Violenza contro le donne e Istituzioni

2016

Violenza contro le donne e Istituzioni.

Uno studio di caso sulla relazione vittime-operatori di polizia




Francesca Farruggia
(RIAD - Istituto di Ricerche Internazionali/ Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche, Sapienza Università di Roma)





1. Premessa

La violenza di genere costituisce una delle piaghe più drammatiche della società contemporanea, il cui carattere trasversale e multiforme delinea un panorama di elevata complessità, in cui si intersecano piani e livelli diversi: pubblico e privato, politico e culturale, istituzionale e simbolico. Il fenomeno, che ha attraversato la storia delle società nei secoli, mostra un volto adattivo e composito che si modella manifestandosi ancora oggi, nonostante i processi di modernizzazione, di emancipazione sociale delle donne, di benessere economico e di predisposizione a livello globale di meccanismi di difesa e salvaguardia dei diritti umani1.

Il riconoscimento della gravità e della salienza della violenza contro le donne è testimoniato dalla produzione, sul tema, del diritto internazionale, di cui accenneremo attraverso una sintetica rassegna dei principali traguardi normativi raggiunti negli ultimi decenni. Delineeremo poi i principali aspetti statistici del fenomeno in Italia, mostrando la drammatica estensione numerica della violenza di genere, in tutte le sue forme, a cui corrisponde un’esigua percentuale di denunce. Quest’ultimo dato ci porta a riflettere su un altro aspetto, relativamente poco esplorato sinora, rappresentato dal rapporto che la vittima di violenza stabilisce con gli operatori di polizia ogni volta che può e vuole rivolgersi alle istituzioni competenti nella sua richiesta di aiuto.

Quello presentato in queste pagine è dunque uno studio sociologico che si propone, da un lato, di indagare le criticità affrontate dalle donne vittime di violenza nel momento in cui si rivolgono alle strutture pubbliche per richiedere una prima assistenza; dall’altro, di analizzare in che modo la situazione di emergenza presentata dalle vittime viene percepita e gestita dagli operatori di polizia nella città di Roma.




2. Il quadro internazionale.


Dopo una prima fase in cui la tutela dei diritti delle donne è stata inserita nella più ampia problematica della non discriminazione2, assistiamo nel 1979 all’elaborazione, prodotta dalla Commissione ONU, di una Convenzione ad hoc sulla Condizione delle Donne che definisce la specificità della discriminazione contro le donne come “ogni distinzione o limitazione basata sul sesso, che abbia l’effetto o lo scopo di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, indipendentemente dal loro stato matrimoniale e in condizioni di uguaglianza fra uomini e donne, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, culturale, civile o in qualsiasi altro campo” 3.

Nonostante la rilevanza della CEDAW (che per la prima volta prevede al suo interno la predisposizione di un meccanismo di vincolo giuridico che condizioni gli Stati nella modifica dei modelli culturali in materia di differenze tra sessi, applicando concretamente criteri di uguaglianza) è nel 1993, con la Dichiarazione sull’Eliminazione della Violenza contro le Donne, che prende avvio quel movimento ‘definitorio’ della violenza di genere il quale, proponendo una designazione del fenomeno, ne riconosce l’emergenza e ne evidenzia le componenti principali:


l’espressione ‘violenza contro le donne’ significa ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata” (art.1). Ancora, nel Preambolo: “(…) la violenza contro le donne è una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne (…).


A livello europeo, solo nel 2002 una Raccomandazione del Consiglio dei Ministri d’Europa ha definito in modo autonomo il fenomeno della violenza di genere, raccomandando agli Stati membri di promuovere la ricerca e la raccolta dati, la creazione di reti nazionali e internazionali nonché l’elaborazione di un piano nazionale finalizzato al contrasto e alla prevenzione di questo fenomeno. Successivamente, con la decisione del Parlamento Europeo del 21 aprile 2004, è stato approvato un programma di azione comunitaria (2004-2008) con l’obiettivo di prevenire e combattere la violenza esercitata contro l’infanzia, i giovani e le donne. Il 27 settembre 2012, il nostro Paese ha sottoscritto la Convenzione del Consiglio d’Europa e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, che era stata aperta alla firma ad Instanbul l’11 maggio 2011. A completamento del quadro normativo, l’anno seguente, l’Italia ha emanato due leggi fondamentali rispetto al percorso portato avanti a livello europeo: la legge n. 77 del 27 giugno 2013 intitolata Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011; la Legge n. 119 del 15 ottobre 2013 Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 agosto 2013 n. 93, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province.

Emergono dunque come dati evidenti e ineludibili non solo la versatilità del fenomeno, ma anche e soprattutto l’archetipo da cui esso muove: l’asimmetrica relazione di potere tra uomini e donne. Essa trae origine dalla divisione dei ruoli e nel complesso meccanismo di strutturazione dei medesimi e dei riferimenti valoriali, i quali costituiscono la fonte primaria della discriminazione e, conseguentemente, della pratica della violenza. La cultura del predominio maschile e della sottomissione della donna, radicata nei secoli e motivata con la presunta superiorità del primo sulla seconda, assume ancora oggi non solo l’inevitabile forma della discriminazione nell’accesso alle risorse, ma anche il temibile volto dell’aggressività fisica e psicologica.




3. I numeri della violenza in Italia. 


Le ricerche compiute negli ultimi anni dimostrano come la violenza contro le donne sia un fenomeno endemico che, al di là delle norme giuridiche e morali, si manifesta trasversalmente tanto nei paesi in via di sviluppo quanto in quelli industrializzati. Le vittime e i loro aggressori appartengono indistintamente a tutte le classi sociali e a tutti i ceti economici. E’ da considerare, inoltre, che i dati riguardanti la diffusione del fenomeno non rappresentano affatto la totalità dei casi. La violenza contro le donne – in qualunque forma si presenti, ma in particolare quando si tratta di violenza domestica – è uno dei fenomeni sociali più nascosti. La vergogna e il senso di corresponsabilità provati dalla vittima trattengono la donna nel silenzio per paura di essere giudicata. In più, per molte donne, permane la difficoltà di riconoscere la violenza sessuale all’interno del matrimonio4.


