2010

La Francia e l'islamofobia

Alessandra Marchi (*)

Introduzione. La costruzione dell'alterità islamica

Se l'islamofobia può essere sinteticamente descritta come la paura dell'islam (e di conseguenza dei musulmani o cosiddetti islamici), non altrettanto agile risulta sintetizzare il processo e le dinamiche di costruzione di questo "sentimento" e delle sue manifestazioni.

Assistiamo oggi in diversi paesi europei ad un'evidente preoccupazione nei confronti dell'islam, di norma visto come un tutto indifferenziato e come una minaccia al proprio paese e alla propria identità. Un po' ovunque l'immigrazione sta diventando un problema prima che una risorsa. Nel periodo della globalizzazione le frontiere tornano ad innalzarsi e le differenze ad essere evidenziate spesso in negativo. In tal modo il pregiudizio resta il principale metro di conoscenza dell'altro, quindi dell'islam.

Una breve premessa storica va fatta per ricordare come l'intolleranza e i pregiudizi contro l'islam e i musulmani risalgano a tempi ben lontani; possiamo rimontare almeno all'epoca medievale, quando nella frammentata Europa cristiana, il bisogno di maggior uniformità comportò la creazione dell'islam quale nemico comune (Bausani 2000; Scaraffia 2002; Daniel 1993). Le lotte intestine tra imperi rivali, compreso il papato, contrastavano con un'immagine pacata o comunque veritiera e realista della religione e delle potenze islamiche, che invece si volevano combattere, anche attraverso il sapere. Non vanno però dimenticati i contributi a una miglior conoscenza dell'islam dati dall'umanesimo e dal rinascimento, che mostrarono grande interesse per le opere di autori arabi e musulmani. Pensiamo all'opera di traduzione di autori greci e latini da parte degli arabi; all'averroismo che ebbe una grande diffusione in Italia; all'orientalismo che ribaltò in parte gli stereotipi sul mondo islamico (pur aggiungendone talvolta di nuovi). Nonostante ciò, la diffidenza verso l'islam non è mai venuta meno. La conoscenza promossa dai primi orientalisti e dai primi studiosi specialisti dell'islam (molti dei quali lavoravano per gli imperi coloniali) è progressivamente cresciuta e migliorata, pur restando sin'ora concentrata nei ristretti ambiti accademici e intellettuali.

La ricerca stenta ancora a far valere i suoi risultati e ad influenzare l'opinione pubblica nei paesi europei, dove la paura dell'islam non viene diminuita da una maggior conoscenza del mondo islamico. Al contrario, ci si continua a chiedere se esista, e in che misura, l'islamofobia, termine che per molti appare inappropriato o inadeguato a descrivere certe realtà. Eppure gli atti islamofobici di aggressione e violenza (verbale come fisica) sono frequenti, sebbene siano poco o niente messi in evidenza, nascosti o negati, soprattutto dai media. È in particolare dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 che le manifestazioni islamofobiche aumentano e che i paesi europei cominciano a interessarsene in modo più sistematico, anzitutto attraverso il lavoro dell'Osservatorio europeo su razzismo e xenofobia (dal 2007 Agenzia per i diritti fondamentali). In generale, gli osservatori nazionali ed europei sui fatti religiosi ci mostrano un quadro poco incoraggiante di intolleranza e persistenza dei pregiudizi e delle discriminazioni contro i musulmani, soprattutto immigrati.

L'islam resta perlopiù misconosciuto, mentre sono i musulmani (spesso arabi) ad essere bersaglio di discriminazioni, pregiudizi ed aggressioni, delle forme di razzismo dunque, normalmente a partire dal dato esteriore: la fisionomia (colore della pelle) e i codici vestimentari in particolare sembrano veicolare una percezione dell'altro come arabo/immigrato/musulmano. E tale percezione - avvallata da pregiudizi ormai consolidati - giustificherebbe i frequenti fenomeni di esclusione, paura, discriminazione ecc.

La costruzione sociale e politica di un nemico, ai fini della propria identificazione - e differenziazione - rispetto agli altri, non è certo un fenomeno nuovo. Si tratta anzi di meccanismi e dinamiche che si mantengono costanti nel tempo, anche se non mancano delle trasformazioni nelle modalità di espressione di tale costruzione. Una constatazione banale che però fa preoccupare, dal momento poi che lo studio di questi fenomeni sembra dimostrarsi inefficace a fronte di politiche e dinamiche sociali che giustificano, legittimano e banalizzano quel che chiamiamo islamofobia.

Ma a parte gli atti quotidiani di discriminazione, esiste una sorta di islamofobia veicolata dall'alto, definita anche islamofobia istituzionale, che vede coinvolta la politica e che ricade sulla più generale eterofobia, intrecciadosi con essa ed in particolare con un'islamofobia "popolare" se così la possiamo chiamare. E così la paura dell'altro diventa strutturale.

È necessario riflettere allora sugli effetti dell'islamofobia, e interrogarsi su come agisca anche in ambiti che si dicono lontani da questo tipo di sentimenti, idee e pregiudizi. Come si esplica l'islamofobia nel terreno della laicità e nel campo delle scienze umane e sociali? Vorrei prendere in esame alcuni casi riguardanti la Francia, per cercare di evidenziare alcune problematiche che hanno fatto molto discutere recentemente.

Come è noto, è in corso un importante dibattito a livello nazionale sull'uso del burqa, sollevato dalla richiesta del deputato comunista (PCF) André Gerin che il 17 giugno 2009 aveva depositato una proposta per creare una commissione d'inchiesta parlamentare sull'uso del burqa e del niqab nel territorio francese da parte di alcune donne musulmane. Commissione avviata pochi mesi dopo e conclusasi - come vedremo - a gennaio con un rapporto finale e con una successiva proposta di legge, consultabili in internet.

