2008

Relativismo, verità e ragioni morali

Roberto Mordacci (*)

La questione del relativismo ha assunto negli ultimi anni una grande rilevanza nel dibattito pubblico. Molti fattori concorrono a generare questo rilievo, soprattutto sul piano culturale. Fra questi fattori vi sono: la diffusa tesi postmodernista secondo cui il mondo contemporaneo non dispone più di criteri oggettivi e universali a causa dell'autoconfutazione di tutti i tentativi, antichi e moderni, di individuare tali criteri; l'effetto di spaesamento generato dalle ondate migratorie e dalla compresenza di culture profondamente diverse in società complesse e multiculturali; la percezione di una proliferazione incontrollata dei punti di vista considerati non confutabili ma reciprocamente incompatibili, non solo nel mondo culturale ma anche in quello scientifico (geometrie non euclidee, teorema di Gödel, fisica quantistica ecc.); infine, ma non meno importante, il ripetuto richiamo da parte di autorità religiose e politiche circa i pericoli morali e sociali del relativismo, il quale viene spesso considerato una perniciosa deriva della modernità.

Anche nel dibattito filosofico la questione teorica del relativismo risente di questi fattori, in particolare sul terreno della morale e della politica. La filosofia approfondisce alcuni aspetti di un generale interesse per il valore della verità, che è evidentemente percepito come messo in discussione. Il tempo presente non si vive certamente come un tempo di certezze, se non proprio per reazione a un diffuso clima di incertezza sul sapere, sulla prassi e soprattutto sui valori. Si comprende, quindi, che il relativismo goda di un certo favore: esso è considerato da molti come un riflesso dell'esperienza quotidiana e, al tempo stesso, come un salutare antidoto alla fuga verso dogmatismi di varia natura. Questo tuttavia non significa che si tratti di una posizione teoricamente più solida del dogmatismo, né che si tratti di un rimedio efficace ai rischi generati da quello che potremmo chiamare «il bisogno di certezze nelle attuali condizioni di incertezza».

Il libro di Diego Marconi Per la verità (1) costituisce in questo contesto un pregevole contributo alla chiarezza. La sua analisi della nozione di verità, del rapporto di quest'ultima con la giustificazione e la certezza, la sua critica di alcune versioni correnti del relativismo paiono a chi scrive non solo accurate ma in gran parte convincenti. Finalmente, Marconi chiarisce senza remore che il relativismo non può considerarsi la convinzione standard delle persone ragionevoli, con l'implicito di ritenere tutti gli altri (i non-relativisti) o ideologici e violenti o radicalmente fuorviati e stupidi. Anche il relativismo è una posizione afflitta da problemi teorici non facilmente superabili. Soprattutto, il relativismo non è, come invece molti ritengono, la necessaria premessa di un atteggiamento tollerante e democratico, bensì è una potenziale anticamera di pratiche di prevaricazione sistematica e di intolleranza. Nelle parole non certo edulcorate di Marconi: «il relativismo morale non è soltanto una posizione teorica difficilmente difendibile, ma è moralmente riprovevole» (p. 130).

Dal momento che le competenze di chi scrive sono nel campo della filosofia morale e non nella filosofia del linguaggio o nell'epistemologia, in questo contributo mi limiterò a richiamare alcuni aspetti del dibattito sul relativismo etico, che Marconi affronta nel terzo capitolo. Mi pare sia questa, infatti, la parte del libro che più meriterebbe un approfondimento. D'altra parte, si può forse dire che sia proprio la rilevanza morale e politica del relativismo a motivare essenzialmente il volume e il dibattito in cui esso si inserisce. In estrema sintesi, sosterrò che il relativismo nasce dalla reazione all'assolutismo morale, ma che si tratta di una reazione minoritaria ed estrema. Inoltre, suggerirò che nell'ambito dell'etica pubblica la distinzione fra verità e giustificazione, avanzata da Marconi nel primo capitolo (pp. 8-22) e nell'Appendice (p. 161-163) ha un carattere più sfumato e che, soprattutto, in questo ambito è più rilevante è la ragionevolezza delle nostre massime che la loro verità in senso assoluto (benché questa non sia affatto irrilevante ma anzi necessaria).

