2006

Discriminazione strutturale e Color Blindness nei sistemi penitenziari degli Stati Uniti e d'Europa

Lucia Re

Per approfondire lo studio della nozione di "razza" come "strumento diagnostico" (1), si tenterà qui di affiancare la riflessione sul principio di Color Blindness, così com'è stato tematizzato dalla Critical Race Theory (2), alla nozione di "discriminazione strutturale", riconducibile al pensiero del sociologo francese Pierre Bourdieu. Si cercherà quindi di utilizzare queste due nozioni (Color Blindness e discriminazione strutturale) per interpretare una realtà sociale specifica: quella del sistema penitenziario, facendo riferimento sia al sistema penitenziario statunitense che a quelli europei.

1. La nozione di Color Blindness

Neil Gotanda ha analizzato il principio della Color Blindness, della "cecità rispetto al colore", con riferimento alla storia costituzionale statunitense. Questo principio fu affermato nella sentenza Plessy v. Ferguson del 1896, nella quale la Corte Suprema sostenne la conformità al dettato costituzionale del sistema di segregazione razziale in vigore negli Stati del Sud, in base al principio che i bianchi e i neri erano uguali ma separati. Il principio della Color Blindness fu tuttavia confermato anche nella sentenza Brown v. Board of Education II del 1955, benché l'anno precedente la sentenza Brown v. Board of Education I avesse sancito l'incostituzionalità della segregazione razziale. Per la Corte la sentenza del 1896 non aveva tenuto conto del carattere razzista della segregazione, che era fondata sulla credenza nell'inferiorità dei neri, ma il principio della Color Blindness doveva essere mantenuto.

Il principio della Color Blindness è dunque compatibile con la fine del regime di separazione razziale. Esso stabilisce che le istituzioni sono indifferenti al colore della pelle e all'origine etnica dei cittadini. Sulla base della Color Blindness, l'appartenenza razziale è un dato irrilevante per il sistema giuridico e giudiziario. Il principio di Color Blindness è un principio di uguaglianza formale, perfettamente aderente allo spirito liberale che anima la Costituzione degli Stati Uniti. Oltre che nella giurisprudenza della Corte suprema, esso è rinvenibile negli emendamenti XIII, XIV e XV della Costituzione.

Nonostante le peculiarità che caratterizzano il sistema giuridico e il sistema politico degli Stati Uniti, il principio di Color Blindness non pare riferibile soltanto al modus operandi delle istituzioni nord-americane. Questo principio si ritrova anche nelle direttive europee sulla discriminazione razziale e nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, il cui articolo 21 vieta la discriminazione fondata, oltre che sul sesso, la religione ecc., anche sulla razza e la nazionalità. Molte politiche europee di contrasto alla discriminazione sembrano impostate alla luce del principio dell'irrilevanza dell'appartenenza razziale (3).

Gotanda sostiene invece l'importanza di tenere conto della "razza" anche per valutare le situazioni individuali, poiché, stante la storica disuguaglianza fra bianchi e neri, adottare il principio della Color Blindness significa ignorare la storia della discriminazione e quindi il dominio bianco. La riflessione di Gotanda si muove all'interno dell'esperienza statunitense, tuttavia anche in Europa si possono rilevare forme di discriminazione storiche che hanno condotto alcune minoranze a rimanere per secoli in condizioni di inferiorità sociale e culturale (si pensi ad esempio ai Rom e alle persone residenti in Europa che provengono dalle ex-colonie dei paesi europei).

Gotanda contesta l'utilizzo della nozione di razza in senso formale e promuove l'utilizzo della nozione di "razza in senso storico" - che consente di rimediare alla discriminazione - e della nozione di "razza in senso culturale". La "razza in senso culturale" richiama l'idea che la differenza razziale è un elemento positivo perché contribuisce alla promozione della diversità e alla formazione di una società pluralista. Secondo questa prospettiva, dunque, la razza porta con sé una ricchezza culturale.

