2008

Umanitarismo competitivo
Le ONG nei processi dell'aiuto e dell'emergenza (*)

Nicolò Bellanca

«La mano che riceve sta sempre sotto a quella che dà».
Proverbio africano

«L'aiuto non è più un sostituto dell'azione politica, è la forma primaria della politica internazionale al livello della periferia geo-politica».
Joanna Macrae - Nicholas Leader [2000, 31]

1. L'ondata umanitaria

Lo tsunami del 26 dicembre 2004 ha rappresentato, oltreché una grave emergenza umanitaria, un'esperienza devastante per il pianeta delle Organizzazioni Non Governative (ONG). Esiste ormai un'accurata documentazione di prima mano che testimonia come il diluvio di "aiuti" rapidamente giunti nei paesi colpiti abbia dato forma - sul fronte degli interventi post-disastro da parte delle ONG - a fenomeni sistematici di mancato coordinamento, affollamento e congestione, inadeguata informazione e competenza, sostegno indiretto a poteri locali corrotti se non addirittura ai conflitti civili in svolgimento [per tutti: Vaux et al. 2005; Athukorala-Resosudarmo 2005; Bhattacharjee 2005; Telford-Cosgrave-Houghton 2006; Stirrat 2006]. Si aggiunga che questa vicenda presenta una specificità: mentre di solito le ONG competono tra loro per accaparrarsi i fondi pubblici e privati, stavolta hanno scatenato una competizione finalizzata a spendere gli strabordanti fondi disponibili (1). Il sapore amaro e paradossale di tale circostanza esige una spiegazione teorica. Abbiamo bisogno di capire la logica ricorrente di comportamenti non riconducibili ad "incidenti di percorso". Perché le ONG impegnate nella cooperazione internazionale allo sviluppo, così come quelle dedicate alle emergenze umanitarie, sono tante e dotate di caratteristiche tanto diverse tra loro? Perché alimentano la rivalità? In quali modi la numerosità e la competitività incidono su efficienza, efficacia e motivazioni ideali? Infine: una risposta ai precedenti quesiti può aiutarci a delucidare anche casi-limite come quello dello tsunami?

In anni recenti i comportamenti delle agenzie di aiuto in generale, e delle ONG in particolare, è stato esaminato con gli strumenti del paradigma principale-agente [Pietrobelli-Scarpa (1992); Trombetta (1992); Killick (1997); Cooley-Ron (2002); Martens et al. (2002); Gibson et al. (2005)]. Com'è noto, si denomina relazione di agenzia quella in cui un soggetto (il "principale") delega ad un altro (l'"agente") il potere discrezionale di operare nel suo interesse. Poiché il delegante non può osservare perfettamente il comportamento del delegato, né dispone sempre della competenza per valutarlo, la relazione di agenzia presenta un potenziale di opportunismo: chi effettua le decisioni può accrescere unilateralmente i propri benefici. In risposta, il delegante ricorre di solito a procedure (incentivi, controlli, motivazioni condivise, cultura comune) con cui allineare gli sforzi del delegato ai suoi obiettivi. Nel caso degli aiuti internazionali allo sviluppo e alle emergenze, abbiamo tre principali specificità nell'applicazione dello schema (2).

Anzitutto, i "principali" sono i donors o donatori, che talvolta coincidono con i cittadini di una polity (che può andare dal Comune, per la cooperazione decentrata, alla cosiddetta "Comunità planetaria" per la cooperazione multilaterale), mentre talvolta sono soggetti finanziatori privati (dalla Fondazione bancaria allo sponsor commerciale della singola iniziativa di solidarietà). Quando i "principali" sono coloro che pagano le tasse o versano un contributo volontario, tende a verificarsi uno iato informativo tra propositi e risultati, poiché, come spiega la logica del free riding [Sandler 1992; Kanbur-Sandler 1999], fondi con destinazioni nobili ma vaghe (la "riduzione della povertà" o il "soccorso ai senzatetto") vengono poco controllati, nella loro gestione e nel loro impiego, da una massa ampia e generica di finanziatori. Quando peraltro i "principali" sono un ristretto numero di soggetti privati, essi aumentano l'interesse e la competenza nell'accertare la destinazione dei fondi, ma la separatezza dai beneficiari rende comunque arduo e costoso un controllo accurato e sistematico.

In secondo luogo, gli "agenti" sono i contractors, ossia le agenzie di aiuto, che in linea di principio sono animate da finalità non profit. Agenzie che puntano a migliorare il benessere collettivo dovrebbero manifestare linee di condotta disinteressate, nonché una prominente attenzione alle dimensioni dei progetti di aiuto meno legate al calcolo mercantile. Ciò dovrebbe rivelarsi, agli occhi dei donors, con un ridotto attaccamento ad elevate retribuzioni e con azioni volte allo sviluppo delle capabilities delle popolazioni. Ma ricompense più basse possono alla lunga espellere dal settore i professionisti più qualificati, mentre investire in attività suscitatrici di well-being, spesso provviste di ridotta visibilità immediata, può contrastare con l'esigenza di sottoporre ai donatori risultati tangibili.

In terzo luogo, i fruitori finali degli aiuti sono i recipients o beneficiari, costituiti da gruppi della popolazione dei luoghi che vengono aiutati. Questi tuttavia non coincidono con coloro che pagano, e ciò li rende costitutivamente privi di potere nei riguardi degli altri due livelli della relazione di agenzia. Le tre menzionate difficoltà - va sottolineato - sono peculiari delle configurazione organizzativa degli aiuti e delle emergenze: non attengono alla cattiva volontà di questo o quell'attore. Nei prossimi paragrafi le analizzeremo in dettaglio, approfondendone le articolazioni interne alla luce della logica dell'azione collettiva [su cui Bellanca 2007] ed in particolare riferimento a contesti di emergenza umanitaria. Nel paragrafo 6 trarremo alcune conclusioni.

2. Organizzazioni con molteplici attività e scopi conflittuali

Abbiamo un proliferare di agenzie della cooperazione internazionale allo sviluppo e alle emergenze: quelle governative decentrate, nazionali, internazionali, nonché le ONG delle quali in questo saggio prevalentemente ci occupiamo. Il sistema internazionale dell'aiuto consiste di una galassia di oltre 150 agenzie multilaterali, inclusa la rete delle agenzie dell'ONU e le istituzioni finanziarie globali e locali, 33 agenzie bilaterali membre del DAC, (3) almeno 10 significative agenzie non-membre ed un numero crescente di fondi verticali globali [Burall et al. 2006]. Nel 2000 il numero medio di donatori ufficiali nei paesi beneficiari era di 23 [Acharya et al. 2006]. Mentre Scholte e Schnabel [2002, 250] stimano in 38.000 le ONG internazionali operanti nei PVS, il numero delle ONG locali è molto più elevato: se ne calcolano oltre 1.000.000 in India, 210.000 in Brasile, 30.000 in Nepal [Edwards-Fowler 2002, 1]. L'aneddotica intorno all'ingorgo degli aiuti è vastissima: in Tanzania nel 1990 vi erano 41 ONG registrate, mentre nel 2000 esse superano le 10.000 [Hearn 2007] e i funzionari del governo ricevono oltre 1.000 delegazioni di donatori ogni anno; in Vietnam operano 8.000 progetti, 1 ogni 9.000 abitanti [Bonaglia-de Luca 2006], e così avanti. Kaul e Conceição [2006] documentano che le agenzie ricorrono ad oltre mille distinti meccanismi di finanziamento. È stato elaborato un apposito "indice di frammentazione dell'aiuto", che dipende dal numero dei donatori e dalla misura percentuale in cui ciascuno contribuisce all'aiuto totale: esso mostra che la frammentazione è sensibilmente aumentata [World Bank 2005]. I donatori, i beneficiari e gli osservatori indipendenti concordano che il sistema degli aiuti è pletorico e che impone alti costi a tutte le parti [per tutti: Action Aid 2005; Banerjie 2006; Easterly 2003; FAO 2006; Knack-Rahman 2004].