Proprio da quest'ultimo termine, «assoluto», conviene iniziare. Probabilmente, la ragione per cui il relativismo, specialmente in campo morale, appare a molti così attraente è che, concettualmente, esso sembra costituire l'alternativa naturale all'assolutismo. L'opposto di relativo è infatti assoluto, così come l'opposto di universale è particolare, l'oggettivo si contrappone al soggettivo, il collettivo all'individuale e così via. Lo stesso Marconi ne è pienamente consapevole e, nella chiusa del secondo capitolo, ricorda che, per molte persone, «chi crede che ci siano valori assoluti, impegnativi per tutti è un pericoloso dogmatico o, come si usa dire oggi, un 'fondamentalista': il suo diritto di parola dev'essere quanto meno contemperato con la sua oggettiva pericolosità» (pp. 83-84).

È precisamente qui che il relativismo, di cui Marconi critica varie versioni, fa presa sul senso comune. Tuttavia, nel capitolo successivo Marconi non approfondisce l'alternativa fra assolutismo e relativismo, preferendo concentrarsi nella discussione di due tipi ricorrenti di pluralismo, quello «dei Cento Fiori» e quello dell'equivalenza. Mi soffermo qui brevemente su quell'alternativa per mostrare come sia essa a indurre i relativisti in errore. Di per sé, infatti, il pluralismo non presuppone affatto una tesi relativista e costituisce, anche come tesi morale e non solo descrittiva, una posizione del tutto diversa. L'apprezzamento della pluralità dei valori non esige affatto l'ammissione della loro relatività o equivalenza.

Non c'è dubbio che l'assolutismo morale abbia una pessima fama e che in effetti non sia una concezione molto appetibile. Possiamo definirlo come la tesi secondo cui esiste un solo stile di vita accettabile, che tutti dovrebbero seguire e le deviazioni dal quale devono essere biasimate o addirittura impedite. Qualunque persona di spirito liberale e democratico non può che ritenere questa tesi difficilmente accettabile. Essa è infatti incompatibile con una pacifica convivenza civile, a meno di trovarsi in una società fortemente omogenea sotto il profilo morale. Anche in questo caso, per altro, affinché l'assolutismo morale appaia compatibile con la convivenza occorre che la società in questione sia costituita da niente meno che il mondo intero. Diversamente, infatti, l'assolutista morale si trova a constatare che altre società vivono altrimenti, cioè in modo sbagliato, e questo non può che essergli intollerabile, soprattutto se egli ha a cuore le sorti morali dell'umanità. Così ragionano i fondamentalisti, o più precisamente gli integralisti, cioè i sostenitori di una concezione «integrale» della verità, la quale è completamente nota a coloro che sanno e riguarda integralmente ogni aspetto della vita di tutte le persone. Costoro, però, non sono semplici sostenitori teorici dell'assolutismo morale: essi non si limitano a constatare che gli altri vivono immoralmente, ma si fanno carico di un ampio grado di proselitismo e non esitano a impiegare la forza per convertire gli immorali a migliori costumi. Il passo dall'assolutismo teorico all'integralismo pratico è comunque piuttosto breve. Dal momento, però, che non riesce affatto facile convincere chi ha costumi diversi dell'assoluta validità di uno stile di vita differente, appare chiaro che l'assolutismo rende realmente molto difficile la convivenza civile, a meno di accettare un elevatissimo livello di coercizione, controllo e repressione. Non sorprende quindi che gli individui democratici si tengano lontano da questa concezione.