L'altro caso di cui vorrei parlare riguarda il sociologo Vincent Geisser, che forse per primo ha sollevato la questione dell'islamofobia col suo lavoro di ricerca e con i suoi scritti: in particolare col libro La nouvelle islamophobie, pubblicato a Parigi nel 2003 e che ha suscitato numerosi attacchi, specie da parte dell'estrema destra francese.

La descrizione di questi due casi è utile per capire l'attitudine francese nei confronti della religione e dell'islam in particolare, così come è utile a scopo comparativo rispetto ad altre realtà europee. L'islam in Francia è spesso oggetto di dibattiti accesi e di molta ricerca nelle scienze sociali, anzitutto in relazione alla laicità, che sappiamo essere valore costitutivo della nazione sin dai tempi della Rivoluzione francese (con l'abolizione dei privilegi ecclesiastici), e affermatosi con la legge del 1905 che segnò la definitiva separazione tra Stato e Chiese (1).

L'applicazione della laicità non manca ancor oggi di essere controversa anche nei paesi che più fortemente si richiamano ad essa; da un lato è un principio unificante della Repubblica, dall'altro tende a negare il diritto alla differenza, cioè alla libertà individuale. Tra queste due tensioni si inseriscono le varie voci favorevoli o contrarie all'interdizione dell'uso del velo e di ogni segno di appartenenza religiosa.

La giurisprudenza francese di fronte al "velo islamico"

Le istanze avanzate dal mondo islamico pongono degli interrogativi e delle problematiche molto interessanti per le nostre società, suscitati dalla presenza di milioni di musulmani che vi abitano, lavorano, studiano. La sempre maggior visibilità di certi simboli "islamici" nel territorio francese, ha portato a sollevare da più parti la questione del velo integrale e dell'opportunità di legiferare per proibirne l'uso, una proposta che se non va tacciata immediatamente in termini discriminatori e islamofobici, conferma che anche in Francia l'islam sia la religione che fà problema. Un esempio si è già avuto con la legge del 2004 (2) che proibisce di ostentare i segni religiosi a scuola: legge che è stata immediatamente ribattezzata legge sul velo. Non è tanto la croce a porre problema, quanto il foulard islamico, quanto l'islam come religione e come religione della diversità.

Nonostante, come nota Geisser, l'islam stia diventando una religione in via di francesizzazione, essa è al contempo un problema nazionale, poiché marcherebbe la differenza tra «noi» (laici) e «loro» (musulmani). Così, secondo il sociologo francese, l'islamofobia indica non solo una trasposizione del diffuso razzismo anti-arabo, anti-magrebino e anti-giovani di banlieues; ma è anche religiofobia, è paura della religione, proprio per il carattere pronunciato della laïcité francese.

Oggi non si invoca solo la difesa della laicità nel dibattito sul burqa, ma anche la volontà di combattere un simbolo di alterità totale rispetto alla tradizione occidentale. Il deputato André Gérin ha sollevato la necessità di fare una sorta di ricognizione sull'uso del velo integrale e di ciò che rappresenta rispetto all'ordine pubblico, alla libertà, alla laicità e ai diritti della donna. A tal fine, è stata istituita una commissione di informazione che ha proceduto, tra luglio e dicembre 2009, a una serie di audizioni di sindaci, di associazioni di difesa dei diritti delle donne, di religiosi, di specialisti dell'islam, sociologi, giuristi ecc. Tra le premesse del rapporto scaturito dalla commissione, viene in particolare sottolineata la questione dei diritti delle donne e dell'importazione in Francia di tradizioni culturali o d'ideologie che tentano di imporre un rapporto uomo-donna fondato sulla dominazione, la pressione e anche la minaccia: tutto ciò che la Repubblica non può accettare (benché accada anche nella Repubblica)...

Secondo uno studio del Ministero dell'Interno menzionato nel rapporto, si stimano in 1900 le donne col velo integrale (specie il niqab) presenti in Francia, ed il fenomeno sembrerebbe in aumento, anche se il ministero sembra non disporre di alcuna segnalazione sulla presenza di donne col burqa. Si constata invece l'aumento di giovani che indossano il velo semplice. Nel rapporto si evidenzia inoltre come la pratica del velo integrale sia priva di ogni fondamento religioso, e perciò rifiutata da molti esponenti musulmani stessi: il Consiglio francese del culto musulmano (CFCM), presieduto da M. Moussaoui, per esempio, lo considera una pratica minoritaria ma non religiosa.

Pur trattandosi di un fenomeno realmente minoritario, il velo integrale è considerato dunque tra le "condotte inaccettabili" che si teme avranno come finalità di imporre le norme supposte autentiche della religione musulmana, prima ai musulmani stessi, poi all'insieme della comunità nazionale. Una prospettiva - che possiamo considerare islamofobica - che si ritiene valida in diversi contesti europei, al punto che certe società si sentirebbero messe in discussione nella loro identità e nelle loro libertà dall'uso del velo.

Per argomentare la contrarietà al velo integrale si sposta inoltre l'accento sulla dignità umana, non solo della donna, che verrebbe oltraggiata. Questo implica anche l'affermazione di un punto di vista che si vuole neutrale e non discriminatorio nei confronti dell'islam, anche se si combatte un'usanza comunque attribuita ai musulmani.