Questa idea comporta l'abbandono della concezione secondo la quale la razza è legata alla discendenza o ai tratti somatici di un individuo. La razza è invece una cultura e come tale può essere scelta dall'individuo che si sente di appartenere a un determinato universo culturale. La riflessione di Gotanda si collega evidentemente al tema della blackness e alla rivendicazione dell'identità nera. Ancora una volta il riferimento è alla storia degli Stati Uniti e ai movimenti che lì si sono sviluppati nel corso del Novecento. Anche a questo proposito, tuttavia, si può sostenere che la rivendicazione di una specifica appartenenza culturale o "etnica" da parte dei gruppi minoritari è presente da decenni anche in Europa e si è andata rafforzando nel corso degli ultimi anni.

L'altra concezione che è demolita dalla nozione di "razza come cultura" è quella dell'esistenza di "razze pure": se la "razza" è "cultura", poiché le culture non sono gabbie nelle quali gli individui sono rinchiusi una volta per sempre, ma si contaminano e sono continuamente in divenire, il pluralismo delle "razze-culture" non può che condurre a un diffuso "meticciato".

Questa idea, che a un primo esame può apparire astratta o artificiosa, nasce invece dall'osservazione delle dinamiche in atto in molte società contemporanee, da quella statunitense, a quelle europee, a quelle dell'America del Sud. In Brasile, ad esempio, in alcuni Stati come il Paraíba, sono state emanate legislazioni che intendono favorire l'iscrizione dei neri nelle università e che si basano sull'opzione individuale per l'appartenenza alla "razza nera".

2. La discriminazione strutturale

La nozione di "discriminazione strutturale" è di solito impiegata in contrapposizione alla nozione di "discriminazione volontaria". La discriminazione volontaria è quella che viene intenzionalmente operata da alcuni soggetti nei confronti di altri, o da disposizioni legislative volte a ottenere effetti discriminatori. La discriminazione strutturale invece prescinde dalla volontà del legislatore di discriminare e deriva dal sistema sociale e dalle condizioni sociali che caratterizzano i gruppi minoritari.

Per un'individuazione più chiara della nozione è utile riferirsi alla riflessione di Pierre Bourdieu, il quale in una serie di opere, da Les héritiers (1964) a La réproduction (scritta con Jean Claude Passeron nel 1970) e La distinction (1979), fino alla più recente La misère du monde (1993), ha teorizzato la centralità dei concetti di capitale economico, di capitale sociale e di capitale culturale per l'analisi dei gruppi sociali e dei comportamenti individuali. Connesso a queste nozioni è il concetto di "habitus" che Bourdieu pone alla base del proprio metodo sociologico. L'habitus è la "storia incorporata", ossia il risultato delle condizioni sociali che caratterizzano un soggetto influenzandone il comportamento sociale e la percezione che egli ha di sé. Attraverso l'habitus la dominazione viene incorporata: il soggetto aderisce cioè a un insieme di codici sociali che egli sente come suoi ma che non fanno altro che perpetuarne la condizione di dominato. La visione di Bourdieu non è tuttavia deterministica: il soggetto mette in campo delle strategie che possono anche condurlo a rifiutare la dominazione e a sovvertire il rapporto dominanti/dominati.

La nozione di habitus è, come si è detto, collegata a quella di "capitale sociale". Bourdieu mette in luce come a determinare la condizione di dominante o dominato non sia soltanto il capitale economico (il fatto di poter disporre di un certo numero di beni materiali), ma sia anche la disponibilità di altre forme di capitale: il "capitale culturale" e il "capitale sociale". Il capitale culturale è l'insieme delle conoscenze (oltre che dei beni materiali legati alla cultura) di cui un soggetto dispone in parte perché li ha acquisiti, in parte perché li ha ereditati. Il fatto che alcune conoscenze siano considerate più importanti di altre fa sì che chi è in posizione di ereditare quelle conoscenze possa attraverso il sistema educativo (scolastico e universitario) vedere confermata e rafforzata la sua appartenenza a un gruppo dominante. Analogamente, chi ha un maggiore capitale sociale (capitale costituito dalla rete di conoscenze e di sostegno che il soggetto è in grado di attivare) ha più possibilità di ricoprire una posizione dominante.

