2008

Repliche

Diego Marconi

Desidero anzitutto ringraziare la direzione e la redazione di Jura Gentium per aver promosso questa discussione, da cui ho imparato molto. Non pochi tra gli interventi mi hanno quasi imbarazzato, perché hanno portato la discussione a un livello di precisione, articolazione e ricchezza di riferimenti che, indubbiamente, non è quello del mio libro Per la verità. In alcuni casi, mi verrebbe da dire che le questioni poste sono troppo raffinate per quel libro (seguendo in questo l'indicazione di Giovanni Boniolo). Tuttavia, non vorrei aver l'aria di chi, avendo gettato il sasso, cerca di tirare indietro la mano: come ha scritto Michael Dummett, si esprime nel linguaggio quel che si ha in mente, non altro né di più, ma si è responsabili delle proprie parole nel loro significato pubblico; in questo caso, nel significato e nelle implicazioni che hanno nel dibattito metafisico, etico e filosofico-politico. Dunque mi sforzerò di rispondere a tono.

Tra le molte osservazioni interessanti e competenti di Annalisa Coliva, mi concentrerò su tre.

Coliva sostiene che io corro troppo, quando derivo il nichilismo dal relativismo; secondo lei, ci sono forme di relativismo etico non nichilista. Me è lei che mi fa correre. Io non presento il nichilismo come l'esito obbligato del relativismo morale, ma come una deriva a cui è difficile sfuggire se si vuol sostenere che i valori altrui sono valori anche per noi (pp.115 ss.). Coliva dice che il relativismo morale (non nichilista) consente di riconoscere l'esistenza di altri valori, "non, ovviamente, all'interno della propria prospettiva ma di altre". Anch'io parlo di riconoscimento di valori altrui in questo senso (p. 115); ma non è il senso che (di solito) interessa al relativista. Ed è comunque un senso assai debole: riconoscere che per X qualcosa è un valore (per esempio, che per i membri del Ku Klux Klan il primato della razza bianca è un valore) non solo non è riconoscere che è un valore tout court, ma non è nemmeno riconoscere che è un valore per X, cioè che X ha ragioni morali per perseguirlo (anche se, naturalmente, crede di averle), se non in un senso del tutto formale di 'morale'. Quanto ai problemi del realista con la pluralità dei valori, li riconosco e ne parlo a lungo (pp.119 ss., specialmente pp.136-138), sicché non mi ripeterò qui.

In merito alla discussione sul relativismo concettuale, Coliva sembra prendere partito per una posizione sostenuta da Richard Rorty: il mondo come tale non è diviso in fatti, e non contiene sali né altre sostanze chimiche. Non che tutto ciò sia creato dal nostro schema concettuale, ma dipende rappresentazionalmente da esso, cioè "l'esercizio delle nostre categorie, insieme all'esperienza sensibile, permette di avere rappresentazioni del mondo, che, come tale, esiste in maniera causalmente indipendente da noi". Se capisco bene, tale mondo causalmente indipendente da noi non contiene sale né dinosauri, ma dev'esser visto come una specie di kantiana cosa in sé (perché se invece contenesse il sale, sarebbe immediato domandarsi se il sale che contiene sia o no cloruro di sodio). La nozione di cosa in sé ha, notoriamente, le sue difficoltà. Mi sembra, in particolare, che sia incompatibile con una concezione non epistemica della verità. Se il mondo in sé non contiene cloruro di sodio, ma il nostro schema concettuale lo rappresenta come contenente cloruro di sodio, è difficile capire come la proposizione «Il sale è cloruro di sodio» possa essere semplicemente vera; pare che possa al massimo essere giustificata dall'"esperienza sensibile" di cui sopra (e, quindi, vera solo nel senso di 'giustificata'). Questa era infatti l'opinione di Rorty (è anche quella di Annalisa Coliva? da altre cose che dice, non sembra). Io preferisco invece pensare che, se è vero che il sale è cloruro di sodio, cioè se è corretto dire che abbiamo scoperto che lo è, allora il mondo contiene cloruro di sodio e l'ha sempre contenuto (da un po' dopo il Big Bang, diciamo), e il suo contenere cloruro di sodio non dipende - in nessun senso - dal nostro schema concettuale, anche se è reso accessibile dallo schema in questione (forse la dipendenza rappresentazionale può essere identificata con l'accessibilità, ma non mi pare che Rorty la vedesse così). Naturalmente possiamo esserci sbagliati, e in più di un modo; e in questo caso il mondo non contiene affatto cloruro di sodio, o il sale ha una diversa composizione, o non esistono affatto molecole, ecc. Ma questa è un'altra storia.

Infine, Coliva sostiene che la circolarità, che io attribuisco alla concezione epistemica della verità, c'è soltanto se si prende 'giustificato' nel mio terzo senso, quello in cui 'giustificato' implica 'vero'; osserva inoltre che i fautori più avveduti della concezione epistemica (Putnam e Wright) non intendono definire la verità in termini epistemici, ma soltanto delucidare la nozione. Sul primo punto, forse c'è un equivoco. Quando sostengo che il concetto di giustificazione presuppone quello di verità (pp. 19-21), faccio mia la tesi di Bernard Williams, secondo cui quando diciamo che un'asserzione è giustificata intendiamo (e non possiamo che intendere) che ci sono buone ragioni di ritenerla vera. Ciò non dipende dal particolare senso in cui si sta usando 'giustificato'; in particolare, un'asserzione può essere giustificata nel senso di Williams senza essere vera (p. 19), quindi la connessione tra giustificatezza e verità non dipende, nel ragionamento di Williams, dall'assunzione del terzo senso di 'giustificato'. A me l'analisi di Williams sembra plausibile, e l'obiezione di Dummett (p. 20) sembra meno plausibile. Certo, sempre di plausibilità si tratta, non di dimostrazioni inconfutabili.

Sul secondo punto: devo ammettere che la distinzione tra definizioni e delucidazioni non mi è del tutto ovvia. Il formato in cui Coliva presenta le "delucidazioni" di Dummett, Putnam e Wright ('sono vere quelle asserzioni che...') suggerisce che esse vadano intese come condizioni sufficienti di verità; il che implica che, ad esempio, un'asserzione potrebbe essere vera senzaessere giustificata da un agente epistemico ideale (Dummett), o senza essere giustificata al limite della ricerca (Putnam), ecc. Bene: pur avendo qualche perplessità su agenti epistemici ideali, limiti della ricerca e altre idealizzazioni, non vedo perché si dovrebbe esigere di più. Concezioni di questo genere sono, in linea di principio, compatibili con quella che chiamo l'"intuizione realista". Tuttavia, la maggior parte dei bersagli polemici di questa parte del libro, da Foucault a Rorty, intrattenevano concezioni più robuste in merito alla connessione tra verità e giustificatezza; e sono queste concezioni, e non le più accorte formulazioni degli autori citati, ad avere avuto un ruolo nella vulgata filosofico-mediatica e in un certo senso comune relativistico. Coliva ha ragione quando osserva che l'argomento di Wright è efficace soltanto contro una concezione epistemica che definisca la verità attraverso la giustificatezza (oltre a dare per buona la logica classica); ed è appunto contro questo genere di concezione che io lo rivolgo.

