2008

Verità, pluralismo e realismo
Una modesta difesa del relativismo

Leonardo Marchettoni

L'ultimo libro di Marconi (1) ha molti meriti, tra cui quello di proporre un percorso originale che conduce dalla riflessione sulla verità e la conoscenza al problema politico del valore del pluralismo. In ultima analisi, però, mi sembra proporre una caratterizzazione riduttiva del relativismo. Cercherò in questo intervento di chiarire come mai ritengo che Marconi non renda giustizia al relativismo e come si potrebbe argomentare in difesa di una posizione che, se non è esplicitamente relativistica, è tuttavia abbastanza vicina allo 'spirito' che le formulazioni classiche del relativismo cercano, a mio avviso, di veicolare. Nella parte conclusiva, cercherò altresì di riflettere sulla rilevanza che questo tipo di posizione possiede per il dibattito pubblico intorno ai temi del pluralismo.

Il primo capitolo del libro di Marconi sviluppa una coppia di dicotomie - tra verità e giustificazione e tra conoscenza e certezza - che sono all'origine di un certo numero di fraintendimenti nella discussione accademica non meno che nel discorso pubblico. In queste pagine, soprattutto in quelle che elaborano la distinzione tra verità e giustificazione, Marconi si muove in una cornice teorica familiare per chi conosca, anche solo superficialmente, il dibattito contemporaneo sui temi della verità e dell'oggettività. Che l'uso del predicato "vero" appaia governato da un'ipoteca realista, soprattutto quando in gioco sono asserzioni intorno al mondo esterno, è una tesi generalmente accettata anche da coloro che non accolgono una concezione realista della verità: quando diciamo che un enunciato che descrive il mondo esterno è vero, assumiamo tacitamente che esso ci riporti 'le cose come stanno', in definitiva, che esso corrisponda alla realtà. Quella della corrispondenza è un'intuizione comune - Crispin Wright parla a questo proposito di "Platitude" (2) - che nessun teorico serio si sognerebbe di negare. Il problema è che una cosa è l'intuizione della corrispondenza, un'altra una teoria compiuta che chiarisca in che senso un'asserzione può corrispondere a uno stato di cose nel mondo. Infatti, all'atto pratico, la teoria della corrispondenza, per quanto venerabile, non ha convinto tutti, proprio per la difficoltà di chiarire in cosa esattamente la supposta corrispondenza consista. (3) Da qui l'emersione di teorie alternative: coerentiste, pragmatiste, deflazioniste, pluraliste, ecc. (4) Non che queste ulteriori teorie non abbiano i loro problemi: anzi, come sottolinea Marconi, un problema evidente per le teorie epistemiche della verità, vale a dire per quelle teorie che cercano di ricostruire la nozione di verità a partire da quelle pratiche - in primo luogo l'attività di fornire giustificazioni per le proprie credenze - con le quali identifichiamo alcune asserzioni come vere, è rappresentato proprio dalla distinzione tra verità e giustificazione. Infatti, nella misura in cui la nozione di giustificazione è autonoma - anche se non intelligibile separatamente - dal concetto di verità, le teorie epistemiche della verità sembrano destinate al fallimento.

In queste riflessioni si gioca un punto nodale di Per la verità. Infatti, nel successivo capitolo sul relativismo Marconi si riferisce in maniera sbrigativa alle teorie epistemiche della verità, esprimendosi come se gli argomenti addotti nel primo capitolo siano sufficienti a confutarle:

Ciò non implica che A sia vera per X ma non per Y; a meno di non aderire a una concezione epistemica della verità, che identifica verità e giustificatezza. Ma abbiamo visto che ci sono buone ragioni per ritenere che verità e giustificatezza siano concetti diversi e distinti anche nell'estensione. (pp. 53-4)

Sembra, a giudicare da queste righe, che Marconi ritenga che le teorie epistemiche della verità si riducano all'equazione tra verità e giustificatezza e siano pertanto definitivamente confutate dagli argomenti che dimostrano che verità e giustificazione sono cose distinte. Ma questa conclusione è, come minimo, affrettata. Intanto, la stessa terminologia "teorie epistemiche della verità" merita qualche chiarimento. Con questa etichetta ci si riferisce generalmente alle teorie pragmatiste della verità, sviluppate da Peirce nel diciannovesimo secolo e da Putnam alla fine del secolo scorso. (5) Secondo tali teorie - ci sono ovviamente differenze tra la versione di Peirce e quella di Putnam, ma in questa sede non sono rilevanti - la verità corrisponde a una versione idealizzata dell'asseribilità: sono vere quelle proposizioni che una comunità che operasse in condizioni epistemiche ideali riterrebbe giustificate. È chiaro, anche solo da questa definizione, che la semplice distinzione tra verità e giustificazione non basta a minacciare le teorie dell'asseribilità idealizzata, proprio perché tali teorie chiamano in causa una forma ideale di giustificazione. Nella nostra pratica quotidiana - potrebbe replicare il teorico pragmatista - verità e giustificatezza sono chiaramente distinte, ma ciò non mi impedisce di identificare la verità con l'asseribilità, cioè con la giustificatezza, in condizioni epistemiche ideali - che, per definizione, non incontreremo mai. Vero è che le teorie pragmatiste della verità incontrano comunque difficoltà notevoli: uno degli autori che più ha contribuito a esporre questi problemi è il già citato Crispin Wright. (6) Wright ha sviluppato una batteria di argomenti - che non è possibile riportare in questa sede - che rendono quantomeno molto dubbie le teorie pragmatiste. Tali argomenti vanno ben oltre la distinzione tra verità e giustificazione e non possono dirsi, comunque, definitivi. Ma l'aspetto più rilevante per la discussione attuale è che in ogni caso Wright non ne trae la conclusione che l'unica concezione accettabile di verità è quella realista. Tutt'altro: Wright critica l'antirealismo di Putnam per sostituire a esso una diversa e più sofisticata forma di antirealismo, incentrata sul concetto di superasseribilità (7) e capace di rendere conto, sia della distinzione tra verità e giustificazione che dell'intuizione comune della verità come corrispondenza.

L'esempio di Wright è indicativo della piega assunta dal dibattito corrente intorno alla verità. Mi sembra che si possa convenire che la posizione realista intorno alla verità appare oggi largamente minoritaria. (8) D'altra parte, non si può dire che l'obbiettivo principale della riflessione di Marconi sia quello di difendere una concezione realista della verità. Il primo capitolo di Per la verità si limita a ribadire la centralità di alcune intuizioni realiste riguardo agli enunciati che descrivono il mondo esterno, lasciando in sospeso se queste intuizioni valgono anche in domini del discorso diversi come gli enunciati matematici o quelli che riguardano il gusto o la morale. In questo senso, Marconi potrebbe benissimo sottoscrivere il programma antirealista di Wright. Ma l'obbiettivo finale di Marconi è quello di criticare il concetto di verità relativa (almeno per quanto riguarda gli enunciati che vertono sul mondo esterno), riaffermando il carattere oggettivo delle ascrizioni di verità. Rispetto a questo proposito, però, la critica delle teorie epistemiche della verità è, come ho sostenuto, inadeguata. Questo ci permette di riconsiderare il concetto di verità relativa alla luce delle due forme di relativismo che Marconi prende in esame.

