2016
Violenza contro le donne e Istituzioni.
Uno studio di caso sulla relazione
vittime-operatori di polizia
Francesca
Farruggia
(RIAD - Istituto di Ricerche Internazionali/ Dipartimento
di Scienze Sociali ed Economiche, Sapienza Università di Roma)
1. Premessa
La violenza di genere costituisce una delle piaghe più
drammatiche della società contemporanea, il cui carattere trasversale e
multiforme delinea un panorama di elevata complessità, in cui si
intersecano piani e livelli diversi: pubblico e privato, politico e
culturale, istituzionale e simbolico. Il fenomeno, che ha attraversato
la storia delle società nei secoli, mostra un volto adattivo e
composito che si modella manifestandosi ancora oggi, nonostante i
processi di modernizzazione, di emancipazione sociale delle donne, di
benessere economico e di predisposizione a livello globale di
meccanismi di difesa e salvaguardia dei diritti umani1.
Il riconoscimento della gravità e della salienza della
violenza contro le donne è testimoniato dalla produzione, sul tema, del
diritto internazionale, di cui accenneremo attraverso una sintetica
rassegna dei principali traguardi normativi raggiunti negli ultimi
decenni. Delineeremo poi i principali aspetti statistici del fenomeno
in Italia, mostrando la drammatica estensione numerica della violenza
di genere, in tutte le sue forme, a cui corrisponde un’esigua
percentuale di denunce. Quest’ultimo dato ci porta a riflettere su un
altro aspetto, relativamente poco esplorato sinora, rappresentato dal
rapporto che la vittima di violenza stabilisce con gli operatori di
polizia ogni volta che può e vuole rivolgersi alle istituzioni
competenti nella sua richiesta di aiuto.
Quello presentato in queste pagine è dunque uno studio
sociologico che si propone, da un lato, di indagare le criticità
affrontate dalle donne vittime di violenza nel momento in cui si
rivolgono alle strutture pubbliche per richiedere una prima assistenza;
dall’altro, di analizzare in che modo la situazione di emergenza
presentata dalle vittime viene percepita e gestita dagli operatori di
polizia nella città di Roma.
2. Il quadro internazionale.
Dopo una prima fase in cui la tutela dei diritti delle
donne è stata inserita nella più ampia problematica della non
discriminazione2,
assistiamo nel 1979 all’elaborazione, prodotta dalla Commissione ONU,
di una Convenzione ad hoc sulla Condizione delle Donne che
definisce la specificità della discriminazione contro le donne come
“ogni distinzione o limitazione basata sul sesso, che abbia l’effetto o
lo scopo di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o
l’esercizio da parte delle donne, indipendentemente dal loro stato
matrimoniale e in condizioni di uguaglianza fra uomini e donne, dei
diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico,
economico, culturale, civile o in qualsiasi altro campo” 3.
Nonostante la rilevanza della CEDAW (che per la prima volta
prevede al suo interno la predisposizione di un meccanismo di vincolo
giuridico che condizioni gli Stati nella modifica dei modelli culturali
in materia di differenze tra sessi, applicando concretamente criteri di
uguaglianza) è nel 1993, con la Dichiarazione sull’Eliminazione
della Violenza contro le Donne, che prende avvio quel movimento
‘definitorio’ della violenza di genere il quale, proponendo una
designazione del fenomeno, ne riconosce l’emergenza e ne evidenzia le
componenti principali:
l’espressione ‘violenza contro le donne’ significa ogni
atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che
possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza
fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali
atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che
avvenga nella vita pubblica o privata” (art.1). Ancora, nel Preambolo:
“(…) la violenza contro le donne è una manifestazione delle relazioni
di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato
alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli
uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne (…).
A livello europeo, solo nel 2002 una Raccomandazione del
Consiglio dei Ministri d’Europa ha definito in modo autonomo il
fenomeno della violenza di genere, raccomandando agli Stati membri di
promuovere la ricerca e la raccolta dati, la creazione di reti
nazionali e internazionali nonché l’elaborazione di un piano nazionale
finalizzato al contrasto e alla prevenzione di questo fenomeno.
Successivamente, con la decisione del Parlamento Europeo del 21 aprile
2004, è stato approvato un programma di azione comunitaria (2004-2008)
con l’obiettivo di prevenire e combattere la violenza esercitata contro
l’infanzia, i giovani e le donne. Il 27 settembre 2012, il nostro Paese
ha sottoscritto la Convenzione del Consiglio d’Europa e la lotta
contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica,
che era stata aperta alla firma ad Instanbul l’11 maggio 2011. A
completamento del quadro normativo, l’anno seguente, l’Italia ha
emanato due leggi fondamentali rispetto al percorso portato avanti a
livello europeo: la legge n. 77 del 27 giugno 2013 intitolata
Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla
prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e
la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011; la Legge
n. 119 del 15 ottobre 2013 Conversione in legge, con modificazioni,
del decreto-legge 14 agosto 2013 n. 93, recante disposizioni urgenti in
materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere,
nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle
province.
Emergono dunque come dati evidenti e ineludibili non solo la
versatilità del fenomeno, ma anche e soprattutto l’archetipo da cui
esso muove: l’asimmetrica relazione di potere tra uomini e donne. Essa
trae origine dalla divisione dei ruoli e nel complesso meccanismo di
strutturazione dei medesimi e dei riferimenti valoriali, i quali
costituiscono la fonte primaria della discriminazione e,
conseguentemente, della pratica della violenza. La cultura del
predominio maschile e della sottomissione della donna, radicata nei
secoli e motivata con la presunta superiorità del primo sulla seconda,
assume ancora oggi non solo l’inevitabile forma della discriminazione
nell’accesso alle risorse, ma anche il temibile volto dell’aggressività
fisica e psicologica.