Così, nella terza parte del rapporto, intitolata "Liberare la donna dall'influenza del velo", si suggeriscono i metodi per convincere e mediare nell'affermazione dei valori - considerati universali - della repubblica, per combattere i pregiudizi e le imposizioni alle donne e alle minori soprattutto. Tra le proposte avanzate vi sarebbero sanzioni ai predicatori che incitano all'uso del velo integrale o delle misure per ostacolare l'acquisizione del permesso di soggiorno e della nazionalità a chi indossa questo tipo di velo.

Nel rapporto si vuol dimostrare il carattere coercitivo e repressivo di questa pratica, e, d'altro canto, quando si riconosce un'autonomia decisionale alla donna, la sua scelta di portare il velo integrale viene letta come servitù volontaria, tesi ormai in auge tra le analisi mediatiche: non più semplicemente sottomissione, ma "sfida" ai valori repubblicani da parte di giovani e meno giovani, perlopiù cittadine francesi [Geisser 2003: 31].

Le conclusioni del rapporto non convergono sull'adozione di una legge, ma si è optato per una proposta di risoluzione che "riaffermi la preminenza dei valori repubblicani sulle pratiche comunitarie e condanni l'uso del velo integrale come contrario a questi valori" (p.207). Lo strumento giuridico della risoluzione è indicato come più appropriato, perché permette al Parlamento di pronunciarsi su un determinato soggetto ed in tempi rapidi, ma emettendo piuttosto dei consigli, non avendo la risoluzione contenuto normativo come una legge, che comunque è da più parti auspicata, prima o poi.

Diversi deputati (Jean-François Copé, Nicole Ameline, François Baroin, M. Jean-Louis Masson) hanno infatti presentato delle proposte di legge per impedire l'uso di tenute o accessori che abbiano come effetto di dissimulare il volto nei luoghi aperti al pubblico. Nella proposta n.2520 (maggio 2010) (3) è stato sottolineato come la risoluzione votata dall'Assemblea sia uno strumento a forte valenza simbolica, ma non sufficiente a far regredrire delle pratiche pericolose per l'ordine sociale (così l'uso del burqa). Perciò si auspica ora l'adozione di misure repressive attraverso una legge.

La risoluzione prevedeva un'azione pedagogica da svolgersi in una prima fase di interdizione del velo integrale nello spazio pubblico: nei servizi pubblici come amministrazioni, scuole, ospedali, ma anche nei mezzi di trasporto comuni, nei parchi o nei caffé, escludendo misure penali nel caso di violazione. Tra le misure previste invece dal successivo progetto di legge, si distinguono due casi di figura: l'imposizione dell'uso di un abito che dissimuli il volto da parte di altre persone - nel qual caso sono previste sanzioni penali (carcere o multa sino a 15.000 euro) - e l'uso stesso di tale tenuta da parte delle persone, nel qual caso è prevista una semplice multa (stimata in 150 euro).

Sarà interessante seguire le modalità con le quali le misure previste verranno attuate e soprattutto come reagirà la popolazione musulmana: c'è da dubitare che le donne musulmane salutino un nuovo divieto come un modo di proteggere la dignità femminile e umana e la loro libertà di affermare credenze e pratiche - considerate anche impropriamente - religiose. Delle misure restrittive potranno avere come effetto un'ulteriore discriminazione della donna, ma non sembra che questo timore faccia più dubitare sull'opportunità di una legge.

Lo spettro dell'invasione

Un'integrazione tra le esigenze della giurisprudenza e le prospettive delle scienze sociali sarebbe fondamentale nella ricerca di una soluzione alla questione molto complessa e certo delicata dell'uso del velo integrale.

L'interpretazione del velo come simbolo identitario, di affiliazione, di rivendicazione, di scelta o imposizione, è variabile e sempre relativa. Proprio per questo, bisognerebbe mostrarsi molto più cauti nell'attribuire significati che sono comunque molteplici, interconnessi, e che anche a livello giuridico implicano notevoli difficoltà. Eppure si tende in genere a prediligere una visione univoca sul velo, insistendo sull'idea della sottomissione, imposizione e repressione della femminilità e della persona, spesso impedendo una lettura più pacata che non cada però in un semplicistico relativismo culturale.

Nei vari dibattiti che ricorrono nei media, l'islam è diventato una griglia di lettura applicata ai presunti musulmani/e, anticipando persino quelle che sono considerate le "loro battaglie": per la libertà, per l'emancipazione femminile o contro l'oscurantismo degli "imam", figure immaginate come terribili predicatori o leaders che condizionano le masse (normalmente senza conoscere nemmeno il significato della parola). D'altronde sono le stesse letture che possiamo ritrovare in vari contesti, dalla destra alla sinistra, fra intellettuali e giornalisti, in Italia come in Francia (4). In questo modo, si traveste il timore dell'islam da solidarietà e comprensione di una condizione che viene interpretata in termini di debolezza e sottomissione, spesso senza tener conto delle persone interessate, innanzitutto le donne.

L'islamofobia continua ad essere nutrita da un'idea diffusa benché vaga di islam (specialmente di un islam politico e perlopiù maschile), fenomeno di frequente distorto, evidenziato e sovra rappresentato dai media, come da analisti di ogni genere, che mostrano la mancanza di una distanza critica che permetta di discernere, analiticamente, tra dato politico, religioso, culturale e sociale.

V. Geisser osservava nel suo libro del 2003 le manifestazioni di un'ossessione securitaria della minaccia islamica e/o del terrorismo detto islamico (paventata dai media anche tramite i convertiti francesi che sarebbero completamente manipolati da reti islamo-terroriste). Il timore dell'invasione islamica e della minaccia culturale che rappresenterebbe l'islam - di fronte ai valori o alle radici del cristianesimo ritrovati all'occasione - sono ormai formule correnti in Europa. I mass media continuano a riprodurre - banalizzandole - tutta una serie di immagini veicolate dall'alto, che fissano delle rappresentazioni sociali diffuse o già radicate nell'opinione pubblica (Bruno 2008).