Per il relativismo epistemico le conoscenze dipendono da criteri di accettabilità che variano presso diverse comunità umane. Inoltre, non esistono metacriteri capaci di individuare i criteri di accettabilità corretti. Il relativismo epistemico rappresenta, secondo Marconi, una posizione filosofica ragionevole. Non implica, però, il relativismo sulla verità, perché dal fatto che una proposizione p sia giustificata per X ma non per Y non segue che p sia vero per X e non vero per Y, a meno di non aderire a una concezione epistemica della verità. Ciò significa che, secondo Marconi, il relativista epistemico potrebbe sostenere che X e Y hanno credenze diverse relativamente alla accettabilità di p, che il loro dissenso non è risolvibile, perché essi incorporano criteri di giustificazione diversi, nessuno dei quali è superiore all'altro, ma che, nondimeno, p è oggettivamente vera o falsa. Questa conclusione mi sembra insostenibile, poiché implica che un enunciato può essere oggettivamente vero anche se i criteri in base ai quali viene giudicato non accettabile sono non criticabili. Di conseguenza, sancisce l'indipendenza tra verità e giustificazione: la verità non si identifica con la giustificatezza poiché un enunciato può essere giustificato senza essere vero; tuttavia, in quest'ultimo caso, l'intuizione comune ci dice che qualcosa è andato storto nel processo attraverso il quale abbiamo acquisito la giustificazione per esso o nei criteri di giustificazione impiegati. Adesso, la conclusione secondo la quale un enunciato può essere giustificato e falso, senza che i criteri in base ai quali si è giudicato della sua verità siano criticabili e senza alcun altro cognitive shortcoming, rompe un nesso implicito tra verità e giustificazione - l'idea, cioè che la giustificazione sia preordinata alla verità - che anche Marconi, nel primo capitolo, sembra accettare. (9) Nessuna meraviglia, dunque, che i sostenitori del relativismo epistemico rigettino la concezione realista della verità, come fa Wittgenstein. (10) Meno male, allora, che le concezioni epistemiche non sono così poco plausibili come Marconi sembra ritenere, altrimenti il relativismo epistemico perderebbe molta della sua efficacia.

Un problema analogo si presenta in rapporto al relativismo concettuale. Anche in questo caso Marconi concede che alcune versioni del relativismo concettuale presentano tesi filosofiche interessanti. Si tratta di quelle posizioni che relativizzano l'ontologia al sistema di riferimento concettuale proprio di un'epoca o di una determinata cultura. Allo stesso tempo, però, Marconi ritiene che anche in questo caso non segua la relatività della verità. Se il sale non era cloruro di sodio prima dell'invenzione della chimica - chiede Marconi -, allora che cos'era? Era solo una sostanza presente nel mare e in certe formazioni rocciose usata per insaporire e conservare i cibi? E qual era la composizione delle sue molecole? Oppure, non era composta da molecole? Posto di fronte a queste domande - sostiene Marconi -, il relativista concettuale non possiede risposte chiare e convincenti. Per questo motivo risulta più semplice tenere ferma la verità dell'enunciato 'il sale è cloruro di sodio', relativizzando non il valore di verità delle asserzioni ma la loro accessibilità. Secondo quest'ultimo punto di vista, un greco dell'epoca omerica non aveva accesso alla proposizione che il sale è cloruro di sodio, perché il suo schema concettuale non disponeva delle risorse necessarie per afferrarla. La proposizione in sé, però, era vera ottocento anni prima della nascita di Cristo, come lo è adesso.

Anche in questo caso, la conclusione di Marconi mi sembra affrettata. Il problema principale è che questo modo di porre il problema rappresenta una petizione di principio contro il relativista. Posso assumere che l'enunciato 'il sale è cloruro di sodio' sia vero anche prima dell'invenzione della chimica solo se non prendo sul serio il relativismo ontologico: ritenere che l'enunciato 'il sale è cloruro di sodio' fosse vero anche tremila anni fa significa assumere che la 'vera ontologia', quella rispetto alla quale si calcola il valore di verità degli enunciati che descrivono il mondo esterno, contempli, fra i suoi costituenti, quelle molecole che rendono vera l'asserzione che il sale è cloruro di sodio. Questo approccio rinuncia all'idea che un enunciato come 'il sale è cloruro di sodio' rappresenti un modo peculiare, in mezzo a molti altri, di parlare del sale. Secondo questo punto di vista l'enunciato 'il sale è cloruro di sodio' rappresenta piuttosto un tentativo di identificazione dell'essenza del sale. (11) In altre parole, ritenere che gli enunciati che descrivono il mondo mantengano inalterato il loro valore di verità significa adottare un atteggiamento ontologico incompatibile con l'idea relativista secondo la quale non esiste un'ontologia privilegiata, ma ogni sistema di riferimento concettuale elabora la propria ontologia, che non è migliore né peggiore - in termini assoluti (12) - di qualsiasi altra. Si rivela, in questo modo, quella che mi sembra essere l'assunzione di sfondo del realismo di Marconi. Il realismo sulla verità che Marconi difende sottende un corrispondente realismo metafisico. Marconi è convinto che esista un insieme di proposizioni assolutamente e oggettivamente vere (13) che definisce la struttura immutabile del mondo esterno, perciò aderisce a una variante della dottrina nota come "realismo metafisico". E se non è completamente chiaro cosa il realismo metafisico implichi veramente, è sicuro che si tratti di una posizione incompatibile con il relativismo concettuale.

Secondo Putnam il realismo metafisico consiste della congiunzione delle seguenti tre tesi:

  1. il mondo consiste di un insieme di oggetti indipendenti dalla nostra mente;
  2. esiste esattamente una sola descrizione vera e completa del mondo;
  3. la verità comporta una relazione di corrispondenza tra le parole, o i segni del pensiero da un lato, e gli insiemi di cose esterne dall'altro. (14)

Marconi può essere fatto carico unicamente di sostenere la tesi (ii), in una forma debole che rinuncia al requisito di completezza. Infatti, per Marconi esiste un insieme di proposizioni oggettivamente vere in ogni tempo e luogo. Questo insieme, A, può benissimo configurare una descrizione del mondo - che però, come si è detto, potrebbe non essere completa. Dato A, la tesi (i) si ricava abbastanza facilmente. (15) L'insieme degli oggetti indipendenti dalla mente di cui il mondo consiste è l'insieme degli enti che figurano nelle proposizioni di A: (16) se esiste un'unica descrizione vera del mondo, questa descrizione induce un'individuazione - al limite, parziale - degli 'oggetti' che compongono il mondo. (17) Date (ii) e (i) anche (iii) sembra seguire quasi inevitabilmente, perché se esiste una descrizione oggettiva del mondo e un insieme di oggetti di cui il mondo è formato non si capisce in cosa potrebbe consistere la verità se non in una forma di corrispondenza. A questo punto il quadro del realismo di Marconi si fa, credo, abbastanza chiaro: per Marconi esiste, come si è detto, un insieme A di proposizioni vere in ogni tempo e luogo. A comporta un'individuazione di oggetti - e proprietà - di cui il mondo consiste e che rendono vere in senso corrispondentistico le nostre descrizioni. (18) L'unico elemento che continua a essere poco chiaro riguarda la specificazione del riferimento agli 'oggetti' che compongono il mondo. Cosa significa dire che il mondo è costituito da oggetti? Un modo per rendere più precisa questa idea è quella di reinterpretare la tesi come se asserisse che il mondo è articolato metafisicamente in generi naturali. (19) In questo senso, asserire che il mondo è costituito da una totalità di oggetti sarebbe equivalente ad asserire che il mondo è analizzabile come somma mereologica di elementi, ciascuno dei quali è ascrivibile a un genere naturale. Se si accetta questa integrazione, si può pensare di lasciar cadere il requisito di completezza posto da Putnam, riformulando il realismo metafisico per mezzo di una nuova coppia di tesi equivalenti: per il realista metafisico (i') il mondo possiede un'articolazione metafisica, cognitivamente trasparente, in generi naturali e proprietà essenziali e (ii') esiste una descrizione vera in senso corrispondentistico di come il mondo realmente è (data la corrispondenza con il mondo questa descrizione deve essere anche unica, tuttavia, se la struttura metafisica del mondo è infinitamente complessa, le nostre descrizioni umane potrebbero costituire nel migliore dei casi frammenti di questa descrizione ideale).