A determinare la posizione sociale del soggetto non è solo il volume globale di capitale di cui il soggetto dispone, ma è anche la struttura del suo capitale: ad esempio la disponibilità di un vasto capitale economico, che pure è la forma del capitale in cui tutte le altre sono convertibili, non dà accesso di solito di per sé a incarichi e posizioni dirigenziali nel settore pubblico, laddove si esige un bagaglio di competenze specifiche.

I migranti in Europa di solito hanno poco capitale, in qualunque forma lo si consideri. Talvolta però possono avere un discreto capitale economico o un importante capitale sociale ma costituito da una rete di relazioni che non sono valorizzate dagli autoctoni. Il capitale economico di per sé poi, soprattutto in società come quelle europee, può non consentire al migrante di uscire dalla sua condizione di soggetto dominato. Analogamente, è sufficiente guardare ai tassi di scolarizzazione dei neri statunitensi per comprendere come questa stessa scarsità di capitale (economico, ma soprattutto culturale e sociale) ponga i blacks in una condizione di discriminazione strutturale.

Il richiamo alla sociologia di Bourdieu è dunque interessante perché consente sia di dare alla nozione di discriminazione strutturale dei confini più precisi, sia di mettere in luce un parallelo fra la riflessione della Critical Race Theory e la teoria sociologica europea. Come la Critical Race Theory, così la sociologia di Bourdieu ha come obiettivo quello di mettere in evidenza la contrapposizione dominanti/dominati nei diversi ambiti della vita sociale: di mettere in chiaro i rapporti di dominazione.

Nei sistemi ispirati alla Color Blindness, la discriminazione strutturale non viene corretta, poiché si considera che tutti i soggetti abbiano accesso alle stesse opportunità. La condizione di dominante o di dominato dipende esclusivamente dalla capacità del soggetto di acquisire capitale. Attraverso il principio di Color Blindness si oscurano così gli effetti storici e gli effetti strutturali della discriminazione.

3. La discriminazione nel sistema penitenziario statunitense (4)

Il sistema penitenziario fornisce un esempio molto chiaro degli effetti discriminatori della Color Blindness. Negli Stati Uniti sono detenute 2 milioni e 130 mila persone. Si tratta di un record mondiale (726 detenuti ogni 100.000 abitanti). Molti detenuti sono membri di minoranze razziali. Più precisamente: il 49% della popolazione penitenziaria è composto da afroamericani, benché i neri siano il 12-13% della popolazione (5). Ogni giorno 1 su 3 degli afroamericani maschi di età compresa fra i 20 e i 29 anni (il 32,3%) è in carcere o sottoposto ai regimi di parole o probation (nel 1990 la proporzione era di 1 su 4). Per i bianchi - maggioranza nel paese - la percentuale è invece di 1 su 15 (6).

La discriminazione razziale nel sistema penale e penitenziario statunitense non è un fenomeno nuovo. Essa è andata tuttavia aumentando a partire dagli anni Ottanta del Novecento (da allora il numero dei detenuti neri è triplicato), proprio mentre il razzismo e le forme più esplicite di segregazione venivano condannati dalla maggioranza degli statunitensi. Molti osservatori concordano nel ritenere che il razzismo "classico" negli Stati Uniti è oggi al suo minimo storico. La lunga battaglia dei neri per i diritti civili ha reso possibile per una larga parte della classe media afroamericana un grado di integrazione sociale soddisfacente e non mancano i rituali simbolici e le figure pubbliche che presentano la società statunitense come una società pacificata e multiculturale. Il principio della Color Blindness informa il modo di operare delle istituzioni penitenziarie e del sistema giudiziario.