L'estrema destra guadagna sempre più consensi in Europa, e spesso il tema islam (più di altri argomenti) fa da collante nella distinzione tra noi e loro. Tra gli esempi più recenti possiamo ricordare le elezioni in Olanda, vinte dallo xenofobo e anti-islamico Partito per la Libertà, Partij Voor Vrijheid (PVV) dell'on. Geert Wilders a Rotterdam, ribattezzata "Eurabia" per l'alta densità di stranieri e governata da un sindaco di origine marocchina. Il PVV ha ottenuto il suo massimo risultato diventando il primo partito e confermando quanto l'islamofobia si stia radicando anche in contesti che sino a ieri avremmo considerato più aperti alla diversità. Wilders è il realizzatore del contestato documentario Fitna, ed è anche un ammiratore della scrittrice Oriana Fallaci (5), come lui stesso ha affermato in un discorso tenuto a Roma presso l'associazione "una via per Oriana" (altro esempio di razzismo islamofobo presente in internet), in cui dà la sua definizione dell'islam con formule che farebbero invidia ai vari Borghezio (6) di casa nostra.

Nel paventare lo spettro dell'invasione islamica, si inserisce, oltre al messaggio dei media, quello di molti politici europei: ovvero quell'islamofobia "istituzionale" osservata da più parti. Il rapporto dell'Assemblea francese sembra confermarlo in larga misura. Anche se le sue modalità di attuazione nella società francese sono in parte cambiate, la rappresentazione dell'islam come totalmente altro resta quasi intatta nella sua essenza (un termine non casuale quando si parla di islam).

Ai musulmani (presunti prima che reali, poiché pregiudizialmente assimilati agli arabi, o considerati musulmani sulla base della provenienza geografica, a prescindere dalla loro appartenenza religiosa) viene attribuito un surplus di religiosità e identificazione con la loro religione che sembrerebbe determinare gli individui per il solo fatto di provenire da dei paesi a maggioranza islamica, dando per scontate un'affiliazione ed una pratica religiose totalizzanti. La differenza che viene sottolineata rispetto ai valori occidentali e alla laicità, porta a considerare il velo integrale nel testo dell'A.N. come un' "intrusione violenta e difficilmente sopportabile nella nostra Repubblica", poiché esprimerebbe per sua propria natura un rifiuto dei valori repubblicani di fratellanza e uguaglianza, ed un loro attacco permanente.

Il velo: simbolo religioso o strumento politico?

Se il velo non fosse così "provocatorio e intrusivo", costituirebbe comunque l'oggetto di una campagna pronunciata contro la dignità umana?

Si dice non sia il caso del semplice velo, dell'hijab. Nel rapporto viene infatti sottolineata la differenza con l'uso del velo semplice, per il quale era necessaria una legge come la n. 2004-228 del 15 marzo 2004 per inquadrare l'uso dei segni o delle tenute ostentatori di un'appartenenza religiosa. Però si afferma come la legge del 2004 "non abbia messo fine al fenomeno dell'uso del velo, poiché non era questo il suo obiettivo [corsivo nostro], ma era quello di preservare la neutralità dell'insegnamento pubblico. In questo l'Assemblea vede un successo". Viene da chiedersi sino a che punto si sia spinta questa ideale neutralità, se un certo numero di ragazze sono state in diversi modi escluse dall'insegnamento pubblico, che perciò stesso ha mancato al suo principale obiettivo: la scolarizzazione pubblica per tutti i giovani.

Nel 2004 il Ministero dell'Interno aveva recensito 1250 studentesse velate (ci furono 150 contenziosi nel 2003, contro 300 nel 1994). Se l'83% delle studentesse velate non suscitava problema, significa che la quasi totalità delle situazioni è stata occultata dai media, a differenza dei rari contenziosi nati dall'uso del velo nelle scuole. Non c'è stata copertura mediatica delle esclusioni definitive dalla scuola, a parte le prime (48 nel gennaio 2005 e più di 60 dimissioni), che quindi non sembrano costituire un problema agli occhi di stampa e tv.

Si tratta per il sociologo Tévanian, autore nel 2005 di Le voile médiatique. Un faut débat : « l'affaire du foulard islamique », di un partito preso dei media, anche se non proclamato, oltre che di una scelta politica alla base dell'affaire, presto seguita dall'opinione pubblica. Certo in questo caso, come nel dibattito attuale, le ragazze e le donne interessate non sono state molto ascoltate: nemmeno una donna che indossa il burqa è presente nelle audizioni, oppure, al contrario, le posizioni anti-proibizioniste più ascoltate sono quelle delle donne velate o dei religiosi, ma quasi mai le voci laiche contrarie all'interdizione del velo.

Tévanian parlava della costruzione di un monologo proibizionista alla base di quel che è divenuto un problema nazionale che ha presto superato i confini francesi, ricordando che la commissione dei diritti dell'uomo all'ONU aveva denunciato il 25 marzo 2004 il clima d'islamofobia vigente in Francia. Nello stesso anno è stato creato in Francia il Collettivo contro l'islamofobia in Francia (CCIF), che pubblica sul suo sito internet numerosi articoli e rapporti, come quello che commenta la commissione d'informazione parlamentare (7).