L’OMS stima che, nel mondo, almeno una donna su tre, nel corso della vita, sia stata abusata sessualmente o picchiata e che una su quattro sia stata vittima di una forma di violenza nel corso della gravidanza. Ancora oggi le statistiche internazionali indicano la violenza interpersonale come la decima causa di morte per le donne di età compresa tra 15 e 44 anni (più frequente del cancro, della malaria o degli incidenti stradali) e la seconda causa di morte materna dopo l’emorragia.

Guardando al nostro paese, l’indagine Istat del 20075 - prima ed unica ricerca interamente dedicata al fenomeno della violenza fisica, sessuale e psicologica contro le donne - calcola in un numero pari a 6 milioni e 743.000 le donne in età compresa tra i 16 e i 70 anni che, almeno una volta nel corso della loro vita, sono state vittime di violenza fisica o sessuale (corrispondente al 31,9% del campione complessivo); inoltre, 1 milione di donne ha subìto uno stupro o un tentato stupro (4,8% del campione). La violenza fisica sembra maggiormente appannaggio dei partner o ex-partner (12% del campione, contro il 9,8% subìta da un uomo non partner), mentre la violenza sessuale attiene perlopiù i non partner (20, 4 % del campione contro il 6,1% ad opera dei partner o ex-partner)6.

Un tratto comune a tutte le forme di violenza è la mancata denuncia. Le percentuali del cosiddetto “numero oscuro” sono, infatti, elevatissime per tutte le tipologie, pressoché indipendentemente dall’autore (sia esso partner, ex-partner o non partner): 90,1% di mancata denuncia nei casi di violenza fisica, 97,8% in quelli di violenza sessuale, 93,3% nei casi di stupro o tentato stupro7, a dimostrazione di come in realtà la percezione della violenza sia nettamente inferiore all’effettiva rilevanza del fenomeno.

Per quanto concerne specificamente la violenza domestica, complessivamente due milioni e 938.000 donne hanno subìto uno o più atti di violenza da parte di un partner o di un ex-partner. Di queste violenze, il 70,3% si consuma tra le mura di casa (partner attuale o ex-partner)8. Analizzando l’autopercezione in quanto vittime, è ulteriormente opportuno sottolineare che, tra le donne comprese nella fascia di età tra i 16 e i 70 anni che hanno subìto violenza sessuale da un partner o ex-partner nel corso della vita, solo il 18,2% lo considera un reato, il 44% lo reputa ‘qualcosa di sbagliato ma non un reato’ e ben il 36% ‘solamente qualcosa che è accaduto’. La gravità percepita del fatto è nel 21,5% dei casi ‘poca’, nel 13,9 % ‘nulla’9.

Questi dati ci permettono di comprendere la vasta diffusione del fenomeno (sia esso violenza domestica o esterna al contesto familiare-relazionale) e, inoltre, di operare un’ulteriore riflessione: nonostante l’impatto che taluni episodi di cronaca hanno sull’opinione pubblica, la violenza contro le donne più che assumere la dimensione sensazionale ed occasionale sembra, invece, caratterizzata da una spiccata ‘normalità’. Pertanto, sembra quanto mai necessario un inserimento di tale questione in maniera costante nell’agenda politica piuttosto che una sua apparizione momentanea sull’onda dell’emotività di uno o più fatti di cronaca.

La violenza di genere si prefigura, quindi, come un fenomeno endogeno e diffuso, connesso alla strutturazione dei rapporti tra i ruoli e presente in ogni ceto sociale, indipendentemente da altri fattori concomitanti. Fenomeno trasversale, dunque, e altrettanto invisibile. Lo stretto legame con la dimensione valoriale e culturale, contrassegnata dallo scarto di potere tra i due sessi e dal persistere di una relazione asimmetrica frutto del retaggio patriarcale, rende difficile un chiaro riconoscimento della violenza e la capacità di ‘nominare’ questa da parte sia dell’autore, sia della vittima medesima la quale, non di rado, tende a non condividere il disagio subìto e conseguentemente a non denunciarlo, accrescendo il dato ‘sommerso’.



4. Vittime e tutori.


Nonostante il forte lavoro di sensibilizzazione degli ultimi trent’anni, che ha coinvolto anche varie associazioni di volontariato, non sempre le donne trovano il coraggio di denunciare la violenza subìta. Spesso vivono il trauma con un forte senso di colpa e di vergogna e con il condizionamento della presenza dei figli e dei vincoli economici. I dati dell’indagine Istat 2007 mostrano come, nella quasi totalità dei casi, le violenze non vengano denunciate. Anche nel caso degli stupri, la maggioranza dei casi non è segnalata (91,6%) ed è consistente anche la quota di donne che non parla con nessuno delle violenze subite (33,9% per quelle perpetrate dal partner e 24% per quelle da individui diversi dal partner).

Laddove la vittima decida di uscire dal silenzio rivolgendosi ai soggetti, istituzionali e non, preposti ad una prima fase di accoglienza, il percorso che si trova ad affrontare non è univoco, ma a totale discrezione della vittima. La donna vittima di violenza può, dunque, rivolgersi per una prima richiesta d’aiuto indistintamente presso un centro antiviolenza o un’associazione di tutela e assistenza alla donna, un Pronto Soccorso ospedaliero o un ginecologo di fiducia, i Servizi Sociali del Comune ovvero le Forze dell’ordine.