Tuttavia, essere neri negli Stati Uniti è ancora oggi un grave svantaggio sociale: la segregazione ufficiale si è dissolta, ma per la maggior parte degli afroamericani la discriminazione razziale è un'esperienza quotidiana. Molti studi hanno cercato di comprendere i motivi che sono alla base della sovrarappresentazione dei neri nelle carceri statunitensi. In parte questa dipende da forme di discriminazione volontaria, in parte proprio dall'attuazione del principio della Color Blindness che ha permesso l'adozione di politiche penali particolarmente rigide che hanno finito per penalizzare le minoranze.

I blacks sono sottoposti più dei bianchi ai controlli della polizia e agli arresti. Ciò si può imputare, in parte, a un più alto tasso di devianza degli afroamericani, in parte, alle pratiche discriminatorie della polizia. Inoltre, le condizioni economiche e sociali in cui vivono gli afroamericani favoriscono la loro alta presenza in carcere: i neri delinquono di più e non hanno i mezzi per assicurarsi una difesa adeguata o per accedere alle misure alternative alla detenzione. La mancanza di capitale economico è una delle principali radici della devianza dei blacks.

Alcune ricerche hanno infine mostrato la disparità di trattamento dei bianchi e dei neri nel processo penale. Studi recenti mostrano che l'appartenenza razziale dell'imputato e quella della vittima concorrono a determinare l'esito dei processi penali (7). A livello federale, ad esempio, un imputato nero riceve in media condanne alla detenzione più lunghe di un bianco imputato dello stesso reato, mentre un ispanico ha più probabilità di essere condannato rispetto a un imputato bianco nella stessa situazione. Ciò non significa necessariamente che le decisioni delle corti dipendano da un atteggiamento razzista nei confronti delle minoranze. Il trattamento più severo che ricevono gli imputati neri e latinos può dipendere anche dalle valutazioni che le corti fanno in merito alla loro pericolosità. A questo farebbe pensare il fatto che la maggiore disparità di trattamento fra bianchi e neri si registra proprio nelle condanne per i reati minori. E' difficile però accertare se le valutazioni di pericolosità sono neutrali o se invece sono influenzate da pregiudizi e da stereotipi razziali. Rilevante appare in questo senso il fatto che non solo sono puniti più severamente gli imputati neri rispetto ai bianchi, ma lo sono ancora di più gli imputati neri per reati nei quali la vittima è bianca. (8)

E' poi da menzionare il dato relativo alle condanne a morte. Uno studio del Department of Justice ha mostrato che dal 1995 al 2000 lo U.S. Attorney General ha approvato 159 procedimenti per reati puniti con la pena di morte da parte dei procuratori federali; il 72% di questi riguardava imputati appartenenti a minoranze razziali (9). Di questi 159 casi, il 48% di quelli riguardanti imputati bianchi si è risolto con un patteggiamento che ha escluso la condanna a morte. Questa soluzione ha invece riguardato solo il 25% degli imputati neri e il 28% dei latinos. Per quanto riguarda l'appartenenza razziale della vittima, dallo stesso studio emerge che, dal 1995 al 2000, nel 36% dei procedimenti per pena capitale autorizzati dal Ministro della giustizia degli Stati Uniti l'imputato era nero e la vittima bianca e solo nel 20% dei casi sia l'imputato che la vittima erano neri. Risultati analoghi sono stati ottenuti dagli studi che hanno analizzato le condanne a morte pronunciate dalle corti statali.