Una spiegazione economica di queste caratteristiche prende le mosse, oltre che dalla già menzionata teoria principale-agente, dalla teoria dei costi di transazione (4). Il contratto è una promessa vincolante che può convenire firmare oggi e trasgredire domani. I costi di transazione vengono pagati per attenuare le possibilità d'inadempimento contrattuale. Distinguiamo tra costi di transazione ex ante, connessi alla negoziazione e alla redazione dei contratti (assunzione di informazioni sulla natura del bene o servizio transato, ricerca e selezione delle controparti, prezzi e specifiche dell'accordo, stipulazione dei reciproci impegni) (5), e costi di transazione ex post, connessi alla loro esecuzione (controllo e salvaguardia di un'esecuzione coerente e completa dei patti, vertenze e interventi per ovviare al mancato rispetto delle promesse). Gli uni servono a fronteggiare l'opportunismo pre-contrattuale, del quale la "selezione avversa" è la forma più nota; gli altri provano a ridurre l'opportunismo post-contrattuale, i cui problemi più studiati sono l'"azzardo morale" e l'"investimento specifico". Se i costi di transazione fossero nulli e se le preferenze dei beneficiari fossero allineate a quelle dei donatori, mancherebbero sia l'opportunismo ex ante, sia l'opportunismo ex post. In questo caso gli scambi diretti basterebbero: nessuna agenzia di aiuto sorgerebbe. Ma i costi di transazione, come si è ricordato, sono positivi e notevolmente elevati. In particolare, nel caso dell'aiuto estero e degli interventi d'emergenza, i donatori sostengono: costi di transazione ex ante per ottenere informazioni intorno agli obiettivi (chi sono e dove stanno i beneficiari, qual è l'origine dei loro problemi, quali sono le loro esigenze); costi per ridurre l'incertezza ex post sulle intenzioni dei beneficiari intorno agli usi che faranno dei trasferimenti (data anche la divergenza tra le preferenze dei donatori e dei beneficiari).

Fin qui ci siamo limitati alla pedissequa applicazione di noti schemi teorici. La peculiarità dell'analisi compare osservando che tradizionalmente l'agenzia privilegia i costi ex ante. Ciò si verifica per due ragioni tra loro strettamente collegate. In primo luogo, disponendo di potere sui beneficiari, e a sua volta dipendendo dal potere del donatore, essa tende a selezionare i beneficiari secondo i criteri del donatore: si pensi al caso più antico e semplice, quello del missionario, che spesso applicava i valori religiosi, morali e politici del donatore così che il beneficiario fosse "conforme" o "appropriato". In secondo luogo, l'attenzione ai costi ex ante dovrebbe ridurre l'incertezza ex post, proprio in quanto, come si è rimarcato, ha quale scopo principale di "allineare" le preferenze di chi dona e quelle di chi riceve. Ne segue che, al crescere dei costi ex ante, l'agenzia si attende una diminuzione dei costi ex post. Il trade-off che s'immagina esista tra i due costi è raffigurato nella figura sotto. L'atteggiamento pratico delle agenzie è stato razionalizzato nel paradigma dottrinario ancora dominante, secondo cui maggiori spese nelle fasi di identificazione e di formulazione del progetto, comporterebbero minori spese nelle fasi di realizzazione, monitoraggio e valutazione del progetto stesso (6).

Perché lo schema appena esposto entra in crisi? Anzitutto perché esso, elevando i costi di avvio del progetto (gli unici certi), rende meno efficienti le agenzie quali intermediarie tra donatori e beneficiari. In secondo luogo perché, al recente cambiare della "sensibilità politica", l'allineamento delle preferenze del beneficiario a quelle del donatore non appare più un metodo da prediligere [per tutti: Duffield 2003]. Ma, in terzo luogo e soprattutto, perché aumenta la consapevolezza di due problemi strutturali delle strategie di cooperazione e di aiuto umanitario: le informazioni tra il principale e l'agenzia sono scarse, incomplete e manipolabili; il principale e l'agenzia si dedicano ad attività molteplici che non di rado sottintendono scopi in conflitto tra loro. Nel prossimi paragrafi ci proponiamo di esaminare perché, dal momento in cui si ammettono quei problemi, il trade-off tra costi ex ante e costi ex post non regge più, disintegrando il tradizionale paradigma dottrinario.

3. I tre dilemmi fondamentali delle organizzazioni dell'aiuto o dell'emergenza

Una tipica agenzia di aiuto o di emergenza è impegnata in più attività che il donatore stima importanti, in quanto da ciascuna il beneficiario potrebbe trarre soddisfazione per le proprie esigenze: progettare, gestire fondi, effettuare interventi, monitorarne il decorso, valutarne l'impatto, implementare la coesione sociale della collettività, migliorare entro tale collettività la posizione dei soggetti più deboli, e così via. Il problema del principale consiste tanto nell'incentivare l'agente a perseguire tutte le attività, quanto nel distribuire adeguatamente il tempo e le risorse dell'agente tra i vari compiti [per una sintesi di questa letteratura, Dewatripont et al. 2000]. Ma si tratta di un problema che, nell'ambito dell'aiuto e dell'emergenza, assume una particolare delicatezza.

Un primo aspetto concerne la circostanza che il principale non è in grado di apprendere ex ante le caratteristiche precise delle attività di aiuto o di emergenza che eventualmente finanzierà. Questa difficoltà non deriva semplicemente da informazioni carenti, che pagando possano venire completate, bensì dall'impossibilità di anticipare le reazioni di un intero contesto sociale, a sua volta inserito in sistemi sociali più vasti. Si parla al riguardo di "incertezza ontologica": qualunque attore sociale, anche quello "esperto", ignora quali alternative affioreranno e soprattutto quali interdipendenze esse avranno tra loro. Così, se confrontiamo una situazione precedente l'aiuto estero con una successiva, l'incertezza nasce dal fatto che l'intervento, perfino nel caso ipotetico in cui le opzioni in campo siano rimaste esattamente le stesse, ha suscitato un'alterazione delle relazioni tra esse, aprendo alla possibilità di eventi nuovi, inattesi e imprevedibili [Lane-Maxfield 2005]. Per le stesse ragioni, le agenzie non possono da parte loro documentare in maniera incontrovertibile la "bontà" della linea di condotta che desidererebbero intraprendere. Esiste dunque, così per i donors come per i contractors, una "vaghezza" delle proposte realizzabili: in gergo economico, siamo alle prese con contratti notevolmente incompleti. In questa situazione le agenzie sono inevitabilmente spinte a svolgere "attività per l'influenza", ovvero tentativi di condizionare i risultati distributivi delle decisioni del principale [Milgrom 1988]. Se esse infatti potessero segnalare adeguatamente i propri meriti, sarebbero stimolate a dedicarsi senza requie al miglioramento delle performance. Di fronte invece ad attività dai contorni sfumati, ognuna sa che le altre agenzie possono barcamenarsi per giustificare le proprie passate manchevolezze e per valorizzare le proprie fumose proposte. Essa deve quindi, al fine di non perdere posizioni agli occhi del principale, investire tempo e risorse per orientarne le decisioni distributive: dall'aumentare la visibilità dei propri esiti fino a varie forme di do ut des con singoli membri delle organizzazioni donatrici. Ciò sfocia in un grave dilemma: ciascuna agenzia sa che se non s'impegna adeguatamente su questo fronte, potrà essere scalzata da agenzie che, pur meno serie, si esercitano con efficacia nel lobbying; d'altra parte ciascuna è consapevole che più aumentano i propri "costi per l'influenza", più essa cambia la natura delle proprie attività e tende a diventare simile alle agenzie ciniche e cialtrone dalle quali intendeva differenziarsi. Anche i donatori, rispetto alla "vaghezza" delle proposte realizzabili, adottano un'ovvia e necessaria strategia: spendono in attività di ricerca d'informazioni, le quali possano quantomeno attenuare la nebulosità delle scelte. E anche per loro si ripropone il dilemma appena enunciato: ciascun principale sa che se non s'impegna adeguatamente su questo fronte, potrà essere raggirato con particolare facilità da agenzie mediocri o in malafede, perdendo a sua volta in reputazione e credibilità; d'altra parte ciascuno è consapevole che più aumentano i suoi search costs, più cambia la natura delle sue attività, riducendosi l'impegno e le risorse per le effettive iniziative sul campo.