Che il realismo metafisico, anche nella versione debole assunta da Marconi, sia incompatibile con il relativismo concettuale dovrebbe essere abbastanza chiaro. Del resto, dalla tesi dell'esistenza di una descrizione ideale e vera - anche se non completa - del mondo segue che il mondo è articolato in oggetti - generi naturali -, proprio quanto il relativista concettuale nega espressamente. È importante sottolineare come una delle motivazioni principali del relativismo concettuale sia quella di reagire alle strettoie del realismo metafisico. Il realismo metafisico è non solo una posizione problematica. (20) È anche fortemente controintuitivo. Principalmente perché il realismo metafisico sembra inseparabile da una forma di essenzialismo. L'idea di una descrizione ideale che coglie oggettivamente un aspetto del mondo richiede che le cose nel mondo possano essere suddivise in generi naturali corredati di proprietà essenziali e che gli uni e le altre risultino cognitivamente accessibili: ammettere la possibilità di una rappresentazione vera in senso corrispondentistico implica non solo la credenza in una predeterminazione dell'articolazione naturale della realtà - dal momento che la verità di una descrizione viene intesa come corrispondenza dei predicati che entrano in quella descrizione con articolazioni del mondo e proprietà oggettivamente esistenti - ma anche l'ulteriore convinzione che questa predeterminazione sia, in un certo modo, trasparente rispetto alla nostra osservazione. Tuttavia, questa tesi appare discutibile, se non altro per la sua componente antropocentrica. Il problema non consiste tanto nell'ammettere o meno che il mondo noumenico possieda una sorta di organizzazione indipendente dall'attività della nostra mente: che la realtà sia in qualche modo 'strutturata' appare del resto difficilmente negabile, alla luce della relativa regolarità delle nostre esperienze; inoltre, ritenere che le nostre ipotesi ontologiche trovino una base nell'organizzazione noumenica del mondo non introduce il tipo di oggettività - oggettività come corrispondenza di articolazioni concettuali e metafisiche - che è richiesto dalla tesi realista. Il problema consiste piuttosto nel fatto che l'essenzialismo presupposto dal realismo metafisico richiede di postulare una sorta di omogeneità tra il 'formato' dell'organizzazione metafisica del mondo e quello dei generi naturali elaborati dalla nostra mente. In questo senso, l'idea che il mondo sia intrinsecamente razionale, che l'essenza della sua struttura profonda sia un'articolazione concettualmente e linguisticamente rappresentabile da parte della mente umana, sembra piuttosto difficile da accettare, quasi il residuo di una forma di razionalismo e di antropocentrismo tipicamente premoderni.

Per questi motivi, credo che il relativismo vada difeso dagli argomenti che, come quelli addotti da Marconi, fanno leva sul carattere oggettivo della verità. A questo punto, però, il compito si complica. Perché, come viene riconosciuto almeno da Platone in poi, il relativismo rappresenta una posizione contraddittoria. Come è noto, infatti, sin dal Teeteto il relativismo è stato criticato perché autoconfutante. (21) Nella sua forma più semplice questo tipo di argomento si rivolge contro le tesi relativiste che sostengono che la verità dei nostri enunciati è relativa rispetto a qualche fattore differenziante (prospettive, schemi concettuali, 'sensazioni' nel caso di Protagora criticato da Socrate/Platone). Il relativista - così si svolge la prova di contraddittorietà - nel momento in cui sostiene che la verità è relativa, automaticamente si contraddice, perché si vincola all'affermazione assoluta dell'enunciato 'la verità è relativa'. Dunque, siccome per poter affermare il relativismo è necessario che il relativismo sia falso, secondo la legge della consequentia mirabilis, il relativismo va respinto. (22) A questa accusa il relativista potrebbe replicare sostenendo che anche la tesi relativista è vera solo relativamente, dunque la sua enunciazione non comporta una contraddizione esplicita. (23) Ma questa mossa innesca un regresso all'infinito, perché se l'enunciato 'la verità è relativa' è vero solo relativamente, dunque, diciamo, vero per il relativista e falso per il suo oppositore, si genera un nuovo enunciato, "l'enunciato 'la verità è relativa' è vero per il relativista e falso per il suo oppositore", appunto, che a sua volta deve essere considerato vero solo relativamente; e così via, in una fuga inarrestabile di metarelativismi. (24)

Argomenti analoghi possono essere agevolmente sviluppati a partire da altre concezioni relativistiche: ne è un esempio l'argomento sulla costruzione dei fatti menzionato da Marconi. (25) Data una definizione sufficientemente generale di relativismo, non è difficile nemmeno elaborare una corrispondente versione dell'argomento del regresso all'infinito. (26) Marconi, che non ritiene che questi argomenti siano decisivi, o almeno, che non ritiene che il relativista li considererebbe tali, contro il relativismo giudica più sicuro appellarsi alla propria distinzione tra verità di un enunciato entro un certo schema concettuale e accessibilità di quello stesso enunciato. (27) In questa sede, invece, vorrei prendere sul serio il suggerimento di Marconi secondo il quale ciò che gli argomenti sul regresso all'infinito ci mostrano è il "carattere abissale dell'interpretazione" (p. 72). Personalmente, infatti, ritengo che questo modo di prospettare il carattere problematico delle concezioni relativiste ne illumini, al contempo, i punti di forza rispetto alle dottrine realiste alle quali si oppongono. Per esplorare più da vicino questa possibilità cerchiamo di calarci in un contesto più concreto. A questo scopo immaginiamo uno scienziato sociale, un antropologo oppure un sociologo dei processi culturali. Il suo intento è quello di sostenere che le culture non esistono 'realmente' ma rappresentano una sorta di costruzione che riproduce certi assetti di potere politico ed economico. L'idea del nostro scienziato sociale può essere ben motivata: egli può sostenere che l'opzione per una concezione non reificata delle culture si giustifica a partire da certe considerazioni intorno al carattere flessibile, intrinsecamente mutevole, aperto di quegli aggregati di simboli, tradizioni, schemi di comportamento che chiamiamo culture. Che la nozione tradizionale di cultura sembra implicare la possibilità, totalmente irrealistica, di una partizione dei soggetti in insiemi disgiunti. Che il concetto di cultura, infine, ha spesso avuto una genesi coloniale o postcoloniale. È chiaro altresì che questo tentativo di spiegazione sia etichettabile come tipicamente antirealista. La manovra dello scienziato sociale che aspira a 'decostruire' la nozione di cultura per metterne in luce l'origine segnata da influenze eterogenee è facilmente inscrivibile nel contesto di una strategia complessiva di relativizzazione dei nostri tentativi di descrizione a un certo quadro concettuale di sfondo.