Sono però i risultati delle politiche di contrasto al consumo e allo spaccio di stupefacenti a chiarire meglio di ogni altra considerazione perché il numero dei blacks e dei latinos è così alto nelle carceri degli Stati Uniti. Gli afroamericani e gli ispanici sono circa il 90% dei condannati alla detenzione nelle prigioni statali per essere stati trovati in possesso di stupefacenti (10). Dal 1983 al 1993 i detenuti per reati di droga sono aumentati a livello nazionale del 510%. Gli afroamericani sono il 13% dei consumatori abituali di droga e tuttavia il 35% degli arresti, il 55% delle imputazioni e il 75% delle condanne per detenzione di stupefacenti riguarda afroamericani (11). E' evidente dunque che alcune specifiche politiche penali hanno notevolmente contribuito all'aumento della percentuale dei detenuti neri.

Michael Tonry ha polemicamente intitolato il suo saggio sulla discriminazione razziale nel sistema penale statunitense Malign Neglect per denunciare che i fautori delle politiche di "Law & Order" non si preoccupano delle conseguenze negative che tali politiche producono nella società statunitense aggravando la discriminazione dei neri. Secondo Tonry gli effetti negativi delle politiche penali inaugurate negli anni Ottanta sarebbero stati colpevolmente sottovalutati da una classe politica in cerca di legittimazione. Sono state scelte consapevolmente delle politiche dai risultati discriminatori.

E' stato proprio il principio della Color Blindness delle politiche pubbliche a consentire l'adozione di politiche dagli esiti discriminatori come la "War on Drugs". Secondo quest'ottica, se i neri spacciano più dei bianchi non si può non punirli e gli effetti discriminatori, non essendo voluti, sono trascurabili. L'intento deliberato di discriminare è assente nelle politiche penali "dure". Non solo, ma i reati commessi dai neri nella maggioranza dei casi hanno vittime nere: lo spaccio di crack, ad esempio, affligge le inner-cities e rende difficile la vita delle comunità afroamericane. Ma lo spaccio di stupefacenti nelle inner-cities è legato al disagio sociale e alla discriminazione che i blacks subiscono in tutti i settori della vita sociale. Non a caso sono gli stessi afroamericani a considerare le politiche penali come uno dei principali strumenti di imposizione della discriminazione razziale. Senza contare che alcune scelte legislative nascondono, dietro la classificazione di alcuni tipi di reato in base alla loro gravità, un chiaro intento discriminatorio: è il caso della distinzione che la legge e le linee-guida federali fanno fra la detenzione di cocaina in polvere e la detenzione di crack. (12)

La legge federale e le linee-guida redatte per i giudici considerano equiparabile ai fini della determinazione della durata della pena detentiva 1 grammo di crack a 100 grammi di cocaina, punendo in modo difforme la detenzione di stupefacenti derivanti dalla stessa sostanza. Alla base di questa scelta c'è senza dubbio la considerazione della tipologia di consumatori delle due sostanze: la cocaina in polvere viene consumata in luoghi privati, all'interno di ristretti circoli di conoscenti che acquistano la sostanza attraverso contatti personali; il crack è invece consumato e spacciato in strada. Questa differenza influisce sul grado di disturbo che la pratica illecita arreca alla collettività e sulla potenziale pericolosità dei consumatori. Essa tuttavia si accompagna alla differente appartenenza sociale e razziale dei consumatori: il crack è la droga dei giovani blacks delle inner-cities; la cocaina in polvere è la droga diffusa fra i bianchi appartenenti alla classe media.

Come in altri ambiti, così anche in ambito penale la "cecità rispetto al colore" si traduce dunque nella cecità rispetto alla discriminazione. Alcuni autori sono molto più severi di Tonry e sostengono che i fautori del "Law & Order" promuovono consapevolmente la discriminazione. Le politiche penali "dure" sarebbero i nuovi strumenti con i quali perpetuare la sottomissione della comunità afroamericana e il suo sfruttamento da parte dei bianchi. Loïc Wacquant considera l'incarcerazione di massa come l'ultima delle "peculiar institutions" (13) attraverso le quali la segregazione dei neri è stata mantenuta nel corso dei secoli (14).