Un secondo aspetto riguarda un altro tipo di "vaghezza": quella di molte tra le attività che l'agenzia intraprende. Dove finisce la progettazione e inizia l'intervento? Dove finisce l'intervento e inizia la valutazione? Dove finisce il risultato specifico previsto dal progetto e iniziano i risultati sulle capabilities individuali e collettive? Una risposta cognitiva razionale, davanti a simili difficoltà, consiste nel sostituire, almeno in parte, le "motivazioni estrinseche" (ispirate ai compensi monetari) con le "motivazioni intrinseche" (per cui si fa qualcosa per il mero piacere di farla) [Kreps 1997, 361]. Ciò accade perché l'agente, non essendo in grado di separare con nettezza un processo dall'altro, tende a non accoppiare un singolo processo ad una singola retribuzione: concepisce il complesso dei processi come un'unica "scelta di vita" nella quale il piacere supera l'onere. Ma ciò mette in difficoltà il principale, in quanto gli incentivi estrinseci contrastano spesso con le motivazioni intrinseche. Come annotano Bénabou e Tirole [2003, 492], finché «il principale offre incentivi a bassa intensità, segnala che si fida dell'agente. Al contrario, le ricompense (motivazioni estrinseche) hanno un impatto limitato sulle prestazioni correnti, e riducono la motivazione dell'agente ad assumersi simili impegni nel futuro. In base alla stessa logica, il concedere un maggiore potere all'agente equivale ad incrementarne la motivazione intrinseca, mentre un'assistenza esterna può intaccarne l'autostima e creare una dipendenza». Ne discende un dilemma: se il principale vuole valorizzare le motivazioni intrinseche che le agenzie alimentano, deve pagare basse retribuzioni e concedere notevole autonomia decisionale; tuttavia, così procedendo, attenua i margini di controllo verso l'operato effettivo delle agenzie, essendo egli - a differenza dei beneficiari - l'unico soggetto a potere pretendere ed esercitare tale controllo.

Lo stesso dilemma può essere visto nei termini della difficoltà di chiamare a "rendere conto" qualcuno tra i molteplici attori coinvolti: chi è il "proprietario" di un progetto, quando le cose vanno male? «Ad esempio, mentre l'agenzia di sviluppo paga per i servizi di un contractor, il principale è, nominalmente, il beneficiario. Nello stesso tempo, tipicamente, il consulente ha più informazioni intorno alle realtà basilari rispetti ai funzionari dell'agenzia oppure ai beneficiari. Tale consulente può conseguentemente assumere, in effetti, alcune delle responsabilità amministrative dell'agenzia di sviluppo. In questo caso, il possessore nominale può guardare al consulente come al principale de facto. Più in generale, mentre molti soggetti sono responsabili per l'efficacia e la sostenibilità dell'aiuto, nessuno viene davvero ritenuto accountable» [Gibson et al. 2005, 72]. E ancora: chi risponde di un finanziamento gestito "bene", ma che deriva da patrimoni investiti "male"? (7) Il donor come tale, oppure i suoi manager che hanno deciso l'investimento, o anche l'agenzia che utilizza i fondi e i beneficiari che ne godono? Siamo davanti a inadeguatezze contrattuali che non si dissolvono aggiungendo clausole e condizioni dettagliate. Esse sorgono perché, nei processi di aiuto e di emergenza, quasi mai accade che il consulente sia solo chi da suggerimenti, l'intermediario sia solo un facilitatore e il finanziatore sia solo quello che paga. La "vaghezza" prima richiamata dei mezzi e degli obiettivi riproduce continuamente, oltre la lettera dei contratti, la polivalenza dei ruoli; ed essa si traduce inevitabilmente nel pericolo della de-responsabilizzazione.

Un terzo aspetto verte sulla relazione che le attività dell'agenzia hanno tra loro. Due attività sono complementari se, al loro impiego nel processo produttivo, la diminuzione del prezzo dell'una causa l'aumento della domanda dell'altra. Ciò dà luogo ad un "circolo virtuoso" o processo cumulativo: quando un'attività diventa più profittevole, inducendo l'impresa ad utilizzarla in maggiore misura, crescono altresì i rendimenti marginali dell'altra, che viene pure maggiormente impiegata; ma questo comporta un ulteriore innalzamento dei rendimenti marginali della prima attività, e così avanti. D'altra parte due attività si dicono sostituibili se applicando l'una a livelli più elevati, si riducono i benefici dell'uso maggiore dell'altra. È quest'ultimo il caso rilevante per le ONG: di fronte all'evocata molteplicità dei suoi compiti, l'ONG sperimenta di solito che il costo marginale dello svolgere un'attività cresce all'aumentare della quantità dell'altra attività. Tre esempi-chiave renderanno intuitivo questo snodo. Immaginiamo che il successo di un progetto di cooperazione internazionale nel settore dell'istruzione venga misurato con i voti ottenuti dagli studenti beneficiari in alcuni test. È presumibile che l'ONG sacrifichi altre dimensioni progettuali - creatività, convivialità, autonomia personale degli studenti, e così avanti - per trasmettere prioritariamente quelle nozioni standardizzate che serviranno ad ottenere buone prestazioni nei test scolastici. Quale seconda esemplificazione, immaginiamo che un progetto di emergenza preveda due risultati: un output agricolo abbondante, col quale sfamare la popolazione locale, e una "buona" manutenzione dei beni strumentali usati (terra, macchine). Le misure di performance delle due attività non sono di accuratezza e tempestività comparabile. Se gli esiti delle due attività confluissero in un'unica misura, senza che sia possibile distinguerli, potremmo avere varie combinazioni d'impegno su output e manutenzione [Athey-Roberts 2001]. Ma nel nostro caso il grano o il riso presentano un doppio pregio: sono ben quantificabili e danno un'utilità immediata. Ne segue che l'ONG tenderà a trascurare il traguardo peggio misurabile e monitorabile, sebbene sia consapevole che nel medio-lungo periodo esso è non meno importante. L'ultimo esempio fa riferimento ad un progetto che comporta un duro lavoro coi bimbi orfani di poveri villaggi dell'Uganda. La gestione del fundraising prevede uno show televisivo strappalacrime. Si tratta di un'attività molto efficace: il pubblico ama, digitando un numero sul telefonino, donare un euro per "cause umanitarie". Essa esprime tuttavia degli incentivi per l'ONG che hanno natura opposta agli incentivi coi quali si effettua sul campo il progetto. Per un verso, chi raccoglie fondi deve preoccuparsi di architettare una campagna pubblicitaria, in cui il sorriso o il pianto del bimbo ugandese vengono "venduti" per commuovere e ricevere soldi, esattamente come le belle gambe dell'attrice sono "vendute" in associazione a un detersivo. Per l'altro verso, chi opera nel villaggio con gli orfani chiede a sé stesso elevati gradi di privazione e di dedizione. Qualora a svolgere le due attività siano le medesime persone, ciò può provocare uno "spiazzamento negativo" (crowding-out) a favore di quella più facile e remunerativa: sempre meno tempo e impegno in Africa, sempre più negli studi televisivi [Frey 1997]. Qualora piuttosto l'agenzia di aiuto o di emergenza si articoli internamente in un dipartimento specializzato nel fundraising, ed in uno che lavora nei paesi del Sud, occorre, affinché l'agenzia investa tempo e risorse in entrambe le attività, che i rendimenti marginali in ciascuna siano uguali [Holmström-Milgrom 1991; per un'applicazione al nostro tema: Seabright, 2002]. Ciò comporta che, se si rafforzano gli incentivi nel settore della raccolta fondi, bisogna intensificare altresì gli incentivi del lavoro sul campo. Ma un simile obiettivo appare arduo da raggiungere, considerando la diversa natura dei due tipi d'incentivi: se chi va in Uganda viene pagato di più, per allinearlo a chi allestisce gli show di beneficienza, si finisce ancora una volta per "spiazzarne negativamente" le motivazioni; se invece costui viene compensato di più in termini non monetari, ad esempio lodandone pubblicamente l'apporto, si rischia di "spiazzare" le motivazioni di chi procura i soldi. Mantenere un equilibrio tra processi di natura opposta non è scontato né agevole. La figura sotto riassume la discussione.