3. I numeri della violenza in Italia.
Le ricerche compiute negli ultimi anni dimostrano come la
violenza contro le donne sia un fenomeno endemico che, al di là delle
norme giuridiche e morali, si manifesta trasversalmente tanto nei paesi
in via di sviluppo quanto in quelli industrializzati. Le vittime e i
loro aggressori appartengono indistintamente a tutte le classi sociali
e a tutti i ceti economici. E’ da considerare, inoltre, che i dati
riguardanti la diffusione del fenomeno non rappresentano affatto la
totalità dei casi. La violenza contro le donne – in qualunque forma si
presenti, ma in particolare quando si tratta di violenza domestica – è
uno dei fenomeni sociali più nascosti. La vergogna e il senso di
corresponsabilità provati dalla vittima trattengono la donna nel
silenzio per paura di essere giudicata. In più, per molte donne,
permane la difficoltà di riconoscere la violenza sessuale all’interno
del matrimonio4.
-
L’OMS stima che, nel mondo, almeno una donna su tre, nel corso
della vita, sia stata abusata sessualmente o picchiata e che una su
quattro sia stata vittima di una forma di violenza nel corso della
gravidanza. Ancora oggi le statistiche internazionali indicano la
violenza interpersonale come la decima causa di morte per le donne di
età compresa tra 15 e 44 anni (più frequente del cancro, della malaria
o degli incidenti stradali) e la seconda causa di morte materna dopo
l’emorragia.
Guardando al nostro paese, l’indagine Istat del 20075 -
prima ed unica ricerca interamente dedicata al fenomeno della violenza
fisica, sessuale e psicologica contro le donne - calcola in un numero
pari a 6 milioni e 743.000 le donne in età compresa tra i 16 e i 70
anni che, almeno una volta nel corso della loro vita, sono state
vittime di violenza fisica o sessuale (corrispondente al 31,9% del
campione complessivo); inoltre, 1 milione di donne ha subìto uno stupro
o un tentato stupro (4,8% del campione). La violenza fisica sembra
maggiormente appannaggio dei partner o ex-partner (12% del campione,
contro il 9,8% subìta da un uomo non partner), mentre la violenza
sessuale attiene perlopiù i non partner (20, 4 % del campione contro il
6,1% ad opera dei partner o ex-partner)6.
Un tratto comune a tutte le forme di violenza è la mancata
denuncia. Le percentuali del cosiddetto “numero oscuro” sono, infatti,
elevatissime per tutte le tipologie, pressoché indipendentemente
dall’autore (sia esso partner, ex-partner o non partner): 90,1% di
mancata denuncia nei casi di violenza fisica, 97,8% in quelli di
violenza sessuale, 93,3% nei casi di stupro o tentato stupro7, a
dimostrazione di come in realtà la percezione della violenza sia
nettamente inferiore all’effettiva rilevanza del fenomeno.
Per quanto concerne specificamente la violenza domestica,
complessivamente due milioni e 938.000 donne hanno subìto uno o più
atti di violenza da parte di un partner o di un ex-partner. Di queste
violenze, il 70,3% si consuma tra le mura di casa (partner attuale o
ex-partner)8.
Analizzando l’autopercezione in quanto vittime, è ulteriormente
opportuno sottolineare che, tra le donne comprese nella fascia di età
tra i 16 e i 70 anni che hanno subìto violenza sessuale da un partner o
ex-partner nel corso della vita, solo il 18,2% lo considera un reato,
il 44% lo reputa ‘qualcosa di sbagliato ma non un reato’ e ben il 36%
‘solamente qualcosa che è accaduto’. La gravità percepita del fatto è
nel 21,5% dei casi ‘poca’, nel 13,9 % ‘nulla’9.
Questi dati ci permettono di comprendere la vasta diffusione
del fenomeno (sia esso violenza domestica o esterna al contesto
familiare-relazionale) e, inoltre, di operare un’ulteriore riflessione:
nonostante l’impatto che taluni episodi di cronaca hanno sull’opinione
pubblica, la violenza contro le donne più che assumere la dimensione
sensazionale ed occasionale sembra, invece, caratterizzata da una
spiccata ‘normalità’. Pertanto, sembra quanto mai necessario un
inserimento di tale questione in maniera costante nell’agenda politica
piuttosto che una sua apparizione momentanea sull’onda dell’emotività
di uno o più fatti di cronaca.
La violenza di genere si prefigura, quindi, come un fenomeno
endogeno e diffuso, connesso alla strutturazione dei rapporti tra i
ruoli e presente in ogni ceto sociale, indipendentemente da altri
fattori concomitanti. Fenomeno trasversale, dunque, e altrettanto
invisibile. Lo stretto legame con la dimensione valoriale e culturale,
contrassegnata dallo scarto di potere tra i due sessi e dal persistere
di una relazione asimmetrica frutto del retaggio patriarcale, rende
difficile un chiaro riconoscimento della violenza e la capacità di
‘nominare’ questa da parte sia dell’autore, sia della vittima medesima
la quale, non di rado, tende a non condividere il disagio subìto e
conseguentemente a non denunciarlo, accrescendo il dato ‘sommerso’.
4. Vittime e tutori.
Nonostante il forte lavoro di sensibilizzazione degli
ultimi trent’anni, che ha coinvolto anche varie associazioni di
volontariato, non sempre le donne trovano il coraggio di denunciare la
violenza subìta. Spesso vivono il trauma con un forte senso di colpa e
di vergogna e con il condizionamento della presenza dei figli e dei
vincoli economici. I dati dell’indagine Istat 2007 mostrano come, nella
quasi totalità dei casi, le violenze non vengano denunciate. Anche nel
caso degli stupri, la maggioranza dei casi non è segnalata (91,6%) ed è
consistente anche la quota di donne che non parla con nessuno delle
violenze subite (33,9% per quelle perpetrate dal partner e 24% per
quelle da individui diversi dal partner).
Laddove la vittima decida di uscire dal silenzio rivolgendosi
ai soggetti, istituzionali e non, preposti ad una prima fase di
accoglienza, il percorso che si trova ad affrontare non è univoco, ma a
totale discrezione della vittima. La donna vittima di violenza può,
dunque, rivolgersi per una prima richiesta d’aiuto indistintamente
presso un centro antiviolenza o un’associazione di tutela e assistenza
alla donna, un Pronto Soccorso ospedaliero o un ginecologo di fiducia,
i Servizi Sociali del Comune ovvero le Forze dell’ordine.