Tra le donne che hanno sporto denuncia per la violenza subìta dal partner, il 13,4%, si dichiarano molto soddisfatte di come le Forze dell’ordine abbiano gestito il caso, il 31,7% soddisfatte, il 20,3 % insoddisfatte, il 31,1% molto insoddisfatte10. In particolare, esse lamentano il fatto di non sentirsi protette poiché nella maggior parte dei casi l’autore della violenza non viene né allontanato, né perseguito, né tanto meno arrestato (nel 42,6% dei casi le Forze dell’ordine hanno raccolto la denuncia della donna, nel 26,9% hanno ammonito il colpevole, nel 19,7% hanno portato avanti il procedimento nei confronti del violento e, in misura residuale, hanno arrestato il colpevole, fornito protezione alla vittima di violenza e dato informazioni sulla possibile assistenza legale). Dalla ricerca dell’Istat11 emerge inoltre il desiderio, da parte delle donne che hanno denunciato la violenza subìta dal partner, di ricevere maggiore ascolto e appoggio al momento della denuncia (18,8%) e una protezione e un aiuto maggiore nel lasciare la propria abitazione (16,3%). Il senso di insicurezza percepito dalle donne è anche collegato alla circostanza che solo nel 27,9 % dei casi i partner denunciati sono stati imputati e di questi il 45,3% è stato condannato12.

Su tali tendenze concordano anche le fonti associazionistiche. Ad esempio le ricerche effettuate periodicamente dall’Associazione Nazionale Telefono Rosa13 confermano l’esistenza di un rapporto direttamente proporzionale tra il numero di denunce sporte e la risposta o il sostegno ricevuto a livello sociale. E’ fondamentale, quindi, che la donna venga creduta, sostenuta e aiutata nei centri e nelle istituzioni di competenza e che percepisca di esserlo.

Appare quindi indispensabile che gli operatori preposti ad una prima accoglienza delle donne vittime di violenza possiedano una spiccata sensibilità e preparazione nei confronti del basilare bisogno delle donne di essere ascoltate e rassicurate, oltre alla necessità di percepire la competenza del personale che le accoglie. Scaturisce da qui l’obiettivo della nostra ricerca, che si è focalizzata su due aspetti. Il primo è rappresentato dalla dimensione socio-organizzativa dell’accoglienza delle vittime della violenza e ha quindi indagato in che modo la situazione di crisi ed emergenza presentata dalle vittime viene percepita e gestita dagli operatori socio-sanitari (ginecologi, psicologi, infermieri, assistenti sociali) e dalle Forze dell’ordine (Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri) nella città di Roma. Il secondo, è rappresentato dalle principali difficoltà affrontate dalle vittime nel momento in cui si rivolgono all’esterno per una richiesta d’aiuto, le loro aspettative nei confronti delle istituzioni competenti (realizzate o deluse che siano) e i motivi che spingono le donne a non sporgere denuncia nei confronti del proprio aggressore14.



5. Gli operatori di polizia di fronte alle vittime della violenza di genere.


Punto di partenza della ricerca è stato quello di analizzare quale fosse la percezione del fenomeno – nelle sue forme e dimensioni – da parte degli intervistati. La violenza, infatti, si manifesta attraverso una pluralità di forme: dalla violenza fisica a quella sessuale, da quella psicologica a quella economica. Ciononostante, si ravvisa nell’opinione pubblica una percezione distorta e sottostimata del fenomeno, dovuta alla barriera culturale che rende difficile il riconoscimento della violenza all’interno della propria famiglia e alla tendenza dei mass media ad enfatizzare le forme di violenza sessuale nella forma estrema degli stupri (in particolare se perpetrati da stranieri15).

Nel caso delle interviste, gli operatori delle Forze dell’ordine asseriscono di possedere una corretta percezione del fenomeno nelle sue implicazioni sia quantitative sia qualitative. La violenza viene considerata un problema che esiste da sempre e che non ha mai subito battute d’arresto, molto più diffuso di quanto se ne parla, soprattutto se guardiamo alla violenza domestica, molto spesso accompagnata dall’omertà della vittima. Solo una minoranza degli operatori, per la maggior parte tra i Carabinieri, ritiene la violenza di genere un fenomeno abbastanza diffuso, ma molto amplificato dal risalto che i mass media danno a specifici fatti di cronaca concernenti gli abusi specificamente sessuali.

La totalità degli intervistati riconosce invece il carattere multiforme della violenza contro le donne, a testimonianza dell’efficacia sugli operatori coinvolti nella prima accoglienza delle vittime delle campagne di sensibilizzazione promosse dai centri antiviolenza in primo luogo e, secondariamente, della maggiore attenzione posta al fenomeno dalle istituzioni competenti.


Il legislatore ha fatto una giusta riforma - afferma una poliziotta della Squadra Mobile della Questura di Roma - quella che prima era la violenza carnale ad oggi è violenza sessuale, perché qualsiasi atto fatto ad una donna, dal semplice sfioramento a situazioni molto più violente, molto più drammatiche, rappresenta una forma di violenza e non è soltanto l’atto fisico, la violenza sessuale, che è la materia che noi trattiamo di più, ma chiaramente le forme di violenza sono incredibilmente vaste nella loro portata. La violenza domestica, ad esempio, persone che sono malmenate per anni dai mariti, picchiate, fratturate e che non hanno neanche la forza di denunciare perché vedono il marito, il compagno come una figura di riferimento, comunque il padre dei propri figli. Noi abbiamo raccolto denuncie di persone dopo vent’anni di violenze.


Opinioni discordanti si riscontrano, invece, quando ci spostiamo dal piano strettamente conoscitivo (relativo alla numerosità e multiformità della violenza di genere) a quello, più soggettivo, della percezione della gravità delle diverse forme che essa assume.