Tuttavia, siamo certi che la reale alternativa a questo poco attraente modo di ragionare e agire sia abbracciare il relativismo? Gli argomenti di Marconi offrono molte ragioni per dubitarne. I relativisti, al fine di opporsi all'assolutismo morale, ritengono di dover rinunciare del tutto alla nozione di verità e questo significa gettare il bambino con l'acqua sporca. Sotto il profilo pratico, l'errore consiste più precisamente nel ritenere che affermare l'esistenza della verità implichi necessariamente il pensiero che questa debba essere imposta a tutti con le buone o con le cattive. È evidente a chiunque che questo è un non sequitur. Per la prospettiva morale, questo è già sufficiente per squalificare la presunta implicazione fra pluralismo e relativismo: l'esistenza della verità non è di per sé un buon motivo per imporla ad altri. In altri termini, il paternalismo moralistico non è affatto un'implicazione logica del realismo circa la verità. Vi è però nel relativismo, sostiene Marconi, anche un errore teorico, che risiede nella confusione che questo comporta fra verità e certezza e, soprattutto, fra verità e giustificazione. Gli argomenti in proposito sono convincenti, ma il problema del rapporto fra verità e giustificazione, sul piano etico-politico, appare più complesso che sul piano teorico e su questo tornerò nell'ultima parte di questo intervento.

Precisiamo però prima che cosa comporti in etica sostenere che vi sono principi «assoluti» o «assolutamente validi». Nell'ambito pratico, l'assolutezza di una regola d'azione significa che essa non è radicalmente relativa alle circostanze o all'agente, ma vale ceteris paribus per chiunque si trovi ad agire in condizioni simili. Per questo, l'assolutezza morale di una regola coincide con l'assenza di eccezioni. Questa ineccepibilità della regola va però intesa con attenzione: non si tratta, come si potrebbe affrettatamente ritenere, di stabilire che un certo comportamento debba essere seguito uniformemente da tutti gli agenti in ogni circostanza. Si tratta di riconoscere che la regola vale per tutti gli agenti in circostanze simili per gli aspetti rilevanti. Il comportamento concreto che realizza la regola può essere piuttosto diverso a seconda dei dettagli della situazione e, soprattutto, la differenza nelle circostanze può rendere la regola inapplicabile. Sostenere che mentire sia di principio sbagliato non comporta affatto ritenere che Aldo Moro avesse il dovere morale di rivelare alle Brigate Rosse i segreti di Stato di cui era a conoscenza. Il fatto che i suoi carcerieri avessero rapito lui e ferocemente ucciso gli uomini della sua scorta e che intendessero sovvertire l'ordine democratico lo autorizzava a non ritenere giustificata la loro richiesta di verità.

L'assolutezza dei principi morali è però intesa per lo più nel senso della loro universale validità: chiunque dovrebbe riconoscerli e applicarli. Ora, il dibattito sugli «assoluti morali» ha una lunga storia ed è da sempre molto vivace. Tuttavia, da un rapido sguardo a questo dibattito si evince con chiarezza che ritenere che vi siano principi morali che, almeno ad un certo livello, possono essere ritenuti come «assolutamente validi» non comporta che si sostenga l'assolutismo morale come è stato definito più sopra. Così come, seguendo l'argomentazione di Marconi, dal fatto che si affermi l'esistenza della verità non segue che si condivida una posizione dogmatica. Infatti, anche se non si tratta precisamente della stessa cosa (su questo tornerò più avanti), possiamo dire che la validità di un principio morale corrisponde alla sua verità.