Le conseguenze sociali della politica di incarcerazione di massa sono pesanti. Si pensi ad esempio alle conseguenze che l'incarcerazione dei genitori produce nei confronti dei figli rimasti soli. Il 40% dei minori neri e ispanici negli Stati Uniti vive al di sotto della soglia di povertà (15); a questo contribuisce la struttura monoparentale di molte famiglie afroamericane e ispaniche. La presenza in famiglia di un solo genitore - e quindi di un solo reddito - è non di rado dovuta alla carcerazione dell'altro genitore. Oltre al dissesto economico della famiglia, l'esperienza della detenzione di un genitore causa danni psicologici gravi ai figli.

Da questa situazione discendono una serie di conseguenze che rischiano di trasformare il sistema della giustizia penale statunitense in un sistema di produzione dell'instabilità sociale.

4. La discriminazione nei sistemi penitenziari europei (16)

Una delle principali caratteristiche dei sistemi penitenziari europei è la forte presenza di detenuti stranieri o di origine straniera. Gli stranieri sono sovrarappresentati negli istituti penitenziari dei principali paesi europei. La percentuale media degli stranieri reclusi nelle carceri europee supera il 30% della popolazione detenuta, a fronte di una presenza straniera sul territorio europeo che si aggira intorno al 7% della popolazione. La sproporzione è evidente e ricorda il fenomeno del "racial divide" osservato negli Stati Uniti.

La percentuale della popolazione detenuta di nazionalità straniera è inferiore alla media europea in alcuni dei paesi europei di più antica immigrazione, ma nei penitenziari di questi stessi paesi vi è una percentuale elevata di cittadini di "non bianchi", figli di genitori immigrati. Le amministrazioni penitenziarie europee non distinguono questa categoria di detenuti da quella dei cittadini di origine autoctona, per la comprensibile preoccupazione che tale distinzione possa avere effetti discriminatori. Tuttavia, così facendo, se da un lato si è formalmente corretti nei confronti dei cittadini di origine straniera, dall'altro si occulta un dato preoccupante: in molti paesi europei una percentuale elevata di detenuti è di origine o di nazionalità straniera. Non solo, ma, soprattutto nei paesi dell'Europa nord-occidentale, è di religione islamica e non è bianca.

Nel Regno Unito, seguendo l'esempio statunitense, si è invece scelto di introdurre categorie etniche nella classificazione dei detenuti a fini statistici. Dal 2003 si è iniziato a raccogliere i dati sulle origini dei detenuti. Le statistiche sulla composizione etnica della popolazione penitenziaria sono ancora in via di elaborazione. Si può tuttavia già sapere che, fra le persone entrate nelle carceri pubbliche fra l'aprile del 2004 e il marzo del 2005, gli appartenenti a minoranze etniche erano 26.043. Inoltre, sul totale delle persone entrate in carcere per la prima volta nel periodo considerato, i bianchi erano il 78%, i neri il 12%, gli asiatici il 6%, mentre il 3% era di origine mista e l'1% apparteneva a gruppi etnici non altrimenti classificati (17). Ciò significa che il 22% delle persone entrate in carcere per la prima volta apparteneva a minoranze etniche. Il dato, se paragonato alla composizione della popolazione residente nel Regno Unito, segnala che i "non bianchi" sono incarcerati molto di più dei bianchi. E' credibile che anche in Francia, se si tenesse conto dell'origine dei detenuti, la percentuale di detenuti stranieri e di origine straniera sarebbe molto elevata: Salvatore Palidda ha sostenuto che essa sarebbe più elevata della percentuale di afroamericani reclusi nelle carceri statunitensi (18).