Tuttavia, l'idea, di per sé pienamente intelligibile, deve fare i conti con una conseguenza spiacevole. Si tratta del fatto che sostenere che la costruzione delle culture riproduce certe strutture di potere preesistenti sembra implicare, in luogo della reificazione delle culture che si vuole screditare, una corrispondente reificazione delle strutture di potere, cui la differenza culturale viene relativizzata. E chiaramente decostruire le culture per sostituire al loro posto una presunta realtà di assetti di potere politico-economico non sembra un esito accettabile. Resta aperta anche in questo caso la possibilità di iterare la strategia già seguita, relativizzando le strutture di potere a qualche fattore ulteriore, ma evidentemente questa manovra non fa che spostare il problema. In conclusione, sembra quindi che anche in questo caso una pregevole e, a prima vista, condivisibile intuizione rischi di arenarsi contro la barriera di un inevitabile regresso all'infinito.

A questo punto si aprono, credo, due strade: una consiste nell'immaginare qualche tipo di circolarità all'interno della catena dei fattori relativizzanti. Non c'è niente in via di principio che possa impedirci di riconoscere la validità di uno schema esplicativo che ammetta la presenza di qualche forma di circolarità. Per esempio, si potrebbe immaginare che il tentativo di decostruzione del concetto di cultura abbozzato in precedenza proseguisse con il riconoscimento che le strutture di potere politico ed economico che determinano la costruzione della differenza culturale, costituiscono una proiezione, a loro volta, di certe assunzioni antropologiche di base, che d'altra parte si possono ragionevolmente ritenere plasmate da un preciso background storico-culturale. Un resoconto di questo tipo non cessa di essere esplicativo per il fatto di essere circolare. Può sembrare tuttavia che una spiegazione che presenti questo tipo di circolarità violi qualche principio implicito di carattere formale, come nel caso di una dimostrazione che impiegasse l'assunto da provare nel corso dell'argomento stesso. A questa osservazione si può rispondere agevolmente osservando che in questo caso la circolarità è di un genere completamente diverso. Per individuarlo con più precisione può essere utile riprodurre graficamente le relazioni che sono state utilizzate nel ragionamento precedente.


Fig. 1

Il grafo in fig. 1 riproduce schematicamente il percorso dell'ipotesi argomentativa discussa in precedenza. Al livello più basso si collocano le (due, per comodità di rappresentazione) forme culturali, C1 e C2 di cui il nostro scienziato sociale vuol sostenere la derivazione da un certo assetto di potere, simboleggiato da S1. Ma siccome anche le strutture di potere sono relativizzate ad un fattore sovrastante, diciamo un certo insieme di assunzioni antropologiche, ecco che il nodo S1 è connesso con un nodo superiore, A1, dal quale si dirama anche la possibilità di immaginare una struttura di potere differente, S2. Infine, dato che abbiamo assunto che le assunzioni antropologiche siano in qualche modo influenzate dal contesto culturale, ecco che A1 è direttamente connesso con C1.

Dalla rappresentazione grafica è evidente quale tipo di circolarità sia introdotta dal nostro discorso. Se facciamo corrispondere le frecce nel grafo alla relazione di appartenenza insiemistica, diventa immediatamente possibile tradurre il grafo precedente in un sistema di insiemi che possiede una caratteristica particolare: A1: {S1, S2}, S1: {C1, C2}, C1: {A1}. La caratteristica che distingue l'insieme A1 è quella di possedere un membro, S1, che ha propria volta ha come elemento un insieme, C1, che contiene A1 stesso. In teoria degli insiemi un insieme di questo tipo viene detto un insieme "non ben fondato". Ora, gli insiemi non ben fondati violano una tradizionale assioma della teoria degli insiemi, l'assioma di fondazione appunto. (28) Tuttavia, la loro esistenza non è in nessun modo contraddittoria: si è compreso infatti, soprattutto dopo il lavoro di Peter Aczel, che la rimozione dell'assioma di fondazione dà luogo a una teoria degli insiemi alternativa a quella tradizionale ma perfettamente coerente. (29) E d'altra parte non mancano gli studi che tentano di utilizzare insiemi di questo tipo per studiare certi fenomeni caratterizzati dalla presenza di forme di circolarità. (30) Dunque, dalla rilevazione dell'esistenza di una circolarità di questo tipo non dovrebbe essere possibile passare all'affermazione dell'inammissibilità del modello esplicativo che a essa faceva ricorso.

D'altra parte, se l'introduzione di insiemi non ben fondati sembra rendere più tollerabile la situazione che si definisce a partire dalla relativizzazione delle descrizioni del mondo alle concettualizzazioni, è anche vero che per un altro verso questo passaggio non segna una vittoria del principio antirealista su quello realista. In effetti, sostenere che la professione di antirealismo è resa accettabile dal fatto di immaginare la struttura delle nostre concettualizzazioni come un sistema di insiemi non ben fondati, ci forza a riconoscere implicitamente che esiste dopo tutto una rappresentazione oggettiva della struttura che il nostro sistema di concettualizzazioni configura. Quindi, se per un verso l'approccio antirealista sembra risultare legittimato dal ricorso agli insiemi non ben fondati, su un altro piano è il presupposto realista che ancora una volta appare governare la possibilità di immaginare forme di antirealismo.

La seconda soluzione entra in gioco proprio per reagire a questa nuova impasse. Essa consiste, banalmente, nell'accettazione del carattere abissale, irriducibile dell'interpretazione. È una prerogativa dell'attività razionale che, dato un qualunque discorso, sia possibile guardare dall'esterno ai presupposti ontologici da cui esso muove (si tratta grossomodo di quella che Quine chiamava "ascesa semantica"). Il meccanismo di messa in distanza delle nostre rappresentazioni e di interrogazione riguardo ai loro presupposti ontologici mette capo a un regresso che non ha mai termine. Questo meccanismo fonda la possibilità di relativizzare le nostre descrizioni del mondo alla ricerca di sempre nuove ontologie di sfondo. Se si postula, come fa il realista metafisico, l'esistenza di un livello di discorso privilegiato, entro il quale è possibile rappresentare oggettivamente stati di cose nel mondo, possiamo immaginare che ci siano alcune descrizioni linguistiche che non possono essere relativizzate. Viceversa, se si rifiuta questa possibilità, come fa il relativista, ci ritroviamo con un'esplosione potenzialmente infinita dei nostri discorsi, dato che ciascuna rappresentazione della 'realtà' non attinge un livello più fondamentale di qualunque altra e, di conseguenza, può essere messa in discussione per rivelarne le assunzioni implicite.

