2009

Sociologia dei conflitti locali contro i rom e i sinti in Italia
Pluralità di contesti e varietà di policy instruments

Tommaso Vitale (*)

Sommario: 1. Introduzione. 2. Solo politiche locali? 3. Il nodo gordiano del consenso. 4. Milano e Roma: una modalità demagogica di ottenimento del consenso. 5. Modalità incrementali di costruzione del consenso. 6. La mediazione come modalità della politica locale. 7. Coinvolgimento dei destinatari in contesti ad alta intensità conflittuale. 8. Conclusioni: varietà di strumenti e innovazione sociale

1. Introduzione

Negli ultimi dieci anni, la questione di gruppi zigani nelle città italiane ha spesso infiammato le dinamiche dell'opinione pubblica, in maniera tendenzialmente ciclica. Si sono verificati dei picchi di ostilità, ma - a differenza di quanto è avvenuto per gli albanesi - questa avversione non sembra essersi mai assorbita. I sondaggi di opinione ci dicono che è peggiorata di anno in anno. Certo, negli ultimi anni le indagini demoscopiche ci dicono che il sentimento di ostilità si è accresciuto nei confronti di tutti gli "stranieri", a prescindere dai loro luoghi di provenienza (1). Tuttavia...

In primo luogo moltissimi gruppi rom e sinti non sono gruppi immigrati, ma sono di cittadinanza italiana, presenti nella vita sociale del nostro paese da centinaia di anni.

In secondo luogo, l'abbassamento del sentimento di simpatia nei confronti dei rom e dei sinti è giunto ad un livello sconcertante, per cui solo il 6,7% degli italiani gagi (non rom) dichiara di non avere ostilità nei confronti di questi gruppi. Se paragonato ai filippini, che invece godono della simpatia del 64,9% della popolazione (sebbene questa percentuale fosse molto più alta - 77,7% - nel 1999), ci accorgiamo che il trend di ostilità ha spinto i rom in una zona di avversione sociale che dà le vertigini (2).

In terzo luogo, l'ostilità nei confronti dei rom, pur avendo alcuni picchi ed essendo diffusa in tutto il territorio nazionale, si caratterizza attraverso mobilitazioni locali. Certo, questo fa parte della dinamica del "panico morale" (3), che parte sempre dall'avversione verso un gruppo situato in un contesto locale molto ristretto, di cui si stigmatizzano i comportamenti, generalizzandoli all'insieme della popolazione identificata. Queste mobilitazioni non sono mai "spontanee": sono appunto mobilitazioni cioè azioni collettive, organizzate da "imprenditori", in cui gli attori coinvolti sollevano dei problemi locali e li rendono pubblici, interagendo con autorità e politiche pubbliche e perseguendo uno o più obiettivi condivisi. Vi sono soggetti che intraprendono un'azione intenzionale, reperendo risorse che mettono a disposizione per organizzare e sostenere una mobilitazione. Non a caso, con riferimento alle mobilitazioni, spesso si parla di imprenditori politici, o di imprenditori morali (spesso soggetti collettivi). Considerare analiticamente la presenza di imprenditori della mobilitazione è importante perché permette di non presupporre che il pregiudizio anti-zigano si traduca direttamente e senza mediazioni in azioni ostili.

In sintesi, le dinamiche di criminalità e di antizigananismo degli ultimi anni possono essere colte con riferimento a due meccanismi differenti (4). Il primo è un meccanismo di diffusione delle mobilitazioni antizigane, che se negli anni '90 rimanevano limitate a singoli territori e contingenti rispetto a logiche politiche strumentali della destra, negli ultimi anni hanno esteso una performance conflittuale razzista, una tematica antizigana e una visione interpretativa marcatamente eugenetica da un luogo ad un altro (5), con grande rapidità di emulazione e anche con una certa capacità di coordinamento garantito dai partiti di destra, Lega in primis (6), ma non solo, perché le destre nel loro insieme si sono riconosciute simili e somiglianti nella canea antizigana. Il secondo meccanismo è più recente, e si è giocato negli ultimi due anni: un meccanismo di certificazione (7) da parte del Governo nazionale che ha segnalato con il pacchetto sicurezza di Amato, prima (8), e con i decreti Maroni, poi, la propria disponibilità a riconoscere e sostenere le rivendicazioni locali degli attori politici antizigani.

Questi due meccanismi, combinati, hanno prodotto effetti di ampia scala, cioè un incremento nel numero degli attori coinvolti e nella portata geografica delle azioni perpetrate ai danni dei rom e dei sinti, in altri termini un cambiamento di scala che ha sollevato a livello nazionale ed europeo la dinamica di conflitto. Se quanto detto fin qui è vero, risulta che il nodo fondamentale da esplorare per capire lo stato delle avversità nei confronti dei rom e dei sinti in Italia sono non tanto le fasi recenti in cui il conflitto è risalito di scala, ma il modo in cui quest'ultimo si struttura a livello locale, e - quindi - i caratteri principali della politica zigana nelle città italiane.

2. Solo politiche locali?

Per inquadrare al meglio l'analisi comparata delle politiche locali in Italia, è importante premettere alcuni brevi cenni sulle politiche decise ad altri livelli.

Su scala nazionale l'Italia non ha sviluppato una politica per le comunità rom con un livello anche minimo di coerenza e articolazione. Lungi dal riconoscere la necessità di tentativi d'integrazione fra politiche, il Ministero dell'Interno ha affrontato le problematiche delle comunità rom in termini di "problema di ordine pubblico", con l'eccezione di un'importante circolare del 1985 (n. 151/85, 5.7.1985, "Oggetto: Problema dei nomadi"), che insiste affinché sia garantita "una reale uguaglianza degli appartenenti ai gruppi rom e sinti (tra l'altro in grande maggioranza di cittadinanza italiana) e gli altri cittadini" e si fornisca "un'adeguata risposta ai bisogni primari delle popolazioni nomadi e che nello stesso tempo sia rispettosa della cultura e delle tradizioni di vita, estremamente diversificate tra l'altro, delle varie etnie che rientrano nel nomadismo". Alcuni tentativi di procedere nella direzione di una politica nazionale di riconoscimento dei rom e dei sinti come minoranze nazionali sono stati intrapresi nel 2007 dal Ministro Amato e hanno portato all'inizio del 2008 ad una Conferenza nazionale promossa dal Ministero della Solidarietà e dal Ministero dell'Interno. Tuttavia la caduta del secondo governo Prodi ha interrotto i primi passi percorsi in quella direzione. Parallelamente i "nomadi" sono stati qualificati sempre più come figure della pericolosità sociale e problema in termini di sicurezza urbana (9). Nel 2008 il secondo governo Berlusconi ha nominato i prefetti delle tre maggiori città italiane (Milano, Napoli e Roma) "Commissari regionali per l'emergenza nomadi", appoggiandosi sulla legge che istituisce il servizio nazionale di protezione civile, motivando perciò l'istituzione dei "commissari governativi straordinari" in relazione ad una situazione di allarme sociale "creato dalla presenza di campi nomadi irregolari" e dal conseguente "rischio per l'ordine pubblico interno".

A livello subnazionale, in Italia si è registrato, nella seconda metà degli anni '80, un certo attivismo da parte di alcune Regioni, che, a partire dal Veneto (1984), hanno legiferato per tutelare il "diritto al nomadismo" e alla sosta nel territorio regionale, regolando le modalità di allestimento di aree attrezzate, i cosiddetti "campi". Le leggi regionali, perciò, pensate per tutelare i gruppi itineranti hanno finito però per implicare tutte le comunità zingare in un'unica identità nomade, con la sola eccezione di Veneto, Toscana ed Emilia Romagna che hanno apportato modifiche ai loro ordinamenti per riconoscere la stanzialità della maggior parte dei gruppi rom e sinti. Un secondo limite della maggioranza di queste leggi è, inoltre, il basso livello di enforcement previsto ed implementato (10), tanto che i Comuni raramente ne ottemperano le disposizioni. Emblematiche rispetto a quanto finora analizzato sono le contraddizioni che si riversano sul livello locale, senza che questo abbia strumenti adeguati per affrontarle, raramente supportato da altri livelli, ovverosia senza favorire il coordinamento orizzontale fra gli Enti locali, né forme di corresponsabilità e governance multilivello fra istituzioni ordinate verticalmente.