Una semplicissima formalizzazione [adattata da Bloom et al. 2007, 14-15] considera, poniamo, due outcomes sanitari: gli ospedali pubblici e le cliniche private. Entrambi debbono raggiungere obiettivi espliciti, in termini di numero di pazienti dimessi o di equilibrio dei conti. Ma tali obiettivi possono stare in un nesso di sostituibilità con gli obiettivi di chi lavora nelle cliniche private: per guadagnare di più, costoro si preoccupano della salute privata dei pazienti che pagano, anziché della salute pubblica (ad esempio, delle vaccinazioni). Ciò viene raffigurato con un agente che controlla due tipi di effort onerosi, mentre soltanto uno degli outcomes dipende da incentivi contrattuali. Siano C e NC gli outcomes, rispettivamente delle cliniche private e degli ospedali pubblici, mentre e1 ed e2 sono i tipi di effort, producibili nel modo seguente:

equazione 1

All'agente interessa tanto la retribuzione w, quanto il costo dell'effort,

equazione 2

Gli agenti sono remunerati con un salario che varia linearmente al variare dell'outcome contrattato prodotto:

equazione 3

Le condizioni di primo ordine dell'agente sono:

equazione 4

Si osservi tuttavia che la funzione g(e1, e2) degli ospedali pubblici non compare nelle condizioni di primo ordine. Infatti gli agenti scelgono l'effort soltanto in base al trade-off tra il suo costo e l'incremento marginale che esso determina in C. Pertanto, all'aumentare di B l'outcome C in generale si incrementerà, mentre NC, privo di incentivi contrattuali, potrà sia crescere che ridursi.

4. Gli altri dilemmi nel funzionamento delle ONG

Un quarto aspetto scaturisce dal rapporto tra il donatore e il beneficiario. Esso è stato rappresentato con una variante del "dilemma del prigioniero", chiamata da James Buchanan [1975] "il dilemma del buon Samaritano". Immaginiamo ad esempio che un genitore si aspetti di essere sussidiato finanziariamente dal figlio quando sarà vecchio. Sarà incentivato a risparmiare poco o nulla adesso, poiché la sua minore capacità di consumo domani sarà colmata dall'aiuto del figlio. Nel caso limite in cui il suo consumo futuro sia interamente garantito dall'altruista, gli conviene non risparmiare, peggiorando in effetti la prospettiva economica dell'intera famiglia, inclusa quella del figlio che lo aiuterà. In generale, se un soggetto desidera il miglioramento del benessere di un altro, deve decidere se soccorrerlo o meno. Chi riceve l'aiuto deve, d'altra parte, scegliere quanto impegnarsi. Se il primo eroga l'aiuto e il secondo si impegna notevolmente, tutti stanno meglio. Ma il beneficiato starebbe ancora meglio se fruisse dell'aiuto senza faticare. Il Samaritano deve pertanto stabilire in che misura, prevedibilmente, il suo intervento non peggiorerà la situazione collettiva: se ritiene che l'altruismo genererà effetti perversi, il suo comportamento razionale consisterà nel rifiutare l'aiuto. Come si vede, il punto decisivo sta nelle aspettative del donatore. Il potenziale beneficiario può provare a plasmarle, ma il donatore sa che l'altro sta tentando di condizionarlo. Si innesca così un vicendevole gioco di specchi nel quale il Samaritano non sa come fare ad essere "buono" e il bisognoso non sa come rendersi credibile. È una difficoltà dell'azione collettiva che rimane in piedi, anche quando si evocano, per attenuarla, meccanismi reputazionali o istituzioni in grado di far rispettare gli impegni. Né sono le ONG a risolvere il dilemma, che anzi tendono a duplicare, in quanto debbono a loro volta, così come il beneficiario, conquistarsi la patente di credibilità agli occhi del Samaritano; ed in quanto - a differenza dello Stato, con la possibilità di coercizione, e del donatore, con la possibilità di non versare più il denaro - non controllano strumenti che rendano applicabili in maniera stringente i contratti.

Un quinto aspetto dilemmatico nasce dai vantaggi che la frammentazione degli aiuti porta - congiuntamente - ai donors coi budgets minori, alle ONG più piccole e ai recipients più deboli. Assumiamo, com'è ragionevole, che i progetti d'intervento presentino in genere economie di scala e di varietà, legate soprattutto alla ripartizione dei sunk costs tra molteplici attività di maggiori dimensioni: per ottenere un rendimento efficiente, occorrerebbe pertanto ridurre il numero degli interventi. Se tuttavia al singolo donatore interessa il proprio successo più di quanto gli prema l'efficacia del coordinamento con gli altri donatori, prevale una (subottimale) proliferazione dei progetti. Il piccolo donatore punta infatti a valorizzare il proprio vantaggio competitivo rispetto al grande donatore, consistente nel rendere i microprogetti più appetibili ai beneficiari. A sua volta, la produttività marginale degli input di un beneficiario tende tanto più ad incrementarsi dentro un microprogetto, quanto più il beneficiario è debole. In effetti, un beneficiario non può da solo che assorbire/recepire un microprogetto a misura che sono minori le sue competenze e risorse iniziali, è ristretta la sua forma organizzativa, è minore la sua forza di negoziazione verso altri attori del sistema locale in cui è inserito. Si determina pertanto una convergenza di interessi tra il donor piccolo e il recipient debole: entrambi puntano a guadagnare di più, evitando di partecipare ad un coordinamento degli interventi che avvantaggerebbe attori più grandi/forti di loro. Non basta. Entrambi sono incentivati a coinvolgere nella promozione del microprogetto una ONG piccola, poiché ad essa soltanto può convenire fare il contractor in una simile iniziativa, per il vantaggio comparato che al riguardo ha rispetto alle grandi. Il risultato è un matching inefficiente, e tale da alimentare la frammentazione degli aiuti, tra chi può donare meno, chi può ricevere con difficoltà e chi può intermediare su scala ridotta [per una parziale modellizzazione di questa situazione, si rimanda a Roodman 2006].