Tra le donne che hanno sporto denuncia per la violenza subìta
dal partner, il 13,4%, si dichiarano molto soddisfatte di come le Forze
dell’ordine abbiano gestito il caso, il 31,7% soddisfatte, il 20,3 %
insoddisfatte, il 31,1% molto insoddisfatte10.
In particolare, esse lamentano il fatto di non sentirsi protette poiché
nella maggior parte dei casi l’autore della violenza non viene né
allontanato, né perseguito, né tanto meno arrestato (nel 42,6% dei casi
le Forze dell’ordine hanno raccolto la denuncia della donna, nel 26,9%
hanno ammonito il colpevole, nel 19,7% hanno portato avanti il
procedimento nei confronti del violento e, in misura residuale, hanno
arrestato il colpevole, fornito protezione alla vittima di violenza e
dato informazioni sulla possibile assistenza legale). Dalla ricerca
dell’Istat11
emerge inoltre il desiderio, da parte delle donne che hanno denunciato
la violenza subìta dal partner, di ricevere maggiore ascolto e appoggio
al momento della denuncia (18,8%) e una protezione e un aiuto maggiore
nel lasciare la propria abitazione (16,3%). Il senso di insicurezza
percepito dalle donne è anche collegato alla circostanza che solo nel
27,9 % dei casi i partner denunciati sono stati imputati e di questi il
45,3% è stato condannato12.
Su tali tendenze concordano anche le fonti associazionistiche.
Ad esempio le ricerche effettuate periodicamente dall’Associazione
Nazionale Telefono Rosa13 confermano l’esistenza
di un rapporto direttamente proporzionale tra il numero di denunce
sporte e la risposta o il sostegno ricevuto a livello sociale. E’
fondamentale, quindi, che la donna venga creduta, sostenuta e aiutata
nei centri e nelle istituzioni di competenza e che percepisca di
esserlo.
Appare quindi indispensabile che gli operatori preposti ad una
prima accoglienza delle donne vittime di violenza possiedano una
spiccata sensibilità e preparazione nei confronti del basilare bisogno
delle donne di essere ascoltate e rassicurate, oltre alla necessità di
percepire la competenza del personale che le accoglie. Scaturisce da
qui l’obiettivo della nostra ricerca, che si è focalizzata su due
aspetti. Il primo è rappresentato dalla dimensione socio-organizzativa
dell’accoglienza delle vittime della violenza e ha quindi indagato in
che modo la situazione di crisi ed emergenza presentata dalle vittime
viene percepita e gestita dagli operatori socio-sanitari (ginecologi,
psicologi, infermieri, assistenti sociali) e dalle Forze dell’ordine
(Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri) nella città di Roma. Il
secondo, è rappresentato dalle principali difficoltà affrontate dalle
vittime nel momento in cui si rivolgono all’esterno per una richiesta
d’aiuto, le loro aspettative nei confronti delle istituzioni competenti
(realizzate o deluse che siano) e i motivi che spingono le donne a non
sporgere denuncia nei confronti del proprio aggressore14.
5. Gli operatori di polizia di fronte alle vittime
della violenza di genere.
Punto di partenza della ricerca è stato quello di
analizzare quale fosse la percezione del fenomeno – nelle sue forme e
dimensioni – da parte degli intervistati. La violenza, infatti, si
manifesta attraverso una pluralità di forme: dalla violenza fisica a
quella sessuale, da quella psicologica a quella economica.
Ciononostante, si ravvisa nell’opinione pubblica una percezione
distorta e sottostimata del fenomeno, dovuta alla barriera culturale
che rende difficile il riconoscimento della violenza all’interno della
propria famiglia e alla tendenza dei mass media ad enfatizzare le forme
di violenza sessuale nella forma estrema degli stupri (in particolare
se perpetrati da stranieri15).
Nel caso delle interviste, gli operatori delle Forze
dell’ordine asseriscono di possedere una corretta percezione del
fenomeno nelle sue implicazioni sia quantitative sia qualitative. La
violenza viene considerata un problema che esiste da sempre e che
non ha mai subito battute d’arresto, molto più diffuso di quanto se ne
parla, soprattutto se guardiamo alla violenza domestica, molto
spesso accompagnata dall’omertà della vittima. Solo una minoranza degli
operatori, per la maggior parte tra i Carabinieri, ritiene la violenza
di genere un fenomeno abbastanza diffuso, ma molto amplificato
dal risalto che i mass media danno a specifici fatti di cronaca
concernenti gli abusi specificamente sessuali.
La totalità degli intervistati riconosce invece il carattere
multiforme della violenza contro le donne, a testimonianza
dell’efficacia sugli operatori coinvolti nella prima accoglienza delle
vittime delle campagne di sensibilizzazione promosse dai centri
antiviolenza in primo luogo e, secondariamente, della maggiore
attenzione posta al fenomeno dalle istituzioni competenti.
Il legislatore ha fatto una giusta riforma - afferma
una poliziotta della Squadra Mobile della Questura di Roma - quella
che prima era la violenza carnale ad oggi è violenza sessuale, perché
qualsiasi atto fatto ad una donna, dal semplice sfioramento a
situazioni molto più violente, molto più drammatiche, rappresenta una
forma di violenza e non è soltanto l’atto fisico, la violenza sessuale,
che è la materia che noi trattiamo di più, ma chiaramente le forme di
violenza sono incredibilmente vaste nella loro portata. La violenza
domestica, ad esempio, persone che sono malmenate per anni dai mariti,
picchiate, fratturate e che non hanno neanche la forza di denunciare
perché vedono il marito, il compagno come una figura di riferimento,
comunque il padre dei propri figli. Noi abbiamo raccolto denuncie di
persone dopo vent’anni di violenze.
Opinioni discordanti si riscontrano, invece, quando ci
spostiamo dal piano strettamente conoscitivo (relativo alla numerosità
e multiformità della violenza di genere) a quello, più soggettivo,
della percezione della gravità delle diverse forme che essa assume.