3. Il nodo gordiano del consenso

In definitiva, in Italia le contraddizioni aperte dalla presenza di gruppi rom e sinti si riversano sul livello locale, senza che questo abbia strumenti adeguati per affrontarle e sia supportato - se non raramente - da autorità pubbliche di altro livello. A livello locale sono presenti, comunque, dei margini di azione e dei gradi di libertà che permettono di piegare le politiche in molte direzioni possibili. Le scelte di politica pubblica esercitate a livello locale circoscrivono molto le possibilità di azione in materia di istruzione primaria e secondaria, di inserimento lavorativo, di salute, di socialità e, soprattutto, di condizioni abitative. Esse possono favorire, o al contrario ostacolare, condizioni di "riconoscimento" (11) di queste comunità all'interno di un ordine sociale "necessariamente complesso e contraddittorio" (12).

Le politiche implementate a livello locale sono sempre il frutto situato di un gioco di interazione fra più attori, con diversi interessi, all'interno di vincoli comuni (13). L'esito di queste interazioni è imprevedibile. La realtà empirica delle città italiane presenta una certa varietà di dinamiche e di modalità di trattamento dei rom e dei sinti.

Politiche differenti, dunque, che producono esiti totalmente diversi sulla vita delle persone, rom e gagi. Quasi mai giochi a somma zero, come se gli uni vincessero sulla pelle degli altri. Si tratta sempre di giochi a somma negativa (in cui perdono tutti, dato il degrado delle condizioni di convivenza) o a somma positiva, win win, in cui vincono tutti e la convivenza civile diviene un vantaggio per tutti e per ciascuno.

Cosa fa la differenza? Sarebbe facile dire che la variabile in base a cui discriminare le scelte di politica è legata alla coalizione di governo nella Giunta comunale. Non vi sono riscontri sistematici di questa ipotesi. Pensiamo, ad esempio, alla politica degli sgomberi, e più precisamente all'uso degli sgomberi come principale strumento di azione pubblica in materia: essa viene praticata sia da amministrazioni di centro destra (non tutte: si pensi, ad esempio, ai casi di Reggio Calabria o di Bergamo), sia da molte amministrazioni di centro sinistra (14).

L'ipotesi che intendiamo esplorare è che a fare la differenza sia la modalità di governo con cui si cerca di ottenere o costruire consenso sulla propria azione. In altri termini, che la modalità di ricercare consenso influenzi la scelta degli strumenti e degli obiettivi di azione pubblica.

4. Milano e Roma: una modalità demagogica di ottenimento del consenso

A Milano e Roma le amministrazioni comunali hanno cercato di rendere ancor meno visibile che in altre città la presenza dei gruppi zigani, sia di quelli di cittadinanza italiana che di quelli di nuova immigrazione. Nelle ricerche che abbiamo effettuato sulle scelte operate dai Comuni di Milano (centro destra) e Roma (centro sinistra) negli anni compresi fra il 2003 e il 2007 è emerso per queste due città un quadro di politica locale abbastanza omogeneo e caratterizzato da dieci tratti principali (15):

  1. L'uso reificante della categoria di 'nomadi', che implica in una identità omogenea una 'galassia di minoranze' assai eterogenee.
  2. Una connotazione etnica che separa nettamente questi gruppi dal resto della popolazione, anche sul piano morale.
  3. La negazione di possibilità di interlocuzione e negoziazione, o, in altri termini, il non riconoscimento di una rappresentanza legittima.
  4. La riduzione continua della varietà di strumenti di azione pubblica usati.
  5. Il fatalismo complessivo che caratterizza il giudizio sull'azione pubblica in materia.
  6. Una forte segregazione spaziale degli insediamenti abitativi predisposti.
  7. Un trattamento amministrativo differenziale per ciò che attiene gli standard urbanistici e di edilizia residenziale.
  8. La produzione di condizioni insalubri che attentano alla salute e riducono tragicamente le aspettative di vita.
  9. Il ricorso ciclico allo strumento dello sgombero, effettuato in assenza di alternative proposte.
  10. In caso di emergenza abitativa, la separazione di coppie conviventi e la separazione dei figli dai propri genitori.

Altrove abbiamo analizzato come le radici di questo schema di politica pubblica verso i gruppi zigani siano marcatamente eugenetiche. Qui interessa sottolineare come questo schema abbia conseguenze politiche importanti, che spingono verso uno stile preciso di ottenimento del consenso. Sottostante alle politiche dei campi e degli sgomberi (le due cose procedono sempre insieme), vi sono scelte innanzitutto (16). Perpetuare queste politiche è una scelta. Una scelta "demagogica", nel senso che a questo termine attribuisce la sociologia politica, in cui cioè le dinamiche dell'opinione pubblica sono mosse essenzialmente da imprenditori politici e morali in assenza di un riscontro del successo della politica intrapresa (17). Ovviamente, è una scelta in parte indirizzata dalle decisioni precedenti, dalle routine proceduralizzate nei settori competenti della Pubblica amministrazione, che creano piccole rendite di posizione e tendono a mantenersi inerzialmente.

Il problema di questo genere di politiche non è solo che sono incapaci di aggredire i problemi, favorire la convivenza civile, offrire dotazioni collettive utili a promuovere e proteggere tutti gli individui, compresi i più deboli. Il punto è che si muovono su logiche di ottenimento del consenso che hanno un effetto generativo molto forte sia sulle dinamiche dell'opinione pubblica, di cui rinforzano gli stereotipi, sia sui modi di selezionare gli strumenti e di implementare le politiche locali. Vediamo più precisamente, perciò, quali sono gli assunti di questo modello demagogico.

  1. Il primo assunto è generico, ma non per questo meno importante: è l'idea che le politiche sociali non portino consenso elettorale.
  2. Proprio di una strategia demagogica è tenere aperti i problemi, 'rimestare nel torbido', in modo da perpetuare nel tempo le fonti di disagio che permettono azioni simboliche finalizzate a ottenere il consenso di una parte.
  3. E' ritenuto scontato che il consenso si ottenga solo attraverso iniziative le cui condizioni di felicità si verificano esclusivamente nel brevissimo periodo, meglio se nel presente, cioè attraverso azioni il cui successo è dato dal semplice fatto di compierle, e non è valutato in relazione alle loro conseguenze.
  4. Un principio quasi naturalizzato è che il consenso si ottenga attraverso una comunicazione pubblica che giustifica l'azione in base ad una logica binaria, manichea e non strutturata su di un continuum.
  5. Si ritiene che interventi semplici, unici, che riducono la varietà degli strumenti dell'azione pubblica da predisporre e utilizzare, favoriscano l'ottenimento di riscontri positivi perché più facilmente "spendibili" sui media.
  6. Corollario a quanto detto, è l'idea che i singoli politici possano migliorare la loro reputazione più attraverso una presenza fisica nei luoghi del disagio che attraverso la messa in atto di interventi anche efficaci, se non risolutivi, ma poco visibili.

