2011

I paradossi della crisi finanziaria e l'instabilità del capitalismo
Oltre il mainstream neoclassico (*)

Giorgio Ricchiuti (**), Sebastiano Nerozzi (***)

Sembrava passata la crisi, sembrava di essere sulla via della ripresa. Siamo invece scoprendo che, forse, Nouriel Roubini ha avuto ancora ragione e questa è una crisi a W: una forte recessione seguita da una ripresa che si è, però, rivelata fiacca ed instabile fino a sfociare in una nuova recessione o quasi. Si è trattato, per molti aspetti, di una ricaduta non inattesa, ma paradossale, come paradossale è la crisi che l'ha preceduta.

Il carattere paradossale della crisi si è rivelato a nostro avviso su tre piani: nel contrasto fra ciò che la teoria economica affermava e ciò che la politica ha attuato; nella distribuzione dei costi della crisi fra chi (prevalentemente) l'ha originata e chi (prevalentemente) l'ha subita; nella mancanza di regole che era stata fin da subito indicata come la sua causa fondamentale e che non è stata colmata.

Questi paradossi, come cercheremo di mostrare nella seconda parte di questa nota, non sono in realtà il frutto di uno sfortunato accidente ma la manifestazione dell'inadeguatezza teorica dell'economia dominante (comunemente indicata con il termine mainstream) (1). Questa visione ha impedito alla maggior parte degli economisti, dei politici e degli operatori, di cogliere le prime manifestazioni della crisi in tutta la loro portata, individuarne le cause profonde e trarne, fino in fondo, le necessarie conseguenze.

Nelle pagine che seguono cercheremo di illustrare il carattere paradossale della crisi e di descrivere brevemente i principali deficit di analisi che hanno condotto la scienza economica contemporanea a questo clamoroso default.

1. I tre paradossi della crisi

La crisi del 2007/2008 è stata generalizzata, profonda e di dimensioni globali; una crisi le cui le prime manifestazioni sono state prima negate e poi minimizzate dai teorici del mainstream, fino a che il fallimento di Lehman Brothers ha reso palese che il sistema finanziario globale era ormai sull'orlo del collasso.

Un primo paradosso è dato dall'emergere di un evidente conflitto fra teoria e politica economica. Di fronte ad una situazione di emergenza che richiedeva interventi rapidi e di vasta portata, le politiche fiscali keynesiane, a lungo screditate dalla teoria economica dominante (2), sono state frettolosamente richiamate in auge. Si trattava di tamponare le falle apertesi nel sistema finanziario e cercare di risollevare l'economia reale con massicce iniezioni di spesa pubblica; allo stesso tempo politiche monetarie fortemente espansive hanno cercato di contrastare una drammatica "trappola della liquidità" che ormai i nostri manuali di economia avevano relegato fra gli eventi altamente improbabili. Fortunatamente sono rimaste inascoltate le invocazioni di esponenti assai in vista del mainstream secondo i quali la crisi finanziaria sarebbe stata passeggera e la cosa migliore fosse lasciar fallire le mele marce, in attesa che il mercato tornasse ai suoi livelli di equilibrio.

Tuttavia i salvataggi bancari e gli stimoli fiscali - eseguiti con scarsa convinzione e mal coordinati fra i diversi paesi - si sono rivelati inadeguati a stabilizzare le aspettative sempre più incerte dei mercati e a stimolare una crescita stabile. Dopo una piccola e malferma ripresa, sul finire del 2009 la crisi greca ha riaperto il vaso di Pandora, spostando l'attenzione dal default degli asset privati al possibile (probabile?) default dei bilanci pubblici - appesantiti dalle operazioni di salvataggio degli istituti bancari too big to fail.

In questa seconda recessione non abbiamo molti strumenti da usare, visto che i maggiori paesi combattono già con deficit e/o debito fuori controllo: abbiamo speso tanti soldi pubblici per agevolare la ripresa e adesso che i soldi sono finiti, è il buco nei nostri bilanci ad impedire la ripresa! Quel buco creato per salvare le banche e i mercati finanziari dal collasso, viene coperto riducendo la spesa pubblica (in particolare pensioni e salari) e tagliando il welfare. La crescita economica, a sua volta, deve essere stimolata con una ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro. I lavoratori pagano di tasca loro i danni di una crisi che, in gran parte, non hanno generato e i salvataggi di cui, in gran parte, non hanno beneficiato. Ecco qui il secondo paradosso.