Un altro serio problema si pone in merito alla questione del velo. Nelle parole di Tévanian: "c'est lorsque les adolescentes et les femmes voilées se sont affirmées comme des égales, en apparaissant dans l'espace public, à l'école, à l'université et dans le monde associatif, que leur foulard est devenu insupportable : celui des mères au foyer n'a jamais suscité de telles phobies" (8). Ovvero, l'esistenza di queste donne nello spazio pubblico, che implica la fruizione dei diritti di cittadinanza, rimanda ai problemi della disoccupazione, della precarietà e della discriminazione, che però vengono in buona parte dissimulati, imponendo e privilegiando in vari paesi una griglia di lettura etnicista o culturalista più che socio-economica e politica. E contribuendo a dividere la società, a creare un nemico esterno che funga da linea di confine ancora una volta tra noi e loro, mentre si tende a occultare le fratture interne alla società.

Il rispetto del principio di laicità che ha ispirato la legge del 2004, non è ritenuto valido per ispirare una nuova legiferazione sul velo integrale, indossato e volontariamente, da donne adulte, ma si evoca un'apertura che è più teorica che reale; giuridicamente, è detto nel rapporto, le persone devono restare libere di manifestare il loro credo attraverso i simboli da loro riconosciuti. Si sottolinea che lottare contro l'uso del velo integrale significa fare opera di liberazione, ed allo stesso tempo che la libertà di vestirsi non è assoluta (p.95).

È molto frequente identificare delle "vittime" dell'islam e farsi portatori di una battaglia al posto degli altri: "dobbiamo aiutare le donne a liberarsi del velo perché possano dirsi libere e non più sottomesse". Pensiamo a quante volte frasi di questo genere sono pronunciate soprattutto nei confronti delle donne musulmane - e qui sposterei l'accento su una prospettiva di genere per indagare meglio sulla questione - perché non sono mai percepite come persone capaci di scelte autonome e motivate, o quando succede, come per la decisione di indossare il velo, si addita il motivo della rivendicazione e quindi della provocazione dei valori repubblicani, dello stato di diritto, della democrazia...

Ma la scelta del niqab (rispetto alla sua imposizione), può essere assunta come una discriminante nella lotta per l'affermazione della dignità umana? L'aspetto della volontarietà nell'indossare il velo, e soprattutto il velo integrale, non è sufficientemente esplorato nelle sue implicazioni, così come andrebbe approfondita la dimensione di genere nei dibattiti sul velo: se sono alcuni simboli "religiosi" a scandalizzare, essi lo sono ancor di più quando indossati dalle donne, che verranno ulteriormente discriminate nell'adozione di soluzioni comunque repressive.

Tévanian aveva già cercato di spingere oltre il ragionamento: se si considera che l'uso del velo è un'aggressione fatta a tutte le donne, perché proibirlo solamente nella scuola? Perché accettarlo nella strada? Mi sembra che siamo vicini allo stesso ragionamento sul burqa, che viene accettato nelle pareti domestiche o di un'impresa privata, mentre non deve esser tollerato in pubblico.

Così, la generalità della legge del 2004 su tutti i segni religiosi, o della proposta di legge contro la dissimulazione del volto, già chiamata legge sul burqa, è avanzata per provarne il carattere non razzista, che sembra sparire però a vantaggio di un discorso centrato sul velo, al fine di dimostrare o far sentire la necessità della legge.

Il velo continua a far parlare in Francia, che si tratti di un velo integrale o di un semplice foulard. Pensiamo ancora alla recente candidatura alle elezioni regionali nella Vaucluse della giovane Ilham Moussaïd, la militante velata del Nouveau Parti Anticapitaliste (NPA), che ha suscitato scandalo tra più parti politiche e sociali e tra i media col suo foulard (Le Monde parla di una regressione del partito anticapitalista proprio quando migliaia di donne arabe o afgane "lottano per emanciparsi" ...).

Si tratta di uno scontro sul terreno politico, che è spesso camuffato, così come avviene purtroppo anche nella ricerca. In Francia sembrerebbero esservi nell'ambito delle scienze sociali dei ricercatori più e meno islamofili, impressione che si legge anche in diverse domande formulate durante le audizioni dell'Assemblea. Lo studioso Olivier Roy ha parlato di attacco sistematico verso i ricercatori che rifiutano i clichés sull'islam e che per questo sono considerati islamofili.

L'Affaire Vincent Geisser: islamofilia e islamofobia nel CNRS

E interessante, a questo proposito, il caso di Geisser che ha subìto a giugno 2009 una sanzione disciplinare da parte di un funzionario ministeriale incaricato della sicurezza e difesa(Jospeh Illand), colui che autorizza ad esempio gli ordini di missione per i ricercatori CNRS nei paesi detti «sensibili» e ufficialmente controlla o vigila sul patrimonio scientifico.

Il 4 aprile 2009 Geisser inviò un'email privata al comitato di sostegno di una studentessa assegnataria di ricerca a cui il CNRS aveva appena soppresso la borsa di studio per il fatto che indossava il velo. Nel comunicato diffuso dal comitato emerge chiaramente come il funzionario sia intervenuto nel non far rinnovare la borsa di studio alla ragazza, e Geisser lo critica apertamente (facendo un paragone coi metodi usati contro gli ebrei) in una sua email confidenziale, che però verrà diffusa senza il suo consenso. E sarà questo il motivo della sua convocazione davanti al consiglio disciplinare del CNRS.

«L'Affaire Geisser» si iscrive sul lungo periodo (2004-2009), durante il quale i suoi scritti e il suo pensiero scientifico sarebbero stati oggetto quantomeno di un'attitudine di sospetti e di pratiche di sorveglianza.. Il 7 giugno 2009, un'email comincia a circolare anche tra gli studenti. È intitolata: Affaire Vincent GEISSER / Fonctionnaire sécurité de défense du CNRS : 5 ans de harcèlement sécuritaire.