Queste diverse logiche non sono "dimostrate", non vi è un ritorno di evidenza che attesti che solo seguendole alla lettera si possa ottenere consenso per una politica locale rivolta ai gruppi rom e sinti. Sono logiche in uso, utilizzate diffusamente da una parte del ceto politico locale. Più precisamente, una ideologia dominante nel senso che a questo termine attribuirono Luc Boltanski e Pierre Bourdieu (18): schemi ampiamente impliciti, suscettibili di generare un'infinità di produzioni retoriche discorsive e di pratiche aggiustate a differenti situazioni, a cui viene attribuita un'evidenza di buon senso, permettendo di legittimare l'idea che l'azione efficace sia solo quella orientata a seguire una direzione già determinata del cambiamento sociale. Ovverosia a mostrare che il consenso non può che prodursi in base a queste precise logiche, che devono essere accettate se si vuole compiere una qualsivoglia azione in termini di cambiamento. Laddove la maggioranza in Comune ricerchi il consenso in base alle logiche qui schematizzate, vengono privilegiati degli strumenti (tra cui il ricorso ai "campi nomadi" e agli sgomberi) che configurano un contesto istituzionale, in cui anche le alleanze fra gli attori anti-razzisti sono difficili e poco praticate (sia le coalizioni fra associazioni e movimenti solidaristici con i sindacati e le centrali cooperative, sia le alleanze più ampie con alcune categorie socio-professionali, quali operatori sociali, insegnanti, artisti, avvocati e non ultimo operatori della polizia locale e giornalisti).

Questa modalità di "strappare" il consenso delle persone attraverso boutade demagogiche attiene non esclusivamente alla storia delle politiche per i rom e i sinti, ma più in generale alla svolta liberista/neo-conservatrice nella politica sociale, particolarmente virulenta a Milano negli ultimi 15 anni. Anche solo osservando le politiche per le minoranze zigane, si può notare come in questo periodo il Comune di Milano ha smesso di investire in politiche sociali rivolte alle minoranze rom e sinta, ma non solo. Ha sospeso le politiche attive del lavoro per i gruppi zigani, dismesso i rapporti con le tre cooperative di lavoratori rom, ridotto gli spazi di promozione delle attività dei giostrai e dei circensi, chiuso i servizi di mediazione culturale nelle scuole e nei servizi socio-sanitari garantite dalle professioniste romnì auto-organizzate in cooperativa (19). Il quadro neo-liberista di gestione dei cosiddetti problemi sociali rifiuta la presa in carico delle persone e tende a sperimentare solo "prove di eliminazione", trattando i rom come "eccedente umano" (20). Ancor di più: lo sgombero e la segregazione spaziale dei rom, e con loro la lotta al cosiddetto "degrado", non sono solo la conseguenza di politiche locali neo-liberiste di riduzione dell'intervento sociale. L'inferiorizzazione dei rom, la loro relegazione spaziale, la loro stigmatizzazione come stranieri (a prescindere dalla loro cittadinanza) pericolosi da contrapporre agli immigrati laboriosi sono state perseguite a Milano come mezzi attraverso cui è stata governata la città e gestito il consenso (21).

5. Modalità incrementali di costruzione del consenso

Il determinismo dello schema eugenetico in 10 punti abbozzato sopra è pressoché asfissiante. Sebbene sia importante delinearlo, è improprio considerarlo come l'unico schema valido per coprire l'insieme di politiche locali nei confronti dei gruppi "zingari" in Italia. Il punto, ancor prima di essere politico e morale, è squisitamente conoscitivo.

Nel corso del 2008 abbiamo effettuato una ricognizione di altre politiche locali in Italia, e il quadro che ne è emerso ci ha permesso di scompaginare lo schema precedente e impedire una sola interpretazione, fornendo dei contro fattuali (22).

Lo schema così relativizzato mostra ancor più la sua pregnanza: tiene, ma non è necessario. Tiene, ma non coglie l'insieme dei casi empirici. Tiene, ma non è l'unico schema di politiche messe in atto. In altri termini, abbiamo usato i casi studio per rendere l'analisi più sensibile ad elementi contestuali (23).

I casi da noi studiati nel corso del 2008, qui solo citati (24), ispirano la propria azione politica a logiche diverse di costruzione del consenso. Non sono scelte di testimonianza, motivate da un'etica della convinzione, coerente con dei valori di giustizia sociale. Non si tratta di compiere scelte di rispetto e promozione dei diritti fondamentali dei gruppi più deboli a dispetto del proprio tornaconto politico, seguendo una coerenza che spinge ad una sorta di suicidio politico. Al contrario, si tratta innanzitutto di una modalità di costruzione del vantaggio politico, e perciò del consenso sul mercato elettorale, che attribuisce un primato alle conseguenze dell'azione pubblica, scommettendo sui ritorni dati dall'efficacia dell'azione implementata. E' la preoccupazione di costruire consenso alla fine del proprio mandato elettorale che spinge a pensare politiche diverse.

Ponendo sotto osservazione le logiche di costruzione di consenso di Comuni che negli anni più recenti hanno tentato e implementato delle politiche integrate per ostacolare l'esclusione dei rom e dei sinti scopriamo tracce di un'altra modalità. I casi più rilevanti nel nord Italia sono probabilmente quelli di Venezia e di Padova in Veneto, di Settimo Torinese in Piemonte, di Buccinasco, Bergamo e Mantova in Lombardia (25). Si tratta di un numero di casi sufficiente, di diversa grandezza, che permettono di riconoscere alcuni tratti comuni di un modello incrementale di costruzione del consenso intorno alle proprie azioni. Certamente ciascuno di questi Comuni ha dovuto affrontare delle contestazioni anche accese alle proprie linee di politica nei confronti dei gruppi tsigani, in particolare per quelle inerenti alla localizzazione di aree per interventi di welfare abitativo, molto meno per le politiche correlate di formazione, scolarizzazione e inserimento lavorativo.

Anche in questo caso, perciò, astraiamo i principali assunti in base a cui si tenta di costruire consenso su politiche integrate e negoziate con i rom e i sinti.

  1. Il primo assunto è che la costruzione di consenso sia un processo che deve iniziare prima di qualsiasi intervento effettivo, proseguire nel corso delle realizzazioni e continuare anche a intervento finito. L'orizzonte temporale della costruzione del consenso è più lungo di quello degli interventi pensati.
  2. Il secondo assunto attiene alle modalità incrementali di costruzione del consenso. Gli amministratori locali concertano agendo a cerchi concentrici, creando alleanze progressive prima con chi è coinvolgibile perché molto simpatetico con le proposte che si intendono implementare, poi spingendosi gradualmente a discutere e negoziare con gruppi di interesse via via più distanti dalle sensibilità e dalle attenzioni dei più vicini.
  3. Il terzo assunto è relativo al governo strategico della comunicazione. Gli enti locali qui analizzati danno molto rilievo ai piccoli successi ottenuti, a quanto realizzato in coerenza con gli obiettivi prefissati, non escludendo il ricorso a strumenti comunicativi articolati intorno alle traiettorie anche individuali delle persone rom o sinte coinvolte negli interventi. L'esigenza di ottenere successi nel breve periodo viene così ottemperata dando conto dei piccoli cambiamenti intervenuti, costruendo intenzionalmente l'idea di un percorso virtuoso attivato. In altri termini, si costruiscono forme di oggettività, prove di realtà (26) che mostrino (o, ancor meglio, dimostrino e diano prova) dell'evidenza della propria azione, informando sui criteri di effettività e di efficacia di questa stessa (27).
  4. Si prevede che il dissenso e i contrasti da parte dell'opposizione saranno duri e capaci di mobilitare molti cittadini. A questo scopo, si predispongono luoghi e dispositivi di ascolto in cui raccogliere i problemi degli abitanti, spesso non pertinenti con l'intervento rivolto ai gruppi zigani. Si tenta di discernere e dare risposte separate alle esigenze ordinarie dei cittadini e di tenere ben disgiunte questioni distinte. Gli eletti con responsabilità di governo cittadino si rendono molto presenti nei luoghi della protesta e ricercano proattivamente il confronto, per limitare le polemiche in termini di assenza e abbandono.
  5. Si tende a pluralizzare gli strumenti di azione pubblica a cui si ricorre, a ottenere nuovi finanziamenti espressamente dedicati a questi gruppi, spiegando con dovizia sul piano comunicativo che i fondi in questione sono aggiuntivi e non sottraggono risorse all'insieme della popolazione.
  6. Si lavora più sulla mediazione per favorire l'accesso dei rom e dei sinti ai servizi universalisti già presenti, non si attivano servizi specialisitici e dedicati e si negoziano forme sostenibili di partecipazione alla spesa da parte dei rom e dei sinti beneficiari. Si rafforza molto la comunicazione pubblica sui progressi in termini di riconoscimento parametrato sulla corresponsabilizzazione e sull'attivazione, ma anche sul risparmio rispetto ai costi precedenti di ordine pubblico.