È chiaro, d'altra parte, che ciascun discorso conserva, nonostante la propria infondatezza, un'aspirazione all'oggettività. Sembra una caratteristica inevitabile della nostra attività di rappresentazione imperfetta del mondo che i prodotti di questo agire si propongano come descrizioni obbiettive di 'ciò che vi è'. Questa caratteristica è stata analizzata come accostamento implicito della conoscenza a un vedere spersonalizzato e oggettivo. (31) A questa prerogativa non si sottrae, ovviamente, neppure il discorso con il quale si asserisce la relatività delle nostre rappresentazioni del mondo, quindi, da questo punto di vista, si ritrova il vizio di incoerenza di cui il relativismo viene tradizionalmente fatto segno. Ma si tratta, vorrei sostenere, di un'incoerenza più tollerabile dell'implausibilità complessiva di una posizione per il resto coerente come il realismo metafisico. Questo non significa, però, riabilitare la tesi relativista in una forma generale che proponga una nuova identificazione di un insieme di fattori relativizzanti - del genere di quella operata, per esempio, dal relativismo concettuale con la categoria di schema concettuale -, in quanto il fatto di riconoscere che la negazione relativista dell'oggettività delle rappresentazioni è incoerente nella misura in cui contesta un codice espressivo realista, non legittima comunque ad assumere una tesi più forte della negazione del realismo metafisico. In altre parole: se si riconosce che il problema del relativismo è un problema inerente alla possibilità di negare il carattere oggettivo delle nostre rappresentazioni, allora dalla constatazione dell'implausibilità del realismo metafisico si può dedurre unicamente la legittimità della negazione del realismo metafisico. Ne segue che l'unica forma di relativismo sostenibile coincide con una forma di relativismo minimalmente oggettivo equivalente alla negazione del realismo metafisico. Nuovamente, ciò non vuol dire assumere che il mondo sia una specie di 'blob' completamente indeterminato, ma più semplicemente - e più modestamente - immaginare che la 'struttura' del mondo non sia cognitivamente accessibile o quantomeno non si rifletta nelle categorie che usiamo abitualmente nelle nostre rappresentazioni.

In che modo il rifiuto relativista del realismo metafisico e l'assunzione del carattere abissale dell'interpretazione si riflettono sul pluralismo specificamente sociale e politico? In un modo abbastanza diretto e capace di scalzare le tassonomie costruite da Marconi. Per quanto ritenga che le critiche rivolte da Marconi al pluralismo dei Cento Fiori e al pluralismo dell'equivalenza sia generalmente motivate ed evidenzino problemi autentici di queste due posizioni, credo anche che permanga un altro tipo di collegamento tra pluralismo e relativismo che le considerazioni di Marconi lasciano inesplorato. Cerco di spiegarmi. L'obbiettivo di Marconi è discutere il pluralismo come proiezione del relativismo morale, cioè di una posizione che assume l'indifferenza fra le opzioni di valore. Criticare questo genere di relativismo è sin troppo semplice e Marconi ha buon gioco nel mostrare l'implausibilità di quei generi di pluralismo che, come il pluralismo dell'equivalenza, si alimentano all'idea secondo la quale le opzioni di valore si collocano tutte su uno stesso piano. Contro il pluralismo dell'equivalenza il richiamo di Marconi alle aspirazioni di oggettività dei valori e alla necessità di porre a confronto valori diversi rappresenta un antidoto salutare. Tuttavia, l'aspirazione dei valori all'oggettività costituisce solo un aspetto dei valori stessi. Perché anche i valori, prima di essere messi a confronto, devono essere ricostruiti e interpretati. Ed ecco che da questo versante si affaccia il collegamento tra relativismo e pluralismo che, a mio avviso, Marconi ha lasciato inesplorato. Mi riferisco al fatto che se si riabilita il carattere irrimediabilmente relativo delle rappresentazioni del mondo, emerge un problema non facilmente risolvibile attinente alla possibilità di presupporre che i 'nostri' valori siano intelligibili da parte dei nostri interlocutori.

Questa difficoltà rappresenta, a mio avviso, 'il' problema centrale del pluralismo contemporaneo. Non tanto quanto o quale pluralismo è accettabile ma: dove comincia il pluralismo? Dove finiscono i nostri valori e inizia la contrapposizione con i valori degli altri? Anche in questo caso un esempio può forse contribuire a rendere tutta la discussione meno astratta. Nessuno dubita che i diritti umani costituiscano un valore riconosciuto all'interno dei nostri ordinamenti - se non all'interno delle nostre società. L'art. 2 della Costituzione italiana si apre al riconoscimento di diritti iscritti in documenti ulteriori rispetto al testo costituzionale stesso. La Dichiarazione universale del 1948, la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e i Patti Onu sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali - in mezzo a molti altri trattati e convenzioni su temi più specifici (32) - definiscono i confini di dei diritti che hanno cittadinanza nel nostro ordinamento. Eppure, questi diritti, per produrre effetti concreti di natura giuridica o politica, richiedono di essere interpretati. Attraverso l'interpretazione si apre un campo di ridefinizione del contenuto dei diritti stessi che può condurre dall'estremo della contrapposizione, del muro contro muro, a quello della parziale riconciliazione fra tradizioni giuridiche e politiche diverse. L'interpretazione, nel caso dei diritti, dovrebbe attivare in primo luogo un'interrogazione retrospettiva intorno al contenuto che certe categorie giuridiche assumevano nel contesto dell'Europa premoderna: questa interrogazione, svelando che il moderno individualismo dei diritti poggia su un'originaria concezione comunitaria dei diritti stessi, (33) potrebbe evidenziare punti di contatto fra il linguaggio contemporaneo dei diritti e le manifestazioni di ethos comunitario che caratterizzano ancora le culture extraeuropee. Più ancora: non solo l'operazione di ridefinizione della propria identità assiologica è importante per noi, nella misura in cui ci consente di presentare un profilo più aperto e tollerante ai nostri interlocutori; è importante anche perché promette di innescare un processo analogo nei nostri interlocutori, che conduca a una conciliazione più soddisfacente e più effettiva fra tradizioni e sensibilità normative diverse.