Vincent Geisser è ricercatore al CNRS dal 1999 e presidente del Centro d'informazione e studi sulle migrazioni internazionali (CIEMI), affiliato all'Institut de recherches et d'études sur le monde arabe et musulman (IREMAM) a Aix-en-Provence. Precedentemente aveva svolto delle missioni per il Ministero degli Esteri (MAE: 1995-1999), in qualità di ricercatore all'Istituto di ricerca sul Maghreb contemporaneo (IRMC) di Tunisi, dove dirigeva un programma scientifico euro-magrebino sulle migrazioni studentesche e intellettuali nel bacino mediterraneo. Nel 2003-2004 chiese, presso il CNRS, un « Aide à projet nouveau »(ottenuto per 20.000 euro), per continuare questa ricerca tra l'Europa e il Maghreb, interessandosi ora ai ricercatori magrebini o d'origine magrebina che lavorano per le istituzioni pubbliche francesi (università, CNRS e INSERM). L'obiettivo era di valutare scientificamente il contributo dei ricercatori e universitari magrebini allo sviluppo della ricerca francese nel mondo, privilegiando le scienze fondamentali. Così la ricerca quantitativa fu lanciata nell'aprile 2005, cominciando però sotto un clima pesante. Come autore del testo La Nouvelle islamophobie, che ebbe una certa mediatizzazione (10.000 copie vendute), Geisser subì numerosi attacchi e probabilmente esiste un legame con la sorveglianza di cui fu oggetto.

Nel settembre 2004 il Fonctionnaire de sécurité de défense del CNRS manda un'email al direttore della sua unità di ricerca (l'IREMAM), chiedendo di regolarizzare la sua indagine presso la CNIL (Commission nationale informatique et liberté), apparentemente in termini tecnici o giuridici. Inoltre il funzionario precisa nell'email che l'IREMAM sarà presto classificato come « établissement sensible » e che il direttore dovrà fornire mensilmente la lista degli stranieri non comunitari (quella che è diventata una prassi nei laboratori CNRS). All'inizio non si fece alcun legame tra l'indagine e il clima di sicurezza che si stava ormai diffondendo, soprattutto intorno a chi lavora sull'islam e il mondo arabo.

A partire da settembre 2004, il funzionario comincia a fare pressioni sulle istanze locali, regionali e nazionali del CNRS per limitare il ricercatore nelle sue attività scientifiche e intellettuali, sino a pretendere delle sanzioni. Il 2 febbraio 2006 si reca a Aix-en-Provence per un'ispezione di tipo tecnico, volta a finalizzare la messa a conformità dell'inchiesta di Geisser con le esigenze della CNIL. Solo che il Funzionario lo ha interrogato sul contenuto di un certo numero di suoi scritti, conferenze e dichiarazioni rilasciate alla stampa e anche all'estero, dimostrando di conoscere bene le sue attività pubbliche. Gli ha chiesto spiegazioni per esempio sulle sue critiche all'associazione « Ni Putes, Ni Soumises » (9), si è dimostrato contrariato rispetto ad alcune petizioni firmate da altri ricercatori, chiedendo perciò al direttore di unità di non far aggiungere il nome del CNRS.

Dopo che il dossier di regolarizzazione dell'inchiesta è stato completato, si è scoperto che non fu mai trasmesso alla CNIL. Nel marzo 2007, l'équipe di Geisser ricevette una richiesta ufficiale del CNRS, non motivata (se non in senso giuridico), di «procedere alla distruzione di tutti gli elementi raccolti nel quadro della ricerca». Ma nessuno fu informato del fatto che la CNIL non avesse ricevuto il dossier, confermando per Geisser il fatto che si voleva soffocare l'indagine scientifica sotto pretesto che il suo autore sarebbe sospettato di islamofilia o di forti legami con gli ambienti musulmani. Ipotesi confermata oralmente da un collega, che sarebbe stato consultato dal Ministero della Difesa sull'indagine di Geisser in merito al rischio di costituzione di una « lobby arabo-musulmana » all'interno del CNRS. Molti colleghi hanno allora suggerito di rendere pubblico l'affare (10). I motivi della procedura disciplinare contro Geisser verranno infine ridotti ad un affare di diffamazione per rispondere delle "pubbliche ingiurie" rivolte al funzionario, mentre si tratta per Geisser di una sorveglianza di tipo ideologico.

Questa vicenda ed il modo in cui Geisser l'ha esposta, col sostegno di tantissimi ricercatori, mostrano un quadro poco idilliaco della ricerca, lasciando emergere un carattere politico e ideologico che continua a discriminare l'islam sotto vari aspetti. Il CNRS è ricorso a delle procedure poco democratiche, che possono dar luogo a delle derive pericolose per la ricerca stessa. Con questi metodi, l'indipendenza della ricerca rischia di diventare una conquista più che un presupposto, ed è purtroppo complicato difenderla, specialmente se gli organismi di ricerca come il CNRS - attraversato, c'è da aggiungere, da una seria crisi istituzionale e ristrutturazione interna - si lasciano influenzare da orientamenti politici magari camuffati da logiche di sicurezza interna.

Negare l'islamofobia, banalizzare le discriminazioni

Difficile affermare con certezza quanto e come l'islamofobia si intrecci con la produzione scientifica. Forse non è un caso che la bibliografia esistente in merito non abbondi, anzi. Il dibattito è recente e ancora poco esplorato, e senz'altro gli si accorda poco risalto : di islamofobia non si parla, non si accetta l'accusa, mentre il problema è posto sempre dalla parte dell'islam. O al più, si accusano alcuni ricercatori di islamofilia, ribaltando il discorso con varie strategie.