I detenuti di nazionalità straniera sono particolarmente numerosi nei paesi di recente immigrazione come l'Italia e la Grecia, dove sono, rispettivamente, il 31,8% (19) e il 41,7% (20) del totale dei detenuti. La sovrarappresentazione degli stranieri è ancora maggiore con riguardo alle donne e ai minori. Il fenomeno è particolarmente rilevante in Italia, dove le donne straniere sono il 42% (21) della popolazione detenuta femminile e i minori stranieri reclusi negli istituti penali minorili sono il 47% del totale (22). Inoltre, gli ingressi in carcere di minori stranieri sono in continuo aumento, con punte che giungono sino all'80% nei penitenziari del centro-nord (23), a fronte di una progressiva diminuzione degli ingressi in carcere dei minori italiani: a questo proposito Dario Melossi ha ipotizzato che sia in atto un vero e proprio processo di specializzazione degli istituti penali minorili italiani in direzione degli stranieri (24).

E' evidente che una presenza così elevata di stranieri nei penitenziari europei corrisponde, almeno in parte, a un reale livello di devianza degli immigrati. E' però altrettanto chiaro che la sovrarappresentazione degli stranieri nelle carceri europee dipende da forme più o meno latenti di discriminazione razziale presenti a tutti i livelli del sistema penale: dalle pratiche di polizia alla fase d'esecuzione della pena, passando per il processo. Queste discriminazioni sono solo in parte consapevoli: spesso derivano da scelte tecniche finalizzate a rendere efficiente in termini di risultati quantitativi l'operato delle forze di polizia o dipendono dalle caratteristiche proprie di un sistema penale e penitenziario pensato per i cittadini, che non si adatta allo status giuridico e sociale dei migranti, determinando così una costante violazione dei loro diritti più elementari (discriminazione strutturale).

Fra le forme di discriminazione strutturale appare particolarmente grave quella che deriva dall'inadeguatezza di molti sistemi giudiziari europei a trattare i migranti come gli altri cittadini. Federico Quassoli (25) ha messo in luce le discriminazioni operate nei tribunali italiani nei processi a carico degli stranieri. Interpretando la sua indagine emerge come tali discriminazioni sono per lo più involontarie e inconsapevoli e dipendono dalle specifiche condizioni di vita dei migranti nella società d'arrivo. L'esempio più illuminante è quello relativo all'uso di non concedere agli stranieri misure cautelari alternative alla custodia in carcere. Tale prassi, insieme all'analoga prassi di non concedere ai detenuti stranieri la sospensione condizionale della pena o altre pene alternative alla detenzione, è una delle cause principali dell'elevato numero di stranieri detenuti nei penitenziari europei. Essa tuttavia non sembra derivare da una particolare sfiducia dei tribunali nei confronti degli stranieri in quanto tali, ma dal fatto che gli stranieri per lo più non dispongono dei requisiti necessari per la concessione di queste misure: non hanno ad esempio quasi mai una residenza fissa. Legislazioni particolarmente repressive, come la legge italiana sull'immigrazione, detta anche Legge Bossi-Fini, hanno, inoltre, aggravato la discriminazione degli stranieri in sede processuale e di esecuzione della pena, prevedendo reati di immigrazione e sanzioni "speciali" nei confronti dei migranti (es. reato di ingresso clandestino e di reingresso).

Il fatto che la discriminazione dei migranti per lo più sia di carattere strutturale o sia imposta da specifiche disposizioni normative non giustifica una prassi che diviene routinaria e indifferente nei confronti dei singoli casi. La presunzione che è difficile ottenere informazioni certe sugli imputati e sui condannati stranieri è spesso un dogma che trasforma ogni immigrato in un falsificatore di documenti, dotato di infinite identità. La diffusione di prassi di questo genere è sintomo dell'incapacità dei sistemi penali e delle istituzioni giudiziarie europee di fornire una tutela sufficiente agli imputati e ai detenuti non-cittadini (26). La denuncia dei comportamenti razzisti non dovrebbe perciò occultare l'esigenza di realizzare delle riforme strutturali e di fornire ai sistemi giudiziari europei le risorse umane ed economiche necessarie per assicurarne il corretto funzionamento anche nei confronti dei migranti, la cui comparizione di fronte ai tribunali non può certo considerarsi come un fatto eccezionale.