Questi elementi non vanno considerati in alcun modo gli ingredienti di una formula magica capace di ottenere e riprodurre consenso politico su scelte di politica sociale e urbana in favore dei gruppi zigani. Sono indicazioni che ricaviamo induttivamente dal confronto con amministratori che tentano di costruire delle politiche integrate, di discuterle e negoziarle con i cittadini. Non sono, quindi, nemmeno una ricetta univoca, senza controindicazioni ed effetti perversi, né, tantomeno, delle indicazioni da seguire con semplice attenzione ai contesti. Il senso principale di averli elencati è quello di mostrare che anche in questo campo di azione pubblica è possibile ricavare, nella quotidianità politica spuria e sempre contraddittoria, la possibilità di realizzare delle azioni non demagogiche, mantenendo aperta una riflessione sulla costruzione di consenso sulle proprie scelte, per non cadere nel fatalismo di chi pensa "sarebbe giusto, ma certamente non sostenibile sul piano politico".

Questo non vuol dire cadere automaticamente in un idealistico volontarismo, come se i decisori politici a livello locale fossero in grado di fare tutto ciò che si prefiggono e le loro scelte fossero segnate solo dalla loro cultura politica, dalla loro coscienza etica e dal gioco di interessi a cui rispondono. I decisori non si confrontano solo con dei rapporti di forza in una interazione situata, ma sempre anche con dei vincoli pragmatici che inseriscono elementi di rigidità all'azione pubblica: norme giuridiche, tecniche e contabili, vincoli di bilancio, strumenti e dispositivi tecnici con i relativi automatismi. Quello che abbiamo messo in luce tiene conto del fatto che non tutto è sempre negoziabile, e implica esclusivamente il mettere in luce che nelle situazioni concrete esistono sempre spazi di azione e di manovra per i decisori politici e per gli altri attori pertinenti, ivi compresi i destinatari. Per questo nei prossimi due paragrafi analizzeremo il ruolo di mediazione che possono giocare le autorità locali (i Comuni, ma anche le Prefetture) e l'importanza del riconoscimento di titolarità politica e di capacità di rappresentanza ai gruppi zigani stessi.

6. La mediazione come modalità della politica locale

La sociologia politica dell'azione pubblica (28) ci ha reso avvertiti di come il disegno di una politica pubblica e anche la sua implementazione sia in relazione non lineare con le modalità con cui è stato precedente reso pubblico un problema, come è stato definito e messo in relazione con una soluzione attesa che richiede l'intervento regolativo e allocativo di un'autorità pubblica (29). Non vi è nulla di automatico in questo processo di costruzione di un problema pubblico e di iscrizione dello stesso fra le priorità dell'agenda istituzionale: Non sono le caratteristiche interne proprie all'oggetto problematico che spiegano la sua ricezione da parte di un decisore e l'avvio di una politica pubblica in proposito: non è la sua estensione sulla popolazione pertinente, non è la sua intensità né il grado di disfunzionalità che produce per la società politica locale (30). Ciò che fa la differenza nella competizione fra problemi per accedere alle priorità dell'agenda istituzionale è il «problem stream» (31): la modalità con cui si mobilitano e interagiscono fra loro gli attori interessati ad accreditare pubblicamente il problema; l'intensità drammatica che attribuiscono alla rappresentazione del problema; il modo in cui lo legittimano anche sul piano tecnico-scientifico e lo oggettivizzano attraverso prove di realtà; il tipo di alleanze, di testimonial e di autorità carismatiche che coinvolgono a sostegno; il grado di coerenza con i valori dominanti nelle dinamiche dell'opinione pubblica. Il flusso dato dal processo di pubblicizzazione di un problema si combina sempre con un «brodo primordiale» (ivi) di strumenti dell'azione pubblica già esistenti e che l'amministrazione tende a voler conservare e riproporre anche per nuovi problemi (policy stream) nonché ai cambiamenti nella struttura del potere locale (political stream).

Nei casi da noi osservati, effettivamente, una delle variabili che fa la differenza è proprio la qualificazione del problema: se nei casi di Roma e Milano esso è relativo ad aspetti di sicurezza e richiede risposte in termini di controllo e repressione, in molte città medie gli "imprenditori morali" tendono ad accreditare una definizione del problema in termini di mancato accesso dei gruppi zigani a dei beni e dei servizi collettivi a cui corrisponde una risposta in termini di accompagnamento e mediazione per accedere a risorse collettive

Non è banale segnalare queste differenze con enfasi. La politica fa la differenza. Fa la differenza la politica scelta non solo dai decisori politici (assessori e sindaco), ma anche dalle opposizioni e dai partiti politici, nel loro insieme e nel loro rapporto con le rappresentanze organizzate della società civile e con i media. Conta molto perciò la rappresentazione del problema che si afferma nelle dinamiche del discorso pubblico, nonostante non vi sia mai un rapporto automatico fra ciò che entra nell'agenda "sistemica" dell'opinione pubblica e l'agenda istituzionale di ciascun Ente locale, così come nulla garantisce che vi sia congruenza fra il modo con cui un problema è tematizzato e una soluzione rivendicata e le modalità in cui quest'ultima viene disegnata e decisa; e non è mai scontato che una scelta presa, con i relativi stanziamenti di bilancio, venga poi implementata e diventi effettiva. Ciascuno di questi passaggi è frutto di un conflitto politico, in cui nulla è scontato, l'interazione fra gli attori modifica le opportunità e i vincoli di un politica e del suo disegno. Tutto avviene sempre all'interno di dinamiche conflittuali, ad alta intensità simbolica. Chi realizza politiche attente ai diritti delle minoranze non lo fa perché "da lui la situazione è tranquilla", ma sempre e comunque all'interno di duri rapporti di forza, in cui gli attori si scontrano a partire dalla loro capacità di mobilitare risorse di consenso e di legittimare agli occhi dei cittadini gli strumenti invocati (sia quando li si rivendica, sia quando li si è già decisi e li si deve difendere dagli attacchi e dalle mobilitazioni contrarie).

La presenza di gruppi zigani apre dei conflitti: soprattutto nel caso dei gruppi di nuova immigrazione, ma non solo: anche a fronte di sinti da sempre esercenti dello spettacolo viaggiante, i giostrai dei Luna Park, il livello di ostilità sta crescendo in quasi tutta Italia. In ogni contesto locale gli attori politici approfittano di questi conflitti per cercare di ottenere consenso: molti giocano a esasperare il conflitto, e tentano di polarizzare le posizioni in campo.

La polarizzazione può essere definita come esito di fallimenti nella produzione di dispositivi capaci di stabilizzare compromessi fra le parti. O, detto altrimenti, la polarizzazione è l'esito di processi attivi di distruzione di dispostivi istituzionali capaci di stabilizzare i compromessi fra le parti.

L'analisi trasversale dei casi mostra come i conflitti sulla presenza di gruppi rom e sinti sfidino le capacità di mediazione istituzionale non solo sul terreno dell'efficacia, ma anche sul terreno della qualità dei processi attraverso cui le materie sociali vengono nominate in relazione a temi e problemi, a regole e a standard. Pur in situazioni tese, contraddittorie e assai "dure", i casi da noi analizzati mostrano sempre la presenza di aspetti negoziabili, appigli da cui i decisori locali sono partiti per implicare tutti le parti in conflitto in un processo politico comune. I casi di Modena, Mantova, Buccinasco e Padova mostrano, ad esempio, operazioni di localizzazione che non sono state effettuate di nascosto, ma garantendo una piena informazione preventiva, senza sottrarsi ma implicandosi nel conflitto. Informando e discutendo nei quartieri in cui si intendeva promuovere un insediamento per i rom o per i sinti. Dandosi tempi lunghi e ritmi serrati. A fare la differenza sono tre fattori: certamente la volontà politica e la compattezza della coalizione di governo sulle scelte effettuate. Tuttavia non conta solo la volontà politica giacché la qualità del tessuto amministrativo che la implementa è cruciale nel favorire la mediazione dei conflitti. Infine, lo stile comunicativo adottato è dirimente: si tratta di prendere sul serio anche le ragioni di chi protesta, di ascoltarle, di discuterle rispettandole per favorire un supplemento di elaborazione delle argomentazioni formulate e dei timori sottostanti.

