "disoccupazione volontaria" - per citare solo alcune delle strategie retoriche del discorso sulla "globalizzazione" studiate da Bourdieu. Attraverso questa retorica la "globalizzazione" è secondo Bourdieu divenuta una "doxa", un "insieme di opinioni comuni, di credenze stabilite, di pregiudizi che non hanno bisogno di essere discussi" (23). Bourdieu attacca i "doxosofi", i "tecnici-dell'- opinione-che-si-credono-sapienti" (24), i quali si dedicano, attraverso i mass media, alla elaborazione dei "luoghi comuni", delle "nozioni o delle tesi con le quali si argomenta ma sulle quali non si argomenta" (25). La doxa neoliberale ha per Bourdieu forgiato il mito della globalizzazione estendendo la unificazione dei mercati finanziari a tutti gli altri settori della vita sociale e impedendo la formazione di un discorso alternativo, in particolare di un discorso politico in grado di integrare i sistemi nazionali su scala regionale. Per Bourdieu la "globalizzazione" cela così ad esempio il dato che la maggioranza delle transazioni di carattere economico e la maggioranza degli scambi industriali si effettuano ancora oggi a livello continentale e che persino l'utilizzo di internet tende ancora a seguire le divisioni nazionali esistenti. Si sottace così l'importanza della rete di scambi economici e culturali operante nell'area europea, impedendo la costruzione di una politica comune in grado di contrastare gli effetti devastanti del capitalismo finanziario globale.

La natura ideologica della "globalizzazione" quindi, lungi dall'essere un limite, permette al discorso neoliberale di produrre proprio quegli effetti che esso pretende di descrivere come conseguenze naturali di un processo inarrestabile di unificazione del mondo. Per Bourdieu, uno dei principali risultati di tale doxa è la demolizione del modello socialdemocratico europeo. La tesi, mai veramente dimostrata, del fallimento dello Stato sociale mira di fatto secondo Bourdieu a imporre una involuzione: l'abbandono incondizionato delle conquiste di uguaglianza realizzate nel corso del Novecento. Poiché la "globalizzazione" è una rivoluzione culturale e ideologica e non un fatto ineluttabile, l'intellettuale critico ha secondo Bourdieu un ruolo importante da svolgere nella messa in discussione della "doxa", a partire proprio dal rifiuto di parole d'ordine che si trasformano in potenti strumenti di imposizione del dominio. A questo compito decostruttivo si affianca però anche un compito propositivo: la costruzione, insieme ai movimenti sociali, di una nuova Europa, nella quale Bourdieu mostra di riporre un certo grado di speranza.

Entrambi gli approcci illustrati sono, come abbiamo visto, critici nei confronti dei fenomeni che essi indicano con il termine "globalizzazione". Sia i critici della teorizzazione stessa della "globalizzazione", sia i critici più moderati appaiono concordi nel rilevare l'esistenza di un processo che trasforma le società occidentali e il loro rapporto con il resto del mondo. La "globalizzazione" sembra a molti osservatori allontanare luoghi un tempo vicini, esaltare i localismi e sradicare, in nome di una koinè globale, le culture miste, sorte da secoli di incontro e di scontro fra civiltà diverse ma "prossime". Nel nuovo rapporto che la globalizzazione - sia essa intesa come una "ideologia che produce effetti reali" o come un processo storico ormai compiutosi - istituisce fra la dimensione locale e quella globale sembra scomparire "il vicinato". Così l'Europa si fa sempre più atlantica e sempre meno mediterranea, si costruisce opponendosi a un "altro"- l'Islam, il Sud - che è invece parte della sua storia e della sua civiltà, rinunciando così alle sue stesse radici. Criticare la "globalizzazione" e il processo di sradicamento che questa comporta significa quindi, almeno per una parte degli autori europei, non solo promuovere la costruzione di un'Europa sociale in grado di contrastare l'aggressione del neoliberismo globale, ma anche elaborare un progetto europeo in grado di opporsi culturalmente alla omogeinizzazione e alla 'brasilizzazione' che la globalizzazione promuove.


Note

1. Z. BAUMAN, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma- Bari 2001, p. 3.

2. Ibid.

3. Ibid.

4. A. GIDDENS, Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994.

5. U. BECK, Libertà o capitalismo?Varcare la soglia della modernità, cit.

6. Ivi, p. 44.

7. Mi riferisco alla nota definizione di Francis Fukuyama. F. FUKUYAMA, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1996.

8. R. O'BRIEN, Global Financial Integration: The End of Geography, Chatman House/Pinter, London 1992.

9. U. BECK, Che cos'è la globalizzazione? Carocci, Roma 1999, p. 13.

10. Le definizioni qui riportate sono state utilizzate da Zygmunt Bauman nel corso di una conferenza sulla "Liquid Modernity" tenuta presso l'Università di Genova il 2/03/2001.

11. Z. BAUMAN, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000, p. 79.

12. Per la nozione di "cyberspazio" vedi P. VIRILIO, The Lost Dimension, Semiotext(e), New York 1991.

13. S. STRANGE, Chi governa l'economia mondiale? Il Mulino, Bologna 1998.

14. Cfr. P. BOURDIEU, Contre-feux, Liber, Paris 1998; e P. BOURDIEU, L. WACQUANT, Les ruses de la raison impérialiste, «Actes de la recherche en sciences sociales», 121-122 (1998).

15. P. BOURDIEU, Contre-feux 2, Liber, Paris 2001, p. 95. Traduzione mia.

16. Ibid.

17. Ibid.

18. Ibid.

19. Ivi, p. 97.

20. Ibid.

21. Ibid.

22. Ivi, pp. 89-90.

23. Il termine "doxa" è com'è noto una delle nozioni- chiave della sociologia di Bourdieu, mi limito qui a spiegarlo brevemente utilizzando il glossario redatto da Alain Accardo in A. ACCARDO, P. CORCUFF (cur), La sociologie de Bourdieu, Le mascaret, Bordeaux 1989, p. 229.

24. P. BOURDIEU, Contre-feux, cit., p. 15. Il termine è mutuato da Platone.

25. Ivi, p. 16.