La maggioranza degli intervistati reputa estremamente
difficile valutare una determinata forma di violenza come più grave di
un’altra. La gravità, infatti, dipende unicamente dalla diversa
percezione dell’atto di violenza da parte della vittima al momento in
cui la subisce. Questo dato mostra la buona conoscenza del fenomeno e
la particolare sensibilità nei confronti della vittima da parte degli
operatori della Squadra Mobile. Relativamente a questi ultimi, il dato
risulta ancora più interessante se si considera che la specializzazione
della IV sezione della Mobile potrebbe indurre negli operatori una
sensibilità soprattutto o soltanto nei confronti dei casi di violenza
sessuale. Tra i Carabinieri, invece, c’è invece chi sostiene che alcune
forme di violenza sono più gravi di altre:
anche la violenza psicologica è molto diffusa. È meno grave
di quella fisica però. Quella fisica in genere è dovuta all’ignoranza
della gente, significa la predominanza dell’uomo sulla donna. Anche
quella psicologica è predominanza dell’uomo sulla donna, e provoca
nella donna un senso di frustrazione, di sottomissione. Mentre quella
psicologica si può manifestare anche da sola, quella fisica è sempre
accompagnata da quella psicologica.
Una volta asseverata dagli intervistati la buona conoscenza
del fenomeno della violenza di genere, così come la sensibilità nei
confronti della vittima da parte della maggioranza, quali sono le
criticità che gli operatori si trovano ad affrontare in prima persona
nel momento in cui accolgono una donna vittima di violenza?
La principale difficoltà riscontrata è, nella totalità dei
casi, quella di relazionarsi in modo appropriato alla vittima. Gli
intervistati affermano, difatti, la necessità di creare con la donna
vittima di violenza un rapporto empatico e di fiducia. Per gli
operatori della Squadra Mobile di Roma tale necessità è legata anche ad
esigenze investigative: più la donna si tranquillizza e si sente a
proprio agio, più è semplice ricostruire il doloroso avvenimento
vissuto. Inoltre la difficoltà di relazionarsi alla vittima è stata in
buona parte superata grazie all’esperienza maturata negli anni e alla
possibilità di operare avendo come supporto la figura della psicologa
della Polizia di Stato, che li coadiuva nella fase della prima
accoglienza e dell’interrogatorio.
Nell’accoglienza – sostiene un operatore della Squadra
Mobile – ci sono e ci sono state sempre, per quanto mi riguarda,
grosse difficoltà di relazione. All’inizio poi forse sbagliando sempre
con questa cosa del metodo “fai da te” si è cercato di ottemperare
usando quegli strumenti confidenziali che a volte magari sono stati
ancora più dannosi. Poi formandomi in maniera più dettagliata e più
ortodossa ho capito benissimo l’importanza della comunicazione,
l’importanza della prossemica proprio della vicinanza del linguaggio
cioè tutte quelle tecniche base che uno dovrebbe avere insieme alla
sensibilità (…) Spesso l’atteggiamento della donna si relazionava a
questa inadeguatezza (…) le donne e le vittime in genere avevano dei
comportamenti direttamente proporzionali a quelle che erano le
inadeguatezze, gli errori che potevamo fare insomma e … qualche volta
c’è stata una grossa difficoltà, fermo restando le oggettive difficoltà
che una donna ha già a fare il passo di arrivare in ufficio di Polizia
per sapere che inizierà da li un iter che non è certo ne piacevole ne
semplice.
L’assenza di una figura di psicologa/o viene lamentata dai
carabinieri intervistati relativamente alle stazioni e alle altre sedi
territoriali. Tra i Carabinieri (in particolare gli intervistati di
sesso maschile) si sottolinea al contrario l’utilità dell’apporto di
colleghe di sesso femminile nell’Arma, ritenute più idonee ad
accogliere una donna vittima di violenza. Significativamente, peraltro,
la difficoltà di relazione con la donna che ha subìto violenza viene in
prevalenza attribuita al sentimento di imbarazzo provato dalla vittima:
una donna normalmente è più portata a confidarsi ed esporre
i fatti ad un’altra donna. La prima accoglienza è meglio che la
facciano le donne. Un uomo incontra difficoltà quando la donna entra
nel dettaglio, quando coinvolge la sfera più intima. C’è chiaramente
imbarazzo da parte di entrambi. Essendo uomo è più difficile, non per
me ma per la donna. Ritengo sia imbarazzante per la vittima raccontare
certi particolari ad un uomo. Ora che abbiamo personale femminile
richiediamo la loro presenza, per rassicurarle.
Diversamente, gli uomini della Squadra Mobile, che hanno
affermato la maggior facilità a trattare con le vittime di violenza da
parte delle operatrici donne, imputano la difficoltà di relazione anche
a un proprio imbarazzo e senso di inadeguatezza nei confronti di un
fenomeno altamente complesso da gestire. Quanto detto conferma la
particolare sensibilità nei riguardi delle problematiche portate dalle
vittime da parte degli esponenti delle istituzioni in cui la presenza
femminile è più significativa, riprova dell’utilità della transizione
delle organizzazioni pubbliche come quelle a ordinamento militare da
una composizione monogenere a una comprendente entrambi i sessi.
Andando ad indagare le ulteriori criticità affrontate dagli
intervistati, gli operatori delle Forze dell’ordine menzionano la
difficoltà di appurare la veridicità di quanto la vittima sta
denunciando, impegnandosi contemporaneamente a non far trapelare nessun
tipo di diffidenza.
La mancanza di un intervento integrato e cooperativo è invece
menzionata da alcuni carabinieri, mentre altri sostengono di avere
rapporti costanti con i Servizi sociali e gli ospedali. Questo dimostra
che una rete di collaborazione non è una prassi consolidata ma dipende
dalla diversa capacità e propensione soggettiva degli operatori e delle
singole unità organizzative a lavorare in forma integrata. Anche su
questo punto emerge la specificità degli operatori della Squadra Mobile
di Roma che ─ operando costantemente su casi di violenza sessuale,
spesso particolarmente gravi ─ mantengono regolari rapporti di
collaborazione con diversi Centri antiviolenza della Capitale e, più
saltuariamente, si rivolgono ai Servizi sociali comunali per garantire
sostegno alla vittima nel post denuncia.