Va ricordato che la tesi per cui alcuni principi morali siano autoevidenti e perciò non solo veri ma addirittura certi non è affatto appannaggio di etiche a fondamento metafisico o religioso. Certamente, il tomismo nelle sue differenti versioni ha sempre sostenuto l'esistenza di «assoluti morali», ovvero di principi etici la cui verità, essendo fondata sulla legge naturale, non è soggetta a variazioni né in base alle circostanze storiche né in base alle opinioni dell'agente (fatta però salva l'importante eccezione della «coscienza invincibilmente erronea», cui lo stesso Tommaso d'Aquino riconosceva la priorità sul piano dell'onestà morale) (2). Tuttavia, anche teorie morali non sospettabili di connivenze metafisiche hanno sostenuto la validità assoluta di qualche principio morale. Ad esempio, Jeremy Bentham e John Stuart Mill ritenevano in sostanza che la validità del principio di utilità fosse immediatamente evidente a chiunque riflettesse sulla natura umana. Inoltre, è noto che l'utilitarismo, almeno nella versione nota come «utilitarismo dell'atto», riconosce validità al solo principio di utilità e che quindi quest'ultimo ha un valore assoluto: non ammette eccezioni, risolve tutti i conflitti e tutte le altre regole morali derivano da esso (3).

Un'altra tradizione che ha avuto un'ampia influenza nel dibattito del Novecento, vale a dire l'intuizionismo normativo, ritiene che vi siano un certo numero di principi morali la cui validità sia autoevidente. Così George Edward Moore, William David Ross e gli autori che oggi propongono una riedizione dell'intuizionismo normativo (Philip Stratton-Lake, Robert Audi e altri) ritengono che vi siano alcuni principi morali che chiunque può riconoscere come veri perché autoevidenti (4). Vi sono più principi di questo tipo, perciò questa teoria morale, a differenza dell'utilitarismo, sostiene il pluralismo normativo (che è altra cosa dal pluralismo relativistico discusso da Marconi). Vi è però in questa tradizione anche uno dei più influenti, ragionevoli e bistrattati tentativi di rendere conto della validità senza eccezione di una pluralità di principi generali senza tuttavia precludere la possibilità che nelle circostanze concrete un principio prevalga sull'altro, pur senza cancellarlo. Si tratta dell'idea di doveri prima facie, cioè di doveri (o principi) la cui validità è assoluta finché si applicano da soli a una certa situazione, ma che non godono di una priorità gerarchica sistematica su altri principi nelle situazioni concrete. Il dovere di veridicità mi impone prima facie di dire la verità, tuttavia se questo dovere entra in conflitto con il dovere prima facie di non fare del male (come può capitare con una verità detta alla persona sbagliata o nel modo sbagliato o nel momento sbagliato) non esiste una regola a priori per stabilire quale dei due doveri debba prevalere. Ciò dipende dalle circostanze e, dice Ross, dal giudizio che si può dare nella situazione. Da questa tesi deriva, oggi, la posizione di coloro che, come Jonathan Dancy (5), professano il particolarismo morale, ovvero la tesi per cui non esistono principi morali generali (qualcosa cui invece Ross credeva ancora), bensì soltanto giudizi particolari, dettati dalla situazione e dalle sue caratteristiche moralmente salienti. Ora, come ripetutamente afferma Dancy, il particolarismo non è una teoria etica relativistica. Infatti, anche se i giudizi morali validi sono diversi per ogni circostanza, la loro validità è secondo i particolaristi assolutamente oggettiva: non dipende dalle opinioni del soggetto che il suo giudizio particolare sia o non sia corretto, ma dai caratteri della situazione in se stessa. Un giudizio morale particolare, secondo questa tesi, può applicarsi solo alla situazione in questione ma la sua validità o verità è assoluta.

Tanto per i particolaristi quanto per Ross l'obiettivo non è di favorire il relativismo quanto di mettere in chiaro che le circostanze possono giustificare oggettivamente giudizi morali diversi. Considerato che per Ross l'idea di doveri prima facie doveva garantire questo risultato pur mantenendo l'assoluta validità generale di alcuni doveri (per esempio: non mentire, mantenere le promesse, mostrare gratitudine, non fare il male, agire con giustizia), appare strano che alcuni oggi si appellino all'idea di principi prima facie per sostenere una forma di «relativismo morale» che consiste soprattutto nella critica alla valenza «assoluta» dei principi in questione. È evidente che non di relativismo si tratta, bensì di un richiamo alla valenza soltanto generale di principi la cui validità si ritiene però assoluta, certa e autoevidente. L'obiettivo è qui piuttosto quello di riconoscere la complessità della vita etica e la necessità di esercitare un costante discernimento nel cercare di agire con giustizia e per il bene, senza affatto negare a queste nozioni una valenza universale.