Prendiamo, per esempio, il caso dell'escissione femminile. Da una parte, il confronto realista tra valori, invocando il diritto a non subire lesioni della propria integrità fisica, esigerebbe forse che queste tradizioni fossero represse, anche attraverso l'applicazione delle norme del diritto penale e la punizione esemplare dei responsabili. Il rischio implicito in questo atteggiamento è quello di contemplare in un'ottica unilateralmente assimilazionista le identità culturali dei soggetti, attivi e passivi, di queste pratiche. In questa prospettiva, le donne sono viste come assoggettate a una logica di dominio maschile che si esprime anche attraverso il segno sui corpi. Probabilmente, questa lettura non coglie la specificità simbolica di questo genere di mutilazioni e la portata di integrazione sociale connessa al perpetuarsi dei rituali. Da questo punto di vista, una riflessione più pacata potrebbe forse procedere dalla constatazione che forme di sottomissione analoghe - anche se meno cruente - non sono estranee neppure al passato recente delle società occidentali, per suggerire poi che il rigore dei diritti, in un contesto premoderno, troverebbe un valido bilanciamento nell'attribuzione di significato a un certo insieme di pratiche. Con questo, non si vuole proporre una completa rimozione della sofferenza ingiustificata inflitta alle giovanissime destinatarie di questi comportamenti. Si tratta, più modestamente, di operare in direzione di una 'fusione di orizzonti', per riprendere il lessico gadameriano, cercando di innescare un processo di comprensione reciproca e di autocomprensione, al termine del quale le contrapposizioni di valori e la repressione penale vengono sostituite da qualcosa d'altro. (34)

Mi sono soffermato brevemente sul problema dell'escissione femminile perché mi sembra emblematico del genere di questioni che l'attuale pluralismo delle società contemporanee ci presenta. Si tratta di un insieme di problematiche attinenti, non tanto a quali valori possiamo tollerare ma a come dobbiamo operare nella definizione dei profili assiologici e identitari, a come dobbiamo gestire il rapporto con le nostre identità passate e con i valori che ci vengono proposti dalle tradizioni. Nell'affrontare e nel tematizzare questi problemi non è possibile attenersi a un rigida osservanza delle intuizioni realiste e a una ricerca diretta della verità. Risulta più produttivo, forse, seguire il percorso inverso: immaginare possibili scenari dell'alterità e, sulla base di quegli scenari, costruire narratives persuasivi di realtà e di verità.


Note

1. D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino, 2007.

2. C. Wright, Truth and Objectivity, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1992, pp. 25ss.

3. Per una rassegna delle obbiezioni più comuni, vedi W. Künne, Conceptions of Truth, Oxford University Press, Oxford, 2003, cap. 3.

4. Per una rassegna vedi M.P. Lynch (a cura di), The Nature of Truth: Classic and Contemporary Perspectives, MIT Press, Cambridge, Mass., 2001.

5. Vedi soprattutto H. Putnam, Reason, Truth and History, Cambridge University Press, Cambridge, 1981, trad. it. Ragione, verità e storia, Il Saggiatore, Milano, 1985.

6. Oltre al già citato Truth and Objectivity un altro testo rilevante sul tema è C. Wright, Minimalism. Deflationism, Pragmatism, Pluralism, in M.P. Lynch (a cura di), The Nature of Truth, cit., pp. 751-87. Si possono vedere anche alcuni dei saggi contenuti in C. Wright, Saving the Differences: Essays on Themes from Truth and Objectivity, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 2003.

7. In estrema sintesi, un enunciato è superasseribile, secondo Wright, quando è giustificato e parte della sua giustificazione reggerebbe a un'analisi arbitrariamente approfondita del suo fondamento e a estensioni arbitrariamente ampie della base di informazione.

8. L'unico vero realista nel panorama attuale è William P. Alston - vedi A Realistic Conception of Truth, Cornell University Press, Ithaca, 1996. Ad Alston si può avvicinare Michael Devitt - vedi Realism and Truth, Princeton University Press, Princeton, 1997. Al contrario, la pattuglia antirealista è decisamente più numerosa. Vedi fra gli altri: C. Wright, Truth and Objectivity, cit.; Id., On Being in a Quandary: Relativism, Vagueness, Logical Revisionism, "Mind", 110 (2001), pp. 45-98, ristampato in C. Wright, Saving the Differences, cit., pp. 443-509; Id., Intuitionism, Realism, Relativism and Rhubarb, in P. Greenough, M.P. Lynch, Truth and Realism, Oxford University Press, Oxford, 2006, pp. 38-60; M.P. Lynch, Truth in Context: An Essay on Pluralism and Objectivity, MIT Press, Cambridge, Mass., 2001; Id., True to Life: Why Truth Matters, MIT Press, Cambridge, Mass., 2004, trad. it. La verità e i suoi nemici, Cortina, Milano, 2006; M. Kölbel, Truth Without Objectivity, Routledge, London, 2002; T. Horgan, Contextual Semantics and Metaphysical Realism: Truth as Indirect Correspondence, in M. Lynch (a cura di), The Nature of Truth, cit., pp. 67-95; J. MacFarlane, Making Sense of Relative Truth "Proceedings of the Aristotelian Society", 105 (2005), pp. 321-39; M. Dummett, Thought and Reality, Oxford University Press, Oxford, 2006 (benché l'ultimo Dummett, pur conservando l'impianto complessivamente verificazionista della teoria, abbia incorporato numerose assunzioni che motivavano l'approccio realista alla semantica degli enunciati concernenti il passato). Un caso a parte è rappresentato dai minimalisti e dai deflazionisti come Horwich e Field.

9. Vedi, per esempio, p. 21.

10. Una lettura interessante delle Ricerche filosofiche alla luce del rifiuto wittgensteiniano della nozione di verità come corrispondenza è stata recentemente proposta da Charles Travis: vedi Ch. Travis, Thought's Footing: A Theme in Wittgenstein's Philosophical Investigations, Oxford University Press, Oxford, 2006.

11. Se invece si accetta l'idea che 'il sale è cloruro di sodio' non rappresenta un enunciato metafisicamente privilegiato, la risposta alla domanda se il sale era cloruro di sodio anche prima dell'invenzione della chimica diventa banale: prima dell'invenzione della chimica il sale era grossomodo ciò che anche oggi esso è per coloro che ignorano l'identità chimica 'sale = NaCl', vale a dire una sostanza della quale si può parlare in molti modi, ma non in termini di molecole di sodio e di cloro. Per un'idea più precisa del ricco e variegato sapere intorno al sale sviluppato dalla scienza naturale dell'antichità, si possono consultare le Etimologie di Isidoro da Siviglia, liber XVI, cap. 2, 3-6.

12. 'In termini assoluti' significa che non c'è un'ontologia più aderente a come il mondo di fatto è, mentre ontologie diverse possono essere migliori o peggiori in rapporto a fattori pragmatici (non c'è dubbio, infatti, che l'ontologia della chimica consenta un dominio maggiore sulla natura rispetto all'ontologia della Grecia arcaica).

13. Dove 'assolutamente vere' significa vere in ogni tempo e luogo e 'oggettivamente vere' significa vere indipendentemente da qualsiasi fattore epistemico.

14. Cfr. H. Putnam, Ragione, verità e storia, cit., pp. 57ss.

15. A meno di ipotizzare che il mondo sia costituito da una sorta di 'continuo' e che non vi siano affatto entità individuali. Cfr. H.N. Lee, Are There Any Entities?, "Philosophy and Phenomenological Research", 40 (1979), pp. 123-9.

16. Per converso, (i) implica (ii) - e (iii) -, perché se assumiamo che il mondo sia costituito da una totalità di oggetti e di proprietà indipendenti dalla mente ne segue l'esistenza di una descrizione ideale, vera in senso corrispondentistico, che consiste dell'insieme di tutti gli enunciati veri in un modello isomorfo al mondo. Vedi: H. Putnam, A Defense of Internal Realism, in H. Putnam, Realism with a Human Face, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1990, trad. it. Un'apologia del realismo interno, in Realismo dal volto umano, il Mulino, Bologna, 1995, pp. 141-57. Putnam rispondeva a una critica di Hartry Field - vedi H. Field, Realism and Relativism, "Journal of Philosophy", 79 (1982), pp. 553-67 - che sosteneva che a ciascuna delle tesi enumerate da Putnam corrisponda una diversa accezione di "realismo metafisico". In seguito, Ilkka Niiniluoto ha osservato che (i) è compatibile con la possibilità che il mondo possieda una struttura infinitamente complessa. In questo caso, una descrizione vera e completa del mondo esisterebbe solo in astratto senza poter essere effettivamente dominata da una mente finita (cfr. I. Niiniluoto, Critical Scientific Realism, Oxford University Press, Oxford, 2002, p. 214).

