2011

A.K. Sen, L'idea di giustizia, Mondadori, Milano, 2010 (edizione originale HUP 2009), ISBN 978880460017

Luigino Bruni

La purezza di cuore, se qualcuno riuscisse a conquistarla, dovrebbe consistere nel vedere chiaramente e, a partire da questa prospettiva, agire con grazia e disciplina (J. Rawls, A theory of justice, p. 514)

Per discutere questo libro di Sen, un libro senza alcun dubbio bello e appassionante, un buon punto di partenza è iniziare dalla fine: "La filosofia può esercitarsi con esiti di straordinario interesse su una varietà di questioni che non hanno nulla a che fare con le miserie, le iniquità e la mancanza di libertà che affliggono la vita umana. E' bene che sia così, e c'è senz'altro di essere felici per l'espansione e il consolidamento del nostro orizzonte conoscitivo in ogni campo che sollecita la curiosità dell'uomo. La filosofia, però, può anche contribuire a dare maggiore e rilevanza alle riflessioni sui valori e sulle priorità, nonché a quelle sulle privazioni, le angherie e le umiliazioni cui in tutto il mondo gli esseri umani sono soggetti" (p. 417). Sen è soprattutto per il secondo esercizio della filosofia, e chiunque sia interessato ad alleviare "le privazioni, le angherie e le umiliazioni" della gente, soprattutto dei più deboli, deve leggere questo libro di Sen (se ha voglia di affrontare oltre 400 pagine) o almeno qualche suo libro più divulgativo, articolo o intervista. Leggere libri di Sen è poi importante anche perché sono pochi i libri di economisti che si possono raccomandare ad un amico, e non solo perché oggi la scienza economica non comunica più le proprie scoperte e avanzamenti con i libri ma con papers pubblicati in riviste scientifiche internazionali (ormai quasi tutte nord americane), ma anche a causa del poco interesse culturale che è capace di suscitare oggi la scienza economica. Questo libro di Sen, come tutti i suoi libri, è assolutamente raccomandabile a qualsiasi persona interessata ai temi della giustizia, dell'equità, della filosofia politica, della teoria delle scelte sociali, della razionalità economica occidentale e orientale, e altro ancora.

Sen è ormai molto più che un economista, poiché da anni è protagonista di dibattiti filosofici e politici, ispiratore di politiche pubbliche, di riduzione della povertà, dello sviluppo umano. Il suo concetto di capabilities (una parola difficilmente traducibile in italiano) ha avuto un impatto enorme negli indici di sviluppo umano dell'ONU, negli studi e nelle politiche sul gender divide, nelle analisi e nelle politiche della disabilità e dell'esclusione. L'insegnamento o il magistero laico di Sen sulla comprensione della natura della povertà è una delle lezioni più grandi e culturalmente rilevanti che uno studioso abbia dato nel Novecento alla vita civile e politica; un insegnamento, però, che resta quasi del tutto estraneo a troppe istituzioni che oggi si occupano di povertà, che continuano, ad esempio, a pensare che la povertà sia dovuta alla mancanza di risorse o di reddito, e non sia invece legata alla mancanza di libertà e all'incapacità di trasformare le risorse, poche o tante che siano, in capacità di condurre la vita che si vorrebbe fare. Le pagine scritte da Sen sulla povertà dovrebbero oggi far parte delle letture di base, insieme alle Beatitudini, Gandhi, Francesco e Rahnema, di qualsiasi persona o istituzione che oggi si occupa di temi legati alla povertà e allo sviluppo umano.