Se queste sono le principali criticità affrontate dagli
operatori delle Forze dell’ordine coinvolti direttamente nella fase di
prima accoglienza delle vittime, sarà ora interessante analizzare quali
sono le principali difficoltà dichiarate dalle donne che hanno subìto
violenza nel momento in cui si rivolgono all’esterno per una prima
richiesta di aiuto.
6. Le vittime della violenza di fronte agli operatori
di polizia.
Protagoniste di questo studio sono 50 donne vittime di
violenza residenti nella Regione Lazio. Nella quasi totalità dei casi
parliamo di casi di violenza domestica da parte del partner o
ex-partner, in cui le vittime portano con sé esperienze di denigrazione
ed umiliazioni, mortificazioni e minacce ripetute nel tempo; ma anche
esperienze di violenza fisica, sotto forma di percosse, di stupri, di
tentati stupri. Denominatore comune, l’assordante silenzio in cui le
vittime di violenza domestica vivono anche per anni, spesso con i figli
come spettatori.
io ho subìto quasi tutti i tipi di violenza – ci
racconta una donna tunisina - ho subìto violenze sessuali, ho avuto
violenza verbale, violenza fisica, tutti i tipi di violenza da questo
uomo io li ho visti. Ho ricevuto minacce, tutto. In otto anni con lui
ho visto di tutto, e io ho aspettato, ho fatto tre figli con lui, ogni
bambino che ho fatto ho pensato ‘mò cambia’, perché speravo cambiasse
un giorno, invece sta andando per il peggio. (…)L’ultima volta (…) non
me lo scorderò mai, ha provato a ammazzarmi (…) mentre stavo a dormì
lui mi ha strangolato, era l’una e mezza di notte, fino a che è uscito
il sangue dalla mia faccia, (…) io stavo per terra, lui sopra di me e
mi stava a strillà ‘tu devi morire’.
Ma cosa spinge le vittime stesse a non denunciare l’autore di
violenza o a farlo dopo un tempo più o meno lungo rispetto all’inizio
dei soprusi? Le cause sono molteplici e spesso concomitanti. Possiamo
distinguere tra le cause endogene, che scaturiscono da
sentimenti, sensazioni o paure personali vissute dalla vittima, dalle cause
esogene, che conseguono a circostanze esterne che condizionano la
vittima nelle scelte da intraprendere. Tra le cause di natura endogena
rileviamo i sentimenti di amore nei confronti del proprio partner e la
speranza in suo cambiamento; la volontà di far crescere i propri figli
anche in relazione con la figura paterna; la paura di reazioni ancora
più aggressive da parte del violento e, infine, la vergogna e il timore
di essere giudicate mogli e madri inadeguate o addirittura colpevoli.
“Ho accettato [le violenze] perché lui ha fatto pugilato e
qualche volta mi diceva ‘mi devi capire, io prendo tanti cazzotti in
testa quindi qualche traccia mi è rimasta’. Io gli ho fatto delle
proposte di andare anche insieme da uno psicologo per trovare la
soluzione. Ho detto ‘guarda che non siamo l’unica coppia che va a
trovare una via di mezzo per il bene dei bambini’, e poi subito si
girava e mi diceva ‘io non c’ho bisogno di questo, se vuoi vai tu’. (…)
E poi pensavo anche che vedendo con il tempo che i bambini crescono e
capiscono le cose, magari per il bene dei bambini, dice basta, mi sto
godendo i miei figli e dice basta e invece no, ogni sera quando tornava
dal lavoro era peggio, anche i bambini erano terrorizzati. (…) [le
donne non denunciano] per paura di quello che succede dopo, perché pure
io ho avuto la paura di fare la denuncia perché ho pensato ‘poi quando
mi prende sulla strada mi fa ancora peggio’, che è anche successo (…)
quando facevo gli incontri protetti, mi prendeva sulla strada e mi
menava.
Tra le cause di natura esogena ritroviamo invece lo sgomento
per il lungo e incerto iter che attende le vittime di violenza
una volta sporta denuncia; il timore di non essere tutelate dalla legge
e di non ricevere un’assistenza idonea da parte delle istituzioni (in
particolare dalle Forze dell’ordine); l’essere state influenzate da
suggerimenti sbagliati volti a convincere la donna a non sporgere
denuncia; infine motivi di natura economica. Molte intervistate,
infatti, si dichiarano economicamente dipendenti dal partner e
asseriscono di non avere le risorse necessarie al mantenimento proprio
e dei figli16.
Non ho sporto denuncia perché sapevo che rivolgendomi alla
Polizia o ai Carabinieri non avrei risolto molto perché facendo la
denuncia le Forze dell’ordine non possono allontanare il violentatore,
al massimo possono richiamarlo ma poi lui torna a casa magari ancora
più arrabbiato di prima. (…) Secondo me le donne non denunciano proprio
perché non c’è un supporto, sanno che, nonostante la denuncia, la legge
non permette alle Forze dell’ordine di allontanare il compagno violento
a meno che non c’è l’omicidio o un evento penale estremo.
Le diverse forme di violenza subìte dalle donne non
esauriscono la loro drammaticità nel momento in cui gli atti aggressivi
cessano o la vittima riesce a sfuggire alla spirale di violenza. Al
contrario, esse portano con sé una serie di conseguenze dolorose che
spesso si amplificano, anziché lenirsi, lungo l’articolato cammino
intrapreso nel momento in cui le vittime si rivolgono alle istituzioni
competenti per una prima richiesta d’aiuto. Decise a cambiare la
propria vita e a lasciarsi alle spalle anni di violenze, esse si
trovano spesso ad affrontare ulteriori criticità e ad incorrere in
delusioni da parte dei soggetti preposti alla loro tutela.