17. E non vale, a questo proposito, replicare, come fa Field, che, data l'esistenza di una totalità di oggetti potrebbero darsi più descrizioni complete di questa totalità che impiegano concetti differenti o addirittura altri mezzi di rappresentazione (H. Field, Realism and Relativism, cit. p. 553), perché l'assunzione di partenza della 'decomponibilità' del mondo in una pluralità di oggetti definiti comporta l'esistenza di un livello di descrizione privilegiato, quello che si impegna ontologicamente solo sugli oggetti di cui il mondo in effetti consiste. Un problema, semmai, per il realista, rispetto a questo punto, potrebbe venire dall'ipotesi che l'insieme di oggetti di cui il mondo consiste abbia una cardinalità non numerabile, cosa che renderebbe problematico dedurre l'esistenza di una descrizione corrispondente.

18. Resterebbe da capire se la verità, in questo quadro, sia corrispondenza con fatti oppure con stati di cose, ma è un problema sul quale non posso soffermarmi.

19. Questa specificazione sembra anche coerente con il genere di realismo professato da Putnam negli anni settanta: vedi soprattutto i saggi Explanation and Reference (1973), trad. it. Spiegazione e riferimento e The Meaning of "Meaning" (1973), trad. it. Il significato di "significato", entrambi ristampati in H. Putnam, Mind, Language and Reality: Philosophical Papers, Volume 2, Cambridge University Press, Cambridge, 1975, trad. it. Mente, linguaggio e realtà, Adelphi, Milano, 1987.

20. Vedi i notissimi model-theoretic arguments eposti da Putnam in vari luoghi della sua opera: vedi H. Putnam, Models and Reality, in H. Putnam, Realism and Reason: Philosophical Papers, Volume 2, Cambridge University Press, Cambridge, 1983; Id., Ragione, verità e storia, cit., Capp. 2-3. Senza entrare nei dettagli si può dire che nel complesso l'idea sulla quale questi argomenti, in forme diverse, si appoggiano è quella secondo la quale, se ipotizziamo che il mondo possegga una struttura razionale, nel senso più sopra specificato, questa struttura non è univocamente determinabile a partire dalla conoscenza delle condizioni di verità di un insieme, per quanto vasto, di enunciati descrittivi del mondo empiricamente controllabili. Non è completamente chiaro se gli argomenti elaborati da Putnam siano decisivi. La maggior parte dei commentatori condivide probabilmente l'opinione difesa recentemente da Bob Hale e Crispin Wright, secondo i quali anche nella sua versione più recente, quella esposta in Ragione, verità e storia, il ragionamento seguito dal filosofo americano non riesce a chiudere tutte la vie di uscita per il realista metafisico. Tuttavia, come anche Hale e Wright riconoscono, l'attacco sferrato da Putnam è sufficiente quantomeno per porre una seria ipoteca sulla difendibilità del realismo metafisico, ipoteca cui del resto si possono sommare altre considerazioni contestuali, in maniera tale da tagliare al realista ogni possibilità di replica. Vedi B. Hale, C. Wright, Putnam's Model-Theoretic Argument Against Metaphysical Realism, in B. Hale, C. Wright (a cura di), A Companion to the Philosophy of Language, Blackwell, Oxford, 1997, pp. 427-57. Ma vedi anche, per una diversa valutazione, B. Taylor, Models, Truth, and Reality, Oxford University Press, 2006, cap. 3.

21. Cfr. Platone, Teeteto, 170-171. Per un'interpretazione del dialogo platonico con particolare riferimento alla confutazione di Protagora vedi J.H. McDowell, Plato: Theaetetus, Oxford University Press, Oxford, 1973; M.F. Burnyeat, Protagoras and Self-Refutation in Plato's Theaetetus, "Philosophical Review", 85 (1976), pp. 172-95; L. Castagnoli, Protagoras Refuted: How Clever is Socrates' "Most Clever" Argument at Theaetetus 171a-c?, "Topoi", 23 (2004), pp. 3-32. Per una critica più specifica del relativismo concettuale si veda il classico D. Davidson, On the Very Idea of a Conceptual Scheme, in D. Davidson, Inquiries into Truth and Interpretation, Oxford University Press, Oxford, 1984, trad. it. Sull'idea stessa di schema concettuale, in Verità e interpretazione, il Mulino, Bologna, 1994. Per un'interpretazione di quest'ultimo testo mi permetto di rinviare a L. Marchettoni, Relativismo e antirelativismo nella filosofia di Donald Davidson, "Iride", 40 (2003), pp. 511-28.

22. L'argomento sviluppato nel Teeteto è leggermente più complesso e pone diversi problemi. Per una rassegna vedi L. Castagnoli, Protagoras Refuted, cit.

23. La possibilità di una verità solo relativa del relativismo è stata utilizzata da Jack Meiland per difendere la dottrina relativista dalle accuse di incoerenza: vedi: J.W. Meiland, Concepts of Relative Truth, "The Monist", 60 (1977), pp. 568-82; Id., On the Paradox of Cognitive Relativism, "Metaphilosophy", 11 (1980), pp. 115-26; Th. Benningson, Is Relativism Really Self-refuting?, "Philosophical Studies", 94 (1999), pp. 211-36. Più recentemente, Steven Hales ha sostenuto che, mentre la dottrina secondo la quale "tutto è relativo" è inconsistente, il principio per cui "ogni cosa vera è vera in modo relativo - cioè, è vera relativamente a certe prospettive" - non lo è, sviluppando una "logica relativista" che tratta la nozione di verità relativa per mezzo di operatori analoghi agli operatori modali (cfr. S.D. Hales, A Consistent Relativism, "Mind", 106 (1997), pp. 33-52, ristampato con modifiche in. S.D. Hales, Relativism and the Foundations of Philosophy, MIT Press, Cambridge, Mass., 2006, cap. 3). Anche trascurando alcune difficoltà tecniche (per esempio: Hales assume che la relazione di commensurabilità fra prospettive, che costruisce come un analogo della relazione di accessibilità fra mondi possibili, sia simmetrica e transitiva - quindi, una relazione di equivalenza, dal momento che la riflessività sembra ovvia -, un'ipotesi non facilmente giustificabile), il problema maggiore dell'ap-proccio di Hales è costituito, a mio avviso, dallo statuto degli assiomi che governano la logica relativista. Devono essere ritenuti assolutamente veri o veri solo in maniera relativa? Nessuna delle due risposte appare soddisfacente - come lo stesso Hales correttamente riconosce -, perciò il problema dell'autoconfutazione si ripresenta (cfr. S.D. Hales, Relativ-ism and the Foundations of Philosophy, cit., pp. 128-31). Sul tema generale del relativismo aletico e sugli autori menzionati in questa nota vedi M. Baghramian, Relativism, Routledge, London, 2004, cap. 4.