Franca D'Agostini dice di essere fondamentalmente d'accordo con me, e mi pare che sia vero, dato che anch'io mi trovo fondamentalmente d'accordo con lei. Anche le sue due obiezioni non mi sembrano radicali. La prima, forse, si basa su un equivoco. Io sostengo effettivamente che la verità "è cosa banale e quotidiana", come ricorda D'Agostini; non però nel senso in cui i deflazionisti sostengono che bisogna avere una concezione "thin", o minimale, della verità, che la verità non è una proprietà sostanziale (qualunque cosa ciò significhi), ecc. Il minimalismo dei deflazionisti, facendola molto breve, consiste in questo: che, secondo loro, sulla verità non si può sensatamente dire nulla di più di ciò che trova espressione nei famosi bicondizionali tarskiani, come "E' vero che la Luna è satellite della Terra se e solo se la Luna è satellite della Terra", "E' vero che Bush è il Presidente degli Stati Uniti se e solo se Bush è il Presidente degli Stati Uniti", e così via. In particolare, la verità - a differenza, ad esempio, del peso o del calore - non ha una naturache possa essere esplicitata da una definizione. Il deflazionismo è una delle teorie della verità che oggi si contendono il favore dei filosofi; come molti altri, anch'io ho vari dubbi sul deflazionismo, ma, nel libro, non prendo posizione al riguardo. Quando dico di voler sdrammatizzare la nozione di verità, non intendo oppormi (come i deflazionisti) alle teorie "sostanziali" della verità, come ad esempio la teoria della corrispondenza; intendo oppormi a chi pensa che la verità sia per noi inaccessibile, un limite della ricerca, un punto omega sempre di là da venire. Io sostengo, al contrario, che noi tutti conosciamo innumerevoli verità, e che, se così non fosse, la nostra vita sarebbe impossibile. La nostra vita è possibile perché il mondo, nel più dei casi, è effettivamente come pensiamo che sia, cioè perché la maggior parte delle nostre credenze sono vere. Certo, circolano anche credenze per cui non abbiamo motivi altrettanto buoni di pensare che siano vere; credenze che è difficile qualificare consensualmente come conoscenze(specialmente in ambito filosofico, morale, religioso, ecc.). Ma non c'è motivo di estendere all'insieme delle nostre credenze l'insecuritas che affligge questi pochi casi.

Franca D'Agostini dice - è la sua seconda obiezione - che è proprio di queste credenze controverse che si preoccupa lo scetticismo classico, pirroniano; il quale non avrebbe problemi con la bianchezza della neve e l'abbaiare dei cani, ma con le "frasi dogmatiche riguardanti le cose non evidenti". Lo scettico, secondo D'Agostini, fa bene a sospendere il giudizio su queste materie, sia perché sono davvero controverse, sia perché sono quelle in nome delle quali - essendo o fingendosi certi delle quali - si scatenano guerre e persecuzioni. Tutto ciò dovrebbe essere un'obiezione al modo in cui, nel libro, io affronto la questione dello scetticismo. Lo scetticismo a cui muovo alcune obiezioni (o meglio, le faccio muovere da Wittgenstein e Austin) non è quello "serio", dice D'Agostini; quello serio si rivolge ad un'area di discorso in cui la questione della verità è davvero drammatica, al contrario di quel che io sostengo. Dunque, c'è un'area di discorso in cui la drammatizzazione della verità non è affatto fuori luogo, e un modo possibile di affrontarla (un modo di sdrammatizzare?) è quello proposto dallo scetticismo classico.

Sui caratteri e i meriti dello scetticismo classico non ho difficoltà a confessare la mia ignoranza. Nel libro mi sono occupato dello scetticismo immaginato da Cartesio, non di quello (forse) praticato da Pirrone: cioè di chi mette in dubbio che questa sia una mano o che la Terra esista da più di cinque minuti, o avanza l'ipotesi che sia tutto un sogno, o che siamo cervelli in una vasca. L'ho fatto non solo perché, oggi, è questo lo scetticismo di cui si parla più spesso e che è di solito assunto come interlocutore (o convitato di pietra) da chi si occupa di epistemologia, ma soprattutto perché è la forma di scetticismo che mette in dubbio le conoscenze "banali e quotidiane" che mi interessava difendere. Non ho difficoltà ad ammettere - anzi, l'ho sottolineato - che ci sono credenze controverse, e che gli atteggiamenti dogmatici in merito ad esse sono state e sono all'origine di vari mali. Se c'è una forma di scetticismo che può contribuire ad attenuare questi mali, questo è certamente un suo pregio, quali che siano i suoi inconvenienti (su cui sospendo a mia volta il giudizio, per incompetenza). Quello che mi premeva era mostrare che non c'è ragione di considerare controverse tuttele nostre credenze perché alcunelo sono; che è ciò che invita a fare lo scettico cartesiano.

Secondo Alessandro Ferrara, il mio testo conterrebbe una "concessione fatale" all'antirealismo; io concederei che i fatti sono costituiti da operazioni interpretative, e quindi sono relativi a queste interpretazioni. Ma Ferrara fraintende: il passo che cita non è una mia presa di posizione, ma fa parte della presentazione delle tesi di Vattimo e dello stesso Ferrara, iniziata alla pagina precedente. Mi sembrava che ciò fosse chiaro, dato che immediatamente dopo riferisco l'obiezione di Boghossian a questa concezione dei fatti, e poi, di seguito, inizio ad esporre la mia. Quindi, su questo punto nessuna concessione. E' vero invece che io riconosco che anche le descrizioni degli "umili fatti" che porto ad esempio - oggi non c'è il Consiglio di Facoltà, 25 soggetti su 36 hanno barrato la casella A - dipendono dal possesso di certi concetti e dalla scelta di applicarli in quei determinati casi. Se non avessimo i concetti numerici, non potremmo dire né pensare che 25 soggetti su 36 ecc. Tuttavia io non ne concludo, come Ferrara e molti pensatori ermeneutici, che allora quei fatti dipendono da quei concetti, cioè che non ci sarebbero se non possedessimo quei concetti; sostengo invece che quei fatti non ci sarebbero accessibili se non disponessimo dei concetti in questione, e non sono di fatto accessibili a chi non ne dispone. Giulio Cesare non aveva tesi sul numero atomico dell'oro, né vere né false; ma anche durante la vita di Giulio Cesare il numero atomico dell'oro era quello che era (e tuttora è). Che l'atomo dell'oro abbia 79 protoni nucleari non dipende dal fatto che noi disponiamo dei concetti di atomo, di nucleo e di protone (o, se è per questo, di 79); ma è accessibile solo a condizione di disporre di quei concetti. Dunque non sono d'accordo con l'affermazione di Ferrara che "[i fatti] si costituiscono solo dopo che abbiamo inforcato gli occhiali di una [determinata] configurazione [concettuale]". I fatti relativi alle orbite dei pianeti non si sono costituiti con Galileo e Keplero.

