2005

I dibattiti sulla sunna rituale

Lucia Re

Vorrei esprimere il mio parere, più che sulla sunna rituale, sui dibattiti che riguardano questa proposta. Trovo sbagliato affrontare l'argomento, com'è stato fatto fino ad ora nella discussione pubblica, dal punto di vista morale. Mi sembra che oggetto della discussione dovrebbe essere non la pratica proposta, ma l'accettazione o meno del principio di riduzione del danno. Se infatti si rifiuta tale principio il dibattito può essere aperto, altrimenti, una volta accolto il presupposto che un rituale simbolico è da preferire a una mutilazione praticata per di più con gravi rischi per la vita delle bambine che vi sono sottoposte, ogni discussione di carattere morale dovrebbe a mio avviso essere sospesa. La scelta morale è infatti già nell'opzione a favore della riduzione del danno. Mi pare che dovrebbe valere per la sunna come per le tossicodipendenze.

Certo qui ci sono in gioco delle minori, ma credo che sia possibile stabilire una soglia di età per la sottoposizione al rito che comporti la capacità delle bambine di esprimere un consenso. Penso che i minori siano in grado di decidere di sé quando si sono predisposte adeguate condizioni per l'espressione di una volontà sufficientemente libera. Il rapporto con il medico (meglio sarebbe se fosse coinvolta nel rito, che non mi pare presenti una particolare difficoltà tecnica, una donna appartenente alla comunità e formata a questo scopo) potrebbe persino aiutare le bambine (l'età rituale mi pare sia quella dei 10 anni; potrebbe essere elevata di qualche anno) a confrontare le pratiche della propria cultura con quelle in uso nella società di accoglienza.

Per quanto riguarda poi il dibattito filosofico-politico sul rapporto fra la cultura occidentale e quella rituale africana, devo ammettere che non credo che una discussione astratta possa essere particolarmente utile. Non si tratta qui di accettare, né tanto meno di promuovere, l'infibulazione e neppure di applicare una forma blanda di relativismo culturale. Si tratta soltanto di ridurre quello che è considerato un danno (la violenza della mutilazione, il dolore fisico e, sottolineo, il rischio di morte) sia da noi, sia, se accetteranno la sunna rituale, dalle comunità africane. Queste ultime infatti, se si sono dette pronte a sostituire la sunna rituale alle mutilazioni, lo hanno fatto perché sono consapevoli del rischio che l'infibulazione comporta e della difficoltà che questo rito crea alle donne che vivono in Occidente. Mi pare quindi che, fatte le debite verifiche sulla efficacia di questa pratica come strumento di riduzione del danno e accertato che ci sono buone probabilità di ottenere questo risultato, la pratica dovrebbe essere sperimentata ("sperimentata", non "sacralizzata").

Mi ha colpito l'opposizione rigida delle femministe a questa sperimentazione. Molti studi dimostrano infatti che sono proprio le donne che scelgono di infibulare o di non infibulare le proprie figlie. Se mai è opportuno cercare un maggiore coinvolgimento delle donne migranti e mi pare che Emilio sottovaluti il ruolo delle donne nelle comunità e si arrenda un po' troppo presto sostenendo che il consenso espresso dagli uomini è da considerarsi sufficiente "perché le convinzioni degli uomini della comunità giocano un ruolo fondamentale nello spingere le donne ad accettare la mutilazione genitale e a convincerle che, in caso contrario, avranno un destino di emarginate". Il femminismo però non deve essere imposto: si tratterebbe di un'altra violenza sulle donne africane che credono nel rituale. Sperimentare la sunna rituale potrebbe essere un modo efficace per invitare le donne a una riflessione e mi pare che sarebbe il primo passo verso una liberazione, poiché, al di là del simbolo (ma quanti sono i simboli allora che dovremmo vietare anche nella nostra cultura!), la sunna rituale sarebbe già una forma di liberazione del corpo delle donne da una mutilazione irreversibile. Le donne sottoposte a questo rito, come molte donne occidentali sottoposte a riti spesso inconsapevoli e incruenti ma altrettanto umilianti, sapranno, credo, interpretarlo e viverlo con indipendenza una volta adulte, se avranno modo di scegliere anche in altri campi della vita e di costruire delle relazione sociali libere dal dominio maschile. Mi ha colpito l'intervista che una laureanda in sociologia ha fatto a due donne somale infibulate. Le due donne erano irritate che a loro si chiedesse soltanto della infibulazione, che ci si preoccupasse di loro soltanto per questa violenza subita, senza alcun riguardo per le violenze ben più atroci della guerra dalla quale erano fuggite e che non suscitava dibattiti altrettanto accesi e preoccupati. Il pensiero femminista dovrebbe concentrarsi, mi pare, sul cammino di emancipazione delle donne, sulla necessità di raggiungere per noi e per le donne africane una parità che è ancora lontana e che è sempre a rischio, di costruire lo spazio adeguato a una prospettiva di genere, e lasciare che le donne africane combattano per essere le uniche a decidere dei loro corpi. Quando alle ragazze africane che vivono in Italia o altrove in Occidente saranno dati gli stessi diritti e le stesse chances che hanno i ragazzi italiani, la sunna rituale scomparirà: è questo mi pare il terreno sul quale impegnarsi, anche nella riflessione filosofica e politica.