Come si vede, dunque, il relativismo non è né l'approccio proprio di chi non intende fondare l'etica sulla metafisica né la strategia obbligata di chi vuole riconoscere la complessità della vita morale. Anzi, queste due prospettive sono compatibili con una tesi assolutista circa la verità di alcuni principi o giudizi morali (qualunque cosa si pensi di tali principi o del modo di metterli in relazione fra di loro).

Non è però necessario ricorrere all'assolutezza di principi morali determinati come quelli elencati da Ross per garantire l'esistenza di un criterio di validazione delle massime morali che sia sottratto all'arbitrio e alla completa relatività. Anzi, secondo una tradizione che risale almeno a Kant, si può rintracciare un criterio di validità assoluta del volere che ha una valenza esclusivamente formale, come il principio di non contraddizione in logica. Si tratta del il principio di non contraddizione del volere, che per Kant si formula come imperativo categorico. Esso garantisce che i principi morali che si fanno valere non dipendano dall'arbitrio degli agenti mentre, al tempo stesso, la sua formalità lascia ampio spazio a una varietà di contenuti determinati. Questa tradizione kantiana può essere interpretata in chiave proceduralista, quindi con una premessa antirealista, come notoriamente fa John Rawls in quello che lui e i suoi allievi chiamano «costruttivismo etico» (6). In questa prospettiva, il criterio di validità dei principi morali (o almeno dei principi di giustizia, stante la limitazione politica che Rawls assegna alla sua teoria) è la conformità del procedimento che li determina alla regola dell'equilibrio riflessivo fra giudizi ponderati e principi generali. I principi così stabiliti secondo Rawls sono assoluti per qualunque società i cui membri abbiano come scopo la convivenza cooperativa. La teoria (morale o esclusivamente politica qui non importa) che si basa su criteri procedurali e formali si presenta come oggettiva e capace di includere tutti gli agenti interessati, in forza del suo appellarsi a un criterio, quello dell'approvazione razionale dei principi medesimi, valido per qualunque agente razionale. Si tratta quindi, anche nel caso della più nota e influente versione contemporanea della teoria liberale, di una posizione non relativista.

È quindi chiaro che la questione del pluralismo, affrontata da Marconi nell'ultimo capitolo, è trattata in questo dibattito in modo da includere già il rifiuto dell'assolutismo morale senza ricorrere a nessuna forma di relativismo. Il relativismo morale è una posizione estrema e sostenuta da ben pochi teorici della morale e della politica. Lo stesso Bernard Williams, correttamente citato in più punti da Marconi, non sostiene in realtà il relativismo, bensì sottolinea la difficoltà di confutare in via definitiva le obiezioni scettiche circa la commensurabilità delle teorie morali. La tesi di Williams è che, data una distanza spaziale o temporale molto grande fra tradizioni e gruppi morali diversi, può essere teoricamente impossibile tradurre i valori di un gruppo in quelli di un altro e quindi accedere al significato appropriato che quei valori hanno in quella tradizione. In mancanza di questa comprensione non è legittimo giudicare negativamente i costumi altrui o tentare di modificarli per ragioni morali. Questo è quello che Williams chiama «relativismo della distanza» (7). Questa distanza però si riduce quando i gruppi vengono a contatto ed è evidente che essa è proporzionale alla possibilità di tradurre la lingua di un gruppo nella lingua dell'altro: aumentando la comprensione reciproca aumenta la possibilità di riconoscere l'accordo e il disaccordo morale e conseguentemente di ricercare una mediazione. Finché sono possibili le traduzioni, sono possibili anche gli accordi morali e non si è ancora verificato il caso che una lingua risultasse assolutamente e completamente intraducibile in un'altra. Mi pare che questo, di per sé, costituisca un potente argomento contro il relativismo circa la verità non meno che circa la morale.