La maggioranza degli intervistati reputa estremamente difficile valutare una determinata forma di violenza come più grave di un’altra. La gravità, infatti, dipende unicamente dalla diversa percezione dell’atto di violenza da parte della vittima al momento in cui la subisce. Questo dato mostra la buona conoscenza del fenomeno e la particolare sensibilità nei confronti della vittima da parte degli operatori della Squadra Mobile. Relativamente a questi ultimi, il dato risulta ancora più interessante se si considera che la specializzazione della IV sezione della Mobile potrebbe indurre negli operatori una sensibilità soprattutto o soltanto nei confronti dei casi di violenza sessuale. Tra i Carabinieri, invece, c’è invece chi sostiene che alcune forme di violenza sono più gravi di altre:


anche la violenza psicologica è molto diffusa. È meno grave di quella fisica però. Quella fisica in genere è dovuta all’ignoranza della gente, significa la predominanza dell’uomo sulla donna. Anche quella psicologica è predominanza dell’uomo sulla donna, e provoca nella donna un senso di frustrazione, di sottomissione. Mentre quella psicologica si può manifestare anche da sola, quella fisica è sempre accompagnata da quella psicologica.


Una volta asseverata dagli intervistati la buona conoscenza del fenomeno della violenza di genere, così come la sensibilità nei confronti della vittima da parte della maggioranza, quali sono le criticità che gli operatori si trovano ad affrontare in prima persona nel momento in cui accolgono una donna vittima di violenza?

La principale difficoltà riscontrata è, nella totalità dei casi, quella di relazionarsi in modo appropriato alla vittima. Gli intervistati affermano, difatti, la necessità di creare con la donna vittima di violenza un rapporto empatico e di fiducia. Per gli operatori della Squadra Mobile di Roma tale necessità è legata anche ad esigenze investigative: più la donna si tranquillizza e si sente a proprio agio, più è semplice ricostruire il doloroso avvenimento vissuto. Inoltre la difficoltà di relazionarsi alla vittima è stata in buona parte superata grazie all’esperienza maturata negli anni e alla possibilità di operare avendo come supporto la figura della psicologa della Polizia di Stato, che li coadiuva nella fase della prima accoglienza e dell’interrogatorio.


Nell’accoglienza – sostiene un operatore della Squadra Mobile – ci sono e ci sono state sempre, per quanto mi riguarda, grosse difficoltà di relazione. All’inizio poi forse sbagliando sempre con questa cosa del metodo “fai da te” si è cercato di ottemperare usando quegli strumenti confidenziali che a volte magari sono stati ancora più dannosi. Poi formandomi in maniera più dettagliata e più ortodossa ho capito benissimo l’importanza della comunicazione, l’importanza della prossemica proprio della vicinanza del linguaggio cioè tutte quelle tecniche base che uno dovrebbe avere insieme alla sensibilità (…) Spesso l’atteggiamento della donna si relazionava a questa inadeguatezza (…) le donne e le vittime in genere avevano dei comportamenti direttamente proporzionali a quelle che erano le inadeguatezze, gli errori che potevamo fare insomma e … qualche volta c’è stata una grossa difficoltà, fermo restando le oggettive difficoltà che una donna ha già a fare il passo di arrivare in ufficio di Polizia per sapere che inizierà da li un iter che non è certo ne piacevole ne semplice.


L’assenza di una figura di psicologa/o viene lamentata dai carabinieri intervistati relativamente alle stazioni e alle altre sedi territoriali. Tra i Carabinieri (in particolare gli intervistati di sesso maschile) si sottolinea al contrario l’utilità dell’apporto di colleghe di sesso femminile nell’Arma, ritenute più idonee ad accogliere una donna vittima di violenza. Significativamente, peraltro, la difficoltà di relazione con la donna che ha subìto violenza viene in prevalenza attribuita al sentimento di imbarazzo provato dalla vittima:


una donna normalmente è più portata a confidarsi ed esporre i fatti ad un’altra donna. La prima accoglienza è meglio che la facciano le donne. Un uomo incontra difficoltà quando la donna entra nel dettaglio, quando coinvolge la sfera più intima. C’è chiaramente imbarazzo da parte di entrambi. Essendo uomo è più difficile, non per me ma per la donna. Ritengo sia imbarazzante per la vittima raccontare certi particolari ad un uomo. Ora che abbiamo personale femminile richiediamo la loro presenza, per rassicurarle.


Diversamente, gli uomini della Squadra Mobile, che hanno affermato la maggior facilità a trattare con le vittime di violenza da parte delle operatrici donne, imputano la difficoltà di relazione anche a un proprio imbarazzo e senso di inadeguatezza nei confronti di un fenomeno altamente complesso da gestire. Quanto detto conferma la particolare sensibilità nei riguardi delle problematiche portate dalle vittime da parte degli esponenti delle istituzioni in cui la presenza femminile è più significativa, riprova dell’utilità della transizione delle organizzazioni pubbliche come quelle a ordinamento militare da una composizione monogenere a una comprendente entrambi i sessi.

Andando ad indagare le ulteriori criticità affrontate dagli intervistati, gli operatori delle Forze dell’ordine menzionano la difficoltà di appurare la veridicità di quanto la vittima sta denunciando, impegnandosi contemporaneamente a non far trapelare nessun tipo di diffidenza.

La mancanza di un intervento integrato e cooperativo è invece menzionata da alcuni carabinieri, mentre altri sostengono di avere rapporti costanti con i Servizi sociali e gli ospedali. Questo dimostra che una rete di collaborazione non è una prassi consolidata ma dipende dalla diversa capacità e propensione soggettiva degli operatori e delle singole unità organizzative a lavorare in forma integrata. Anche su questo punto emerge la specificità degli operatori della Squadra Mobile di Roma che ─ operando costantemente su casi di violenza sessuale, spesso particolarmente gravi ─ mantengono regolari rapporti di collaborazione con diversi Centri antiviolenza della Capitale e, più saltuariamente, si rivolgono ai Servizi sociali comunali per garantire sostegno alla vittima nel post denuncia.