E' sempre possibile che proprio le istituzioni impegnate a mediare i conflitti contribuiscano alla polarizzazione degli stessi, come è in parte avvenuto in una prima fase a Venezia, in cui tuttavia la maggioranza si è rivelata capace di rivedere le proprie modalità di azione, pur mantenendo fissi i suoi obiettivi e la sua capacità di procedere nella direzione prefissata.

In cosa consistono le mediazioni di cui abbiamo parlato finora? I casi in cui i Comuni sono stati in grado di perseguire delle politiche di promozione delle capacità dei gruppi zigani costruendo consenso sulle proprie scelte, ci permettono di distinguere differenti forme di mediazione dei conflitti. A questo proposito possiamo riferirci ad una tipologia tripartita formulata da Peter Berger (32), precisandola ai nostri scopi.

I casi di Bologna, Pisa, Venezia, Rovereto e Trento presentano alcuni tratti in comune nel modo di mediare i conflitti; modalità che potremmo qualificare come mediazione imperativa. Si tratta di una forma di arbitraggio in cui l'esito della mediazione è responsabilità del mediatore ed è vincolante sulle parti. L'ente locale, dopo avere raccolto informazioni e ascoltato le parti, valutati e "pesati" i compromessi, chiude la dinamica imponendo un esito legittimo a cui si devono attenere le parti. Il limite di questo tipo di mediazione è che nel breve periodo non necessariamente muta l'ordine normativo delle parti in contrasto, né crea consenso sulla scelta. E' la ragione per cui sembra poter creare le condizioni per l'inasprirsi delle tensioni. Anche per questa ragione, probabilmente, nessuno dei casi da noi analizzati si caratterizza esclusivamente in termini di mediazione imperativa.

Nei casi di Buccinasco, Padova e Rovereto si delinea un processo non coercitivo di mediazione in cui le parti cercano soluzioni di compromesso appoggiandosi sulla presenza di un terzo. Cruciali sono sia le organizzazioni del terzo settore che le amministrazioni pubbliche che mettono a disposizione ambiti e risorse (in primo luogo risorse procedurali) affinché le parti traducano valori in ragioni e soprattutto norme in interessi, accettando un comune riferimento normativo (non ultime le regole per dirimere il conflitto, su cui tanto insisteva Simmel). In questo senso, la possibilità di traduzione di interessi particolari in un interesse collettivo si sostiene sulla base di regole condivise e riconosciute: per questo possiamo parlare di mediazione pragmatica.

Altri casi, infine, pur nel ricorso a più modalità di mediazione, permettono di riconoscere abbastanza precisamente i tratti di un terzo tipo ideale. Pensiamo ai casi di Settimo Torinese, Mantova, Modena e per molti tratti anche di Pisa e di Buccinasco: in questi casi si riscontrano delle fasi in cui l'amministrazione ha tentato massimamente di coinvolgere le parti per ottenere l'ascolto reciproco, una buona comprensione dei rispettivi punti di vista, con l'obiettivo di promuovere un cambiamento profondo e realizzare una certa convergenza. In questo terzo caso possiamo parlare di mediazione espressiva (o dialogica): non si tratta di oggettivare il contrasto e tentare, di conseguenza, di giungere all'accettazione di norme comuni. L'obiettivo è più ambizioso e valorizza le capacità espressive di ciascuna delle parti. Sembra di capire che questo tipo di mediazione è possibile quando si dà un intervento di ampia portata da parte delle istituzioni, che mettono in campo una strategia di politiche integrate, non specialistiche per i soli rom. Le politiche diventano fattore di mediazione espressiva laddove sono capaci di coinvolgere le parti nella produzione di nuovi simboli comuni, mettendo in discussione la stessa memoria collettiva, riscoprendo la iscrizione dei gruppi zigani nella storia locale e mostrando complementarietà possibili e segni di appartenenza comuni. Un tipico esempio di questo tipo di mediazione è fornito dalle situazioni in cui il luogo deputato per un insediamento abitativo di un gruppo zigano non viene occultato per evitare proteste, ma viene dichiarato pubblicamente, prevedendo luoghi in cui discutere delle problematiche e delle ostilità sollevate dagli abitanti, costruendo momenti di confronto e incontro. Come mostrano i casi di Settimo Torinese e di Buccinasco la partecipazione degli abitanti può essere mediata espressivamente discutendo del progetto insediativo, e a partire da questo, più in generale dei problemi del quartiere, con tutte le parti in conflitto (33).

7. Coinvolgimento dei destinatari in contesti ad alta intensità conflittuale

Le politiche locali che abbiamo osservato, si caratterizzano con una certa precisione per implementarsi in contesti ad alta intensità di protesta e conflitto, ma anche perché in questi contesti scommettono sul coinvolgimento dei destinatari a cui si rivolgono. Lo stampo principale degli interventi nei confronti dei gruppi zigani era ben differente. Categorizzati in termini di "pericolosità sociale" e di "asocialità" (34), nel corso del '900 rom e sinti sono stati trattati tendenzialmente attraverso strumenti che nulla hanno concesso alla interlocuzione diretta con loro. Anche nel migliore dei casi, essendo considerati un mondo "strano", "esotico", "premoderno", non erano considerati affidabili al punto da discutere con loro delle misure che li riguardavano.

In questa storia amministrativa di sistematico disconoscimento, l'associazionismo a favore dei gruppi "zingari" ha giocato negli ultimi 40 anni un ruolo ambivalente. Se da un lato ha cercato di promuovere interventi e servizi a difesa di alcuni diritti fondamentali, e in primis quello all'istruzione e all'accesso all'acqua, dall'altro ha in buona misura sottostimato l'importanza della partecipazione attiva dei rom e dei sinti, nonché il sostegno a forme di rappresentanza legittima. Ci sono state ovviamente delle eccezioni, che hanno responsabilizzato alcuni leader dei gruppi e li hanno attrezzati per una presenza attiva nella sfera politica, ma nel complesso l'approccio è stato in buona misura emergenziale e sostitutivo, con anche alcuni eccessi in termini di assistenzialismo.

I casi da noi studiati mettono in luce, al contrario, l'importanza cruciale della partecipazione e della rappresentanza dei rom e dei sinti. I casi raccontano più in generale l'importanza della partecipazione di tutti i diretti interessati, non solo dei beneficiari degli interventi (gli "zingari"), ma anche i cittadini che sono con loro in relazione, anche solo per ragioni di prossimità spaziale. Ci concentreremo in questo paragrafo soprattutto sul nodo del coinvolgimento dei rom e dei sinti ma, come abbiamo visto sopra, solo una mediazione capace di dare voce a tutte le posizioni in campo sembra avere alte probabilità di successo.

Ciò che emerge da un'analisi comparativa non è tanto una riflessione sul piano dei diritti o della teoria democratica, ma semmai sul piano dell'efficacia e del successo delle politiche implementate. I casi di innovazione da noi analizzati raccontano di politiche costruite assieme ai rom e ai sinti, anche se con gradi differenti (35). In effetti, la partecipazione dei destinatari non sembra essere un di più, o un riferimento ideale, ma un requisito appropriato e necessario, una condicio sine qua non. A questo proposito, tre ordini di ragionamento possono essere sviluppati a partire da una lettura trasversale dei casi.