Le giuste competenze unite alla sensibilità e all’empatia nei
confronti delle vittime diventano dunque caratteristiche essenziali che
gli operatori coinvolti nella gestione della violenza di genere devono
possedere per garantire una buona accoglienza delle donne in
difficoltà. Molto spesso infatti il tipo di accoglienza ricevuta, e più
in generale l’impatto con le istituzioni costituisce, a seconda dei
casi, un incentivo o un deterrente per indurre le donne a sottrarsi o
meno al contesto di violenza cui sono sottoposte. Ed è proprio la
difficoltà nel rapportarsi con le istituzioni la principale criticità
espressa dalle donne intervistate17. Nella quasi totalità
dei casi (solo due le eccezioni da noi rilevate) le donne intervistate
si sono rivolte ad almeno una delle istituzioni preposte al loro
ascolto (siano esse il Pronto Soccorso, le Forze dell’ordine, o i
Servizi Sociali).
Dalla valutazione dell’accoglienza presso le strutture
sanitarie emerge un’immagine sostanzialmente positiva: nella maggior
parte dei casi infatti le vittime di violenza testimoniano di aver
ricevuto un trattamento idoneo alle circostanze, caratterizzato da
sensibilità e anche da vera e propria solidarietà. Molti sono i casi in
cui le donne dichiarano di essere state incoraggiate a sporgere la
denuncia, di aver ricevuto le informazioni di cui necessitavano e di
aver spesso incontrato un personale medico e infermieristico pronto a
cogliere, dietro la reticenza e la vergogna inevitabili, i segni della
violenza. Laddove ciò non è avvenuto (in un numero inferiore e tuttavia
non trascurabile di casi) le donne lamentano un’attenzione marginale e
una certa negligenza. Complessivamente il Pronto Soccorso emerge come
luogo in cui la vittima di violenza oltre a ricevere cure, viene
accolta in maniera idonea, ottenendo inoltre informazioni e
suggerimenti utili per l’eventuale percorso da intraprendere. Più
defilato il ruolo dei Servizi Sociali, citati da un numero inferiore di
intervistate (17 casi su 50). Nella maggior parte delle situazioni si
tratta di vittime che hanno già intrapreso un percorso di denuncia e
dunque di allontanamento dal violento, spesso indirizzate dalle stesse
Forze dell’ordine. Non sempre la vocazione ‘assistenziale’ dei Servizi
Sociali appare confermata nelle testimonianze da noi raccolte perché
proprio nei confronti di essi le donne concentrano le maggiori attese
di assistenza economica, giuridica e lavorativa.
L’ambito in cui le donne sottolineano le maggiori difficoltà è
rappresentato dagli operatori delle Forze dell’ordine, ritenuti non
adeguatamente sensibili di fronte alla violenza di genere e alle
problematiche che essa inevitabilmente comporta. La maggior parte (40
casi) delle intervistate si è rivolta alla Polizia o ai Carabinieri,
talvolta ad ambedue le istituzioni. In un numero maggiore di casi esse
si sono rivolte alle caserme dell’Arma, comportamento scontato solo per
le donne che abitano in comuni piccoli dove non esistono commissariati.
La numerosità dei casi di richiesta di aiuto a tali istituzioni, pur
priva di una rappresentanza statistica, sembra confermare la tendenza a
convogliare proprio sulle Forze dell’ordine le principali aspettative
di tutela e di difesa dal vissuto di violenza.
La varietà di giudizi espressi, che si pongono lungo il continuum
di soddisfazione/insoddisfazione, permette di rilevare una
situazione ambivalente: nei confronti dei Carabinieri si mostrano
soddisfatte o molto soddisfatte 9 donne su 29, e insoddisfatte 18
donne; nei confronti della Polizia il rapporto è di 7 soddisfatte e 10
insoddisfatte su 19 (in entrambi i casi per due donne non è stato
possibile rilevare il giudizio).
In relazione alle istituzioni di polizia, complessivamente
considerate, emergono due ordini di difficoltà. La prima concerne la
dimensione prettamente operativa: molte intervistate lamentano un
mancato intervento da parte delle Forze dell’ordine legato a questioni
prettamente burocratiche o organizzative, che ingenerano nella vittima,
desiderosa di un’azione risolutiva, una sensazione di delusione. Così
nel racconto di un’intervistata:
Io pensavo che andando in caserma dai Carabinieri, o
comunque facendo una denuncia, qualcosa sarebbe cambiato, invece ho
capito che anche se avessi fatto una denuncia penale contro di lui,
firmata e tutto quanto, nulla sarebbe cambiato (…). Anche perché con i
figli sono impicci, perché non è che prendi il figlio e te ne vai!
Infatti il carabiniere mi ha detto se facevo questa cosa voleva dire
abbandono del tetto coniugale e rapimento di minore (…). Comunque i
Carabinieri danno più attenzione alle persone che smarriscono i cani e
altre cose mentre a me mi dice ‘signora lo sa quante vengono? Decine al
giorno qua come lei” (…). Mi hanno spiegato che se anche facevo la
denuncia penale lui rimaneva dentro casa fino al processo. (…) Se lui
arriva a casa e io gli ho fatto la denuncia penale, secondo me, già uno
che è violento...ci ammazza!
Sono andata dai Carabinieri perché volevo denunciarlo,
perché volevo un aiuto per allontanare questo uomo da mio figlio e da
me – sostiene una donna perseguitata dall’ex compagno - cercavo
aiuto, cercavo protezione per mio figlio, invece mi hanno detto che non
ci sono gli estremi per esporre una denuncia penale. Loro sottovalutano
la situazione, la considerano in modo superficiale, all’’acqua di
rosa’, non si rendono conto delle difficoltà della vita quando si è
perseguitati (…) quando vivevamo in Inghilterra è stato arrestato e
condannato con il divieto di avvicinarsi a me e a mio figlio per sei
mesi. Qui in Italia i Carabinieri mi hanno detto che non potevo esporre
denuncia perché non ci sono gli estremi penali. La legge italiana non
mi tutela da quest’uomo e soprattutto non protegge mio figlio che è
minore. I Carabinieri non intervengono anche perché è la legge che li
limita, se quest’uomo non rispetta le restrizioni che gli sono state
imposte nessuno può fare niente
Il secondo ordine di difficoltà concerne invece
l’atteggiamento di scarsa sensibilità e di distacco. A fronte dell’
atteggiamento comprensivo ed empatico mostrato da alcuni, numerose sono
le intervistate che sottolineano come la propria richiesta di aiuto si
sia scontrata con una posizione formalistica al punto di non essersi
sentite credute e di non aver dunque ricevuto il sostegno di cui
necessitavano.