Sen dunque, come tanti altri grandi economisti (Smith, Pareto, Keynes, Schumpeter, Hirschman, Becattini, Sugden, etc....), pur essendo molto più di un economista, è anche un economista, almeno nel significato che questa parola aveva alle origini della scienza economica, quando gli economisti erano essenzialmente studiosi dello sviluppo, della pubblica felicità, dei grandi temi del benessere e della crescita civile e umana. Per comprendere Sen occorre allora inquadrarlo all'interno di una tradizione economica antica, e non tanto compararlo con i suoi colleghi di oggi, sempre più esperti di matematica e di modelli e spesso distanti dalle analisi della vita reale delle persone. Questo libro sulla giustizia di Sen si deve collocare al culmine di un progetto di ricerca ormai quarantennale, iniziato con importanti contributi nel campo della teoria delle scelte sociali, una branca di studi a cavallo tra la scienza politica e l'economia, iniziata nel Settecento francese con Condorcet e Borda, e sviluppata molto nel Novecento, soprattutto grazie all'economista americano Kenneth Arrow e al suo classico "Teorema di impossibilità". Questa teoria si occupa dell'aggregazione di preferenze e valori individuali in aggregati collettivi o sociali, che poi sono di guida alle scelte pubbliche, e utilizza soprattutto strumenti di teoria del voto. I messaggi che oggi provengono da questa teoria sono soprattutto dei paradossi e dei teoremi di impossibilità (uno formulato 40 anni fa dallo stesso Sen), che mettono in luce la complessità del passaggio dalle preferenze individuali a scelte collettive, i rischi di manipolazioni, e le soluzioni o scorciatoie più facili (la più nota è la soluzione della dittatura, dove le preferenze di una singola persone diventano tout court quelle dell'intera collettività).

A Sen la teoria delle scelte sociali serve soprattutto come paradigma e metodologia alternativi al modo dominante di trattare il tema della giustizia dei classici di ieri (Hobbes, Rousseau, Locke, e Kant) e di oggi (soprattutto John Ralws, il filosofo politico più influente del XX secolo), un approccio che Sen chiama "istituzionalismo" o "contrattualismo trascendentale", poiché teso a cercare le istituzioni e procedimenti ideali per costruire, normalmente attraverso un contratto sociale, una società giusta. Una seconda caratteristica di questo approccio trascendentale, è il suo focalizzarsi su una dimensione (beni primari, risorse, utilità ...) da rendere ugualitaria al fine di poter costruire la società giusta o perfetta.

Scrive, infatti, Sen nell'Introduzione che la finalità del suo libro è "chiarire in che modo dovremmo procedere nell'affrontare le questioni inerenti alla promozione della giustizia e all'eliminazione dell'ingiustizia, più che offrire la soluzione delle questioni concernenti la natura della perfetta giustizia." (p. 5). Per Sen la domanda più importante sulla giustizia è "come è possibile promuovere la giustizia?", e non invece: "come si presenterebbero delle istituzioni perfettamente giuste?" (p. 25), la domanda, quest'ultima, al cuore del progetto da lui chiamato "trascendentale".

La pars destruens del libro di Sen è tutta concentrata sulla critica a questa visione che lui chiama "trascendentale" della giustizia, poiché, a detta dell'economista indiano, il grande sforzo che quei grandi filosofi hanno fatto per trovare le giuste istituzioni e i giusti procedimenti per la costruzione della società perfetta, ha fatto dimenticare l'urgenza di combattere le "ingiustizie manifeste" e soffermarsi sui miglioramenti da una situazione più ingiusta ad una meno ingiusta, che per Sen dovrebbe invece essere lo scopo principale di una teoria della giustizia. Un esempio che ricorre più volte nel libro è preso dal campo dell'arte: non è molto utile per scegliere tra un quadro di Dalì con uno di Picasso sapere che il quadro perfetto è la Gioconda di Leonardo (p. 31). E il principale "eroe intellettuale" che Sen trova in questa sua teoria "comparativa" della giustizia è l'Adam Smith della Theory of moral sentiments (1759), soprattutto della teoria dell'osservatore imparziale. In questo approccio comparativo alla giustizia gli viene incontro la teoria delle scelte sociali, poiché questa è soprattutto una teoria che non va in cerca della società ottima ma confronta diversi stati del mondo, e propone come scegliere tra l'uno e l'altro (attraverso strumenti basati sul voto).

Il tema del confronto tra situazioni migliorabili (e non perfette) è talmente centrale nel libro di Sen che verrebbe da proporre come titolo del suo libro "L'idea di ingiustizia", poiché in tutto il volume è soprattutto l'impegno intellettuale teso alla riduzione delle ingiustizie evidenti che emerge come la principale urgenza, teorica e pratica.