In primo luogo, molti degli interventi non si pongono tanto in termini di lotta esclusione sociale, cioè di promozione dell'inclusione di soggetti "cascati fuori" da una società già coesa: concepiscono la società locale nel suo insieme come frammentata, costituita da tanti segmenti separati in cui l'obiettivo delle politiche è promuovere la convivenza fra le parti e innalzare il grado di mixité sociale fra i gruppi con un approccio fortemente territoriale (36).

In questo quadro non si tratta di adattare degli esclusi alle norme di una società ben regolata, ma di promuovere il riconoscimento reciproco. Questo ci dicono i casi di forme di mediazione espressiva in cui si creano dei dispositivi di dialogo e confronto fra i cittadini, compresi i cittadini rom e sinti (a Padova e Pisa, ad esempio). Vanno in questa direzione anche i casi in cui a misure a sostegno dell'abitare e del lavorare si affiancano progetti di promozione culturale che favoriscono l'espressione artistica e culturale di rom e sinti e la loro visibilità nei territori di cui sono parte (a Mantova, ad esempio, non a caso attraverso il sostegno all'Istituto di cultura sinta). Il passaggio da una ottica riparativa a un approccio di promozione della coesione sociale mette in luce la centralità della partecipazione sociale e culturale dei rom e dei sinti, così come di ogni altro gruppo sociale.

In secondo luogo, i casi di intervento sociale da noi studiati (37) raccontano di una logica dell'innovazione nel campo delle politiche sociali tutta basata non solo sulla fornitura di beni e servizi a compensare un deficit ed una mancanza (un vuoto da riempire), ma sul sostegno alle capacità individuali e collettive (un pieno da sostenere e mettere in valore). I destinatari delle politiche non vengono infantilizzati ma riconosciuti come individui competenti e, in quanto tali, interlocutori autorevoli con cui discutere finalità e mezzi degli strumenti da attuare e valutare (38). Questa logica si intravede anche nelle forme di co-progettazione diffuse nelle politiche dell'abitare analizzate nella quarta parte del volume.

I casi ci mostrano molti gruppi rom e sinti che cercano di passare da situazioni in cui sono assistiti e forzati ad abitare in comunità troppo numerose ad abitazioni da acquistare e di cui possedere i diritti di proprietà. Le società zigane, come tutte le società, sono assai stratificate e non possono essere ridotte a comunità di poveri bisognosi. Se certamente l'indigenza caratterizza in maniera marcata molti dei nuclei familiari, questa condizione non è generalizzabile all'insieme dei gruppi e delle famiglie. Inoltre, anche nel caso di individui in condizioni di povertà, politiche integrate permettono di fare dei passi nella direzione di un'autonomia possibile, con gradi sempre maggiori di indipendenza economica.

Il sostegno alle capacità delle persone porta in sé certamente l'esigenza di fornire dotazioni (beni e servizi) perché ciascuno possa esercitare la propria libertà e perseguire un proprio progetto di vita (39), ma il fuoco è sull'azione (abitare, studiare, lavorare) non sui beni forniti (casa, scuola, posto). Nello scarto fra capacità e dotazioni passa la varietà di strumenti dell'azione pubblica, con tutti i gradi di libertà che questa varietà permette di ottenere (40). Ad esempio, sostenere la capacità di abitare richiede sicuramente delle dotazioni, ma non un unico tipo di abitazione, la casa popolare o l'area sosta: diverse dotazioni sono possibili, e solo il coinvolgimento dei destinatari è garanzia che la dotazione prescelta vada a sostegno delle capacità e non, al contrario, a invalidarle e atrofizzarle, con spreco di risorse pubbliche e effetti perversi sui beneficiari nonché sui loro vicini.

In altri termini, il nesso fra capacità di agire e libertà di scelta riconoscibile nelle innovazioni qui comparate mostra la necessità di garantire luoghi in cui rom e sinti possano prendere parola e rappresentarsi. La possibilità di uno spazio di critica sulle misure che li riguardano è garanzia del successo di una politica e di coerenza fra gli obiettivi prefissati e i processi che si dispiegano quotidianamente. Il coinvolgimento nella definizione progettuale risulta anche premessa per forme di responsabilità duratura, anche nella compartecipazione alla spesa.

In terzo luogo, i processi di coinvolgimento nei casi che abbiamo comparato avvengono sempre su un doppio binario: da un lato implicano ciascun individuo, dall'altro si rivolgono a gruppi e, di conseguenza, favoriscono la formazione e la selezione di rappresentanti. Le tensioni fra partecipazione e rappresentanza che ne emergono sono classiche, e ben note in letteratura (41). Pur non essendo scevre da effetti paradossali, sono comunque il segno di una normalità politica importante, che include i rom nelle dinamiche abituali della vita politica locale. Il che non è certo cosa da poco. Qui ci interessa, però, sottolineare un effetto virtuoso dei nessi fra partecipazione e rappresentanza nel coinvolgimento dei rom e dei sinti nella scelte che li riguardano: un effetto byproduct sulla autorità delle amministrazioni locali.

Consideriamo i casi che hanno puntato al superamento del "campo nomadi", dopo anni di inerzia. Nelle situazioni più degradate, in cui si cumulano marginalità e devianza, la tentazione per le amministrazioni comunali è quella di intraprendere la sola strada repressiva-penale o, al più, l'imposizione autoritativa di misure differenti costruite e imposte dall'alto. I progetti da noi studiati ci dicono che sicuramente l'autorità pubblica è un requisito importante, come nel caso di Bologna, in cui l'amministrazione si è prefissata degli obiettivi e un cronogramma preciso e vincolante per la chiusura dei campi e la promozione di formule abitative alternative. Per autorità è da intendersi la forza di un potere legittimo di perseguire un disegno di politica e di formulare proposte credibili e realizzabili. L'autorità dei poteri locali esce rafforzata da processi di coinvolgimento dei cittadini a cui si indirizza.

Lo stesso caso di Bologna lo conferma: a fronte di una scelta di politica indiscutibile, la chiusura dei campi in tempi certi, l'interlocuzione sulle alternative e sulle scelte concrete è stata continua: più precisamente è stata resa ordinaria e quotidiana nello stile di lavoro dei funzionari e degli operatori di accompagnamento. Non solo sulla scelta della casa, ma anche sulla co-progettazione di itinerari professionali e dei luoghi di socialità. I progetti di Settimo Torinese, Mantova, Modena e Padova sono ancora più spinti in questa direzione. L'autorità locale risulta rinforzata e non indebolita nell'interlocuzione continua con i destinatari dei suoi interventi (42).

8. Conclusioni: varietà di strumenti e innovazione sociale

I casi che abbiamo analizzato mostrano così tante differenze rispetto al modello milanese e romano di politiche locali per gli "zingari" da spingerci ad aprire una riflessione sul cambiamento in atto in queste politiche. Non possiamo certamente dire che in Italia vi sia un'unica tendenza di cambiamento nelle politiche rivolte ai gruppi rom e sinti. Possiamo, nondimeno, mostrare il carattere principale che accumuna le innovazioni intraprese nelle città da noi analizzate.

Il modello base di politiche per i rom e i sinti, così come si è consolidato e diffuso in Italia nella prima metà degli anni '80, è costituito dalla esiguità degli strumenti utilizzati a livello locale, sostanzialmente limitati al "campo nomadi" e allo "sgombero". Diversamente, le innovazioni da noi osservate emergono tutte da una moltiplicazione degli strumenti a disposizione del governo locale. In altri termini, il carattere principale che accomuna queste innovazioni è la varietà di strumenti dell'azione pubblica progettati e mobilitati.

Uno strumento dell'azione pubblica costituisce un dispositivo al tempo stesso tecnico e sociale che organizza degli specifici rapporti fra i poteri pubblici e i loro destinatari in funzione delle rappresentazioni e dei significati che porta in sé (43). Gli strumenti permettono di stabilizzare delle forme di azione collettiva e di rendere più prevedibili, e più visibili, i comportamenti degli attori. Il cambiamento del paniere di strumenti messi in opera ha implicazioni molto forti innanzitutto sugli attori implicati, giacché sappiamo che gli attori sociali e politici hanno delle capacità molto differenti a seconda degli strumenti selezionati (44).