Dato che la penso a questo modo, non credo di aver bisogno del "secondo pilastro" di cui Ferrara sente la mancanza nella mia argomentazione; che consisterebbe, se capisco bene, in un criterio di gerarchizzazione dei diversi schemi concettuali, che faccia emergere uno di essi come quello giusto, o comunque il migliore. Intendiamoci, la questione del confronto tra schemi concettuali (ovvero linguaggi) differenti è una degnissima, e del resto annosa questione filosofica, su cui si sono impegnati Wittgenstein, Carnap e Quine (per citare solo i giganti). Ma incontrerebbe la mia argomentazione solo se io pensassi che i fatti dipendono dallo schema concettuale adottato, e volessi al tempo stesso sostenere che ci sono solo i fatti che un determinato schema concettuale è in grado di caratterizzare. Ma io non penso che i fatti dipendano da uno schema concettuale, e quindi quello del confronto tra schemi diversi è per me una (rispettabile) questione epistemologica, non una questione metafisica.

Aggiungo una precisazione. Ferrara mi attribuisce a più riprese una concezione corrispondentista della verità; ma io credo di aver fatto molta attenzione a non sposare una simile concezione. Non credo che la parola 'corrispondenza' figuri nel mio libro. Ho il massimo rispetto per la teoria della corrispondenza, che, a mio modo di vedere, è una delle due teorie della verità che oggi si contendono il campo (l'altra è il deflazionismo); ma mi sono limitato a fare riferimento alle formulazioni di Tarski, e credo che oggi ci sia un certo consenso sul fatto che queste formulazioni non sono impegnate con la teoria della corrispondenza (v. ad es. W.Künne, Conceptions of Truth, Oxford University Press, 2003, pp. 208-213).

Una seconda precisazione: difendendo l'intuizione realistica sulla verità, non ho inteso suggerire che esistano vie d'accesso privilegiate a questo o quell'insieme di verità; per esempio che qualcuno possa dispensarsi dalla fatica della giustificazione rivendicando un tale accesso privilegiato, o che, in campo morale, politico, o in qualsiasi altro campo si possa fare altro che ragionare e discutere intorno a quali tesi risultino giustificate nel modo più convincente. Che la verità ci sia, non implica che qualcuno sia autorizzato a pretendere di possederla senza alcuna giustificazione; e sulle giustificazioni, ovviamente, si discute e si cerca di raggiungere un consenso (che però non dovrebbe essere pensato come un "mettersi d'accordo", ma come un riconoscimento concorde della superiorità di certe ragioni su altre).

Perciò le concezioni realistiche della verità non sono affatto "in tensione con una concezione liberaldemocratica della politica". Lo sarebbero se implicassero un qualche possesso della verità da parte di qualcuno (come le "élites illuminate" di cui parla Ferrara), ma, come ho detto, non è così. Il realismo non tocca l'epistemologia: se anche siamo realisti, continueremo a discutere come prima, avremo gli stessi dubbi e le stesse (precarie) certezze.

Dunque non condivido l'affermazione di Ferrara secondo cui "la politica democratica non ha lo spazio concettuale per separare la verità dalla giustificazione" (se così fosse, sarebbe grave per la democrazia; ma, per fortuna, non è così). La politica democratica è (tra l'altro) un confronto di opinioni diverse (non di "verità" diverse); un confronto in cui ciascuna di queste opinioni cerca di accreditarsi come vera, cioè di produrre buone giustificazioni. Lungi dall'essere incompatibile con essa, la democrazia liberale presuppone la distinzione tra verità e giustificazione: con le parole di Michael Lynch, "non è che il liberale deve identificare la verità con ciò che passa per verità in un dibattito libero e aperto, ma, al contrario, il liberale deve credere che ciò che passa per vero può tuttavia non essere vero" (True to Life, MIT Press, 2004, p.166). In una concezione politica in cui la verità si identifica con l'esito di un processo deliberativo, Socrate non potrebbe mai avere ragione contro la polis.Una simile concezione (rousseauiana? leninista?) è il presupposto della democrazia autoritaria, non della democrazia liberale. Aggiungo che mi pare strana l'affermazione di Ferrara secondo cui in democrazia "la verità che vincola tutti non può che essere una verità in cui tutti, e non solo alcuni, si riconoscono". E quale sarebbe questa verità in cui tutti si riconoscono? Io credo che in una democrazia non si persegua una (peraltro chimerica) unanimità, ma si confrontino opinioni; e quelle che di volta in volta prevalgono non diventano la verità di tutti, ma restano esattamente quello che sono, l'opinione (magari precaria) della maggioranza, né più né meno.

Già che siamo in tema di democrazia e opinioni, vengo all'intervento di Giovanni Boniolo, e in particolare alla sua ultima parte, che riguarda la sua proposta di "una moratoria allo sproloquio antiscientifico o parascientifico" di vari opinion makers: umanisti, giornalisti e preti, tra cui il cardinal Trujillo (buon'anima), di cui Boniolo riferisce sesquipedali sciocchezze in materia di preservativi e di AIDS. Date le sciocchezze in questione, Boniolo mi domanda: "Che facciamo?" Ed evidentemente non si soddisfa della risposta, che pure a me viene spontanea: "Diciamo che sono, appunto, sciocchezze". Non se ne soddisfa, credo, per via della "potenza del podio": le opinioni del cardinale erano comunicate a milioni di persone, molte delle quali disarmate di fronte ad esse, mentre le nostre confutazioni rischiano di restare confinate ad una qualche lettera a "Repubblica". E' un problema reale, e, nel caso italiano, drammatizzato dal fatto che il più importante, e di fatto quasi unico mezzo di comunicazione di massa diffonde ormai un'unica voce (non quella del cardinal Trujillo) tra milioni di persone, molte delle quali disarmate di fronte alla disinformazione. Dubito, però, che in questo caso come nell'altro la soluzione possa consistere nella moratoria di Boniolo. A parte le questioni di principio, vedo grossi ostacoli pratico-politici (qualche osservazione in più su questo punto si trova nella risposta a Paolo Casalegno).