Se queste sono le principali criticità affrontate dagli operatori delle Forze dell’ordine coinvolti direttamente nella fase di prima accoglienza delle vittime, sarà ora interessante analizzare quali sono le principali difficoltà dichiarate dalle donne che hanno subìto violenza nel momento in cui si rivolgono all’esterno per una prima richiesta di aiuto.




6. Le vittime della violenza di fronte agli operatori di polizia.


Protagoniste di questo studio sono 50 donne vittime di violenza residenti nella Regione Lazio. Nella quasi totalità dei casi parliamo di casi di violenza domestica da parte del partner o ex-partner, in cui le vittime portano con sé esperienze di denigrazione ed umiliazioni, mortificazioni e minacce ripetute nel tempo; ma anche esperienze di violenza fisica, sotto forma di percosse, di stupri, di tentati stupri. Denominatore comune, l’assordante silenzio in cui le vittime di violenza domestica vivono anche per anni, spesso con i figli come spettatori.


io ho subìto quasi tutti i tipi di violenza – ci racconta una donna tunisina - ho subìto violenze sessuali, ho avuto violenza verbale, violenza fisica, tutti i tipi di violenza da questo uomo io li ho visti. Ho ricevuto minacce, tutto. In otto anni con lui ho visto di tutto, e io ho aspettato, ho fatto tre figli con lui, ogni bambino che ho fatto ho pensato ‘mò cambia’, perché speravo cambiasse un giorno, invece sta andando per il peggio. (…)L’ultima volta (…) non me lo scorderò mai, ha provato a ammazzarmi (…) mentre stavo a dormì lui mi ha strangolato, era l’una e mezza di notte, fino a che è uscito il sangue dalla mia faccia, (…) io stavo per terra, lui sopra di me e mi stava a strillà ‘tu devi morire’.


Ma cosa spinge le vittime stesse a non denunciare l’autore di violenza o a farlo dopo un tempo più o meno lungo rispetto all’inizio dei soprusi? Le cause sono molteplici e spesso concomitanti. Possiamo distinguere tra le cause endogene, che scaturiscono da sentimenti, sensazioni o paure personali vissute dalla vittima, dalle cause esogene, che conseguono a circostanze esterne che condizionano la vittima nelle scelte da intraprendere. Tra le cause di natura endogena rileviamo i sentimenti di amore nei confronti del proprio partner e la speranza in suo cambiamento; la volontà di far crescere i propri figli anche in relazione con la figura paterna; la paura di reazioni ancora più aggressive da parte del violento e, infine, la vergogna e il timore di essere giudicate mogli e madri inadeguate o addirittura colpevoli.

Ho accettato [le violenze] perché lui ha fatto pugilato e qualche volta mi diceva ‘mi devi capire, io prendo tanti cazzotti in testa quindi qualche traccia mi è rimasta’. Io gli ho fatto delle proposte di andare anche insieme da uno psicologo per trovare la soluzione. Ho detto ‘guarda che non siamo l’unica coppia che va a trovare una via di mezzo per il bene dei bambini’, e poi subito si girava e mi diceva ‘io non c’ho bisogno di questo, se vuoi vai tu’. (…) E poi pensavo anche che vedendo con il tempo che i bambini crescono e capiscono le cose, magari per il bene dei bambini, dice basta, mi sto godendo i miei figli e dice basta e invece no, ogni sera quando tornava dal lavoro era peggio, anche i bambini erano terrorizzati. (…) [le donne non denunciano] per paura di quello che succede dopo, perché pure io ho avuto la paura di fare la denuncia perché ho pensato ‘poi quando mi prende sulla strada mi fa ancora peggio’, che è anche successo (…) quando facevo gli incontri protetti, mi prendeva sulla strada e mi menava.


Tra le cause di natura esogena ritroviamo invece lo sgomento per il lungo e incerto iter che attende le vittime di violenza una volta sporta denuncia; il timore di non essere tutelate dalla legge e di non ricevere un’assistenza idonea da parte delle istituzioni (in particolare dalle Forze dell’ordine); l’essere state influenzate da suggerimenti sbagliati volti a convincere la donna a non sporgere denuncia; infine motivi di natura economica. Molte intervistate, infatti, si dichiarano economicamente dipendenti dal partner e asseriscono di non avere le risorse necessarie al mantenimento proprio e dei figli16.


Non ho sporto denuncia perché sapevo che rivolgendomi alla Polizia o ai Carabinieri non avrei risolto molto perché facendo la denuncia le Forze dell’ordine non possono allontanare il violentatore, al massimo possono richiamarlo ma poi lui torna a casa magari ancora più arrabbiato di prima. (…) Secondo me le donne non denunciano proprio perché non c’è un supporto, sanno che, nonostante la denuncia, la legge non permette alle Forze dell’ordine di allontanare il compagno violento a meno che non c’è l’omicidio o un evento penale estremo.


Le diverse forme di violenza subìte dalle donne non esauriscono la loro drammaticità nel momento in cui gli atti aggressivi cessano o la vittima riesce a sfuggire alla spirale di violenza. Al contrario, esse portano con sé una serie di conseguenze dolorose che spesso si amplificano, anziché lenirsi, lungo l’articolato cammino intrapreso nel momento in cui le vittime si rivolgono alle istituzioni competenti per una prima richiesta d’aiuto. Decise a cambiare la propria vita e a lasciarsi alle spalle anni di violenze, esse si trovano spesso ad affrontare ulteriori criticità e ad incorrere in delusioni da parte dei soggetti preposti alla loro tutela.