La varietà da noi riscontrata empiricamente è molto ampia. Dal "campo nomadi" si passa a offrire una gamma altamente differenziata di possibilità abitative-insediative: abitazioni ordinarie, di produzione pubblica; abitazioni ordinarie, di produzione privata (con strumenti di sostegno per accesso al mutuo e sostegno al capitale reputazionale delle famiglie); autocostruzioni accompagnate e sostenute dal movimento cooperativo; aree attrezzate in funzione residenziale (di proprietà o in affitto) per gruppi familiari estesi (non superiori in media alle 40 persone); interventi a bassa soglia per l'emergenza abitativa, non specialistici, ovverosia non rivolti unicamente agli "zingari"; aree di sosta per i gruppi che hanno uno stile di vita itinerante; upgrading delle baraccopoli. Come ha segnalato Antonio Tosi (45), "la pluralità delle formule serve a realizzare, in modi diversi, criteri di appropriatezza, a misura della diversità delle situazioni, delle esigenze, dei progetti di vita degli interessati".

La pluralità di strumenti non si limita al sostegno delle capacità di abitare: a partire dalla moltiplicazione di strumenti messi in atto per superare il "campo nomadi", le amministrazioni hanno scoperto la centralità della mediazione: nelle forme diverse che abbiamo ricostruito nel paragrafo precedente, tutte le amministrazioni studiate hanno predisposto degli strumenti di mediazione. In molti casi, poi, i poteri locali hanno iscritto gli interventi con i rom e i sinti in un orizzonte di integrazione fra le politiche, costruendo una pluralità di strumenti per facilitare l'accesso ai servizi sociali, di formazione professionale, scolastici, sanitari e di inserimento lavorativo.

Quattro sono i tratti significativi di innovazione politica apportati dalle strategie di pluralizzazione degli strumenti di politica locale nei confronti dei gruppi zigani.

In primo luogo, la varietà di strumenti ha un valore in sé, e mostra la sua efficacia innanzitutto nel contrastare la reificazione di questa galassia di minoranze in un'unica categoria amministrativa assegnata a un solo strumento di politica abitativa (il campo nomadi).

In secondo luogo, la varietà di strumenti si accompagna a una riduzione del trattamento differenziale e della formulazione di politiche specialistiche, rivolte cioè solo ai "nomadi". La varietà di strumenti implica mettere a disposizione strumenti ordinari di politica pubblica anche alle persone appartenenti ai gruppi zigani: non il servizio sanitario per gli "zingari", ma misure di accesso anche per loro al servizio sanitario nazionale.

In terzo luogo, la varietà di strumenti pone ai poteri locali problemi di coordinamento fra i diversi settori dell'amministrazione implicati a diverso livello, e fra questi e gli attori della società civile coinvolti. Certamente l'analisi comparativa mette chiaramente in luce un deficit di integrazione: diffusi problemi di compartimentazione fra settori, attori e agenzie si riscontrano effettivamente in tutti i casi. Pur tuttavia, modo ricorrente con cui il problema viene sollevato può essere interpretato come l'indicatore di una certa problematizzazione che il modello centrato su "campo nomadi & sgomberi" non permetteva nemmeno di tematizzare.

Infine, la varietà di strumenti favorisce i percorsi di individualizzazione e riconoscimento delle specificità di ciascuno dei destinatari. Questo processo di personalizzazione, pur non essendo avulso da elementi di ambivalenza a seconda delle modalità in cui si realizza (46), iscrive comunque anche gli interventi nei confronti di questi gruppi nella più complessiva spinta all'attivazione che caratterizza oggi le politiche sociali (47). Conseguente a un processo di personalizzazione e attivazione, vi è anche un passaggio da politiche "per" a politiche "con": la varietà favorisce le spinte al coinvolgimento dei destinatari nella programmazione degli interventi stessi, gli stessi rom e sinti, riconosciuti come soggetti politici capaci di rappresentanza.

In altri termini, la pluralizzazione degli strumenti messi in campo rappresenta un motore di cambiamento molto forte per le politiche pubbliche locali, e al contempo è una leva istituzionale per modificare i rapporti di forza fra le parti in conflitto: ha un impatto in termini di polity (in senso inclusivo), di policy ma anche di politics. In contesti ad alta intensità conflittuale, attori politici con responsabilità di governo locale, investono sulla varietà di strumenti per acquisire potenza, per "reggere" dentro a rapporti instabili. Non sono legati a un'etica della testimonianza, semplicemente fanno politica.


Note

*. Ricercatore in Sociologia presso l'Università degli studi di Milano Bicocca.

1. Cfr. P. Arrigoni, T. Vitale, "Quale legalità ? Rom e gagi a confronto", Aggiornamenti sociali, 59 (2008), 3, pp. 123-45.

2. Cfr. T. Vitale, E. Claps, P. Arrigoni, "Regards croisés. Antitsiganisme et possibilité du vivre ensemble. Roms et gadjés, en Italie", Etudes Tsiganes, 35 (2009), pp. 80-103.

3. M. Maneri, "Il panico morale come dispositivo di trasformazione dell'insicurezza", Rassegna Italiana di Sociologia, 42 (2001), 1, pp. 5-40.

4. Cfr. T. Vitale, "Governare mediante gli sgomberi e la segregazione dei gruppi zigani", in S. Palidda (a cura di), Razzismo democratico. La persecuzione degli stranieri in Europa, Milano, Agenzia X, 2009.

5. T. Vitale, "Politiche locali per i rom e i sinti, fra dinamiche di consenso e effettività eugenetica", in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicchi, A. Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, Macerata-Roma, Quodlibet, 2008.

6. R. Biorcio, T. Vitale, "Culture, Value and Social Basis of Northern Italian Centrifugal Regionalism", in M. Huysseune (a cura di), Contemporary Centrifugal Regionalism: Comparing Flanders and Northern Italy, Bruxelles, The Royal Flemish Academy of Belgium for Science and the Arts Press, 2010.

7. Per certificazione intendiamo un meccanismo attraverso cui un'autorità esterna segnala la propria disponibilità a riconoscere, legittimare e appoggiare l'esistenza e le rivendicazioni di un attore politico; cfr. S. Tarrow, C. Tilly, Contentious Politics, Boulder, Paradigm, 2007, p. 44.

8. Decreto legge 23 maggio 2008, n. 92 (convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125) "Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica".

9. A. Simoni, "I decreti emergenza nomadi: il nuovo volto di un vecchio problema", Diritto immigrazione e cittadinanza, 10 (2008), 3-4, pp. 44-56.

10. Cfr. N. Sigona, "Locating the 'Gypsy problem'. The Roma in Italy: Stereotyping, Labelling and Nomad Camps", Journal of Ethnic and Migration Studies, (2005), 4, pp. 741-56.

11. A. Pizzorno, Il velo della diversità. Studi su razionalità e riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 275-95.

12. B. Jobert, "La régulation politique: l'émergence d'un nouveau régime de connaissance?", in J. Commaille, B. Jobert (a cura di), Les métamorphoses de la régulation politique, Paris, LGDJ, 1998, p. 25.

13. Cfr. P. Le Galès, European Cities. Social conflicts and governance, Oxford, Oxford University Press, 2002 (trad. it. Le città europee. Società urbane, globalizzazione, governo locale, Bologna, il Mulino, 2006).

14. Questa politica consiste nello sgomberare un terreno in cui vi è un insediamento abusivo, sapendo che poi da lì a poco quello spazio sarà ri-occupato per un nuovo insediamento da sgomberare successivamente. Le politiche di sgombero delle baraccopoli e degli insediamenti abusivi vengono giustificate abitualmente nell'interesse degli sgomberati, anche quando si lasciano in mezzo alla strada persone particolarmente vulnerabili (donne incinte, bambini, anziani, malati, etc.).