L'argomento che mi interessa di più discutere con Boniolo è, ancora una volta, quello del rapporto tra verità e giustificazione. Alcuni dei suoi controesempi sono solo accennati, e non vorrei rischiare di fraintenderli. Ma altri mi lasciano perplesso. Cosa vorrà mai dire che "molti fisici pensano che la meccanica quantistica sia del tutto giustificata ma che non sia affatto vera"? Pensare che una tesi, o una teoria, è giustificata èpensare che ci sono buone ragioni per ritenerla vera. Altrimenti, è meglio dire che quella teoria ha alcune buone ragioni dalla sua, ma ce ne sono altre, migliori, che inducono a non ritenerla vera (se così fosse, però, la meccanica quantistica sarebbe stata da tempo abbandonata). Certo che una teoria può essere giustificata e tuttavia non vera: è uno dei punti su cui ho più insistito. Ma, per poter sostenere plausibilmenteche è così, dobbiamo essere in grado di mostrare che le giustificazioni della teoria sono soverchiate da considerazioni che militano in senso contrario. Lo stesso nel caso del modello a goccia dell'atomo, che sarebbe "del tutto giustificato" e al tempo stesso "del tutto falso". Un'asserzione di questo genere mi sembra simile a una contraddizione pragmatica (come "Piove, ma non credo che piova"), cioè ad un enunciato che non è formalmente contraddittorio, ma che non è possibile avere ragione di asserire. E' possibile che piova e io non lo creda, ma, se non credo che piove, non asserirò che piove. Analogamente, se penso (non per intuizione, ma in base a considerazioni razionali) che una teoria sia falsa avrò ragioni preponderanti per la sua falsità; e allora come potrò sostenere che la teoria è giustificata (anzi, "del tutto" giustificata)?

Siccome non ho motivo di sospettare di patente irrazionalità i fisici amici di Boniolo, preferisco pensare che usino parole come 'vero' e 'giustificato' diversamente da come le uso io, e insieme a me molti altri filosofi (anche se, a dire il vero, non capisco bene come). C'è poi il dubbio che le usino un po' a casaccio. D'altronde, così come non è il caso di venire a lezione di fisica da me, allo stesso modo non c'è motivo di andare a lezione di filosofia dai fisici.

Qualcosa del genere direi anche a proposito del rapporto tra conoscenza e verità. "Tutti sanno che la legge di Hardy-Weinberg è falsa, ma non può non dirsi conoscenza, e una delle ragioni...è indirettamente data proprio dal suo essere falsa". Qui avremmo una proposizione che (1) è falsa, (2) costituisce conoscenza, e (3) costituisce conoscenza (anche) perché è falsa. Di nuovo, sembra che abbiamo a che fare con usi di 'conoscenza' e 'falso' decisamente non standard. Non credo che sia questione di complessità, o di scienza versus discorso del senso comune; credo che, più banalmente, queste parole vengano qui usate diversamente da come le uso io. Non mi pare che l'applicazione a questioni scientifiche basti a far sì che 'p è una conoscenza', che ha come condizione necessaria di applicazione che psia vero, si applichi a proposizioni false. Forse quel che si vuol dire è che la legge in questione, pur essendo falsa, è "istruttiva"; e può essere istruttiva proprio perché è falsa, nel senso che le ragioni che mostrano che è falsa mostrano delle cose interessanti sulla genetica delle popolazioni. Se così fosse, quella proposta da Boniolo non sarebbe una formulazione particolarmente perspicua.

Sull'identità di massa inerziale e massa gravitazionale, Boniolo avrà senz'altro ragione nel denunciare l'imprecisione (come minimo) della formulazione, ma non ne trarrei le conclusioni generali che ne deriva lui, e cioè che nei testi di (presunta) larga diffusione sia sensato tollerare una certa mancanza di rigore. Al contrario, penso che in questo tipo di testi si debba essere piùrigorosi, perché a chi legge può riuscire meno facile correggere automaticamente le imprecisioni, integrare le lacune argomentative, e così via. Dunque, se Boniolo ha ragione sulla massa in Newton e Einstein, avrei fatto meglio a scegliere un altro esempio. Infine, raccolgo senz'altro l'invito a studiare biologia molecolare e meccanica quantistica, ma, purtroppo, solo per la mia prossima reincarnazione, essendo al momento impegnato in altre cose.

Sono grato a Roberto Mordacci di aver presentato nel suo intervento varie teorie morali non relativistiche e tuttavia ragionevoli, dall'utilitarismo all'intuizionismo di Moore e Ross, dalla teoria dei doveri prima facie al particolarismo di Dancy al proceduralismo di Rawls, contribuendo così a mostrare che "il relativismo non è né l'approccio proprio di chi non intende fondare l'etica sulla metafisica né la strategia obbligata di chi vuole riconoscere la complessità della vita morale", ma, al contrario, "una posizione estrema e sostenuta da ben pochi teorici della morale e della politica"; con buona pace dei numerosi opinion makers che, nulla sapendo del dibattito etico contemporaneo, danno per scontato l'esatto contrario. Le competenti considerazioni di Mordacci danno spessore a un discorso che nel mio libro - come egli rileva - è solo accennato. Su tutto ciò non ho nulla da aggiungere. Vorrei invece commentare il solo punto con cui mi sembra di essere in parziale disaccordo, e cioè la tesi dell'asimmetria tra discorso valutativo e discorso fattuale rispetto alle nozioni di verità e giustificazione. Mordacci osserva (e come dargli torto?) che "quando si tratta di agire, noi non intendiamo rispecchiare uno stato di cose", bensì realizzarlo, ad esempio perché ci sembra buono e giusto, o al contrario impedirne la realizzazione; e che il criterio di giustificazione delle nostre azioni non è "ciò che è vero", ma sono le "buone ragioni" che siamo in grado di produrre. Questo inizio di ragionamento sembra presupporre, o almeno suggerire, che chi parla di verità in relazione alle asserzioni morali abbia in mente una qualche forma di corrispondenza delle asserzioni stesse non si sa bene con che cosa - forse con un regno platonico del dover essere. Ma, di solito, non è questo che si ha in mente: chi sostiene che le asserzioni morali possono essere vere (o false) non pensa che la loro verità consista in una qualche corrispondenza, con un mondo ideale o - implausibilmente - col mondo reale (al contrario, è una forte obiezione contro la teoria della verità come corrispondenza che essa possa difficilmente applicarsi alle asserzioni morali).

Tuttavia, nonostante l'impressione iniziale, non è questo che Mordacci intende suggerire. Egli infatti riconosce che esiste qualcosa come "la verità morale...in merito al da farsi in [una determinata] circostanza", e non mostra di pensare che tale verità consista nel rispecchiamento di stati di cose; e riconosce anche che è plausibile pensare "che ogni concetto di giustificazione [quindi anche quello pertinente in ambito morale] sia tributario del concetto di verità", cioè che anche nel caso delle asserzioni morali come, mettiamo, "E' male (almeno caeteris paribus) non mantenere le promesse", giustificarle è fornire ragioni per la loro verità. La differenza, rispetto al discorso fattuale, consisterebbe nel fatto che in ambito morale una decisione, pur giustificata da buone ragioni, "può non coincidere con la verità morale assoluta in merito al da farsi in quella circostanza"; in campo morale "le posizioni ragionevoli, cioè giustificate...sono accettabili anche se possono non essere vere". In altre parole, un'asserzione morale può essere giustificata da buone ragioni - quindi accettabile - pur non essendo vera, ovvero non coincidendo con "la verità morale assoluta".