Note

1. Cfr. l'Introduzione di Thomas Casadei al presente forum.

2. Cfr. in particolare il saggio di Neil Gotanda,"La nostra costituzione è cieca rispetto al colore": Una critica, in K. THOMAS, G. ZANETTI (a cura di), Legge, razza diritti, Diabasis, Reggio Emilia 2005.

3. Cfr. Il Rapporto dell'Unione Europea sul razzismo e la xenofobia negli Stati membri (pubblicato il 24 novembre 2005).

4. Questo paragrafo è per lo più tratto da L. RE, Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Laterza, Roma-Bari 2006.

5. M. MAUER, The Crisis of the Young African American Male and the Criminal Justice System, The Sentencing Project, Washington 1999.

6. M. MAUER, T. HULING, Young Black Americans and the Criminal Justice System: Five Years Later, The Sentencing Project, Washington 1995.

7. C. SPOHN, Thirty Years of Sentencing Reform. The Quest for a Racially Neutral Sentencing Process, "Criminal Justice", 3 (2000).

8. T. KANSAL, Racial Disparity in Sentencing. A Review of the Literature, The Sentencing Project, Washington 2005. Vedi in particolare p. 11.

9. U.S. DEPARTMENT OF JUSTICE, Survey on the Federal Death Penalty Systems: 1988-2000.

10. J. AUSTIN, J. IRWIN, It's About Time, Wardsworth, Stanford 2001.

11. M. MAUER, T. HULING, Young Black Americans and the Criminal Justice System: Five Years Later, cit.

12. Distinzione stabilita dalle leggi federali di "mandatory sentencing" (condanna obbligatoria) adottate nel 1986 e nel 1988.

13. L. WACQUANT, Deadly Symbiosis: When Ghetto and Prison Meet and Mesh, "Punishment & Society", 3-1 (2000); tr. it. Simbiosi mortale. Quando ghetto e prigione si incontrano e si intrecciano, in L. WACQUANT, Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale, cit., p. 53.

14. Le altre sono: la schiavitù (1619-1865), il sistema "Jim Crow" (il regime di Apartheid adottato dagli Stati del Sud dal 1865 al 1965), e il ghetto (presente in tutte le città del Nord degli Stati Uniti a partire dal 1914 e fino al 1968).

15. J. AUSTIN, J. IRWIN, op. cit.

16. Questo paragrafo è per lo più tratto da L. RE, Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Laterza, Roma-Bari 2006.

17. HOME PRISON SERVICE, Annual Report and Accounts. April 2004-March 2005, London 2005.

18. S. PALIDDA, La criminalisation des migrants, "Actes de la recherche en sciences sociales, 129 (1999). Palidda cita a sostegno di questa tesi sia le testimonianze degli operatori sociali raccolte in Francia, sia i dati ufficiali riportati da P. Tournier (1998) e B. Agozino (1996).

19. Ministero della Giustizia, al 31-12-04.

20. Dati dell'Amministrazione penitenziaria greca al 16-12-2004.

21. Mia elaborazione sui dati forniti dal Ministero della Giustizia che registrano la situazione al 30-6-02.

22. Ministero di giustizia, dati riferiti al primo semestre del 2003.

23. Ivi.

24. D. MELOSSI, Stato, controllo sociale, devianza, Mondadori, Milano 2003.

25. F. QUASSOLI, Immigrazione uguale criminalità: rappresentazioni di senso comune e pratiche degli operatori del diritto, "Rassegna italiana di sociologia", 1 (1999).

26. Lampante è ad esempio la violazione continua del diritto alla difesa che assume molteplici forme: dal pessimo funzionamento del servizio di interpretariato, alla difficoltà per i migranti di nominare un difensore di fiducia, alla mancata traduzione - nonostante le disposizioni di legge - delle comunicazioni indirizzate agli stranieri detenuti.