15. T. Vitale, "Comuni (in)differenti: i 'nomadi' come 'problema pubblico' nelle città italiane", in R. Cherchi, G. Loy (a cura di), Rom e sinti. Storia e cronaca di ordinaria discriminazione, Roma, Ediesse, 2009.

16. T. Vitale, "Politique des évictions. Une approche pragmatique", in F. Cantelli, L. Pattaroni, M. Roca, J. Stavo-Debauge (a cura di), Sensibilités  pragmatiques. Enquêtes sur l'action publique, Bruxelles, P.I.E. Peter Lang, 2009.

17. M. Prasad, The Politics of Free Markets, Chicago, The University of Chicago Press, 2006, p. 36.

18. L. Boltanski, P. Bourdieu, La production de l'idéologie dominante, Paris, Demopolis, 2008.

19. Circa la metà di loro sono state riassunte nel 2008 da alcune delle organizzazioni di terzo settore che gestiscono i presidi sociali nei "campi nomadi" autorizzati dal Comune, con uno stipendio di poco superiore alla metà di quello che percepivano prima del 2007.

20. Per una tematizzazione del passaggio a una logica liberista nel governo delle città e alle relative spinte all'eliminazione dell'eccedente umano, cfr. S. Palidda, Mobilità umane. Introduzione alla sociologia delle migrazioni, Milano, Cortina, 2008, pp. 65-106.

21. L'enfasi sulla preposizione 'attraverso' rimanda al modo in cui gli sgomberi e i processi di persecuzione dei rom sono usati attivamente come strumenti mediante i quali si governa, sulla falsa riga di come si parla di governo attraverso la criminalizzazione; cfr. J. Simon, Governing through Crime: How the War on Crime Transformed American Democracy and Created a Culture of Fear, Oxford, Oxford University Press, 2007.

22. T. Vitale (a cura di), Politiche possibili. Abitare le città con i rom e i sinti, Roma, Carocci, 2009.

23. T. Vitale, L. Caruso, "Ragionare per casi: dinamiche di innovazione nelle politiche locali con i rom e i sinti", in T. Vitale (a cura di), Politiche possibili. Abitare le città con i rom e i sinti, cit.

24. E approfonditi nel dettaglio in T. Vitale (a cura di), Politiche possibili. Abitare le città con i rom e i sinti, cit.

25. Altri casi interessanti possono essere rintracciati in letteratura con particolare riferimento ad alcuni Comuni in Toscana (Cfr. Fondazione Michelucci, Osservatorio sugli insediamenti rom e sinti in Toscana, Fiesole, Fondazione Giovanni Michelucci, 2004) e in Piemonte (Cfr. S. Francese, M. Spadaro, Rom e sinti in Piemonte, Torino, Ires, 2005).

26. L. Boltanski, L. Thévenot, De la justification: les économies de la grandeur, Paris, Gallimard, 1991.

27. In questo senso la legittimità ricercata è quella tipica degli strumenti informativi e comunicativi, basata, cioè, sull'esplicitazione delle decisioni e la responsabilizzazione degli attori (Cfr. P. Lascoumes, P. Le Galès, Sociologie de l'action publique, Paris, Armand Colin, 2007, p. 107). Vale la pena, però, di aggiungere che in altre ricerche, con riferimento ad altri campi di azione pubblica, abbiamo notato che le amministrazioni più attente all'innovazione sociale, quando si rendono conto riflessivamente che i criteri di efficacia e effettività coerenti con le proprie logiche di azione non riescono a trovare strumenti comunicativi adeguati, producono allora iniziative ad hoc che riducono la complessità della politica disegnata e rendono discreti (non più basati su un continuum) i propri criteri di effettività ed efficacia; per una riflessione più dettagliata cfr. T. Vitale, "Comuni (in)differenti: i 'nomadi' come 'problema pubblico' nelle città italiane", cit.

28. Cfr. P. Lascoumes, P. Le Galès, Sociologie de l'action publique, cit.

29. W. Felstiner, R. Abel, A. Sarat, "The Emergence and Transformation of Disputes: Naming, Blaming, Claiming", Law and Society Review, 15 (1980), 3-4, pp. 631-54.

30. J. Gusfield, The Culture of Public Problems: Drinking-Driving and the Symbolic Order, Chicago, Chicago University Press, 1981. D. Cefaï, Pourquoi se mobilise-t-on? Les théories de l'action collective, Paris, La découverte, 2007.

31. J. Kingdon, Agendas, Alternatives, and Public Policies, Boston, Little Brown, 1984.

32. P. Berger (a cura di), The Limits of Social Cohesion, Boulder-Oxford, Westview Press, 1998.

33. A questo proposito, si vedano anche le ricerche effettuate a proposito sul caso inglese (Cfr. J. Richardson, "Dove abitano i rom e i travellers in Inghilterra?", in G. Bezzecchi, M. Pagani, T. Vitale (a cura di), I rom e l'azione pubblica, Milano, Teti, 2008) e su quello francese (Cfr. M. Bidet, L'étude des aires de grand passage: paradoxes d'une dynamique d'accueil, Paris, Institut National des Hautes Etudes de Sécurité (INHES), 2008).

34. L. Bravi, N. Sigona, "Educazione e rieducazione nei campi per 'nomadi': una storia", Studi Emigrazione, 43 (2006), 164, pp. 857-74.

35. T. Vitale (a cura di), Politiche possibili. Abitare le città con i rom e i sinti, cit.

36. M. Oberti, "Dalle disuguaglianze alle discriminazioni: l'impatto della segregazione", Partecipazione e conflitto. Rivista di studi politici e sociali, 1 (2009), 1, pp. 147-66.

37. T. Vitale (a cura di), Politiche possibili. Abitare le città con i rom e i sinti, cit.

38. O. de Leonardis, "Social Capital and Health: Research Findings and Questions on a Modern Public Health Perspective", The European Journal of Social Quality, 6 (2006), 2, pp. 19-51.

39. A. Sen, Inequality Reexaminated, London, Clarendon Press, 1992.

40. J.-M. Bonvin, "Capacités et démocratie", in J. De Munck, B. Zimmermann (a cura di), La liberté au prisme des capacités. Amartya Sen au-delà du libéralisme, Paris, Editions de l'EHESS, 2008.

41. T. Vitale, "Le tensioni tra partecipazione e rappresentanza ed i dilemmi dell'azione collettiva nelle mobilitazioni locali", in Id. (a cura di), In nome di chi? Partecipazione e rappresentanza nelle mobilitazioni locali, Milano, Franco Angeli, 2007.

42. Il caso di Bologna è comunque ambivalente, perché a fianco di una politica di accesso alla casa è stata condotta anche una politica di chiusura e repressione dei nuovi arrivi. Per un approfondimento cfr. D. Però, Inclusionary Rhetoric, Exclusionary Practices: Left-Wing Politics and Migrants in Italy, London, Berghahn Books, 2007.

43. P. Lascoumes, P. Le Galès, "L'action publique saisie par ses instruments", in P. Lascoumes, P. Le Galès, (a cura di), Gouverner par les instruments, Paris, Presses de Sciences-Po, 2004 (trad. it. a cura di T. Vitale, "Introduzione. L'azione pubblica attraverso i suoi strumenti", in P. Lascoumes, P. Le Galès (a cura di), Gli strumenti per governare, Milano, Bruno Mondadori, 2009).

44. P. Lascoumes, P. Le Galès, Sociologie de l'action publique, cit., p. 105.

45. A. Tosi, "Lo spazio dell'esclusione: la difficile ricerca di alternative al campo nomadi", in G. Bezzecchi, M. Pagani, T. Vitale (a cura di), I rom e l'azione pubblica, cit.

46. T. Vitale, "Contrattualizzazione sociale", La Rivista delle Politiche Sociali, (2005), 1, pp. 291-323.

47. V. Borghi, R. Van Berkel, "Individualised Service Provision in an Era of Activation and New Governance", International journal of Sociology and Social Policy, (2007), 9-10, pp. 413-24.