2006

Corpi, parole, simboli
Appunti sulla via italiana alla teoria della differenza razziale

Giorgio Pino (*)

1. Come ebbe a notare Adriano Sofri qualche tempo fa, in Italia pensiamo di essere immuni a numerosi fenomeni che caratterizzano la società contemporanea - diciamo la società della seconda metà del Novecento - e che effettivamente in Italia arrivano con un certo ritardo rispetto a paesi come gli Stati Uniti o a quelli nordeuropei (Sofri cita tra questi fenomeni, a titolo di esempio, la droga, la longevità o la caduta della natalità); poi però, quando finalmente questi fenomeni arrivano anche da noi, esplodono con una virulenza imprevista, talvolta superiore ad analoghe esperienze maturate in altre società occidentali e, aggiungerei, direttamente proporzionale alla nostra impreparazione ad affrontarli (1).

Una delle sfide più recenti che la società italiana si trova ad affrontare è palesemente quella del multiculturalismo: sfida recente, essendo notoriamente l'Italia un paese dal passato coloniale tutto sommato modesto, e che per lungo tempo ha conosciuto fenomeni migratori - con conseguenti reazioni "razziste" - solo all'interno dei propri confini. Eppure, come sa chiunque abbia l'occasione di mettere piede in una scuola elementare (occasione che mi è offerta assai di frequente dal succedersi delle più disparate tornate elettorali), tra meno di dieci anni la nostra società avrà un colore molto meno bianco e occidentale, e assai più variegato di come siamo abituati a conoscerla.

Se questo quadro ha una sia pur minima attendibilità, allora documentarsi su come si sono manifestati, in altre società non troppo lontane dalla nostra, i problemi politici e giuridici determinati dall'esplodere della differenza razziale diventa quasi un dovere civico, prima ancora che una curiosità intellettuale; e particolarmente opportuna risulta così la pubblicazione del volume che ha dato origine a questa discussione (2), e che contiene alcuni dei contributi più incisivi prodotti in seno al movimento della Critical Race Theory (CRT) negli Stati Uniti.

In questo mio intervento intendo in primo luogo indicare le principali acquisizioni culturali di questo movimento, ovviamente nella misura in cui possano essere di qualche interesse anche al di qua dell'oceano, e quindi non strettamente legate alla specificità dell'ordinamento giuridico nordamericano. In secondo luogo, indicherò brevemente alcuni casi recenti in cui la legislazione italiana ha mostrato qualche forma di "attenzione" (non sempre benevola) verso la differenza razziale.

2. Non intendo ovviamente ripercorrere in queste poche battute la storia del movimento della CRT, ma più modestamente stilare una breve "grammatica" della teoria della differenza razziale, indicare alcune idee che, anche grazie al dibattito innescato dalla CRT, possono considerarsi oggi moneta corrente per chiunque debba misurarsi con i problemi di policy posti dalla differenza razziale.

2.1. Una prima acquisizione della CRT è che la razza è non solo (e, anzi, non principalmente) un dato biologico, ma una costruzione sociale (3). Questo significa due cose: in primo luogo, che non esistono "razze" in natura, ma che esse vengono definite e delimitate da pratiche sociali talvolta inintenzionali e stratificate nel tempo, talvolta deliberate - e quest'ultimo è il caso delle definizioni giuridiche di razza: si veda ad esempio la regola della "one drop", efficacemente discussa nel volume in commento da Neil Gotanda (4) (per chi volesse un esempio del carattere artificiale della razza, la storia recente di casa nostra offre un esempio evidente: la deliberata creazione, da non più di due decenni, di una assolutamente inedita "razza padana" dalle fantasiose origini celtiche). In secondo luogo, che queste stesse pratiche sociali ed eventualmente giuridiche non solo costruiscono la razza, ma attribuiscono alla razza così creata un certo valore o disvalore in quanto associata a pratiche, a valori, a una "forma di vita" e così, in ultima analisi, la costruzione della "razza" è funzionale all'istituzione e riproduzione di gerarchie sociali.

Inoltre, in questi processi sociali di definizione di razze e culture, il diritto può svolgere non solo una funzione diretta di regolazione (ad esempio la disciplina dei fenomeni migratori), ma anche una rilevante funzione simbolica e di stigmatizzazione sociale di certi fenomeni legati all'appartenenza razziale, e di legittimazione dell'ordine gerarchico esistente.