Gli ingredienti fondamentali della teoria della giustizia di Sen (che in realtà è soprattutto una critica serrata alle principali teorie delle giustizia, più che una teoria alternativa compiuta, anche perché questo modo di fare teoria non piace a Sen), sono i seguenti:

  • l'importanza centrale (sulla scia di Mill) del discorso e del dibattito pubblico in ogni teoria della giustizia, se è vero che la democrazia, nella parole di Bahegot e Mill, e di Sen stesso, è "government by discussion". Anche la sua teoria dei diritti umani è basata soprattutto sul pubblico discorso (quindi sulla società civile e la sua "voice") e meno sulle obbligazioni perfette garantite dalle istituzioni a fronte dei diritti umani (Sen introduce nei diritti umani anche i diritti economici e sociali, per i quali l'obbligazione non è mai perfetta).
  • L'affermazione che ogni teoria seria della giustizia deve essere incompleta e aperta, poiché lo spazio dell'incompletezza è riempito dal dibattito pubblico e dai contesti storici e culturali che variano con le persone e con le culture.
  • Il bisogno di una idea di imparzialità in ogni teoria della giustizia come equità (una idea di equità che Sen prende da Ralws e fa sua), un'imparzialità che Sen prende da Smith, dal suo "impartial spectator" - anche se l'osservatore imparziale di Sen non è quello di Smith, poiché Sen gli attribuisce ruoli molto più ampi del "man in the brest" di Smith.
  • Il bisogno di una diversa idea di prossimità, che sia imparziale e non legata al "vicino": a questo riguardo bellissime e suggestive sono le pagine dedicate alla rilettura della parabola del Buon Samaritano del vangelo di Luca (su cui diremo qualcosa in seguito).
  • La necessità di superare l'approccio contrattualista e del mutuo vantaggio in ogni scelta di giustizia, poiché esistono scelte morali che vanno oltre il vantaggio personale, in particolare quelle scelte che Sen chiama "obbligazioni di potere".
  • Lo sviluppo delle libertà, in particolare delle libertà di agency, visto come il principale indicatore di sviluppo umano e di qualità della democrazia.
  • Infine (ma potremmo continuare, parlando della sua teoria della democrazia, della giustizia globale, dei beni pubblici, dello sviluppo sostenibile), il bisogno di superare l'idea di felicità come la sola cosa degna di valore nella vita, poiché ci sono scelte che hanno valore anche se non aumentano la nostra felicità (intesa come benessere).

In quanto segue, cercherò di riprendere alcuni di questi punti (anche se non in modo sistematico, per non appesantire troppo il genere letterario di questa recensione), che considero centrali non solo per comprendere questo libro di Sen, ma anche per cogliere alcune dimensioni al cuore di molti dibattiti teorici, culturali e civili oggi. Un esempio centrale nell'economia del libro è quello dei tre ragazzi con un flauto (pp. 28 e ss). L'esempio è addotto da Sen a dimostrazione di come le teorie delle giustizia che lui chiama trascendentali non funzionano, essendo concentrate su una sola dimensione della giustizia. Anne, Bob e Carla hanno un solo flauto, e occorre trovare un criterio (di giustizia) per decidere a chi spetta quel flauto. Anne è la sola che lo sa suonare, Bob è il più povero e quel flauto sarebbe il suo unico giocattolo, Carla invece è più ricca di Bob ma è quella che ha costruito con il proprio lavoro il flauto. Sen fa notare che diverse teorie trascendentali della giustizia porterebbero a tre scelte diverse: quella utilitarista lo assegnerebbe a Anne, quella di Ralws a Bob, e quella liberale a Carla. E' qui che Sen afferma l'insufficienza di teorie che scelgono una sola dimensione per arrivare a definire politiche giuste (tra cui la sua stesse teoria delle capabilities, come era stata da lui formulata nel 1987). Sen indica invece che in questi casi il criterio "giusto" è quello del dibattito pubblico, che accetta l'incompletezza dei criteri e il conflitto tra di essi, e che nonostante questo arriva, magari con le tecniche aggregative della teoria delle scelte sociali, ad una scelta, sulla base di più valutazioni che non potranno che essere contingenti, e sottoposte a continuo riesame e scrutinio critico (e quindi anche a cambiare spesso nel tempo e nei diversi contesti culturali e storici).