Un sesto dilemma concerne la pluralità di soggetti all'interno del donor così come all'interno del contractor. Questa molteplicità diventa un significativo oggetto d'indagine a misura che gli scopi effettivi perseguiti dai vari membri del principale o dell'agente divergono tra loro. In precedenza abbiamo rimarcato la fuzziness degli obiettivi "di principio": auspicare una riduzione della povertà, una ripartizione meno disuguale del reddito, oppure una maggiore partecipazione di tutti i cittadini, equivale a formulare traguardi polisemici, che sono declinabili, come l'intera ideologia umanitaristica, verso finalità diversissime [Boudon 1990]. Quando tuttavia si passa ad individuare gli scopi concreti da finanziare o da realizzare, emerge non di rado che essi sono reciprocamente incompatibili: dedicarsi all'uno esclude di convergere verso l'altro. Immaginiamo ad esempio che si discuta il varo di un intervento sanitario nell'Afghanistan occupato dagli eserciti occidentali [per tutti: Bhatia et al. 2003]. Quel progetto contribuisce a rinsaldare il regime politico insediato dagli Stati Uniti? È una legittimazione del perdurante intervento militare? Quali gruppi clanici maggiormente beneficia? Sono questioni ineludibili, riguardanti non soltanto il "come" procedere, bensì perfino il "se" procedere. Non può stupire che al riguardo il donatore e l'ONG possano internamente spaccarsi. Un modo idealmente efficiente per scegliere tra più scopi sarebbe di far corrispondere gli incentivi alle informazioni direttamente raccolte: se uno scopo fosse segnalato appropriato rispetto ad un altro, ed entrambi fossero approvati entro un complessivo disegno delle finalità, il primo verrebbe privilegiato. Se ad esempio un intervento sanitario salverebbe 5.000 bambini realizzandosi nell'area x, e 1.000 adulti effettuandosi nell'area y, allora, ceteris paribus, verrebbe privilegiata la prima zona. Ma si è visto che, nei percorsi dell'aiuto e dell'emergenza, le informazioni dirette o ex ante sono scarse e comunque inaffidabili. Qui, inoltre, la maggiore complicazione è che manca il meta-scopo entro cui i due fini si collocano. La logica è dunque quella dell'"aut-aut": o viene approvato l'uno, o passa l'altro [Calabresi-Bobbitt 1978]. Il membro dell'organizzazione - donatrice, oppure di aiuto ed emergenza - schierato a favore di uno scopo, persegue la semplice strategia di promuovere ogni cosa che favorisca la sua causa, criticando ogni cosa che avvantaggi la causa rivale. In particolare egli può, consapevolmente o meno, deformare le informazioni e le conoscenze intorno alla propria causa, per spingere l'organizzazione ad abbracciarla [Dewatripont-Tirole 1999]. Poiché stiamo discorrendo di un ambito nel quale gli interventi toccano i valori di fondo degli individui e delle collettività coinvolti, e spesso comportano l'incolumità o meno, la sopravvivenza o meno, dei beneficiari, appare plausibile che la propensione a battersi per vedere il successo della propria "giusta causa" avvenga con grande impegno di tempo e senza risparmio di risorse.

Il settimo dilemma riguarda una modalità specifica di "selezione avversa" che tende a verificarsi nelle ONG. Ricordiamo che il termine selezione avversa si riferisce ai casi in cui ai venditori delle merci migliori risulta svantaggioso sottoscrivere un contratto: i clienti, in presenza d'informazioni nascoste, sono consapevoli di rischiare un "bidone" e tendono quindi a proporre prezzi che lasciano sul mercato i beni peggiori. Nelle ONG può accadere un analogo processo di espulsione dei membri migliori. Per rendercene conto, chiediamo l'ausilio della teoria della dissonanza cognitiva, la quale spiega come un cambiamento di atteggiamento possa essere la conseguenza di un cambiamento comportamentale, anziché la sua precondizione. «Brevemente, e in un linguaggio non tecnico, la teoria afferma che una persona la quale per l'una o l'altra ragione s'impegni ad agire in una maniera contraria alle sue convinzioni, o a quelle che crede essere le sue convinzioni, si trova in uno stato di dissonanza. Si tratta di uno stato sgradevole, e l'interessato tenterà di ridurre la dissonanza. Siccome il "comportamento discrepante" ha già avuto luogo, e non può esser disfatto, mentre le convinzioni possono esser cambiate, la riduzione della dissonanza può ottenersi principalmente modificando le proprie convinzioni nel senso di una maggiore armonia con le azioni» [Hirschman 1965, 200-201]. Il primo teorico della dissonanza cognitiva, Leon Festinger, pose in evidenza negli anni 1950 il fenomeno della "compiacenza forzata" (forced compliance). Supponiamo di essere sottoposti a un compito che ci appare noioso e frustrante. Successivamente siamo indotti - con incentivi di vario genere (morali o materiali, positivi o negativi) - a convincere altri a svolgere il medesimo compito. Dobbiamo far loro credere che si tratta di un'attività stimolante e piacevole. Ad alcuni di noi viene proposto un compenso di 100 euro; ad altri di 10 euro. «In questa situazione la persona, se non può esimersi dal comportamento richiesto, sperimenta uno stato di dissonanza che cercherà di ridurre modificando il suo quadro cognitivo, e più precisamente adeguando i propri atteggiamenti al comportamento che si trova - per forced compliance - a sostenere. Tanto più basso sarà l'incentivo che viene impiegato per spingere la persona a questo accordo, tanto più elevato sarà lo stato di dissonanza che ella prova; tanto più elevato lo stato di dissonanza, tanto più profondo sarà il cambiamento di atteggiamento che si manifesterà» [Amerio 1982, 207]. Gli esperimenti condotti da Festinger corroborarono la sua ipotesi, in quanto furono i peggio pagati a risultare i più convincenti, e addirittura a risultare essi stessi abbastanza convinti dell'interesse del compito, malgrado il precedente parere contrario. Se riferiamo questo quadro interpretativo alle ONG, la premessa è quella discussa sopra: i donors si aspettano che i membri delle ONG siano retribuiti meno del salario di mercato, ovvero che esprimano un impegno lavorativo superiore a parità di remunerazione; e ciò in quanto, come s'è visto, esistono buone ragioni per sostituire, almeno in parte, le motivazioni intrinseche agli incentivi estrinsechi. Immaginiamo inoltre che - sulla scorta delle nutrite difficoltà fin qui discusse - una ONG operi con mediocri esiti qualitativi. Chi nell'organizzazione venisse lautamente retribuito, avrebbe i mezzi per costruirsi nel tempo una propria indipendenza, giungendo magari infine a denunciarne le carenze per cambiarla o per dissociarsene: è quello che ad esempio, in misura non infima, sembra verificarsi nelle grandi agenzie internazionali delle Nazioni Unite. Chi invece viene pagato poco e male - in nome, naturalmente, dei "nobili ideali" umanitaristici dell'assistenza ai soggetti più deboli - soffre maggiormente il disallineamento tra atteggiamenti e comportamenti: modifica pertanto il proprio atteggiamento fino a giustificare i comportamenti reali dell'organizzazione.

L'ottavo dilemma si verifica quando la ONG - operando in un contesto istituzionalmente poco affidabile con un mandato che, per le ragioni sopra discusse, non è mai del tutto definito - deve preoccuparsi di prevenire le minacce alla sua stabilità e alla sua esistenza. La cooptazione è al riguardo una tra le strategie più efficaci: si tratta di assorbire nuovi elementi, scelti tra gli attori-chiave del territorio in cui si desidera agire, attraverso l'allargamento degli organi direttivi o la creazione di ruoli. A loro volta, gli elementi che entrano possono essere membri politici della comunità beneficiaria e/o collaboratori locali della stessa ONG. La cooptazione - come argomenta Selznick [1949] - può avvenire formalmente o sostanzialmente. Nel primo caso, siamo alle prese con una fisiologica negoziazione politico-istituzionale: ci si confronta con gli attori del sistema locale in cui si opera, per provare a condividere compiti e responsabilità; nel corso del negoziato alcuni di quegli attori entreranno ufficialmente nella ONG e, ovviamente, ne modificheranno in qualche misura l'impostazione. È piuttosto il caso della cooptazione informale o sostanziale che qui appare rilevante: in esso la ONG non punta tanto ad allargare il consenso e la partecipazione nei riguardi di una linea politico-istituzionale, quanto a venire a patti con coloro che possono metterla a rischio come tale. Interagendo con tali soggetti e accogliendo parte delle loro richieste, il progetto originario viene di fatto alterato. Tuttavia, a differenza del primo tipo di cooptazione, ciò accade in maniere non trasparenti, di cui non occorre dare conto ad alcuno (donatori inclusi) e che spesso si rivelano non controllabili da parte della stessa ONG che le promuove. Questa cooptazione informale, di solito negata o minimizzata nei documenti scritti e nelle dichiarazioni pubbliche, costituisce una delle leve che maggiormente divaricano il solco tra la condotta effettiva dell'agenzia e la sua immagine ideologica.