24. Cfr. R. Lockie, Relativism and Reflexivity, "International Journal of Philosophical Studies", 11 (2003), pp. 319-39.

25. D. Marconi, Per la verità, cit., pp. 71-2. L'argomento cui Marconi si riferisce è tratto da P. Boghossian, Fear of Knowledge: Against Relativism and Constructivism, Oxford University Press, Oxford, 2006, trad. it. Paura di conoscere. Contro il relativismo e il costruttivismo, Carocci, Roma, 2006, pp. 73-6. Una traccia di questa linea di attacco contro il relativismo era però già stata anticipata da Putnam. Cfr. H. Putnam, Ragione, verità e storia, cit., p. 131.

26. Per esempio, se definiamo la tesi del relativismo generico nel modo seguente:

Relativismo generico: le rappresentazioni delle cose sono relative al fattore relativizzante p. Posto che un certo enunciato e rappresenti correttamente uno stato di cose s in accordo a un certo fattore relativizzante p0, esiste almeno in potenza un fattore relativizzante alternativo p1 rispetto al quale e non rappresenta s.

È facile vedere in che modo il regresso all'infinito si ripresenta. Infatti, se la rappresentazione associata all'enunciato e1 che asserisce che l'enunciato e0 costituisce una rappresentazione dello stato di cose s0 rispetto al fattore relativizzante p0 è essa stessa relativa a qualche fattore relativizzante p1, allora possiamo domandarci se la rappresentazione associata all'enunciato e2 che asserisce la relatività della rappresentazione associata ad e1 sia anch'essa relativa o meno. Da ciò emerge la necessità di postulare la relatività di questa nuova rappresentazione e poi della rappresentazione associata all'enunciato che afferma la relatività della rappresentazione associata ad e2, e così via.

27. In effetti, la minaccia del regresso all'infinito non comporta di per sé l'insorgere di una contraddizione: il relativista potrebbe accettare la presenza di questa catena di fattori relativizzanti come una conseguenza naturale di tutta la teoria, nello stesso modo in cui alcuni autori hanno creduto di evadere il tradizionale problema epistemologico del fondamento della conoscenza affermando che una credenza può fondarsi su una catena infinita di altre credenze. Una difesa recente di questa tesi, chiamata "infinitismo" e attribuita fra gli altri a Peirce, è stata proposta da Peter Klein: cfr. P. Klein, Human Knowledge and the Infinite Regress of Reasons, "Philosophical Perspectives", 13 (1999), pp. 297-325.

28. L'assioma di fondazione si può formulare dicendo che se A è un insieme non vuoto allora deve esistere almeno un elemento x appartenente ad A tale che, o x è un atomo (vale a dire un elemento che non è a sua volta un insieme) oppure xA = 0, l'intersezione di x e A è vuota. L'inammissibilità di un insieme come quello considerato nel testo deriva dal fatto che se se ne computa la chiusura transitiva - vale a dire l'insieme, indicato con TC(A), che, per un dato insieme A, contiene tutti gli elementi di A, tutti gli elementi degli elementi di A, tutti gli elementi degli elementi degli elementi di A, ecc., TC(A) = ∪{A, ∪A, ∪∪A,...} - tale insieme conduce a una violazione del requisito prescritto dall'assioma di fondazione - più esattamente, l'insieme: TC(A1)\{S2, C2} = {S1, C1, A1}, la cui esistenza, dato TC(A1), è garantita dall'assioma di separazione, viola l'assioma di fondazione. Se si respinge l'assioma di fondazione, invece, diventa possibile immaginare insiemi che contengono circolarità del tipo di quella illustrata dall'insieme A1, oppure infinite catene discendenti di insiemi contenuti l'uno nell'altro. Cfr. Y.N. Moschovakis, Notes on Set Theory, Springer, Heidelberg, 2006, cap. 11 e "Appendix B".

29. Cfr. P. Aczel, Non-Well-Founded Sets, CSLI Publications, Stanford, 1988.

30. Vedi soprattutto, J. Barwise, J. Etchemendy, The Liar: An Essay in Truth and Circularity, Oxford University Press, Oxford, 1987; J. Barwise. L. Moss, Vicious Circles, CSLI Publications, Stanford, 1996.

31. Per una formulazione classica di queste tesi vedi M. Heidegger, Platons Lehre von der Wahrheit, in Wegmarken, Klostermann, Frankfurt am Main, 1967, trad. it. La dottrina platonica della verità, in Segnavia, Milano, Adelphi, 1987, pp. 159-92. Secondo Heidegger l'ιδέα, cioè ciò "che si rende accessibile nella sua e-videnza", "realizza il venire alla presenza, cioè il presentarsi di ciò che un ente di volta in volta è. [...] Ma il venire alla presenza è in generale l'essenza dell'essere. Per Platone, quindi, l'essere ha in generale la sua essenza autentica nel che 'cos'è'" (M. Heidegger, La dottrina platonica della verità, cit., p. 180). Ma se l'ente si rivela come presenza e-vidente, allora l'άλήθεια, la verità come "svelamento" deve consistere necessariamente in un vedere: "l'άλήθεια cade sotto il giogo dell'ιδέα. [...] Se ovunque in ogni comportarsi in rapporto all'ente ciò che importa è l'ιδέα dell'ιδέα, la visione dell''e-videnza', allora ogni sforzo deve concentrarsi anzitutto nel rendere possibile un tale vedere. Per questo è necessario il guardare nel modo retto" (ibidem, p. 185). Cfr. anche M. Heidegger, Zur Sache des Denkens, Max Niemeyer Verlag, Tübingen, 1969, trad. it. Tempo ed essere, Guida, Napoli, 1980, pp. 180ss.

32. Per citare solo alcuni tra i documenti più rilevanti promossi dall'Onu: la Convenzione sul genocidio, del 1948; la Convenzione sulla tratta delle persone e lo sfruttamento della prostituzione, del 1949; la Convenzione sulla schiavitù, del 1956; la Convenzione contro la discriminazione razziale, del 1965; la Convenzione sulla tortura, del 1948; la Convenzione sui diritti del fanciullo, del 1989.

33. La critica all'atomismo del diritto nasce nell'ottocento - emblematico è un testo come la Questione ebraica di Marx. Ma è molto dubbio se l'elaborazione precedente del concetto di diritto soggettivo fosse qualificabile come individualista. Già il caso di Locke solleva molte perplessità, a questo proposito; le origini della nozione, poi, sembrano connotate in senso più comunitario. Su questo tema mi permetto di rinviare ai miei Ockham, i canonisti e l'atomismo dei diritti soggettivi, "Iride", 49, 2006, pp. 271-87 e La teoria dei diritti soggettivi di Guglielmo da Ockham, "Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno", 37, 2008 (forthcoming).

34. Per esempio, nel caso dell'escissione femminile, si può considerare la proposta di 'sunna rituale' formulata dal medico somalo della Asl fiorentina Omar Abdulkadir, su cui vedi la discussione on line curata da Brunella Canalini: B. Canalini (a cura di), La proposta di 'sunna' rituale.