[Dai Carabinieri] mi aspettavo un po’ di più -
sostiene una donna intervistata - ma non l’ho trovato, forse perché
sono uomini. Io ho l’idea che tutti gli uomini del mondo sono uguali.
Insomma non lo so, forse perché sono uomini, forse perché lo conoscono
[mio marito], perché, ti ho detto, che viviamo un piccolo paese e loro
lo conoscono bene, perché lui fa il camionista e lo conoscono, sono
amici (…). [I carabinieri] sono stati freddi, io sono andata lì
piangendo, piena di botte, con la faccia rossa e con due bambini per
mano, però il maresciallo a una domanda risposta, a una domanda
risposta, e basta, (…) non mi hanno dato nessun consiglio. (…) Mi hanno
detto ‘torna a casa’.
I Carabinieri danno più attenzione alle persone che
smarriscono i cani e altre cose mentre a me mi dice ‘signora lo sa
quante vengono? Decine al giorno qua come lei” (…). Mi hanno spiegato
che se anche facevo la denuncia penale lui rimaneva dentro casa fino al
processo. (…) Se lui arriva a casa e io gli ho fatto la denuncia
penale, secondo me, già uno che è violento...ci ammazza! (…) Quando mi
ha alzato le mani (…) ho preso subito il cellulare e ho chiamato i
Carabinieri, sono venuti con la pattuglia, a me mi hanno portato
all’Ospedale e lui niente, lo hanno lasciato dentro casa e niente. Gli
hanno detto ‘guarda che lei non può usare la violenza, è una cosa
brutta’, hanno domandato qualcosa ai coinquilini che stanno in casa con
me, niente di che non è che, per dire, gli hanno dato un invito di
presentarsi in caserma.
I limiti burocratico - amministrativi, con cui molte delle
nostre intervistate hanno avuto a che fare (un intervento parziale da
parte delle Forze dell’ordine a causa dell’assenza di una denuncia, il
mancato allontanamento del violento, la lentezza delle indagini o le
lunghe attese) costituiscono indubbiamente motivo di riflessione. E’
necessario concentrare l’attenzione sulla fase dell’accoglienza, tema
intorno al quale abbiamo registrato la maggiore discrepanza tra la voce
delle vittime (che valutano) e la voce degli operatori (che vengono
valutati).
È centrale, infatti, sottolineare come le Forze dell’ordine
costituiscono nell’immaginario collettivo il simbolo della difesa e
della tutela, motivo per cui per molte donne recarsi ad un
commissariato della Polizia di Stato oppure presso una stazione
dell’Arma dei Carabinieri costituisce una manifestazione concreta della
volontà di sottrarsi al vissuto di violenza. Ricevere il dovuto ascolto
e fruire di un’opportuna accoglienza costituiscono elementi
imprescindibili, dai quali partire per interrogarsi su come migliorare
e potenziare i servizi offerti alle donne vittime.
Colpisce, a tale proposito, come solo una delle donne
intervistate abbia avuto un, peraltro fuggevole, contatto con una
poliziotta donna, che si trovava in un presidio interno ad una
struttura ospedaliera. Al di là delle legittime scelte funzionali
operate da ciascuno delle Forze dell’ordine, è infatti auspicabile che
all’interno delle singole unità territoriali, laddove possibile, il
personale femminile dei Corpi di polizia sia impiegato nelle operazioni
volte all’ascolto e all’accoglienza delle donne vittime di violenza per
evidenti motivi di maggiore vicinanza psicologica e sociale.
Le criticità rilevate dalle interviste sono speculari rispetto
ai suggerimenti che le donne hanno proposto per migliorare
l’accoglienza: emerge in primo luogo la richiesta di protezione dal
violento, di un’assistenza legale ed economica che sia in linea con le
effettive difficoltà che incontra la donna nel percorso che compie per
fuoriuscire dalla violenza. In ultimo, ma non da ultimo, è diffusa la
richiesta di un maggiore ascolto, di una maggiore sensibilità da parte
delle istituzioni in generale, e in particolar modo da parte delle
Forze dell’ordine: atteggiamenti formali di distanza e non piena
umanità determinano un’inasprirsi non solo del dramma vissuto dalla
donna, ma anche un rafforzamento del muro di silenzio che la circonda
quando essa è vittima.
7. Osservazioni conclusive
Quella tra sicurezza e violenza contro le donne è una
relazione complessa innanzitutto a causa della propensione di
importanti attori sociali come i mezzi di comunicazione di massa,
esponenti politici, e di conseguenza anche settori dell'opinione
pubblica, a "ridurre" la violenza di genere a un problema di sicurezza,
pubblica e/o urbana. Peraltro, ogni volta che una vittima si rivolge
alle istituzioni competenti per la sua richiesta di aiuto, emerge un
altro aspetto, rappresentato dal rapporto che la medesima stabilisce
con gli operatori di polizia.
Dalle ricerche qui presentate sulla duplice rappresentazione
della violenza di genere e della dimensione socio organizzativa
dell’accoglienza delle vittime della violenza ad opera delle Forze
dell’ordine nel Lazio, emergono dati che delineano uno scenario di
contrasti molto interessanti. Da un lato gli operatori intervistati si
mostrano particolarmente informati e consapevoli (a differenza
dell'"uomo della strada") circa la pluralità delle forme di violenza e
del ruolo centrale che riveste in esse la violenza domestica.
Dall'altro, in un campione di 50 donne vittime di violenza di genere,
soltanto una minoranza dichiara di aver trovato tutto il sostegno
necessario.