Per ogni scelta di giustizia, ciò che Sen propone, lo abbiamo detto, non è una teoria della giustizia in sé, ma criteri di scelta tra situazioni più o meno giuste. Nel linguaggio economico, per Sen sono più importanti i "miglioramenti paretiani" rispetto agli "ottimi paretiani" (anche se Sen non amerebbe chiamarli così, per la sua critica al criterio di Pareto), perché il problema di una teoria della giustizia è il passaggio da situazioni peggiori a situazioni migliori anche se entrambe non ottime. Per spiegare la differenza tra una giustizia trascendentale (basata sulla ricerca di giuste istituzioni) e una comparativa (basata sui risultati e sulla vita che la gente di fatto conduce) Sen (pp. 35 e ss) ricorre a due parole che nella cultura indiana antica indicavano due diverse idee di giustizia: Niti e Nyaya, che Sen associa alla distinzione latina tra Justitia e Iustitium. Niti è la giustizia in sé (Justitia), mentre Nyaya è un giudizio pratico su una situazione concreta e quindi mai perfetta e sempre in rapporto ad un'altra (Iustitium). Per Sen la tradizione ufficiale e dominante sulla giustizia, quella trascendentale, è interessata soltanto al Niti, mentre la sua prospettiva è in linea con la tradizione Nyaya. Debbo riconoscere che i riferimenti alla cultura indiana rendono la lettura di questo libro assolutamente originale nel panorama della teoria sociale e appassionante, poiché spesso questi riferimenti prendono la forma di racconti di episodi epici e/o sacri, del tutto sconosciuti ad un lettore occidentale. È da notare, seppur per inciso, che uno degli obiettivi del progetto di ricerca globale di Sen è mostrare che sia il concetto di razionalità che quello di democrazia sono presenti anche nel mondo indiano, e non sono una eredità della sola cultura greco-romana-ebraica-cristiana.

Una nota di approfondimento lo merita anche il discorso dell'imparzialità, che per Sen è una prerogativa di ogni seria idea di giustizia. Sen ricorre a Smith perché lo vede (con Hume) come l'unico grande alleato per una teoria della giustizia non trascendentale (né tantomeno contrattualista), poiché Smith arriva ad una idea di comportamento morale basato non primariamente sull'idea di interesse ma su quella di imparzialità, un'imparzialità che per Sen (non per Smith, occorrerebbe dire) dovrebbe essere aperta anche a persone esterne al contesto nel quale viene fatta una determinata scelta; un'imparzialità aperta e universale, che dà ad ogni cittadino del mondo il diritto ad invocare giustizia in situazioni nelle quali non avrebbe alcun interesse personale ad intervenire (come nel caso della protesta per la sopravvivenza di specie animali o per i diritti delle donne in popoli dove esiste una cultura maschilista: il tema della donna è onnipresente in questo e in tanti altri lavori di Sen, sulla scia, anche qui, di J.S. Mill).

L'idea di imparzialità ha dunque bisogno di una nuova idea di prossimità, non legata alla vicinanza geografica. Ed è in questo contesto che Sen prende come testo di riferimento per fondare una "nuova" idea di prossimità la parabola del Samaritano, nel Vangelo di Luca. Sen ricorda la regola d'oro presente nel Cristianesimo, e non solo in questo, che invita ad amare non solo Dio ma anche il proprio prossimo. Il punto sta però nell'interpretazione dell'idea di prossimo, perché normalmente la prossimità è stata intesa come prossimità geografica, etnica, affettiva, culturale: si deve amare il nostro prossimo, e quindi si ama di più il prossimo rispetto al meno prossimo. Come mettere allora assieme l'imperativo etico di amare il prossimo, con la necessità di imparzialità e universalità di una seria visione della giustizia, che deve estendersi ben oltre i confini geografici, etnici, di vicinato? Esiste, infatti, per Sen una "profonda fragilità" nel pensare ai popoli in termini di fisse comunità formate da confini circoscritti ed escludenti (p. 181). Sen trova una nuova idea di prossimità nel Samaritano di Luca, una parabola che Gesù racconta per rispondere alla domanda "chi è il mio prossimo"?. Il prossimo dell'"uomo imbattutosi nei briganti", sarà alla fine il samaritano, e non il Levita o il sacerdote, due persone espressioni di prossimità legate alla vicinanza, alla religione, all'etnia. Il samaritano diventa prossimo, per Gesù, perché si "prende cura di quell'uomo" vittima, e quel samaritano, che diventa il prossimo, è un prossimo nuovo, poiché va oltre tutte le altre prossimità (i samaritani erano un popolo diverso e nemico di Israele). Scrive Sen: "In questa occasione Gesù non affronta direttamente la questione dell'obbligo ad aiutare gli altri - tutti gli altri - che si trovano nel bisogno, siano o no vicini o noi, ma piuttosto solleva una questione classificatoria riguardante la definizione del prossimo. Gesù chiede di rispondere allo scriba su chi fosse stato in quel contesto il prossimo dell'uomo ferito, e questi risponde "colui che lo ha aiutato" (p. 182, la traduzione di questo brano è mia). E quello era esattamente ciò che Gesù voleva dire. Il dovere verso i prossimi non è confinato soltanto a coloro che vivono accanto a noi". E poi aggiunge: "A stabilire un vincolo tra il Samaritano e l'israelita ferito sono gli eventi stessi. ... La prossimità che si stabilisce nella relazione con persone a noi distanti è ricca di importanti implicazioni per il concetto generale di giustizia, soprattutto nel mondo contemporaneo" (p. 183).