Non sto dicendo che vi sia sempre una identificazione diretta, univoca e non problematica tra l'appartenenza razziale e l'attaccamento a determinati valori, stili di vita ecc. (il prossimo punto chiarirà ulteriormente questo problema), o che l'appartenenza razziale rilevi solo quando rimanda a valori o pratiche culturali sgradite alla maggioranza. Ovviamente vi sono casi in cui l'appartenenza razziale o etnica può rilevare direttamente, e questi sono principalmente i casi di discriminazione in contesti di distribuzione meramente quantitativa delle risorse, come nel caso dell'accesso a posti di lavoro, o all'istruzione pubblica.

Ma per fortuna non è questo il genere di problemi che oggi, in Italia, ci vengono posti dalla differenza razziale. Mentre la società americana ha un passato di discriminazione e talvolta anche di segregazione razziale da sanare, e pertanto la CRT statunitense non può fare a meno di occuparsi di quel controverso strumento di "risarcimento sociale" rappresentato dalla affermative action, la società italiana ha davanti a sé una sfida diversa: quella dell'accoglienza di, o quantomeno della convivenza con, forme di vita, culture, pratiche che fino a trenta o forse venti anni fa erano quasi del tutto sconosciute. In altre parole, i problemi della differenza razziale da noi sono in gran parte quelli del multiculturalismo.

Dunque, i problemi più attuali e forse più interessanti posti dalla differenza razziale riguardano non tanto e non solo la pigmentazione della pelle o la forma degli occhi, ma l'identificazione tra un gruppo etnico o razziale e un certo orizzonte di valori; l'appartenenza razziale assume un senso alla luce dei valori, delle pratiche, della "forma di vita" cui essa rimanda e, in fin dei conti, quella diventa una proprietà quasi accessoria ed eventuale rispetto a questi.

2.2. Quanto appena detto ci porta ad una seconda acquisizione della CRT, cioè che l'appartenenza razziale, se per un verso è determinata dalla società nel suo complesso nei modi che abbiamo visto, per altro verso è in qualche misura una questione di scelta e di adesione individuale.

In altre parole, se la "razza" non è solo una questione biologica ma una questione di identificazione con valori, con pratiche, con una "forma di vita", allora vi è un buon margine di scelta individuale nel professare e nell'aderire ai valori, alle pratiche associate ad una certa appartenenza razziale e culturale, nonché nell'esibirle pubblicamente. Emblematico in tal senso il caso che ha fatto parecchio discutere, un paio di anni fa, delle due sorelle francesi espulse dal loro liceo perché si ostinavano ad indossare a scuola il foulard islamico: ebbene, le due ragazze erano nate in Francia, erano figlie di un cittadino francese di origine ebraica e di una cittadina francese di origine algerina e di formazione cattolica, e si erano da poco convertite volontariamente all'islam (un altro esempio, nuovamente, può essere il caso nostrano della "razza padana", con il suo folkloristico contorno di matrimoni celebrati con "rito celtico").

A conferma di quanto appena detto vi è la circostanza che la CRT formula certamente, su un piano normativo, rivendicazioni in termini di uguaglianza formale, ma più spesso pensa all'eguaglianza sostanziale e ancor di più a rivendicazioni in termini di identità e specificità culturale, con ciò riproponendo in una ulteriore declinazione quell'eterno "dilemma della differenza", già affrontato dal pensiero femminista, se cioè sia preferibile un trattamento uguale a quello della maggioranza, con ciò elidendo le proprie specificità, o se si debbano rivendicare trattamenti differenziati che di quelle specificità tengano conto, ma con ciò rendendo più difficile l'integrazione con il resto della società e perpetuando l'immagine di un gruppo separato, e potenzialmente emarginato.

2.3. Una terza acquisizione è rappresentata da quello che potremmo chiamare l'anti-essenzialismo razziale, che a mio modo di vedere ha due dimensioni. La prima è la cosiddetta intersezionalità: ciascuno di noi è portatore di identità multiple che corrono su binari talvolta paralleli, talvolta sovrapposti, e talvolta divergenti (identità sessuale, professionale, "etnica", religiosa, politica, culturale), e pertanto, nuovamente, operiamo quasi quotidianamente una "scelta" dell'identità che preferiamo privilegiare in un certo contesto; peraltro, laddove ciascuna di tali identità sia già di per sé potenzialmente discriminata, il sovrapporsi di più identità può essere fonte di un surplus aggiuntivo di discriminazione.