Ma qualcosa si sta muovendo. Tra le risposte istituzionali
ricordiamo l’attivazione, nel giugno del 2013, della Rete Do.Min.A
(Donne, Minori, Abuso) presso la Questura di Roma. La Rete nascecon
l’obiettivo di creare un filo conduttore tra le Istituzioni preposte
all’accoglienza psicologica, sociale, legale e giuridica delle donne e
dei minori vittime di violenza18. Anche la Questura di
Palermo e di Verona sono esempi virtuosi nella gestione della violenza
di genere19,
ma ancora molto c’è da fare affinché le singole iniziative di questo
tipo si estendano a livello nazionale.
A un quadro indubbiamente già migliorato oggi rispetto al
recente passato quanto a consapevolezza in materia da parte delle
istituzioni competenti, corrisponde dunque l'urgenza di un ulteriore
investimento da parte di esse in ambito formativo e organizzativo. Ciò
allo scopo di fornire alla collettività e in particolare a quella parte
di essa che ne ha più bisogno e diritto - cioè le donne - l'assistenza
dovuta e necessaria.
1 Per un
approfondimento degli aspetti sociali della violenza di genere v.
Corradi, C. (a cura di), “I modelli sociali della violenza contro le
donne. Rileggere la violenza nella modernità”, Franco Angeli, Milano,
2008.
2 Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani, 1957; Patto sui Diritti Civili e
Politici, 1966; Patto sui Diritti Economici, Sociali e Culturali,
1966.
3Convenzione
per l’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne
[CEDAW], approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel
1979. Ivi, Parte Prima, art.1.
4 Canu,
R., “La violenza domestica contro le donne in Italia e nel contesto
internazionale ed europeo”, La Riflessione, Cagliari, 2008 .
5 Istat
(2007), La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e
fuori la famiglia.
6 Ibidem,
tav. 1. Si segnala come le percentuali sono calcolate su 100 donne
aventi le stesse caratteristiche, cioè collocate nella fascia d’età tra
i 16 e i 70, vittime di violenza nel corso della loro vita.
7 Ibidem,
tav. 2 (i dati fanno riferimento all’intero corso della vita delle
intervistate). Si fa presente come mentre le categorie ‘violenza
fisica’ e violenza sessuale’ sono mutuamente esclusive, ciò non vale
per ‘violenza sessuale’ e ‘stupro effettivo o tentato’ La violenza
sessuale ricomprende infatti al suo interno: molestie fisiche, rapporti
sessuali non desiderati, tentato stupro, stupro e rapporti sessuali
degradanti. Il dato del sommerso sul fenomeno degli stupri rappresenta
dunque una specifica ulteriore.
8 Ibidem,
tav. 7.
9 La
violenza da non partner riguarda 5 milioni e 221 donne (24,7% del
campione). Anche in questo caso la percezione della gravità del fatto è
riduttiva: solo il 21,5% delle vittime la reputa ‘grave’ mentre il 29%
la considera ‘poco grave’ e il 13,9% ‘per niente grave’. Il fenomeno è
considerato nel 48,6% dei casi ‘qualcosa di sbagliato, ma non un reato’
e nel 25,3% ‘solamente qualcosa che è accaduto’. Ivi, tav. 8, 21.
10
Ibidem. Tra le donne che hanno sporto denuncia per violenza subìta da
un uomo diverso dal partner si dichiara molto soddisfatta di come le
Forze dell’ordine abbiano gestito il caso il 19,3%, soddisfatta il
24,2%, insoddisfatta il 21,3%, molto insoddisfatta il 28,6%.
11 Ibidem
12Tra le
donne che hanno sporto denuncia per violenza subìta da un uomo diverso
dal partner emerge il desiderio di ricevere maggiore ascolto e appoggio
al momento della denuncia (18,3%) e di ottenere dalle Forze dell’ordine
un avvertimento o ammonimento del violento (12,9). Solo nel 29,6 % dei
casi denunciati gli aggressori sono stati imputati e di questi il 43,2%
è stato condannato. Ibidem.
13 Per
approfondimenti v. il sito internet www.telefonorosa.it
14 A
questo scopo sono state effettuate 120 interviste faccia a faccia: 39
rivolte a operatori socio-sanitari dei principali Istituti ospedalieri
di Roma, 31 a operatori delle Forze dell’ordine (22 CC e 9 PS), 50 a
donne vittima di violenza. Le ricerche, svolte nel 2009 e nel 2010 per
conto dell’IRIAD - Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo
in collaborazione con l’Associazione Nazionale Telefono Rosa, sono
state effettuate da un gruppo di ricerca coordinato da chi scrive e
formato da Francesca Angius, Chiara Apolloni, Silvia Corti e Giulia
Ferrara, che qui ringrazio. Per approfondimenti v. i Rapporti di
ricerca pubblicati su www.archiviodisarmo.it.
15 Dal
Lago, A., “Non-persone. L'esclusione dei migranti nella società
globale”, Feltrinelli, Milano 1999; Pitch, T., “ Qualche riflessione
attorno alla violenza maschile contro le donne”, in Studi sulla
questione criminale, III, n.2, 2008, pp.7-13
16 Come
sottolineato, la distinzione da noi proposta è funzionale ai fini
analitici: nel vissuto delle donne le cause qui indicate come esogene
o endogene sono strettamente interrelate.
17 Altre
criticità espresse dalle intervistate sono: le difficoltà di natura
economica e l’avvertita mancanza di un’adeguata tutela legislativa;
l’indifferenza da parte della gente e il senso di vergogna derivante
dal vivere una situazione di ripetute violenze; la mancanza di
informazioni adeguate su cosa e come fare per uscire dalla spirale di
violenza e le conseguenti difficoltà nel trovare un alloggio adeguato.
18 La
vittima di violenza che si reca presso un Commissariato della Provincia
di Roma viene accolta da un ispettore referente che ha l’obbligo di
riempire una scheda “Rete Domina”con i dati della vittima e l’accaduto
da trasmettere alla Questura centrale. Qui il lavoro viene preso in
carico da un gruppo di lavoro formato da due psicologhe, un medico
legalee tre poliziotti appositamente formati, che intervengono
contattando la vittima a cui viene proposto un colloquio presso la
Questura centrale, così da facilitare il percorso che porterà alla
denuncia
19 Di
Lucente, C., “Salvate da una rete”, in Polizia Moderna n.7, 2013