Un ultimo accenno ad un altro tema centrale nel discorso di Sen, quello degli "obblighi di potere" che spingono ad andare oltre il mutuo vantaggio, che è legato alla teoria di Sen riguardante la felicità. L'intera teoria della giustizia di derivazione contrattualista, compresa quella di Ralws basata sul "velo di ignoranza" nella posizione originaria, è fondata sull'idea di mutuo vantaggio tra i soggetti che si impegnano in un patto sociale. Il secondo principio di differenza, ad esempio, è per Ralws una regola di razionalità individuale, poiché l'ultimo della società, una volta caduto il velo d'ignoranza, potrei essere proprio io, ed è quindi razionale per me prevedere per l'ultimo il miglior trattamento (misurato in termini di beni primari). Sen non nega che il mutuo vantaggio sia un principio fondamentale e fondativo di ogni società libera, poiché è una applicazione del principio di reciprocità che è alla base, più dell'altruismo o dell'egoismo, di ogni società umana, in particolare di una democrazia composta di persone uguali e libere. Però, dice, non è sufficiente per la costruzione di una società giusta, perché esistono altri obblighi etici che non possono essere ricondotti al principio del mutuo vantaggio e ai contratti. In particolare, e rifacendosi alla tradizione buddhista, Sen indica due casi nei quali esistono quelli che lui chiama "obblighi di potere", che spingono ad agire senza che per uno dei soggetti (quello più "potente") ne derivi un vantaggio personale: gli obblighi verso gli animali, e, indirettamente, gli obblighi di cura della madre verso il bambino. "Buddha propone un'analogia con la responsabilità della madre verso il bambino: essa non discende dal fatto che la madre ha dato il bimbo alla luce, ma dal fatto che può influenzare la vita del figlio con azioni a lui precluse. In questa concezione, la ragione per cui la madre aiuta il bambino non risiede nei vantaggi della cooperazione, ma dal riconoscimento dell'asimmetrica possibilità di fare cose gravide di conseguenze per la vita del figlio" (pp. 216-217). La chiusa del discorso è particolarmente efficace e suggestiva: "Il mutuo vantaggio, basato sulla simmetrica e sulla reciprocità, non è l'unico fattore che possa indurre a tenere verso gli altri una condotta ragionevole. Essere in possesso di un potere reale, con gli obblighi unidirezionali che ne conseguono, può costituire un'altrettanto importante ragione per comportarsi in modo imparziale, lasciandosi alle spalle la considerazione del reciproco beneficio" (p. 218).