Un nono dilemma è ben colto dal titolo di un saggio di Cowen e Glazer [1996]: More monitoring can induce less effort. Esso rovescia l'intuizione secondo cui più il principale investe in monitoraggio, più l'agente è indotto ad eseguire le disposizioni in modi efficaci ed efficienti. Sono rilevanti e frequenti, infatti, le circostanze in cui appare preferibile proporre pochi controlli casuali. Si consideri ad esempio il rapporto scolastico tra docente e studenti. Se il docente articola un accurato monitoraggio dell'intero programma didattico, sarà più facile per gli studenti raggiungere un voto discreto rispondendo ad una sola parte delle domande; se invece il docente sollecita una replica precisa su una sola questione, gli studenti debbono studiare tutto per riuscire. Analoghi meccanismi sono applicati dai funzionari del fisco, in ogni epoca e a ogni latitudine: poche verifiche campionarie a sorpresa, purché effettuate in maniera credibile, influenzano i comportamenti dei contribuenti non meno di parecchie costose verifiche a tappeto. Pertanto, l'idea che una maggiore e più onerosa accuratezza e sistematicità nei controlli ex ante ed in itinere comporti migliori performance e superiori risultati ex post, va revocata in dubbio. Ciò suscita un dilemma, nel senso che per un verso questo risultato è positivo, in quanto indica buone ragioni per spendere meno; ma per l'altro verso è negativo, in quanto la funzione del monitoraggio non sta solo nel procurare le migliori informazioni: consiste altresì nell'esercitare una forma di controllo diretto. Se l'insegnante si limita a pochi test randomizzati, adotta una modalità di gestione della classe basata su saltuarie verifiche indirette. Se un donatore o un'ONG rinunciano al monitoraggio sistemico, perdono una parte del loro dominio politico sul beneficiario.

Un decimo e ultimo dilemma può essere illustrato mediante un semplice gioco strategico ad informazione perfetta e completa [adattato da Schianchi 1997, 91-94]. Tre ONG - ma il numero di soggetti può venire aumentato - debbono pronunciarsi intorno ad una misura legislativa che imponga una rendicontazione rigorosa dei progetti da parte di auditors indipendenti. Supponiamo che nessuna ONG voglia davvero l'entrata in vigore del provvedimento. Il beneficio del continuare-come-prima sia b, mentre il costo (davanti ai donors e all'opinione pubblica) del dichiarare l'opposizione alla legge sulla trasparenza dei bilanci sia c. Immaginiamo che b > c. Se le ONG prendono posizione in modo sequenziale, sembrerebbe preferibile restare in fondo: saranno infatti le ONG 1 e 2 a subire le critiche quando, in base alla propria convenienza, negheranno il consenso al provvedimento, mentre la ONG 3 potrà fingere sdegno e atteggiarsi a favore, sapendo che l'esito (quale che esso sia) è già stato deciso. La logica opportunistica suggerisce tuttavia uno scenario rovesciato: è meglio denunciare per primi ciò che non si desidera modificare. Per rendercene conto, applichiamo la backward induction, che risale dall'ultima mossa alla prima secondo un cammino di ottimalità. La ONG 3 ha interesse a esprimersi per il no alla legge, tanto se 1 e 2 hanno detto sì, quanto se hanno detto no: nel primo caso col no guadagna b, mentre con il sì prende b - c; nel secondo caso, i suoi payoffs sarebbero rispettivamente uguali a - c e a 0. Se invece 1 e 2 hanno dato pareri opposti, la 3 ha interesse a dire sì: ottiene b - c, anziché 0 se dice no. Passiamo alla situazione in cui a muovere è l'ONG 2. Se 1 ha già detto no, la sua replica ottimale è dire sì per guadagnare b: sa infatti che in tal caso alla 3 converrà dire no, mentre la 3 direbbe sì se la 2 dichiarasse no (guadagnando b - c). Analogamente, se 1 ha già detto sì, le conviene esprimersi per il no. Infine, sia la ONG 1 il first mover. Se essa si pronuncia per il no, la 2 dirà sì e la 3 no. Se essa dice no, le ONG 2 e 3 dovranno, nel loro proprio interesse, affermare il sì, bloccando la legge: essa guadagnerà così non b - c, bensì b. Il risultato, controintuitivo ma illuminante, mostra quindi che un'ONG può essere incentivata a porsi all'avanguardia di un processo di rinnovamento critico della cooperazione internazionale, proprio per fruire dei maggiori vantaggi che scaturiranno dall'opposizione al cambiamento che il resto del sistema non potrà non frapporre.

5. Le ONG nelle emergenze umanitarie complesse

Riassumendo, abbiamo argomentato la sistematica presenza di dieci dilemmi che possono distorcere il funzionamento delle ONG. Essi corrono tra i costi per influenzare le decisioni distributive dei donatori e i costi delle realizzazioni concrete; tra incentivi estrinseci e motivazioni intrinseche; tra processi che, all'espandersi dell'uno, l'altro riduce la propria attrattività; tra altruismo e calcolo strategico; tra la frammentazione degli aiuti, che genera vantaggi competitivi per gli attori più piccoli e deboli, e il coordinamento ottimale; tra gli incentivi dell'organizzazione come tale e gli incentivi di singoli suoi scopi; tra la minore incentivazione del cooperante, e la sua maggiore tendenza a conformarsi alle eventuali performance mediocri dell'organizzazione; tra la cooptazione formale e quella "coperta" di attori locali; tra la convenienza a spendere meno nel monitoraggio e l'estensione del controllo diretto; infine, tra la denuncia solerte delle magagne e la strategia del lasciare le cose come stanno. È agevole accertare che questi dilemmi smentiscono il semplice lineare trade-off sul quale s'imperniava il punto di vista tradizionale: che un'ONG avrebbe ridotto i costi di transazione ex post investendo maggiormente sui costi di transazione ex ante. Quella tesi presupponeva un principale ed un agente reciprocamente bene informati ed internamente coesi che, nel pianeta reale della cooperazione e dell'emergenza, s'incontrano raramente.

Posto il quadro problematico dei precedenti paragrafi, volgiamoci più in particolare alle situazioni di "emergenze umanitarie complesse" [su cui Bellanca 2005]. Queste riguardano l'ecologia, la salute pubblica, i mercati, la tecnologia e la guerra. Un ricorrente carattere delle emergenze riguarda la subitaneità: esse colpiscono in modo estremamente rapido, e ciò rende necessarie risposte urgenti, in cui la "fretta" importa quanto e talvolta più della qualità. Un'altra caratteristica da segnalare è che esse presentano una forte concentrazione iniziale dell'impatto, seguita da isteresi o cronicizzazione; ciò richiede interventi di grandezza "corrispondente" e dunque tanto grandi da, a loro volta, impattare sul sistema-oggetto (quello infrastrutturale, quello scolastico, e così via). Infine, dentro le emergenze è più difficile ottenere informazioni sui beneficiari, portare risorse a destinazione, trasmettere feedback ai donatori: si manifesta pertanto un'"opacità" verso monte e verso valle [Keen 1994; Anderson 1999; Le Billon 2000; MacFarlane 2001]. Entro simili coordinate un intervento di humanitarian assistance s'impantana spesso in difficoltà acute, che sono state oggetto di documentazioni critiche devastanti [due classici sono: Harrell-Bond 1986; De Waal 1998]. Esso deve calarsi in un contesto nel quale di solito le infrastrutture sono danneggiate o distrutte, i servizi locali ridotti, consistenti masse di popolazione si muovono sul territorio, esistono pericoli elevati di epidemia e di conflitti, la capacità delle strutture di governance appare indebolita, il rispetto delle leggi è attenuato, fioriscono più che mai mercati paralleli [Hanlon 1991]. Si aggiunga che vi sono ragioni inerenti l'emergenza per cui la corruzione è difficile da evitare. Data infatti la situazione di sconvolgimento e incertezza, è difficile "mirare giusto": ma se l'aiuto è sottodimensionato, le comunità sono forzate ad impegnarsi in attività di corruzione nel disperato sforzo di sopravvivere; se invece l'aiuto è sovradimensionato, esso non è necessario per la sopravvivenza e si rende disponibile per (vantaggiosi) scopi illeciti.