Le giuste competenze unite alla sensibilità e all’empatia nei confronti delle vittime diventano dunque caratteristiche essenziali che gli operatori coinvolti nella gestione della violenza di genere devono possedere per garantire una buona accoglienza delle donne in difficoltà. Molto spesso infatti il tipo di accoglienza ricevuta, e più in generale l’impatto con le istituzioni costituisce, a seconda dei casi, un incentivo o un deterrente per indurre le donne a sottrarsi o meno al contesto di violenza cui sono sottoposte. Ed è proprio la difficoltà nel rapportarsi con le istituzioni la principale criticità espressa dalle donne intervistate17. Nella quasi totalità dei casi (solo due le eccezioni da noi rilevate) le donne intervistate si sono rivolte ad almeno una delle istituzioni preposte al loro ascolto (siano esse il Pronto Soccorso, le Forze dell’ordine, o i Servizi Sociali).

Dalla valutazione dell’accoglienza presso le strutture sanitarie emerge un’immagine sostanzialmente positiva: nella maggior parte dei casi infatti le vittime di violenza testimoniano di aver ricevuto un trattamento idoneo alle circostanze, caratterizzato da sensibilità e anche da vera e propria solidarietà. Molti sono i casi in cui le donne dichiarano di essere state incoraggiate a sporgere la denuncia, di aver ricevuto le informazioni di cui necessitavano e di aver spesso incontrato un personale medico e infermieristico pronto a cogliere, dietro la reticenza e la vergogna inevitabili, i segni della violenza. Laddove ciò non è avvenuto (in un numero inferiore e tuttavia non trascurabile di casi) le donne lamentano un’attenzione marginale e una certa negligenza. Complessivamente il Pronto Soccorso emerge come luogo in cui la vittima di violenza oltre a ricevere cure, viene accolta in maniera idonea, ottenendo inoltre informazioni e suggerimenti utili per l’eventuale percorso da intraprendere. Più defilato il ruolo dei Servizi Sociali, citati da un numero inferiore di intervistate (17 casi su 50). Nella maggior parte delle situazioni si tratta di vittime che hanno già intrapreso un percorso di denuncia e dunque di allontanamento dal violento, spesso indirizzate dalle stesse Forze dell’ordine. Non sempre la vocazione ‘assistenziale’ dei Servizi Sociali appare confermata nelle testimonianze da noi raccolte perché proprio nei confronti di essi le donne concentrano le maggiori attese di assistenza economica, giuridica e lavorativa.

L’ambito in cui le donne sottolineano le maggiori difficoltà è rappresentato dagli operatori delle Forze dell’ordine, ritenuti non adeguatamente sensibili di fronte alla violenza di genere e alle problematiche che essa inevitabilmente comporta. La maggior parte (40 casi) delle intervistate si è rivolta alla Polizia o ai Carabinieri, talvolta ad ambedue le istituzioni. In un numero maggiore di casi esse si sono rivolte alle caserme dell’Arma, comportamento scontato solo per le donne che abitano in comuni piccoli dove non esistono commissariati. La numerosità dei casi di richiesta di aiuto a tali istituzioni, pur priva di una rappresentanza statistica, sembra confermare la tendenza a convogliare proprio sulle Forze dell’ordine le principali aspettative di tutela e di difesa dal vissuto di violenza.

La varietà di giudizi espressi, che si pongono lungo il continuum di soddisfazione/insoddisfazione, permette di rilevare una situazione ambivalente: nei confronti dei Carabinieri si mostrano soddisfatte o molto soddisfatte 9 donne su 29, e insoddisfatte 18 donne; nei confronti della Polizia il rapporto è di 7 soddisfatte e 10 insoddisfatte su 19 (in entrambi i casi per due donne non è stato possibile rilevare il giudizio).

In relazione alle istituzioni di polizia, complessivamente considerate, emergono due ordini di difficoltà. La prima concerne la dimensione prettamente operativa: molte intervistate lamentano un mancato intervento da parte delle Forze dell’ordine legato a questioni prettamente burocratiche o organizzative, che ingenerano nella vittima, desiderosa di un’azione risolutiva, una sensazione di delusione. Così nel racconto di un’intervistata:


Io pensavo che andando in caserma dai Carabinieri, o comunque facendo una denuncia, qualcosa sarebbe cambiato, invece ho capito che anche se avessi fatto una denuncia penale contro di lui, firmata e tutto quanto, nulla sarebbe cambiato (…). Anche perché con i figli sono impicci, perché non è che prendi il figlio e te ne vai! Infatti il carabiniere mi ha detto se facevo questa cosa voleva dire abbandono del tetto coniugale e rapimento di minore (…). Comunque i Carabinieri danno più attenzione alle persone che smarriscono i cani e altre cose mentre a me mi dice ‘signora lo sa quante vengono? Decine al giorno qua come lei” (…). Mi hanno spiegato che se anche facevo la denuncia penale lui rimaneva dentro casa fino al processo. (…) Se lui arriva a casa e io gli ho fatto la denuncia penale, secondo me, già uno che è violento...ci ammazza!


Sono andata dai Carabinieri perché volevo denunciarlo, perché volevo un aiuto per allontanare questo uomo da mio figlio e da me – sostiene una donna perseguitata dall’ex compagno - cercavo aiuto, cercavo protezione per mio figlio, invece mi hanno detto che non ci sono gli estremi per esporre una denuncia penale. Loro sottovalutano la situazione, la considerano in modo superficiale, all’’acqua di rosa’, non si rendono conto delle difficoltà della vita quando si è perseguitati (…) quando vivevamo in Inghilterra è stato arrestato e condannato con il divieto di avvicinarsi a me e a mio figlio per sei mesi. Qui in Italia i Carabinieri mi hanno detto che non potevo esporre denuncia perché non ci sono gli estremi penali. La legge italiana non mi tutela da quest’uomo e soprattutto non protegge mio figlio che è minore. I Carabinieri non intervengono anche perché è la legge che li limita, se quest’uomo non rispetta le restrizioni che gli sono state imposte nessuno può fare niente


Il secondo ordine di difficoltà concerne invece l’atteggiamento di scarsa sensibilità e di distacco. A fronte dell’ atteggiamento comprensivo ed empatico mostrato da alcuni, numerose sono le intervistate che sottolineano come la propria richiesta di aiuto si sia scontrata con una posizione formalistica al punto di non essersi sentite credute e di non aver dunque ricevuto il sostegno di cui necessitavano.