Per esempio, si è creato il paravento che porta molti a rafforzare la propria posizione di chiusura - anche in ambienti progressisti e non necessariamente di estrema destra - affermando che da noi sia impossibile criticare l'islam e i musulmani per i rischi che ogni volta derivano di esser definiti come antimusulmani o islamofobici, dunque razzisti.

Un altro esempio di inversione del discorso consiste nel denunciare un razzismo anti-francese. Le vere vittime diventano i Francesi d'origine - e gli europei in generale - aggrediti nella loro identità nazionale dall'islamizzazione galoppante. Questa analisi che Geisser propose nei primi anni 2000 è tutt'ora attuale e generalizzabile, e la prova viene offerta anche dal rapporto dell'Assemblea che vede nel velo integrale un elemento di aggressione alla repubblica francese ed ai suoi valori fondanti. Allo stesso modo, un'infelice analisi di Giovanni Sartori nel suo Pluralismo, multiculturalismo ed estranei (Rizzoli 2000), dove afferma che « il vero razzismo è di chi provoca il razzismo », mostra un atteggiamento che corrisponde alla negazione frequente del razzismo chez soi. Ancora oggi, dalle fila del Corriere della Sera, Sartori parla di « integrabilità dell'islamico». Si chiede « se la storia ci racconti di casi, dal 630 d.C. in poi, di integrazione degli islamici, o comunque di una loro riuscita incorporazione etico-politica (nei valori del sistema politico), in società non islamiche. La risposta è sconfortante: no » (art. 20/12/2009).

Se cerchiamo di decostruire un discorso dettato dalla paura dell'islam, ancora una volta osserviamo come il problema non siamo noi, ma gli altri, i diversi, che col loro modo di fare e pensare « provocano » intolleranza. Ciò validerebbe anche un certo pensiero comune in merito alla fruizione dei diritti di cittadinanza dei musulmani, che non meriterebbero appieno proprio a causa della loro appartenenza religiosa. Li accusiamo di non volersi integrare, ma nei fatti succede più spesso che lo Stato o la società neghino il pieno godimento dei loro diritti trattando anche i propri cittadini musulmani come altri. Lo scarto è riscontrabile, non solo in Francia, nel campo dell'accesso al lavoro innanzitutto, o alla casa, o alla scolarità se si indossa il velo o si hanno origini arabe per esempio.

Ovviamente ci sono anche molti musulmani che fanno il gioco di un'islamofobia istituzionale. In molti, assieme o parallelamente a politici, intellettuali o giornalisti, da destra a sinistra, sembrano promuovere la difesa delle minoranze musulmane minacciate dall'interno: donne magrebine sottomesse, musulmani laici, ecc.

Allora si fa appello ai cosiddetti musulmani moderati - quelli che condannano pubblicamente le manifestazioni religiose conservatrici ed il terrorismo - dimostrando al contempo un'apertura verso l'altro... Se è forse normale considerare un qualsiasi cittadino contro il terrorismo, ai cittadini musulmani è richiesto di pronunciarsi esplicitamente contro il terrorismo internazionale per dimostrare l'attaccamento al paese ed ai suoi valori. Pensiamo all'appello del Movimento dei musulmani laici di Francia, nel 2003 (Pas en notre nom! Appel national des citoyens musulmans et républicains de France), o in Italia, al Manifesto contro il terrorismo e per la vita, che l'Ucoii non firmò e fu come al solito accusato di adesione ideologica col fondamentalismo islamico (altra categoria imprecisa). Il fondamentalismo islamico sarebbe l'opposto dell'islam « moderato »?

Indubbiamente la creazione di questa categoria di musulmani genera perplessità e le deduzioni sono imprecise quanto la terminologia impiegata attualmente. Fondamentalismo, terrorismo, islamismo, sono spesso usati come sinonimi, pur essendo dei termini che indicano realtà differenti e complesse, che vanno da forme di riflessione e attivismo sul piano religioso, politico e sociale, sino ad azioni di terrorismo internazionale. Oggi esiste un'ampia bibliografia su questi temi, ma si fa ancora molta fatica a chiarire e distinguere la terminologia relativa alla sfera politica del mondo islamico.

La mancanza di analisi serie che possano contrastare l'islamofobia e le sue derive, le discriminazioni e i pregiudizi, conducono alla loro ulteriore banalizzazione e legittimizzazione, spesso in nome della « libertà di opinione » che porta a esprimersi nei toni più intolleranti nei confronti dei musulmani, senza destare troppo scandalo. Il ruolo dei media nel riprodurre irresponsabilmente stereotipi e analisi preconfezionate è senza dubbio importante, ed andrebbe approfondito da parte delle scienze sociali. Non è raro assistere a discorsi sull'islam che dimostrano notevole ignoranza della religione e del variegato mondo musulmano, da parte dei non musulmani come dei musulmani stessi. E gli esperti non sono certo privilegiati quando si vuole offrire un'analisi di alcune realtà del mondo islamico.

L'illustrazione di questi pochi esempi non è certo esaustiva del quadro di islamofobia vigente nelle nostre società, ma solleva importanti problematiche e riflessioni. C'è da auspicare la continuità della ricerca, senza interventi che ne limitino l'autonomia, così come c'è da auspicare che della ricerca e della corretta informazione possano agevolarsi le istituzioni e l'opinione pubblica. Ma è ancor prima necessario riportare l'attenzione sulle dinamiche plurali che generano l'islamofobia, che toccano anzitutto la società nel suo complesso, le questioni economiche, politiche e culturali che determinano la marginalizzazione di alcuni gruppi o categorie di individui, nel nostro caso i musulmani e le musulmane, che fungono spesso da capro espiatorio, con la compiacenza dell'establishment politico.