Tuttavia, vi è un aspetto per cui la questione della verità, in etica, è meno rilevante e drammatica di quanto siamo abituati a pensare. È infatti vero che i «drammatizzatori della verità», come li chiama Marconi, hanno spesso come punto di riferimento i conflitti sociali e politici causati dalla pretesa di verità delle morali. Questo però deriva da una distorsione pervicace e antica (la cui origine sospetto si trovi in Platone) circa il rapporto del bene e del giusto con la verità. Cerco di esprimere questa idea molto sinteticamente: quando si tratta di agire, noi non intendiamo rispecchiare uno stato di cose. Piuttosto, miriamo a realizzare uno stato di cose che ci sembra giusto o buono. Ora, il criterio di validità di questa azione non ci deriva dall'osservazione del mondo così com'è. Quest'ultimo è certamente segnato da una forte presenza di ciò che ci appare come male, imperfezione, negatività. Pur tenendo conto dei limiti reali del nostro agire (per non essere degli illusi o delle anime belle), ciò che chiamiamo a giustificazione delle nostre azioni deriva più dall'idea di ciò che ci sembra giustificato fare che dall'idea di ciò che è vero. È vero che gli uomini sono spesso crudeli e per lo più poco virtuosi, ma questo non ci sembra una ragione che giustifichi la crudeltà e il vizio (tranne che per il poco nobile argomento per cui «così fan tutti»).

Inoltre, quando si discute di questioni morali raramente si accusa l'altro di sostenere una tesi falsa (se non su dati di fatto che si citano a sostegno della propria tesi morale): più spesso si dice che ciò l'altro intende fare è ingiusto o inaccettabile (nel senso che nessun agente potrebbe accettare quel comportamento). La «verità pratica», ammesso che - con Aristotele - si ritenga di poter dare un senso a questa espressione, non consiste nella descrizione di fatti, bensì nell'intenzione di realizzare un bene nei fatti. Ora, questa direzione di adeguazione della verità pratica (mondo-a-mente e non mente-a-mondo, come ricordava Elisabeth Anscombe) ci dice che il criterio di validità di cui possiamo disporre nell'ambito dell'agire sta più nella capacità di giustificare le nostre scelte che nella verità dei nostri enunciati. Possiamo non sapere quale sia la verità ultima sul bene e sul male, ma poiché dobbiamo agire avremo agito giustamente nella misura in cui avremo saputo basare la nostra decisione su buone ragioni, cioè ragioni in grado di giustificare le nostre azioni di fronte a qualunque agente razionale. Questo può non coincidere con la verità morale assoluta in merito al da farsi in quella circostanza, ma è tutto ciò che possiamo fare per agire in modo sensato. È vero che questo presuppone l'esistenza di una verità pratica e la sua distinzione dalla giustificazione, ma in termini pratici questa differenza autorizza solo non a imporre una verità morale a tutti bensì a richiedere adeguate giustificazioni per una presunta verità morale cui qualcuno si appella per i propri comportamenti. In assenza di una giustificazione comprensibile e tale da generare accordo fra gli agenti ragionevoli, si è autorizzati a pensare che la presunta verità morale non debba necessariamente essere seguita da tutti. Anzi, qualora quella presunta verità morale comporti la violazione di un'altra presunta verità morale sulle cui ragioni giustificative vi è un accordo fra agenti ragionevoli, non è ingiustificato vietarne o limitarne significativamente l'accettabilità. Per esempio, la pratica dell'infibulazione si basa su ragioni (la sottomissione della donna all'uomo e la convinzione che questa passi attraverso l'escissione degli organi sessuali) che violano ragioni morali ampiamente condivise (l'eguale dignità morale di uomini e donne, il diritto all'integrità fisica) che hanno mostrato di reggere a numerose critiche. Si può discutere sul fatto che quest'ultime siano ragioni indubitabilmente vere, ma si può concordare sul fatto che si tratti di ragioni in grado di giustificare il rifiuto di tale pratica.