Siamo insomma in un contesto soggettivamente traumatizzato, oggettivamente squassato, organizzativamente indebolito, informativamente opaco e attraversato da spinte corruttive. Qui l'intervento dell'ONG deve avvenire presto e "in grande". Tuttavia proprio le caratteristiche dell'emergenza rendono arduo fissare e mantenere una corrispondenza chiara tra propositi ed esiti, tra mezzi e fini: l'emergenzaè infatti, pienamente, un contesto di incertezza ontologica, una nozione che già abbiamo evocato nel §2. Qualunque attore sociale ignora quali alternative affioreranno e quali interdipendenze esse avranno tra loro. Se compariamo, ad esempio, il pre-guerra con il dopo-guerra, non è lo stesso set di alternative che, gradualmente, si ristabilisce: è un set in parte nuovo ed inatteso, entro il quale, soprattutto, sono imprevedibili le interazioni. La risposta automatica dell'ONG consiste nell'innalzare i costi di transazione ex ante: rispetto a obiettivi "vitali" e "urgenti", (quasi) tutto è permesso. Diventa più agevole, davanti ai donors, giustificare sostanziali aggravi dei costi [Maren 1997]. Nondimeno nelle pagine precedenti abbiamo avanzato dieci argomenti sistematici secondo cui non è valida l'idea che, all'aumentare dei costi di transazione ex ante, quelli ex post diminuiranno. Ciascuno degli argomenti assume, in una situazione di emergenza, maggiore vigore, poiché in essa, sulla riduzione dei costi di transazione ex post, incide poco un'espansione dei costi di identificazione e allestimento dei contratti ex ante. Chi ha ottenuto che cosa? Quali mezzi sono effettivamente serviti a quali scopi? Quali intenzioni sono state realizzate, e lungo quali percorsi? Nel dopo-emergenza è molto arduo rispondere a queste domande: si può magari - se vi è un'adeguata volontà politica - approntare l'accountability dei fondi impiegati, ma si riesce poco a monitorare il grado di congruenza dei risultati coi progetti (essendo mutate le alternative e, soprattutto, le interdipendenze tra esse) (8).

6. Umanitarismo, democratizzazione e co-sviluppo

L'antropologo Olivier de Sardan [1995, xi] propone una delle più stimolanti definizioni di "sviluppo": «in una prospettiva fondamentalmente metodologica, [esso è] l'insieme dei processi sociali indotti da operazioni volontaristiche di trasformazione di un ambiente sociale, intraprese per mezzo di istituzioni o di attori esterni a questo ambiente, i quali cercano tuttavia di mobilitarlo mediante un innesto di risorse e/o tecniche e/o conoscenze». Le due peculiarità, rispetto ad altri percorsi di cambiamento sociale, consistono nell'intento volontaristico e nell'intervento di soggetti esogeni. Si tratta per l'appunto delle caratteristiche tipiche dell'aiuto e dell'emergenza umanitaria. In tale prospettiva si chiarisce e si giustifica la frase di Macrae e Leader riportata in apertura, secondo cui «l'aiuto è la forma primaria della politica internazionale al livello della periferia geo-politica».

Ma se "aiuto allo sviluppo" ed "emergenza umanitaria" sono forme cruciali della politica globale contemporanea, le modalità di affermazione e di riproduzione delle ONG, e delle agenzie in genere, non possono essere in prevalenza affidate a meccanismi mercatistici (9), bensì a processi essi stessi direttamente politici. La disamina di tali meccanismi richiederebbe un altro saggio. Ci limitiamo qui a menzionare il principale tra essi: il cosiddetto "processo di democratizzazione". Abbiamo mostrato come la principale fonte delle difficoltà di funzionamento delle ONG risieda nel disallineamento di preferenze e valori tra donatori e beneficiari. Abbiamo ricordato che il colonialismo, nelle sue varie tappe storiche, è riuscito parzialmente a riallineare i due ordini discorsivi. Abbiamo inoltre segnalato un mutamento di "sensibilità politica", sulla cui scorta le modalità tradizionali di sussunzione di un gruppo umano ad un altro appaiono meno legittimate. È su questo snodo che opera la "democratizzazione". Come documenta Dunning [2004], durante la guerra fredda gli aiuti condizionati non ottenevano un'elevata credibilità, in quanto la minaccia del governo donatore di ritirarli veniva indebolita dall'alternativa di donatori espressi dal blocco geopolitico contrapposto. Piuttosto, dopo l'implosione dell'Unione Sovietica, la condizionalità si rafforza e il suo contenuto primario risiede nell'adozione di "regole politico-istituzionali" conformi a quelle del donatore. «La fine della guerra fredda ha rimosso le ragioni per nutrire un complesso reticolo di fedeltà politiche mediante aiuti militari e allo sviluppo. [...] I donatori sono stati sempre più coinvolti nelle decisioni politiche ed economiche del paese beneficiato; essi hanno, dagli anni 1990, aggiunto le loro richieste di riforme politiche ai precetti economici dell'aggiustamento strutturale. Ciò ha mutato radicalmente il modo di pensare: dall'idea che determinate precondizioni politico-economiche fossero richieste per il funzionamento dell'aiuto allo sviluppo, si è passati alla credenza che l'aiuto in quanto tale potesse creare queste precondizioni. L'esito è stato ed è un livello d'ingerenza e di ingegneria sociale che era ignoto alle precedenti generazioni di donatori» [Goodhand 2006, 85]. L'adozione di regimi costituzional-elettorali e, in generale, di "prassi democratiche" riassume tali precondizioni; essa ha, ovviamente, anche altre spiegazioni [Bellanca 2008], ma diventa oggi decisiva, nei più deboli tra i paesi del Sud, per restare all'interno del sistema dei sussidi umanitari (10).