Perché mai questo dovrebbe segnare una differenza rispetto al discorso fattuale? Esiste forse qualche ambito di discorso in cui abbiamo a disposizione qualcosa di più e meglio di eventuali buone ragioni? Come credo di aver più volte ripetuto nel libro, una tesi può essere giustificata - giustificata2, nella mia barocca terminologia - e tuttavia non vera. Ma, fintantoché appare giustificata, è ragionevole accettarla; del resto, dire che è giustificata2 è dire che ci sono buone ragioni per ritenerla vera, e quindi sarebbe irragionevole non accettarla. Potremo un domani trovare ragioni ancora migliori per rifiutarla; ma potremmo anche non trovarle, perché in effetti la nostra tesi è vera, e le nostre ragioni sono davvero buone. Dunque, quanto al rapporto tra verità e giustificatezza non vedo alcuna differenza tra discorso fattuale e discorso morale. Mi viene infatti il dubbio di aver frainteso. Forse Mordacci vuol dire che in campo morale le nostre argomentazioni hanno di rado forza propriamente dimostrativa: le premesse sono spesso compatibili con la falsità della conclusione. Non so se sia necessariamente così in campo morale, ma so di certo che è molto spesso così in campo fattuale, ad esempio nelle scienze naturali: anche in questo caso, non vedo differenze significative fra i due ambiti. Se poi invece Mordacci volesse dire che in ambito morale ci accontentiamo (e non possiamo che accontentarci) di giustificazioni1, cioè di qualsiasi cosa che abbia l'aria di un'argomentazione, allora credo invece che si debba essere più esigenti. Ma lo crede anche Mordacci, tant'è vero che fa riferimento alla mia nozione di giustificazione2, che ritiene pertinente anche in ambito morale.

Non avrei nulla da aggiungere a quanto dice Enrico Diciotti, perché mi pare di essere in tutto e per tutto d'accordo con lui nel merito. Anzi, gli sono grato per aver ribadito con molta chiarezza e abbondanza di argomentazioni varie tesi che condivido. Solo qualche parola per replicare alla critica di non aver distinto tra relativismo etico descrittivo, relativismo metaetico e relativismo etico normativo. In realtà, mi pare che nel mio libro alcune di queste posizioni siano presentate e discusse sotto altro nome. Per esempio, Diciotti chiama 'relativismo etico descrittivo' quello che io chiamo 'asserzione della pluralità', cioè - con le parole di Diciotti - "la tesi...che gli individui, e in particolare gli individui appartenenti a culture diverse, hanno opinioni morali spesso discordanti". Questa tesi, come giustamente ribadisce Diciotti, è un'ovvietà. Nel libro, io sostengo che non solo non è una forma di relativismo, ma non merita nemmeno il nome di 'pluralismo' (cfr. pp. 89-90).

E' sostanzialmente vero che io non distinguo tra relativismo metaetico e relativismo etico normativo; ma non sono sicuro di comprendere l'utilità di questa distinzione. Il relativismo metaetico, come è definito da Diciotti, è la posizione "secondo cui la correttezza, validità o verità dei giudizi morali dipende da criteri che possono essere diversi per individui diversi" (o per culture diverse). Quindi, la stessa asserzione morale, per esempio "Si devono mantenere le promesse", può essere vera in base ai criteri di X e non vera in base ai criteri di Y. Il relativismo etico normativo sarebbe invece la tesi secondo cui si deve agire in conformità con le proprie idee su come si deve agire, o - in un'altra forma - con le idee su come si deve agire che sono condivise all'interno della comunità a cui si appartiene. Quindi per il relativista etico normativo X deve agire in base a ciò che ritiene buono e giusto (o in base a ciò che la sua comunità ritiene buono, ecc.), mentre Y non è tenuto ad agire così, perché deve invece agire in base a ciò che lui, Y, ritiene buono e giusto. Dunque la differenza è che il relativismo metaetico è una teoria della verità delle asserzioni morali, mentre il relativismo normativo è una teoria del dovere. Tuttavia, le conseguenze delle due dottrine sembrano essere le stesse, alla sola condizione che si ammetta che, se un'asserzione morale è vera in base ai criteri di X, allora è impegnativa per X. Ma sembra difficile negare questa implicazione: se è vero (in base ai criteri di X) che si deve fare P, sembra seguire che X, in particolare, deve fare P.

Non ho difficoltà a dare atto a Paolo Casalegno che il terzo capitolo del libro è risultato meno convincente dei primi due, probabilmente anche per la mia minore competenza negli argomenti di cui parla. Provo ugualmente a rispondere ad alcune delle sue obiezioni.

Casalegno sostiene che il nichilismo morale "è compatibile con il riconoscimento della specificità e irriducibilità del linguaggio morale e del sistema concettuale che lo sottende". Per dimostrarlo, produce un intelligente esperimento mentale: possiamo immaginare che la lista dei principi e dei valori morali si sia formata in modo tutto sommato casuale, per l'azione di fattori eterogenei, sicché i valori e i principi che compaiono nella lista non hanno tratti comuni interessanti. La convinzione che quei valori e principi abbiano qualcosa in comune che li rende specificamente morali sarebbe un'illusione, anche se la comunità che accetta la lista in questione potrebbe coltivare l'illusione e pensare la natura morale dei valori che sono nella lista come una proprietà oggettiva, peraltro irriducibile ad altre proprietà (solo l'avvertito nichilista saprebbe che, in realtà, non è affatto così).