Ma ancora un terzo paradosso è stato messo in luce da come la crisi è stata gestita. Ad una crisi finanziaria scatenata, secondo la maggior parte degli osservatori, dalle intemperanze della deregolamentazione, non si è stati in grado (almeno per il momento) di far seguire alcuna seria regolamentazione dell'attività finanziaria, soprattutto nei settori più opachi e speculativi (si veda i ritardi nel processo Basilea 3). Ciò è stato il risultato delle pressioni delle lobby finanziarie (ancora potentissime), dei disaccordi fra paesi, ma anche della resistenza di molti economisti ad ammettere la necessità di interventi strutturali per ripristinare un grado accettabile di stabilità finanziaria e di equità sociale. La crisi finanziaria è interpretata come una parentesi (assai lunga ormai!), in larga parte dovuta ad errori di policy e a infauste circostanze: passata l'emergenza occorre ritornare, senza indugi, ad affidare il governo dell'economia alla sola "mano invisibile" dei mercati finanziari. Trasparenza informativa ed un paniere minimo di regole uniformi sono gli unici presupposti necessari ad una piena efficienza dei mercati. Nonostante quattro anni di crisi la teoria economica dominante non sembra disponibile, tranne poche eccezioni, a rivedere le sue posizioni teoriche e di politica economica.

Tuttavia esiste un ampio fronte di studiosi che, pur ispirandosi a visioni teoriche diverse, converge nel ritenere la presente crisi finanziaria come manifestazione dell'intrinseca instabilità del sistema capitalistico, ulteriormente accresciuta dall'estesa finanziarizzazione dei processi economici. Si tratta di una intrinseca instabilità che il mainstream ha a lungo cercato di negare. Tale negazione emerge in modo chiaro dalla sottovalutazione di alcuni tratti essenziali del sistema capitalistico: il concetto di incertezza, l'interconnessione e l'eterogeneità degli agenti, la dinamica e gli effetti della distribuzione del reddito. Semplificando molto un panorama di posizioni assai variegato, nelle prossime pagine vedremo come intorno ai tre concetti sopra richiamati sia possibile individuare tre diversi filoni di pensiero che pur facendo riferimento a tradizioni teoriche diverse, sono accomunati da una critica radicale alla teoria economica mainstream.

2. L'illusoria eutanasia dell'incertezza

Richiamando la lezione di John Maynard Keynes e di Hyman Minsky, un primo filone di pensiero ha messo in luce come in una "economia monetaria di produzione" le decisioni di risparmio e di investimento sono prese da soggetti diversi, in momenti diversi, sulla base di aspettative mutevoli e senza che il sistema di prezzi presenti e futuri (trattati appunto sul mercato finanziario) sia in grado di rendere mutuamente compatibili le loro diverse decisioni.

I fenomeni di disequilibrio hanno quindi un carattere strutturale: contrariamente a quanto spesso sostenuto dalla teoria mainstream, gli shock che colpiscono l'economia non sono solo di natura esogena o casuale (una guerra, un terremoto, una scoperta tecnologica), ma hanno una forte componente endogena e sistemica, che condiziona l'andamento dell'economia reale non solo nei cicli di breve periodo, ma nei suoi sviluppi di lungo periodo. La fitta e complessa trama di relazioni di debito-credito che legano gli agenti, può dunque, date certe condizioni, amplificare l'intrinseca instabilità e fragilità del sistema finanziario, creando un rischio sistemico che trascende la supposta solidità e "copertura" delle singole posizioni. Ciò dà luogo ad una incertezza fondamentale riguardo le variabili essenziali nella determinazione delle scelte degli agenti.

Ma per molti anni gli economisti mainstream hanno coltivato l'illusione di poter ridurre l'incertezza fondamentale ad un mero rischio probabilistico, dal quale è possibile proteggersi attraverso la sottoscrizione di un titolo derivato o di un contratto assicurativo, come se le probabilità del verificarsi di un singolo evento fosse del tutto indipendente dal verificarsi degli altri. I fautori della deregolamentazione hanno sempre sostenuto che attraverso la creazione di titoli derivati sempre più sofisticati, fosse possibile diversificare e distribuire il rischio connesso, aumentare i rendimenti e il volume delle attività finanziarie, senza aumentare parallelamente il rischio per i singoli operatori. La presente crisi non solo mostra l'illusorietà di questa convinzione ma la pericolosità di una struttura a maglie sempre più strette in cui le interconnessioni fra settori - anche molto diversi - amplificano ed accelerano gli effetti (positivi e negativi) di singole situazioni di criticità e del variare delle aspettative.