Peraltro, le decisioni dei donatori non sono determinate semplicemente dalle pressioni politiche globali. Le agenzie dell'aiuto sono attori collettivi in grado di muoversi sovente con notevoli margini d'indipendenza, in base ai loro sistemi di incentivi interni e alle loro agende istituzionali. La (macro)politica è decisiva, ma anche le performance (a livello micro e, non di rado, meso) delle organizzazioni che gestiscono i flussi dell'aiuto sono importanti. Qui, in chiusura, torniamo al tema centrale del nostro scritto: che fare delle agenzie, e in particolare delle ONG? Una prima implicazione dello schema teorico suggerito segnala che - proprio in base alle logiche dell'azione collettiva, del rapporto principale-agente e dei costi di transazione - le agenzie non sono in generale eliminabili. Una seconda implicazione indica che i dieci dilemmi organizzativi trattati scaturiscono dal funzionamento ordinario dell'ONG, senza dipendere dalla cattiva volontà di qualcuno. È però una terza implicazione che va enfatizzata. La nostra analisi ha mostrato le condizioni precise sotto le quali i dilemmi emergono, e le condizioni specifiche sotto cui affiorano con una superiore gravità. Ciò significa che possiamo a contrario individuare circostanze che ne favoriscano l'alleviamento. Queste circostanze sono catturate da due termini, oggi inflazionati dalla retorica e dall'ideologia umanitaristica: empowerment e co-development. Con la prima espressione intendiamo la capacità del beneficiario di pro-agire verso l'agenzia e verso il donatore, mentre il co-sviluppo attiene a percorsi di innovazione in cui sono interessati soggetti e sistemi locali del Nord e del Sud. I due concetti si tengono a vicenda. In assenza di empowerment, appare illusoria una collaborazione che generi convenienze e cambiamenti bilaterali. In assenza di co-sviluppo, la capacità innovativa del Sud rimane confinata alle debolezze dei propri sistemi locali, perdendo le occasioni che nascono dagli interscambi con l'Altro. Quando si stabiliscono nessi tra donatori, agenzie e beneficiari in cui le dimensioni dell'empowerment e del co-sviluppo sono presenti, i dieci dilemmi sono relativamente addomesticabili, esistendo tanto una struttura di incentivi che coinvolge positivamente le tre parti, quanto la possibilità che ciascuna delle parti svolga il proprio ruolo autonomamente. La scommessa, scientifica e politica, è che una simile congiuntura sia frequente, specialmente se alla sua scoperta e implementazione muovono "cercatori" (imprenditori politici) come quelli teorizzati e raccontati in modo insuperato negli scritti di Albert Hirschman. Quando invece la scommessa viene temporaneamente perduta, sembra meno dannoso, come ha sostenuto William Easterly [2006], limitare gli aiuti a pochi casi di estrema urgenza, potando senza esitazione i rami più perversi dell'assistenza allo sviluppo e delle sue agenzie.

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Note

*. JEL Classification: 019, 022, 038. Si ringraziano Mario Biggeri, Sara Bonfanti, Giovanni Canitano, Paola Ciardi, Filippo Gheri, Renato Libanora, Jacopo Papini, Marco Tognetti, Silvia Vienni, Franco Volpi e Danilo Zolo per le preziose osservazioni e indicazioni, senza implicarli nella responsabilità delle tesi sostenute.

1. «Poche agenzie decisero, da un certo momento in poi, di rifiutare ulteriori fondi pubblici per il disastro dello tsunami. Alcune suggerirono ai loro donatori e sostenitori di assegnare i soldi ad altre cause più urgenti. Ma in assenza di un'azione concertata delle agenzie, i donatori si limitarono a spostare i loro doni verso organizzazioni meno assistite. Senza un coordinamento, le singole agenzie fallirono nel sensibilizzare su questa difficoltà. In definitiva, tutto apparve dominato dalle regole della competizione. Pur ammettendo che la concorrenza ha i suoi pregi nello spingere le agenzie ad uno sforzo più incisivo, essa dovrebbe essere limitata quando provoca distorsioni tanto serie ai principi umanitari». Vaux [2006, 243].

2. Quando, nel seguito del saggio, rinviamo ad articoli della letteratura teorica sulla relazione di agenzia (ma pure sui costi di transazione), salvo avviso contrario, si tratta di contributi dal taglio teorico generale, non formulati in riferimento all'esperienza della cooperazione internazionale e degli interventi in emergenze umanitarie. La nostra discussione prova principalmente a selezionare i contributi che meglio spiegano le peculiarità di quest'esperienza.

3. Il Development Assistance Committee è l'organo dell'OCSE che raggruppa i 22 principali paesi donatori e la Commissione europea.

4. Per un'applicazione al nostro tema, Martens (2006). I paradigmi teorici distinti dei costi di transazione e dell'agenzia vengono qui usati congiuntamente. Per gli obiettivi della nostra esposizione, infatti, conta il tratto che li accomuna: la centralità della nozione di "opportunismo", che analizza come i soggetti tentino di aggirare le regole del contratto sia quando il rapporto non è ancora definito e accettato, sia quando va accertato e applicato. A sua volta l'opportunismo è facilitato dall'asimmetria informativa e da altri fallimenti dei mercati e delle istituzioni, ma non scaturisce da questi.

5. Essi includono altresì i costi opportunità per i guadagni perduti a causa delle difficoltà a formulare accordi completi e di facile attuazione.

6. Si leggano ad esempio le Project Cycle Management Guidelines [2004] promosse dalla Commissione Europea e da Europaid nell'ambito degli Aid Delivery Methods. Esse costituiscono una delle riflessioni più mature intorno alla metodologia di progettazione che ha nel Logical Framework il suo strumento [su cui SIDA 2004]. L'idea di fondo è che un progetto attraversi cinque stadi: identificazione (analisi del contesto, degli stakeholders e dei problemi), formulazione (analisi degli obiettivi, piano delle attività, resource planning, analisi del rischio, risk management e analisi delle assunzioni), realizzazione, monitoraggio e valutazione. L'intera metodologia poggia sulla convinzione che, se non si dedicano tempo e risorse adeguati all'analisi della situazione e alla progettazione, ci si imbatterà in gravi e crescenti difficoltà al momento della realizzazione e della implementazione. Per un inquadramento storico delle pratiche di valutazione dell'aiuto allo sviluppo, si veda Sasaki [2006].

7. Per limitarci ad un solo caso recente, una documentata inchiesta del Los Angeles Times [Piller et al., 2007] ha rivelato che la Bill & Melissa Gates Foundation da un lato dona ai bisognosi e dall'altro investe con chi specula sui più deboli. Ad esempio, per un verso vaccina contro la poliomelite e il morbillo i bambini del Delta del Niger, mentre per l'altro investe in società (come Royal Dutch Shell, Eni, Exxon Mobil, Chevron e Total) che sono tra i maggiori responsabili delle malattie respiratorie che affliggono quegli stessi bambini. Il patrimonio di 66 miliardi di dollari, superiore al PIL del 70% dei paesi del mondo, rende questa fondazione il gigante della beneficienza. Essa dona ogni anno almeno il 5% del proprio patrimonio per evitare eccessi di tassazione, ma il restante 95% viene investito da manager dotati di ampia autonomia, che procedono separatamente rispetto a coloro che distribuiscono i fondi.

8. Come è stato documentato, davanti a un simile drammatico disallineamento tra mezzi e scopi, il personale delle ONG adotta atteggiamenti volti anzitutto a difendere l'integrità del proprio Sè. Gli stadi psicologici attraversati sono il superlavoro, il distacco emotivo, il transfert delle responsabilità e la distorsione della realtà. «Nello stadio del transfert, il personale dell'aiuto non è più capace di staccarsi dalle continue sofferenze che non riesce ad alleviare. Per proteggere il proprio Sé, inizia a razionalizzare il fallimento, spostandone la colpa da sé stessi e puntando l'attenzione su altri fattori». Walkup (1997, 45-46). Si veda altresì Harrell-Bond (2002).

9. Tra gli approcci più squisitamente mercatistici, segnaliamo quello di fondazioni come GiveWell, che istituisce una rete di ispettori esterni che rendicontino l'efficacia delle risorse donate, oppure come GlobalGiving.org, che cerca non soltanto di informare in tempo reale i benefattori sul modo con cui utilizza i loro soldi, ma offre altresì a chi è insoddisfatto la possibilità di spostare il suo contributo da un'attività caritatevole ad un'altra.

10. D'altro canto, a conferma del legame biunivoco tra sistema dell'aiuto allo sviluppo e sistema politico-istituzionale del Nord, è stato documentato che tanto più i paesi del Nord corrispondono al profilo del paese pienamente democratico, quanto più essi investono risorse nella cooperazione allo sviluppo del Sud [Faust 2008].