Io avevo presentato il nichilismo come una posizione che riduce le opzioni di valore individuali a preferenze causalmente determinate. Casalegno parla invece dell'eventualità che i valori e i principi di una comunità siano riconducibili a fattori causali eterogenei (e soltanto ad essi). Ma non importa, anche questa è una forma di nichilismo morale. Vedo due obiezioni alla proposta di Casalegno. In primo luogo, essa subordina il carattere vincolante dei principi e dei valori morali al mantenimento dell'illusione; per questo aspetto, pur non essendo essa stessa riduzionista in senso stretto, assomiglia a certe proposte riduzionistiche sulla religione e sulla moralità. Per esempio, la tesi di Durkheim secondo cui la religione è "il mito che la società fa di se stessa": se è così, nel momento in questa natura della religione venisse compresa le credenze religiose dovrebbero essere tradotte in termini molto diversi, e, in questa traduzione, difficilmente conserverebbero il carattere impegnativo che viene loro attribuito dai credenti. Un altro esempio: potrebbero avere ragione quegli evoluzionisti che pensano che i principi e valori morali hanno qualcosa in comune, e precisamente di prescrivere comportamenti funzionali alla sopravvivenza della nostra specie nel contesto del Pleistocene. Se si convenisse che è così, tuttavia, difficilmente quei principi e valori apparirebbero vincolanti (se non altro perché il tempo presente è assai diverso dal Pleistocene). Se poi essi fossero ormai "cablati" nel nostro DNA in modo tale da risultare irresistibili, ci troveremmo nella sgradevole situazione di essere forzati dalla nostra natura a rispettare prescrizioni a cui non riconosciamo, oggi come oggi, alcun fondamento: la moralità sarebbe come una droga che ci tiene avvinti, ma di cui detestiamo il dominio che ha su di noi. Nel caso dell'esperimento mentale di Casalegno, quando ci convincessimo che l'inclusione di un certo principio nella "lista morale" dipende soltanto dal remoto mal di pancia di un qualche antico personaggio, sarebbe ragionevole cessare di riconoscergli qualsiasi autorità. Dunque, se l'ipotesi nichilista fosse universalmente condivisa la moralità perderebbe il suo carattere impegnativo (che per il nichilista ha già perduto, peraltro). Potrebbe andare così; ma in che senso questa prospettiva sarebbe compatibile con "il riconoscimento della specificità e irriducibilità del linguaggio morale e del sistema concettuale che lo sottende"? Mi pare che di quel sistema concettuale sia parte essenziale il carattere impegnativo dei valori e dei principi morali: è difficile pensare la moralità senza normatività.

In secondo luogo, mi pare che la proposta di Casalegno vada incontro al seguente dilemma. Consideriamo un qualsiasi esempio di giudizio morale, come "E' male non mantenere la parola data" (esempio di Casalegno). Si può sostenere che questa asserzione non è né vera né falsa (ma, ad esempio, è l'espressione di un atteggiamento verso certi comportamenti, ecc.), cioè optare per una qualche forma di non cognitivismo morale. Se invece il problema del valore di verità dell'asserzione si pone, allora mi pare che le considerazioni genetiche siano irrilevanti: se anche l'asserzione in questione è stata "messa nella lista" per via di una promessa non mantenuta ad un qualche capo tribù, resta da stabilire se sia, o non sia, male non mantenere la parola. Dunque mi pare che il nichilismo di Casalegno implichi il non cognitivismo (l'alternativa essendo l'irrilevanza teorica delle considerazioni nichilistiche). Il non cognitivismo ha una rispettabilissima tradizione, ma oggi è una posizione minoritaria (mi pare), per via di molte considerazioni che qui non è il caso di ripetere.

Della seconda parte dell'intervento di Casalegno condivido molti aspetti: sono d'accordo che il confronto tra culture dovrebbe evitare le "nefaste scempiaggini" su identità, radici e orgoglio dell'Occidente; faccio ammenda sul tema della tolleranza, che, se ha ragione Amartya Sen, non è tipicamente europeo-occidentale (forse l'errore è di considerare la tolleranza come un valore universalmente acquisito di qualsiasi cultura, inclusa quella induista - come vediamo purtroppo oggi); e forse ho esagerato nel predicare la discussione a tutti i costi e con chiunque: forse ci sono interlocutori con cui non vale la pena discutere, perché è ovvio che non sono disponibili a una discussione seria. Anche in questo caso, tuttavia - continuo a pensare - la discussione può avere senso come "pubblica tenzone", per riprendere l'espressione di Casalegno, cioè non per tentare di convincere l'interlocutore ma proprio per far emergere, in sede pubblica, la sua malafede e i suoi pregiudizi.

Ci sono poi alcuni punti su cui la vedo un po' diversamente da Casalegno. Secondo lui, ad esempio, ci sono materie in cui, "qualora non ci sia unanimità, ciascuno è libero di comportarsi come meglio crede". La questione mi pare mal posta. L'unanimità, come riconosce anche Casalegno, non c'è quasi mai; il punto è quali sono le materie in cui ciascuno è libero di comportarsi come meglio crede. La tradizione liberale, per esempio, fa riferimento ai diritti inviolabili della persona, che configurano uno spazio che dev'essere salvaguardato dall'interferenza normativa di qualsiasi maggioranza. Se si accetta questo presupposto - che mi pare, se non unanime, largamente condiviso nelle nostre società (non in altre) - la discussione si sposta sull'individuazione dei diritti in questione, e anche dei soggettidi tali diritti, come fa vedere l'ormai annoso dibattito sullo statuto dell'embrione umano, e come si evidenzia anche in alcuni aspetti della discussione sull'eutanasia (si ha il diritto di scegliere l'eutanasia per qualcun altro? se sì, è in forza dei diritti inviolabili della persona?). In generale, mi pare che la massima - spesso ricorrente - per cui quando non si è d'accordo (su certe questioni) non c'è che affidarsi alla "coscienza individuale" sia quasi del tutto vuota di indicazioni pratiche. Nel libro faccio l'esempio del maltrattamento degli animali. E' una questione su cui di sicuro non c'è unanimità (ho conosciuto persone che farebbero fatica a comprendere che il maltrattamento dei propri animali possa essere una questione morale, per non dire penale); e tuttavia non sarei contento che la questione venisse affidata alla coscienza individuale (chi vuole maltrattare i propri animali li maltratti, chi non vuole non li maltratti), e sono lieto che ci siano leggi che penalizzano i maltrattamenti. Casi come il suicidio o l'automutilazione (pur penalizzata dal nostro ordinamento) mi sembrano più dubbi. Insomma, il problema è quello dei confini dello spazio dell'autonomia individuale; il principio liberale secondo cui questo spazio sarebbe delimitato dai diritti altrui mi pare largamente contraddetto dagli ordinamenti che conosco. Si può pensare, come Casalegno, che ciò "non significhi assolutamente nulla" quando si discute di come la legislazione dovrebbe essere; tuttavia, il fatto che il principio sia così spesso contraddetto - e con buone ragioni - potrebbe far sorgere qualche dubbio sulla sua effettiva cogenza e praticabilità.