Bibliografia

  • Bausani Alessandro, 2000, «Breve storia dei pregiudizi anti-islamici in Europa», in Il "pazzo sacro" nell'islam. Saggi di storia estetica, letteraria e religiosa, edito da Maurizio Pistoso, Luni Editrice, Milano, pp. 83-100.
  • Bruno Marco, 2008, L'Islam immaginato. Rappresentazioni e stereotipi nei media italiani, Guerini & Associati, Milano.
  • Cardini Franco, 2002, Europe et Islam. Histoire d'un malentendu, Editions du Seuil, Paris.
  • Daniel Norman, 1993, Islam et Occident, Institut dominicain des Etudes Orientales du Caire, Cerf, Paris (ed. or. 1960 Islam and the West. The making of an image, Edimbourg).
  • Dakhlia Joselyne, 2005, Islamicités, PUF, Paris.
  • Dassetto Felice, 1996, La construction de l'islam européen. Approche socio-anthropologique, L'Harmattan, Paris.
  • - (a cura di), 2001, Paroles d'islam. Individus, sociétés et discours dans l'islam européen contemporain, Maisonneuve & Larose, Paris.
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  • Kilani Monder, 1997, L'invenzione dell'altro, ed. Dedalo, Bari.
  • Massari Monica, 2006, Islamofobia. La paura e l'islam, Laterza, Roma-Bari.
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  • Rodinson Maxime, 1993, La fascination de l'Islam, Ed. La Découverte, Paris.
  • Sartori Giovanni, 2000, Pluralismo, multiculturalismo ed estranei, Rizzoli.
  • Scaraffia Lucetta, 2002, Rinnegati. Per una storia dell'identità occidentale, Laterza, Bari Roma.
  • Sgrena Giuliana, 2008, Il prezzo del velo, Feltrinelli.
  • Tévanian Pierre, 2004 (Febbraio), « Une loi antilaïque, antiféministe et antisociale », Le Monde Diplomatique.
  • - 2005, Le voile médiatique. Un faut débat : « l'affaire du foulard islamique », Raisons d'agir, Paris.

Note

*. Ecole des Hautes en Sciences Sociales, Doctorat en Anthropologie sociale et Ethnologie, Paris, 2009.

1. A partire dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1798, che sancisce la libertà di coscienza, e dunque anche la libertà di esprimere il proprio credo religioso, la società francese conoscerà un processo di secolarizzazione sempre più marcato. A livello giuridico la laicità si afferma principalmente tramite l'introduzione dell'istruzione pubblica obbligatoria (legge J. Ferry del 1882), la legge del 9 dicembre 1905 sulla separazione tra lo Stato e le organizzazioni religiose (che abolisce dunque il Concordato del 1801 con la Chiesa cattolica), e la Costituzione del 1958 che indica la laicità tra i valori fondanti della Repubblica, C'è da notare però che una deroga è concessa per esempio alla regione Alsace-Moselle, ancora sotto regime concordatario. Questo è solo uno dei casi che mantengono aperto il dibattito sulla laicità francese, che incarna nobili valori ma anche diverse contraddizioni.

2. La Legge 2004-228 del 15/3/2004 inquadra - in applicazione del principio di laicità - l'uso di segni o tenute manifestanti un'appartenenza religiosa nelle scuole pubbliche. Cfr. Legifrance.

3. « Projet de loi interdisant la dissimulation du visage dans l'espace public. Etude d'impact ».

4. Pensiamo a testi come Il prezzo del velo (Feltrinelli 2008), di Giuliana Sgrena, o al suo blog Islamismo sul quotidiano Il Manifesto. O ancora alle diverse giornaliste o politiche che si fanno porta parola di altre donne musulmane, da Lilli Gruber a Daniela Santanché, pur avendo appartenenze politiche ed opinioni anche molto diverse tra loro.

5. Scrittrice e giornalista italiana che, particolarmente in seguito agli attentati alle torri gemelle di New York nel settembre 2001, si è scagliata contro l'islam e i musulmani. Nei suoi libri La rabbia e l'orgoglio (Rizzoli 2001) e La forza del pregiudizio (Rizzoli 2004), la Fallaci esprime il suo pensiero contro quello che giudica il fanatismo islamico e l'invasione islamica dell'Occidente.

6. Mario Borghezio, membro della Lega Nord, è deputato al Parlamento europeo dal 2001, nonostante sia noto per le sue dichiarazioni razziste e islamofobiche.

7. Cfr. Collectif contre l'Islamophobie en France.

8. "E' quando le adolescenti e le donne velate si sono affermate come eguali, apparendo nello spazio pubblico, a scuola, all'università e nel mondo associativo, che il loro foulard è diventato insopportabile: quello delle madri in casa non ha mai suscitato tali fobie": traduzione da Tévanian Pierre, 2005, Le voile médiatique. Un faut débat : « l'affaire du foulard islamique », Raison d'agir, Paris, p.131.

9. Si tratta di un'associazione nata nel 2003 in seguito alla morte di una diciassettenne bruciata viva dal suo ex ragazzo di 19 anni in una cité della regione parigina. Il movimento si pone come femminista e milita contro il degrado delle periferie, che colpisce soprattutto le donne, spesso di origine straniera e spesso vittime di violenze maschili. Dopo la sua grande mediatizzazione, l'associazione ha conosciuto diverse critiche e crisi interne negli ultimi anni.

10. Nel 2008, la direttrice SHS (Sciences Humaines et Sociales) del CNRS, Marie-Françoise Courel, fa sapere che il Funzionario di Sicurezza e Difesa voleva ottenere delle sanzioni per gli scritti d'opinione di Geisser e si propone mediatrice.