[Dai Carabinieri] mi aspettavo un po’ di più - sostiene una donna intervistata - ma non l’ho trovato, forse perché sono uomini. Io ho l’idea che tutti gli uomini del mondo sono uguali. Insomma non lo so, forse perché sono uomini, forse perché lo conoscono [mio marito], perché, ti ho detto, che viviamo un piccolo paese e loro lo conoscono bene, perché lui fa il camionista e lo conoscono, sono amici (…). [I carabinieri] sono stati freddi, io sono andata lì piangendo, piena di botte, con la faccia rossa e con due bambini per mano, però il maresciallo a una domanda risposta, a una domanda risposta, e basta, (…) non mi hanno dato nessun consiglio. (…) Mi hanno detto ‘torna a casa’.


I Carabinieri danno più attenzione alle persone che smarriscono i cani e altre cose mentre a me mi dice ‘signora lo sa quante vengono? Decine al giorno qua come lei” (…). Mi hanno spiegato che se anche facevo la denuncia penale lui rimaneva dentro casa fino al processo. (…) Se lui arriva a casa e io gli ho fatto la denuncia penale, secondo me, già uno che è violento...ci ammazza! (…) Quando mi ha alzato le mani (…) ho preso subito il cellulare e ho chiamato i Carabinieri, sono venuti con la pattuglia, a me mi hanno portato all’Ospedale e lui niente, lo hanno lasciato dentro casa e niente. Gli hanno detto ‘guarda che lei non può usare la violenza, è una cosa brutta’, hanno domandato qualcosa ai coinquilini che stanno in casa con me, niente di che non è che, per dire, gli hanno dato un invito di presentarsi in caserma.


I limiti burocratico - amministrativi, con cui molte delle nostre intervistate hanno avuto a che fare (un intervento parziale da parte delle Forze dell’ordine a causa dell’assenza di una denuncia, il mancato allontanamento del violento, la lentezza delle indagini o le lunghe attese) costituiscono indubbiamente motivo di riflessione. E’ necessario concentrare l’attenzione sulla fase dell’accoglienza, tema intorno al quale abbiamo registrato la maggiore discrepanza tra la voce delle vittime (che valutano) e la voce degli operatori (che vengono valutati).

È centrale, infatti, sottolineare come le Forze dell’ordine costituiscono nell’immaginario collettivo il simbolo della difesa e della tutela, motivo per cui per molte donne recarsi ad un commissariato della Polizia di Stato oppure presso una stazione dell’Arma dei Carabinieri costituisce una manifestazione concreta della volontà di sottrarsi al vissuto di violenza. Ricevere il dovuto ascolto e fruire di un’opportuna accoglienza costituiscono elementi imprescindibili, dai quali partire per interrogarsi su come migliorare e potenziare i servizi offerti alle donne vittime.

Colpisce, a tale proposito, come solo una delle donne intervistate abbia avuto un, peraltro fuggevole, contatto con una poliziotta donna, che si trovava in un presidio interno ad una struttura ospedaliera. Al di là delle legittime scelte funzionali operate da ciascuno delle Forze dell’ordine, è infatti auspicabile che all’interno delle singole unità territoriali, laddove possibile, il personale femminile dei Corpi di polizia sia impiegato nelle operazioni volte all’ascolto e all’accoglienza delle donne vittime di violenza per evidenti motivi di maggiore vicinanza psicologica e sociale.

Le criticità rilevate dalle interviste sono speculari rispetto ai suggerimenti che le donne hanno proposto per migliorare l’accoglienza: emerge in primo luogo la richiesta di protezione dal violento, di un’assistenza legale ed economica che sia in linea con le effettive difficoltà che incontra la donna nel percorso che compie per fuoriuscire dalla violenza. In ultimo, ma non da ultimo, è diffusa la richiesta di un maggiore ascolto, di una maggiore sensibilità da parte delle istituzioni in generale, e in particolar modo da parte delle Forze dell’ordine: atteggiamenti formali di distanza e non piena umanità determinano un’inasprirsi non solo del dramma vissuto dalla donna, ma anche un rafforzamento del muro di silenzio che la circonda quando essa è vittima.



7. Osservazioni conclusive


Quella tra sicurezza e violenza contro le donne è una relazione complessa innanzitutto a causa della propensione di importanti attori sociali come i mezzi di comunicazione di massa, esponenti politici, e di conseguenza anche settori dell'opinione pubblica, a "ridurre" la violenza di genere a un problema di sicurezza, pubblica e/o urbana. Peraltro, ogni volta che una vittima si rivolge alle istituzioni competenti per la sua richiesta di aiuto, emerge un altro aspetto, rappresentato dal rapporto che la medesima stabilisce con gli operatori di polizia.

Dalle ricerche qui presentate sulla duplice rappresentazione della violenza di genere e della dimensione socio organizzativa dell’accoglienza delle vittime della violenza ad opera delle Forze dell’ordine nel Lazio, emergono dati che delineano uno scenario di contrasti molto interessanti. Da un lato gli operatori intervistati si mostrano particolarmente informati e consapevoli (a differenza dell'"uomo della strada") circa la pluralità delle forme di violenza e del ruolo centrale che riveste in esse la violenza domestica. Dall'altro, in un campione di 50 donne vittime di violenza di genere, soltanto una minoranza dichiara di aver trovato tutto il sostegno necessario.