Vengo infine alla faccenda dei vescovi italiani e della loro lobby. Qui l'antipatia per il merito di certe posizioni sostenute dalla Chiesa italiana (mettiamo, sui DICO, sulla fecondazione assistita o sulla contraccezione) e per il modo in cui vengono sostenute può indubbiamente far perdere la pazienza. Casalegno, come molti altri, insiste sul fatto che, in forza del Concordato, i vescovi italiani non sono affatto "cittadini italiani come tutti gli altri". Ammettiamo che questo sia vero. Sarebbe poi così diverso se i vescovi, anziché parlare direttamente, parlassero soltanto attraverso associazioni laicali cattoliche, come tante volte è avvenuto nel passato anche recente? Il punto, mi pare, è che abbiamo a che fare con un'agency che è in grado di influenzare il comportamento politico ed elettorale di una minoranza significativa di cittadini. Si può esigere che ciò avvenga in forme istituzionalmente più educate, cioè soltanto attraverso organizzazioni che non sono parte integrante della Chiesa gerarchica; ma farebbe poca differenza, perché il punto è che l'agency in questione è in grado di far eleggere (o non far eleggere) un certo numero di parlamentari, di determinare (forse, e in parte) l'esito di referendum, ecc. Esattamente come i commercianti o i commercialisti. In più, queste lobby (e molte altre) sono in grado di influire sul processo politico anche in altro modo, per esempio attraverso i finanziamenti a partiti o a singoli esponenti politici (cosa che forse la Chiesa italiana oggi non fa più), attraverso la fitta rete di interessi che lega la politica - e i politici - all'economia, ecc. Questi modi di operare costituiscono indubbiamente una distorsione del processo democratico, che non piace nemmeno a me ("le lobby possono non piacere" era un eufemismo); non so se costituiscano un male inevitabile delle democrazie, certo sono un male diffuso. Invece, che ci siano organizzazioni di parte che cercano di influenzare il comportamento elettorale dei cittadini (e che detengono un potere sostanziale grazie alla loro capacità di farlo, come, mettiamo, la detestabile American Rifle Association) mi pare coessenziale alla democrazia moderna. C'era una volta, in Italia, un partito cattolico. Poi si è dissolto in vari rivoli e rivoletti. Ma oggi c'è di nuovo, anche se non si presenta alle elezioni: ha preso una forma diversa (e largamente impropria), ma la sostanza è quella. Stando al censimento 2001, l'88% degli italiani si dichiarano credenti cattolici e il 40% praticanti (atei e agnostici sono complessivamente l'11%). Il dato, come è noto, dice poco sui contenuti della fede (eventuale) degli italiani, ma, a mio avviso, dice parecchio sulla loro identità politico-culturale. Ignorare questo dato e prendersela con gli sgarbi istituzionali dei vescovi mi sembra parlare d'altro.

Il commento di Leonardo Marchettoni è forse l'unico che difende senza esitazioni un punto di vista antirealistico e relativistico sulla verità. In ambito morale sembra avere intenzioni non meno polemiche nei confronti di quanto ho scritto, ma, come cercherò di far vedere, la sua posizione risulta convergente con la mia.

Su realismo e relativismo, mi pare che l'argomentazione di Marchettoni si sviluppi come segue. Per quanto riguarda il relativismo epistemico, è "insostenibile" la mia tesi che il fatto che un'asserzione risulti giustificata (o non giustificata) in base ai criteri di X, o a quelli di Y, sia indifferente per la verità di quell'asserzione (e chi quindi il relativismo epistemico non riguardi la verità). La mia tesi è insostenibile perché, ad esempio, non è possibile che p sia falsa e contemporaneamente giustificata in base ai criteri di X, se, come sostiene il relativista epistemico, quei criteri non sono criticabili perché non ci sono metacriteri neutrali. Se un'asserzione è giustificata non può essere falsa, a meno di non "rompere [il] nesso implicito" tra verità e giustificazione; nesso che consisterebbe nel fatto che "la giustificazione [è] preordinata alla verità", come anch'io sembro accettare.

Qui mi sembra di vedere qualche confusione. In primo luogo, quello che è impossibile è sostenere che un'asserzione p, che si ritiene giustificata, è però falsa; mentre non è certamente impossibile sostenere che è falsa un'asserzione che qualcun altro ritiene giustificata, e soprattutto non è impossibile che un'asserzione sia falsa, anche se, in base ai criteri di questo o di quello, risulta giustificata. Il fatto che, nell'ipotesi del relativista epistemico, questi criteri non siano criticabili in base ad un metacriterio neutrale non toglie che essi possano essere inadeguati, nel senso che giustificano (anche) asserzioni false. La fondatezza di un criterio è a sua volta una questione epistemologica, che non tocca la verità o falsità delle asserzioni, la quale non è una questione epistemologica. Che possano esserci asserzioni false e tuttavia giustificate (in base ad un criterio che non siamo in grado di determinare come oggettivamente inadeguato) non rompe il nesso tra verità e giustificazione; almeno, non quello che io riconosco. Quello che io riconosco, sulle orme di Bernard Williams (cfr. p. 19), consiste in ciò, che una credenza giustificata è una credenza che si ha motivo di ritenere vera; per cui - come ho appena detto - è impossibile sostenere che una determinata credenza è sia giustificata, sia falsa. Ma questo non vuol dire che la credenza non possa essere giustificata in base ai miei criteri, e tuttavia falsa. E' capitato, infatti, con una certa frequenza.

Per quanto riguarda il relativismo concettuale, Marchettoni sostiene che la mia distinzione tra verità di "il sale è cloruro di sodio" e accessibilità del fatto che il sale è cloruro di sodio "rappresenta una petizione di principio contro il relativista", perché presuppone che "la 'vera ontologia'...contempli...quelle molecole che rendono vera l'asserzione che il sale è cloruro di sodio". Ma il relativista concettuale rifiuta la nozione di "vera ontologia": dire che il sale è cloruro di sodio è solo un modo tra tanti di parlare del sale ("del sale"? ma allora il sale c'è comunque?). Se invece io accetto l'idea che ci sia un'ontologia privilegiata è perché in realtà non mi limito a rivendicare certe intuizioni realistiche del senso comune, ma aderisco alla posizione filosofica detta 'realismo metafisico', secondo cui il mondo è da sempre "ritagliato" in oggetti che hanno determinate essenze, stanno tra loro in certe relazioni ecc., e di questo mondo così strutturato si dà una e una sola descrizione vera - secondo Putnam e Marchettoni, "vera" nel senso della teoria della corrispondenza. Tutto ciò presuppone "l'idea che il mondo sia intrinsecamente razionale...quasi il residuo di una forma di razionalismo e antropocentrismo tipicamente premoderni", e quindi difficilmente accettabile.

Nel libro, io domandavo: che cos'era il sale prima della creazione della chimica? Il senso comune, e anche pensatori poco inclini al realismo come Richard Rorty, rispondono che anche allora era cloruro di sodio (se lo è ora, beninteso). Questo vuol dire che nella "vera ontologia" c'è il sale, ed è cloruro di sodio? A me sembra che voglia soltanto dire che, se abbiamo ora ragione di pensare che il sale sia cloruro di sodio, allora abbiamo ragione di pensare che lo fosse anche ai tempi di Giulio Cesare; solo che Giulio Cesare non lo sapeva, anzi, non era nemmeno in grado di congetturarlo: il fatto che il sale sia cloruro di sodio non era accessibile a Giulio Cesare. Ma noi abbiamo ragione di pensare che il sale sia cloruro di sodio; quindi...