3. Diseguaglianza del reddito e instabilità del capitalismo

Il secondo filone che esaminiamo appartiene anch'esso alla variegata galassia post-keynesiana e appare tuttavia più aperto a contaminazioni teoriche diverse (Kalecky, prima di tutto) nonché, in molti casi, a visioni, usi terminologici ed orientamenti politici di chiara derivazione marxiana. Questo filone si caratterizza per il fatto di attribuire alla crisi attuale una natura economica prima che finanziaria, invidiando la sua causa ultima nei processi di produzione e distribuzione del reddito occorsi negli ultimi trenta anni (3). Pur non negando l'importanza dei fattori di instabilità interni al sistema finanziario, questo filone di pensiero mette in luce come la crescita abnorme di questo settore sia stata funzionale al tentativo di assorbire gli squilibri emergenti dalla crescente diseguaglianza - funzionale e personale - del reddito.

A partire dagli anni ottanta si è, infatti, registrata una forte diminuzione della quota dei redditi da lavoro sul totale del reddito nazionale (in media il 10% nei paesi OCSE) e, parallelamente, un aumento della diseguaglianza nella distribuzione personale del reddito: negli Stati Uniti, alla vigilia della crisi, il 10% più ricco della popolazione deteneva il 50% del reddito nazionale, mentre in Italia questa quota è oggi poco inferiore al 44%. Fra le cause di questo processo vengono individuate la globalizzazione produttiva, i processi migratori e i movimenti internazionali dei capitali, il ruolo della conoscenza e della tecnologia, le politiche neoliberiste di flessibilizzazione del mercato del lavoro e il conseguente indebolimento del sindacato, il ridimensionamento del carattere progressivo dei sistemi di tassazione e dei programmi di Welfare.

Ma in che senso la maggiore diseguaglianza del reddito costituirebbe una minaccia per la crescita e l'occupazione? Secondo gli economisti di tradizione post-keynesiana, una redistribuzione verso le classi di reddito più alte (che hanno una propensione al consumo inferiore), comporta una riduzione della domanda di beni di consumo e un aumento dei risparmi, che si traducono in una maggiore domanda di immobili, oggetti di valore, e, soprattutto, titoli finanziari. Anche da qui la forte spinta all'aumento del volume di attività finanziarie. Se le attività finanziarie si traducessero immediatamente in attività di investimento reali (macchinari, nuove tecnologie, servizi, brevetti, infrastrutture, ecc.) nessun problema ne seguirebbe. Ma poiché spesso i risparmi prendono la strada, assai più tortuosa, nell'investimento speculativo (titoli derivati, valute, futures, etc.), si determina una carenza di domanda aggregata che provoca stagnazione e disoccupazione. Da qui l'intrinseca instabilità "reale" del sistema capitalistico. La crescente spinta verso il credito al consumo e le politiche volte a favorire l'inclusione finanziaria anche dei lavoratori precari e con scarse garanzie reali costituisce la via d'uscita che, per vari anni, ha sorretto il modello di accumulazione basato sui consumi.

4. Agenti eterogenei, instabilità sistemica ed equilibri multipli

Un terzo filone di pensiero condivide con il mainstream neoclassico la necessità di microfondare l'analisi macroeconomica, ovvero di costruire modelli descrittivi dell'andamento generale del sistema sulla base dei comportamenti degli individui. Tuttavia vengono superate alcune ipotesi del mainstream: si abbandona l'agente rappresentativo in favore di agenti eterogenei (diversi per dotazioni, funzioni obiettivo e attitudini psicologiche); si sostituisce l'ipotesi di razionalità perfetta in favore della razionalità limitata; si studia l'esistenza di equilibri multipli, sia stabili che instabili.

Una prima tipologia di modelli muove dalla critica ad alcuni assunti tipici dell'approccio dei mercati finanziari efficienti (4) e dall'impossibilità di questo approccio di giustificare endogeneamente alcuni noti fatti stilizzati dell'andamento dei valori finanziari (5). Partendo da alcune analisi empiriche svolte fra gli operatori dei mercati finanziari alla fine degli anni '80, gli agenti vengono aggregati in gruppi di strategie omogenee, oppure con stessa strategia ma eterogenea formazione delle aspettative. Anche senza inserire elementi stocastici e l'intervento di shock esogeni, questa letteratura riesce a dar conto dei fatti stilizzati di cui sopra e della compresenza di diverse tipologie di operatori. Le caratteristiche più evidenti di questi modelli sono la compresenza di equilibri multipli (spesso instabili) e andamenti caotici.