In altri termini, sul piano dell'etica, e in particolare dell'etica pubblica, un criterio di accettazione delle posizioni morali individuali può essere quello per cui le posizioni ragionevoli, cioè giustificate2 nella terminologia di Marconi, sono accettabili anche se possono non essere vere. Questo livello di giustificazione può essere sufficiente per prendere una (fallibile) decisione morale e politica. La giustificazione come possibilità che una ragione sia «derivata in modo convincente da premesse plausibili» (p. 11) è tutto ciò che si può esigere in una discussione morale. Non si può invece esigere che il senso di giustificazione necessario per accedere al dibattito pubblico sia la nozione di giustificazione3, cioè l'identità assoluta e sistematica di giustificato e vero, dal momento che questa nozione presuppone l'accessibilità universale di criteri assoluti di verità che non appaiono egualmente disponibili a tutti gli agenti. Perciò, anche se è plausibile ritenere che ogni concetto di giustificazione sia tributario del concetto di verità (p. 21), ragion per cui non si può fare a meno di quest'ultimo, non è l'assoluta verità delle opinioni che si richiede in etica e politica, bensì la giustificatezza almeno nell'accezione di giustificato2, ovvero nell'accezione suggerita da Williams per cui c'è ragione di pensare che sia vera. Va da sé, per altro, che la certezza soggettiva di queste opinioni non costituisce da sola una prova della loro ragionevolezza. E che la loro incertezza oggettiva non costituisce una ragione sufficiente per assumere una posizione scettica. La fiducia che questa giustificatezza, che possiamo chiamare morale e politica, non sia un'illusione riposa sull'intuizione realista circa la verità, anche se non si pone sullo stesso livello di quest'ultima. La ragionevole difesa di quell'intuizione proposta da Marconi è perciò un serio argomento a favore della possibilità dell'accordo morale.


Note

*. Professore di Filosofia morale, Facoltà di Filosofia, Università Vita-Salute San Raffaele, Milano.

1. D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino 2007. D'ora in poi le citazioni da questo volume sono riportate direttamente nel testo fra parentesi.

2. Per una difesa dell'assolutismo morale tomista si veda J. Finnis, Moral Absolutes: Tradition, Revision, and Truth, Catholic University of America Press, Washington 1991; tr. it. di A.M. Maccarini, Gli assoluti morali. Tradizione, revisione e verità, Ares, Milano 1993.

3. Si veda la discussione in J.J.C. Smart, B. Williams, Utilitarianism: For and Against, Cambridge University Press, Cambridge 1973; tr. it. Utilitarismo: un confronto, Bibliopolis, Napoli 1985.

4. Sull'intuizionismo contemporaneo si vedano P. Stratton-Lake, Ethical Intuitionism. Re-evaluations, Clarendon Press, Oxford 2002; F. Allegri, Le ragioni del pluralismo morale. William David Ross e le teorie dei doveri prima facie, Carocci, Roma 2005 e la mia Introduzione a W.D. Ross, Il giusto e il bene, Bompiani, Milano 2004.

5. J. Dancy, Ethics Without Principles, Clarendon Press, Oxford 2004.

6. Cfr. J. Rawls, 'Kantian constructivism in moral theory', Journal of Philosophy 77 (1980), pp. 515-572. Per una versione recente del costruttivismo kantiano si veda C. Bagnoli, L'autorità della morale, Feltrinelli, Milano 2007. La teoria kantiana della normatività può però essere interpretata anche in chiave realista. Si veda in proposito A.W. Wood, Kantian Ethics, Cambridge University Press, Cambridge 2008 e R. Mordacci, Ragioni personali. Saggio sulla normatività morale, Carocci, Roma 2008.

7. Cfr. B. Williams, 'The truth in relativism', Proceedings of the Aristotelian Society LXXV (1974-1975), pp. 215-228.