A me pare che il disagio di Marchettoni (e di molti altri) di fronte a questo genere di critica limitativa del relativismo concettuale derivi dal fatto che il critico del relativismo ha l'aria di confondere il punto di vista della scienza di oggi - un particolare "schema concettuale" - con il punto di vista dell'assoluto, la view from nowhere. Non escludo che alcuni realisti operino questa identificazione (e magari hanno le loro ragioni). Ma l'identificazione non è necessaria alla critica del relativismo concettuale; in altre parole, non è necessario supporre che la scienza di oggi abbia identificato una volta per sempre la "vera ontologia". Basta ammettere che, oggi come oggi, abbiamo buone ragioni per pensare che le cose stiano in un certo modo. Naturalmente, possiamo sbagliare (abbiamo sbagliato in passato), e in questo caso il sale non è cloruro di sodio, né lo era ai tempi di Giulio Cesare. Ma, come ho più volte sottolineato nel libro, la possibilità dell'errore non costituisce un'obiezione alle nostre attuali credenze: fino a nuovo ordine, abbiamo ragione di pensare che il sale sia cloruro di sodio. Se è così, certe formulazioni a cui è incline il relativista concettuale, come ad es. "Per Giulio Cesare, il sale non era cloruro di sodio", non possono essere interpretate come se asserissero una differenza tra l'ontologia dei tempi di G. Cesare e quella di oggi: se sono interpretate così sono false, perché il sale non è cambiato da allora a oggi; dunque se non era NaCl allora, non lo è neanche oggi; ma noi abbiamo buone ragioni per pensare che lo sia. Quelle formulazioni, dunque, vanno interpretate diversamente: l'intuizione che esprimono è che l'asserzione 'il sale è NaCl' è del tutto estranea all'universo epistemico e linguistico di Giulio Cesare, che non l'avrebbe compresa e non avrebbe avuto modo di determinare se fosse vera o falsa (né lui, né nessuno dei suoi contemporanei). Io ho espresso tutto ciò parlando di inaccessibilità, per Giulio Cesare, del fatto che il sale sia cloruro di sodio. Forse si può far di meglio, ma mi pare che l'idea sia ragionevolmente chiara.

Credo che questo basti a mostrare che io non sostengo, come dice Marchettoni, che "esiste un insieme di proposizioni vere in ogni tempo e luogo", ma piuttosto che, se (come noi ragionevolmente crediamo) certe proposizioni sono vere oggi, allora sono vere "in ogni tempo e luogo", salvo che le cose cambino o siano cambiate. Io penso che il realismo metafisico sia un'invenzione autocritica di Putnam: una specie di caricatura delle sue posizioni della metà degli anni '70, che probabilmente non è implicata nemmeno da ciò che egli effettivamente sosteneva allora (ad es. in "The meaning of meaning", 1975). Comunque, per quanto mi riguarda non ho mai presupposto la teoria della corrispondenza, non ho assunto che esista una e una sola descrizione vera del mondo, e, pur essendo convinto che il mondo esista indipendentemente dalla nostra mente, non mi esprimerei in termini di oggetti indipendenti dalla nostra mente, se non in una prima approssimazione (ad esempio, non penso che i quark siano oggetti). Io ho cercato di presupporre molto meno, e credo che basti molto meno per criticare certe forme di relativismo. Per esempio, mi riconosco nella seguente posizione di Michael Dummett (che non è noto come filosofo realista):

"E' probabile che i costruttivisti di entrambe le specie [=sia i moderati, sia i radicali] siano d'accordo che ci sono asserzioni vere la cui verità al momento non riconosciamo e che di fatto non riconosceremo mai: negare questo sarebbe sposare un costruttivismo eccessivo. Di certo non è possibile identificare la verità con l'essere riconosciuto come vero, o trattato come vero" ("Wittgenstein on Necessity", in The Seas of Language, p. 446).

La distinzione tra essere vero e essere riconosciuto come vero è tutto ciò di cui ho bisogno, è ciò che ho cercato di argomentare, ed è ciò che molti relativisti prima o poi finiscono per negare.

Concludo questa parte della risposta con un'osservazione, diciamo così, storiografica. Marchettoni sostiene che "la posizione realista intorno alla verità appare oggi largamente minoritaria". Questa affermazione è suffragata da una nota in cui vengono elencati alcuni filosofi antirealisti e/o relativisti: Wright, Lynch, MacFarlane, Kölbel, e naturalmente Dummett. Tutti filosofi rispettabili, e alcuni, come Wright e Dummett, anche molto autorevoli; peraltro, come si è visto, alcuni di loro - in particolare, Dummett e Wright - non sosterrebbero le forme di antirealismo per cui Marchettoni sembra simpatizzare. Dall'altra parte, comunque, ci sono Bernard Williams, Tim Williamson, Saul Kripke, Hartry Field, Wolfgang Künne, Thomas Nagel, David Papineau, Nathan Salmon, Scott Soames, e innumerevoli altri; quasi tutti loro sostengono forme di realismo più forti di quella che io ho difeso nel libro (anche se magari non le tesi con cui Putnam caratterizza il realismo metafisico, che, come ho detto, tendo a considerare un fantasma autopolemico). Non è che questioni di questo genere si decidano con un referendum; tuttavia, l'affermazione di Marchettoni mi fa pensare che evidentemente viviamo in mondi diversi, come direbbe un kuhniano. Avendo qualche inclinazione cognitivistica, quindi in rotta di collisione con molte forme di realismo, mi sono sempre sentito assediato dai realisti "puri e duri": evidentemente ero vittima di un delirio paranoide.

Per quanto riguarda il discorso etico e politico, invece, mi pare che Marchettoni non difenda posizioni incompatibili con le mie. Anch'io penso che non sia ovvio "dove finiscono i nostri valori e dove inizia la contrapposizione con i valori degli altri" (v. pp. 123-128), e che capita che "pratiche che ci appaiono moralmente detestabili...[siano] in ultima analisi radicate in valori che fino all'altroieri erano largamente condivisi anche nella nostra comunità", come dico quasi con le stesse parole di Marchettoni (p. 126). Niente di ciò che dico, mi pare, è incompatibile con la ricerca di convergenze interculturali, con la prospettiva della "fusione di orizzonti", con il guardare a ciò che unisce più che a ciò che divide. E' semmai il relativismo - mi pare - che esaspera le differenze, costruendo sia le culture, sia le personalità morali individuali o di gruppo come sistemi omogenei, chiusi e non comunicanti. Certo, le differenze esistono e rimuoverle in spirito irenico è rischioso, perché c'è sempre chi si incarica di evidenziarle in forma ingigantita, semplificata e distorta - come ben sappiamo ormai anche noi in Italia. Io ho cercato di sostenere che le differenze non vanno né rimosse né aggredite, ma affrontate in una discussione in cui si fanno valere le proprie ragioni senza essere ciechi alle ragioni degli altri.