Spingendo l'analisi alle sue estreme conseguenze i lavori più puramente Agent Based (6), considerano non più un numero finito di gruppi di agenti ma n agenti fra loro eterogenei. In tal modo, il comportamento dei singoli determina un sistema adattivo complesso nel quale le singole interazioni portano alla formazione spontanea di strutture macroscopiche le quali non possono essere direttamente dedotte dall'osservazione dei comportamenti individuali. Questi modelli computazionali (7) danno luogo ad andamenti molto simili a quelli riscontrati nella realtà per quanto riguarda variabili macroeconomiche come inflazione, produzione, tasso di disoccupazione, ecc., ed appaiono molto più versatili dei modelli neoclassici allorché si tratta di analizzare fenomeni come l'attuale crisi finanziaria.

A partire da questo approccio è possibile mostrare come in una economia composta di un network di relazioni di debito-credito fra banche e imprese, piccoli squilibri sulle singole unità possono dar luogo ad effetti aggregati molto rilevanti: situazioni di sofferenza di pochi singoli agenti tendono a trasmettersi ai loro partner commerciali e finanziari, con importanti effetti retroattivi che rafforzano lo squilibrio iniziale e ne amplificano la portata, provocando drastiche oscillazioni di tasso d'interesse, offerta di credito, produzione e occupazione (8). La dinamica della crisi è dunque intrinseca al sistema capitalistico.

Questi modelli mostrano come sia possibile che il sistema economico, sulla spinta di dinamiche interne ad esso, possa, se non adeguatamente indirizzato, raggiungere equilibri caratterizzati da livelli di occupazione, produzione e modalità di distribuzione del reddito decisamente diverse tra di loro. In questo modo il sistema economico si può indirizzare verso sentieri di andamento anche stabile, nel quale interi gruppi sociali vengono relegati in una situazione di "trappola della povertà" senza che il mercato abbia la forza e gli incentivi necessari a spostare il sistema verso un equilibrio più virtuoso.

5. Alcune riflessioni finali

Quattro anni di crisi economica vasta e profonda costituiscono una sonora smentita a molte delle credenze che il mainstream economico neoclassico ha coltivato e diffuso negli ultimi trenta anni. Ciononostante la presa del mainstream sulla classe politica e, ancor più, sulla comunità accademica è ancora molto forte. Per ragioni metodologiche e di sociologia della scienza che esulano dai confini di questa nota, il mainstream (per adesso) sembra uscire un po' scosso ma non scalzato dalla crisi.

Gli effetti di questo persistente dominio del mainstream si osservano nei tre paradossi che abbiamo indicato all'inizio di questa nota: la scarsa convinzione con la quale sono state condotte le politiche keynesiane di sostegno all'economia; la mancata regolamentazione del sistema finanziario; l'insistenza su politiche sociali ed economiche che, senza interrompere l'avvitamento delle economie su se stesse, hanno comportato un'ulteriore inasprimento delle diseguaglianze ed una perversa redistribuzione del reddito.

L'incapacità di considerare come rilevante l'ipotesi di una intrinseca instabilità del capitalismo e di elaborare modelli teorici che ne spieghino le cause profonde, ha impedito al mainstream neoclassico di cogliere lo spessore della crisi e di offrire ad essa risposte adeguate. Questa visione è, più o meno consapevolmente, funzionale al mantenimento e al rafforzamento di un assetto dei poteri economici e dei rapporti sociali che mira a delegittimare come antieconomico e inefficiente ogni tentativo di difesa organizzata degli interessi collettivi da parte dei ceti sociali più deboli.

Tuttavia, se l'ortodossia economica ha fallito, non si può dire che i critici dell'economia neoclassica abbiamo dato buona prova di se'. I tre filoni, qui presentati in forma necessariamente sintetica, si sono rilevati incapaci di minacciare seriamente il dominio della teoria dominante. Essi sono presentati un po' impreparati all'appuntamento con la crisi: divisi fra di loro; ciascuno ansioso di issare le proprie bandiere teoriche o ideologiche; con ricette di politica economica talvolta un po' obsolete o aprioristicamente schierate sulla difesa di posizioni che spesso non rispecchiano più le condizioni di produzione, di vita e di lavoro delle nostre società post-industriali.