Ma qualcosa si sta muovendo. Tra le risposte istituzionali ricordiamo l’attivazione, nel giugno del 2013, della Rete Do.Min.A (Donne, Minori, Abuso) presso la Questura di Roma. La Rete nascecon l’obiettivo di creare un filo conduttore tra le Istituzioni preposte all’accoglienza psicologica, sociale, legale e giuridica delle donne e dei minori vittime di violenza18. Anche la Questura di Palermo e di Verona sono esempi virtuosi nella gestione della violenza di genere19, ma ancora molto c’è da fare affinché le singole iniziative di questo tipo si estendano a livello nazionale.

A un quadro indubbiamente già migliorato oggi rispetto al recente passato quanto a consapevolezza in materia da parte delle istituzioni competenti, corrisponde dunque l'urgenza di un ulteriore investimento da parte di esse in ambito formativo e organizzativo. Ciò allo scopo di fornire alla collettività e in particolare a quella parte di essa che ne ha più bisogno e diritto - cioè le donne - l'assistenza dovuta e necessaria.





1 Per un approfondimento degli aspetti sociali della violenza di genere v. Corradi, C. (a cura di), “I modelli sociali della violenza contro le donne. Rileggere la violenza nella modernità”, Franco Angeli, Milano, 2008.

2 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, 1957; Patto sui Diritti Civili e Politici, 1966; Patto sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, 1966.

3Convenzione per l’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne [CEDAW], approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1979. Ivi, Parte Prima, art.1.

4 Canu, R., “La violenza domestica contro le donne in Italia e nel contesto internazionale ed europeo”, La Riflessione, Cagliari, 2008 .

5 Istat (2007), La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia.

6 Ibidem, tav. 1. Si segnala come le percentuali sono calcolate su 100 donne aventi le stesse caratteristiche, cioè collocate nella fascia d’età tra i 16 e i 70, vittime di violenza nel corso della loro vita.

7 Ibidem, tav. 2 (i dati fanno riferimento all’intero corso della vita delle intervistate). Si fa presente come mentre le categorie ‘violenza fisica’ e violenza sessuale’ sono mutuamente esclusive, ciò non vale per ‘violenza sessuale’ e ‘stupro effettivo o tentato’ La violenza sessuale ricomprende infatti al suo interno: molestie fisiche, rapporti sessuali non desiderati, tentato stupro, stupro e rapporti sessuali degradanti. Il dato del sommerso sul fenomeno degli stupri rappresenta dunque una specifica ulteriore.

8 Ibidem, tav. 7.

9 La violenza da non partner riguarda 5 milioni e 221 donne (24,7% del campione). Anche in questo caso la percezione della gravità del fatto è riduttiva: solo il 21,5% delle vittime la reputa ‘grave’ mentre il 29% la considera ‘poco grave’ e il 13,9% ‘per niente grave’. Il fenomeno è considerato nel 48,6% dei casi ‘qualcosa di sbagliato, ma non un reato’ e nel 25,3% ‘solamente qualcosa che è accaduto’. Ivi, tav. 8, 21.

10 Ibidem. Tra le donne che hanno sporto denuncia per violenza subìta da un uomo diverso dal partner si dichiara molto soddisfatta di come le Forze dell’ordine abbiano gestito il caso il 19,3%, soddisfatta il 24,2%, insoddisfatta il 21,3%, molto insoddisfatta il 28,6%.

11 Ibidem

12Tra le donne che hanno sporto denuncia per violenza subìta da un uomo diverso dal partner emerge il desiderio di ricevere maggiore ascolto e appoggio al momento della denuncia (18,3%) e di ottenere dalle Forze dell’ordine un avvertimento o ammonimento del violento (12,9). Solo nel 29,6 % dei casi denunciati gli aggressori sono stati imputati e di questi il 43,2% è stato condannato. Ibidem.

13 Per approfondimenti v. il sito internet www.telefonorosa.it

14 A questo scopo sono state effettuate 120 interviste faccia a faccia: 39 rivolte a operatori socio-sanitari dei principali Istituti ospedalieri di Roma, 31 a operatori delle Forze dell’ordine (22 CC e 9 PS), 50 a donne vittima di violenza. Le ricerche, svolte nel 2009 e nel 2010 per conto dell’IRIAD - Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo in collaborazione con l’Associazione Nazionale Telefono Rosa, sono state effettuate da un gruppo di ricerca coordinato da chi scrive e formato da Francesca Angius, Chiara Apolloni, Silvia Corti e Giulia Ferrara, che qui ringrazio. Per approfondimenti v. i Rapporti di ricerca pubblicati su www.archiviodisarmo.it.

15 Dal Lago, A., “Non-persone. L'esclusione dei migranti nella società globale”, Feltrinelli, Milano 1999; Pitch, T., “ Qualche riflessione attorno alla violenza maschile contro le donne”, in Studi sulla questione criminale, III, n.2, 2008, pp.7-13

16 Come sottolineato, la distinzione da noi proposta è funzionale ai fini analitici: nel vissuto delle donne le cause qui indicate come esogene o endogene sono strettamente interrelate.

17 Altre criticità espresse dalle intervistate sono: le difficoltà di natura economica e l’avvertita mancanza di un’adeguata tutela legislativa; l’indifferenza da parte della gente e il senso di vergogna derivante dal vivere una situazione di ripetute violenze; la mancanza di informazioni adeguate su cosa e come fare per uscire dalla spirale di violenza e le conseguenti difficoltà nel trovare un alloggio adeguato.


18 La vittima di violenza che si reca presso un Commissariato della Provincia di Roma viene accolta da un ispettore referente che ha l’obbligo di riempire una scheda “Rete Domina”con i dati della vittima e l’accaduto da trasmettere alla Questura centrale. Qui il lavoro viene preso in carico da un gruppo di lavoro formato da due psicologhe, un medico legalee tre poliziotti appositamente formati, che intervengono contattando la vittima a cui viene proposto un colloquio presso la Questura centrale, così da facilitare il percorso che porterà alla denuncia

19 Di Lucente, C., “Salvate da una rete”, in Polizia Moderna n.7, 2013