A Sen però non basta lasciarsi alle spalle il mutuo vantaggio per fondare l'idea di giustizia come imparzialità, ma vuole lasciarsi alle spalle lo stesso vantaggio individuale, persino la felicità, a cui dedica il cap. 13 del libro. Sen non è l'unico pensatore contemporaneo a criticare la felicità come base di una teoria etica. Nozick, ad esempio, nel suo ultimo libro La vita pensata ha scritto critiche non meno dure, e per ragioni non distanti da quelle proposte da Sen. L'economista indiano non critica soltanto la visione utilitarista (o benthamita) della felicità, questo potevano aspettarcelo dato il suo impianto generale relativo alla teoria della giustizia. La massimizzazione del piacere individuale e sociale non sta assieme alla sua teoria delle capabilities: buona parte dei suoi primi lavori è stata infatti una critica all'utilitarismo. Qui Sen critica anche (sebbene non ce lo dica esplicitamente) l'idea molto più ampia di felicità che potremmo rintracciare in Aristotele (eudaimonia) o in Mill. Sen ci dice che pur allargando il confine del concetto di felicità fino a farci rientrare l'idea di realizzazione o fioritura umana, che per la tradizione aristotelica è il bene supremo e ultimo (perché tutto è penultimo rispetto alla felicità), la felicità non è né l'unica variabile che conta nella vita, né la più importante. Perché? La ragione in fondo è semplice. Se la felicità diventa, reinterpretando Aristotele, tutto ciò che ha valore nella vita di una persona, allora la felicità si trasforma in un concetto inutile per le analisi sociali, poiché sapere che tutte le cose buone e vere sono riconducile alla felicità non ci offre alcun criterio per le scelte concrete, che sono spesso un conflitto tra una dimensione buona e altre. Conviene quindi, per Sen, tenere la felicità all'interno dei suoi confini di senso comune, fosse anche quello utilitaristista, e considerarla una dimensione della vita, che in certi casi può cedere il passo ad altre. Personalmente ho lavorato diversi anni attorno all'idea aristotelica di felicità, dimostrando che molte delle critiche rivolte agli studi sulla felicità in realtà sono applicabili ad una visione benthamita di essa, ma non alla visione aristotelica. Devo però riconoscere di essere d'accordo con Sen e, pur arricchendo e complicando l'idea di felicità, per le analisi delle scelte concrete delle persone è più utile delimitare la felicità e confrontarla con altre dimensioni della vita buona. Pensiamo, per un esempio, ad una persona (donna, come fa Sen) che per ragioni religiose o ideologiche si è convinta che la sua condizione di sudditanza al marito sia parte della sua vocazione, ed è contenta in quel suo stato. Ipotizziamo che una persona esterna e imparziale rispetto a quella situazione possa liberamente proporre a quella donna un cammino di coscentizzazione e di emancipazione. E' certo che soprattutto nei primi tempi, e magari anche nei secondi e negli ultimi, se quella persona inizia un cammino di liberazione e di aumento delle sue capabilities vedrà una riduzione di felicità (se vogliamo interpretata riduttivamente), ma avrà un aumento delle sue libertà: possiamo dire che ora questa donna è più felice, magari soffrendo spiritualmente e forse fisicamente? non so; ma certamente possiamo dire che quella persona è più libera, e magari può preferire di iniziare quel processo di coscentizzazione anche sapendo che ci sarà un costo in termini di felicità. Certo, potremmo (aristotelicamente) includere nel concetto di felicità anche quello di libertà, ma, ripeto, così facendo il concetto di felicità diventerebbe tanto ampio quanto inutile (un po' come è accaduto al concetto di razionalità formale, dove ogni comportamento può essere descritto come razionale, anche bere benzina). Oppure pensiamo ad un religioso (un frate ad esempio) a cui, in un momento di crisi vocazione, si prospetta la possibilità di ricostruire una vita con una giovane donna: questo frate potrebbe decidere di non scegliere quella nuova probabile maggiore felicità per una fedeltà alla verità sulla propria vita. E se dovesse farlo, questa scelta, in un approccio seniano, sarebbe ragionevole non meno dell'altra. Anche in questo capitolo la frase finale merita di essere riportata: "Non c'è bisogno di essere Gandhy (o Martin Luther King o Nelson Mandela o Aung San Suu Kyi) per comprendere che gli obiettivi e le priorità di una persona possono andare ben al di là degli angusti confini del ben-essere e della felicità individuale" (p. 298).

Bibliografia

  • Arrow, Kenneth, Scelte sociali e valori individuali, Etas Libri, Milano, 2003 (prima edizione 1951).
  • Mill, John Stuart, The subjection of women, Oxford University Press, Oxford, 1975 (prima edizione 1869).
  • Nozick, Robert, La vita pensata, Boringhieri, Torino, 2004 (edizione originale 1989).
  • Rawls, John, A theory of justice, HUP, 1999 (prima edizione 1971).
  • Sen, Amartya K., The Impossibility of a Paretian Liberal, Journal of Political Economy, n. 78, 1970, pp 152-157.