A nostro avviso il motivo principale di questa incapacità a scalzare l'ortodossia neoclassica è la non-generalità di questi tre filoni di pensiero, il loro essere focalizzati su alcuni ambiti di analisi ma, soprattutto, il presentarsi, spesso, con visioni contrapposte piuttosto che complementari.

Occorre notare come questi filoni non esauriscano l'ampio spettro degli approcci critici nei confronti del mainstream, fra i quali si possono, per esempio, richiamare il filone neoistituzionalista e quello di political economy. E' nostra convinzione, tuttavia, che i tre filoni sui quali ci siamo concentrati possano trovare, negli anni a venire, notevoli convergenze ed un linguaggio più condiviso fino a configurare, pur con metodologie diverse, un comune "programma di ricerca", una "comunità epistemica". Solo facendo dialogare fra loro questi diversi approcci sarà infatti possibile, nei prossimi anni, sviluppare ricerche innovative ed analisi incisive sui temi della complessità e dell'incertezza e sugli effetti della disuguaglianza del reddito sulla stabilità del sistema.

Una nuova visione generale e complessa del sistema capitalistico che, a nostro avviso, potrebbe contrastare in modo più efficace la dominanza del mainstream.

Ma poiché i connubi teorici non sono né facili né rapidi da attuare occorre sicuramente che un'alleanza strategica si attui quanto prima sul piano della politica economica. Le indicazioni generali che emergono dai tre filoni di pensiero economico che abbiamo esaminato sono, infatti, sufficientemente convergenti: oltre ad una estesa regolamentazione del sistema finanziario che limiti l'instabilità, occorre anche attuare politiche di redistribuzione del reddito e di rafforzamento delle tutele e dei diritti dei lavoratori.

Lungi dal poter essere relegata al mondo dell'accademia, la lotta fra paradigmi di teoria economica, è, oggi come già molte volte in passato, un nodo cruciale per la sopravvivenza del patto sociale che sostiene le nostre, sempre più fragili, democrazie.


Note

*. Ringraziamo Hervé Baron, Nicolò Bellanca, Barbara Benedetti, Vinicio Guidi e Sara Turchetti per aver letto l'articolo e individuato errori, omissioni e distrazioni. Ovviamente la responsabilità è solo nostra.

**. Università di Firenze, Dipartimento di Scienze Economiche.

***. Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Istituto di Teoria Economica e Metodi Quantitativi.

1. E' difficile definire esattamente i confini e i caratteri della teoria economica mainstream. Riteniamo, comunque, in linea generale, che questa sia caratterizzata dalle seguenti assunzioni di base: agente rappresentativo, perfetta razionalità degli agenti; aspettative razionali; processo decisionale fondato sulla massimizzazione di una funzione obiettivo.

2. Uno dei fattori di debolezza della teoria macroeconomica keynesiana è stata, secondo suoi avversari, la sua inadeguatezza ad interpretare la crisi degli anni settanta e, in modo particolare, il fenomeno della stagflazione.

3. Si vedano, in questo senso, vari saggi pubblicati in Orsi C. (a cura di), Il capitalismo invecchia? Sei domande agli economisti, Roma, Manifestolibri 2010.

4. Facciamo qui riferimento al Capital Asset Pricing Model.

5. Si tratta prevalentemente di cluster di volatilità, code spesse (fat tails, ovvero eventi limite che in una normale distribuzione gaussiana dovrebbero essere pochi risultano invece numericamente rilevanti), frattali (ripetizione di strutture a differenti gradi di grandezza).

6. Si veda Agent-Based Computational Economics: A Constructive Approach to Economic Theory di Leigh Tesfatsion.

7. Che quindi prevedono l'uso estensivo di tecniche di simulazione.

8. Un esempio significativo del contributo che questo filone ha potuto dare all'analisi della crisi è dato dal saggio di Domenico Delli Gatti & Mauro Gallegati & Bruce Greenwald & Alberto Russo & Joseph E. Stiglitz, 2010. Business fluctuations in a credit-network economy, Quantitative Finance Papers, 1006.3521, arXiv.org. Si veda anche E. Gaffeo, D. Delli Gatti e M. Gallegati, Complex Agent-based Macroeconomics: A Manifesto for a New Paradigm, Journal of Economic Interaction and Coordination, 2011.