La seconda è che le pratiche sociali di identificazione di "gruppi razziali" spesso operano in maniera eccessivamente semplificata, determinando una forzata omologazione sotto un'unica etichetta "razziale", da parte del mainstream, tra individui appartenenti a contesti nazionali o geografici diversi: così, tutti gli orientali diventano "asiatici", se non addirittura "cinesi"; tutti gli africani diventano indistintamente "africani" se non addirittura "marocchini", e così via; negli Stati uniti, la CRT ha avuto a mio giudizio il merito di demistificare l'immagine omologante dello straniero sotto una qualche macro-categoria di comodo. E, se vogliamo affrontare sul serio i problemi posti dal multiculturalismo, un passo pregiudiziale è ovviamente una più esatta conoscenza del nostro interlocutore.

3. Davanti a tutti questi problemi, quale sembra essere finora la risposta del legislatore italiano? La risposta è ambigua, e corre sul doppio binario dell'uguaglianza formale e dell'identità culturale.

Per quanto riguarda l'uguaglianza formale, il diritto italiano ha una buona tradizione antidiscriminatoria in relazione a fattori razziali (a titolo di esempio, l'art. 3 della costituzione, lo Statuto dei lavoratori, la legge sulla privacy (5) che assicura un particolare livello di protezione ai "dati sensibili", tra cui quelli idonei a rivelare l'origine etnica o razziale).

Per quanto riguarda l'identità culturale, invece, specialmente negli anni più recenti il nostro diritto sembra andare nella direzione quasi xenofobica dell'emarginazione sociale e del rifiuto delle persone, delle pratiche e delle forme di vita appartenenti a "razze" altre. Ecco allora la legge "Bossi-Fini", che determina il confinamento dell'immigrato extra-comunitario in una condizione criminogena pressoché necessaria (6). Ecco la recente legge che assoggetta a specifica sanzione penale le pratiche di mutilazione genitale femminile (7) (pur potendo la fattispecie essere agevolmente inquadrata nel già esistente reato di lesioni personali gravi o gravissime); legge che, nel commendevole intento di tutelare le bambine da una pratica dolorosa e invasiva, evita di porsi la domanda se una donna maggiorenne possa volontariamente sottoporsi a questa pratica, e sorvola sulla circostanza che, di contro, la circoncisione maschile è praticata in alcuni ospedali italiani a carico del servizio sanitario nazionale, e che nella "coscienza sociale" sono del tutto accettate e talvolta incoraggiate altre forme di intervento sul corpo con finalità diverse da quelle terapeutiche come varie forme di chirurgia estetica, il piercing ecc. Ecco, quasi ironicamente per un periodo in cui ogni nuova legge viene accompagnata da una sanzione penale anche incongrua, la diminuzione della pena per le manifestazione di odio razziale e la depenalizzazione delle offese alle confessioni religiose (8).

Viene da pensare, in conclusione, che se il diritto italiano ha imparato - benché inconsapevolmente - una lezione dalla vicenda culturale della CRT, questa è proprio quella della funzione simbolica delle categorie giuridiche, e del loro uso al fine di modellare la percezione sociale dei fenomeni legati alla razza.


Note

*. Università di Palermo.

1. A. Sofri, Il velo delle donne che divide l'Europa, in "la Repubblica", 20 ottobre 2003.

2. Legge, razza e diritti. La Critical Race Theory negli Stati uniti, a cura di K. Thomas e G. Zanetti, Diabasis, Reggio Emilia, 2006.

3. Cfr. ad es., nel volume in commento, I. Haney Lòpez, Bianco per legge (1996), pp. 71-77.

4. N. Gotanda, «La nostra costituzione è cieca rispetto al colore»: una critica (1991), pp. 27-69; in proposito si veda anche L. Friedman, La società orizzontale (1999), il Mulino, Bologna, 2002, cap. V.

5. D.Lgs. n. 196/2003, Codice in materia di protezione dei dati personali.

6. Sul punto rimando alle osservazioni di E. Santoro, La fine della biopolitica e il controllo delle migrazioni: il carcere strumento della dittatura democratica della classe soddisfatta, lezione tenuta presso il Dottorato in "Diritti dell'uomo", Università di Palermo, 15 febbraio 2006.

7. Legge 6 gennaio 2006, n. 7, Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile.

8. Legge 24 febbraio 2006, n. 85, "Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione", spec. art. 13.