2008

Una concessione fatale
Riflessioni intorno a Per la verità

Alessandro Ferrara (*)

Ho accolto con grande favore e interesse l'invito a contribuire a una discussione sul volume di Diego Marconi Per la verità. E' un testo che fa onore alla filosofia italiana e al suo autore: chiaro, con una tesi bene argomentata, con un fine altrettanto bene identificabile, ossia mostrare l'inconsistenza del relativismo e la plausibilità di una visione "realista" (anche se forse non realista in senso strettamente tecnico) della verità, dove "realista" vuol dire "indipendente dalla giustificazione".

Tuttavia, io trovo che il libro non faccia i conti fino in fondo con le sue stesse premesse e che alla fine non riesca veramente a "chiudere" sulla dimostrazione della tesi che sta a cuore a Marconi. In queste note provo a esplicitare le perplessità che l'ammirazione per la capacità argomentativa dispiegata nel testo non riesce tuttavia a dissipare. Premetto una considerazione generale, la quale rende più comprensibile il senso delle obiezioni più specifiche. Non vorrei passare per un difensore del "relativismo" anche se difenderò la tesi per cui l'oggettivismo è insostenibile e la concezione "realista" della verità è più dubbia di quanto appaia. Senza voler qui promuovere la mia personale agenda filosofica - centrata sull'idea di un universalismo esemplare o del giudizio come alternativa tanto all'oggettivismo quanto al relativismo - mi limito a ricordare che il primo compito di un filosofo è l'esercizio della riflessione e del dubbio a 360 gradi, in primis e per quanto gli è possibile verso le proprie certezze. Siamo così sicuri che il quadro delle alternative si esaurisca in un confronto bipolare fra un universalismo centrato sull'idea di verità come corrispondenza ai fatti, a come stanno le cose nel mondo prima e al di là del loro essere interpretate in un certo modo, e un relativismo che, nella sua versione migliore, insiste sulla "situatezza culturale" dei criteri con cui giudichiamo della verità delle asserzioni? Uno dei pregi del saggio di Marconi è di farci vedere quanti diversi tipi di relativismo si possano distinguere. Perché questo esercizio analitico addiviene a un inspiegabile arresto quando si tratta di distinguere diverse specie di universalismo o diverse concezioni non relativiste della verità? Non desidero entrare in questa discussione adesso, in quanto vorrei tenermi aderente al testo di Marconi, ma soltanto segnalare che questa domanda, non già un'adesione a tesi relativiste, sta sullo sfondo delle perplessità a cui accennerò.

Queste perplessità riguardano alcuni punti nodali che sorreggono l'argomentazione intorno alla verità. Il primo punto riguarda il nesso di verità e giustificazione, su cui ritengo che Marconi non abbia chiarito tutto quanto vi sia da chiarire. Il secondo punto punto riguarda il carattere a mio avviso fatale di una concessione che Marconi fa alla tesi non-realista nel capitolo "La fabbrica dei fatti". Il terzo punto riguarda il rapporto tra verità e esistenza della mente umana. Infine vorrei concludere con alcune considerazioni sul nesso di verità e politica che mi sorgono dalla mia specifica prospettiva di filosofo della politica più che di filosofo del linguaggio o della scienza.

Verità e giustificazione

Partirò dal primo punto dubbio - il rapporto fra verità e giustificazione - perché ci conduce come un sentiero naturale al secondo punto, che è a mio avviso quello decisivo, ovvero la fatale differenza fra la verità intraparadigmatica e la verità di un paradigma. La tesi di Marconi è che la verità è la risposta vera a una domanda intorno a dei fatti del mondo: "come è caduto il DC-9 dell'Itavia nel giugno del 1980?". Possiamo non sapere se fu colpito da un missile, se esplose una bomba a bordo, o se ebbe un guasto, ma in uno di questi modi le cose devono essere andate. Conoscere la verità significa sapere identificare quale proposizione corrisponde ai fatti effettivamente accaduti. Il che mostra l'indipendenza concettuale della verità dalla giustificazione. Potremmo tirare a indovinare e con probabilità 1/3 centrare la risposta giusta: avremmo allora asserito una proposizione vera senza alcuna giustificazione.

Ma, sottolinea Marconi, il termine "giustificazione" non è univoco: comprende almeno tre significati. Potremmo in un primo senso intendere una asserzione come "giustificata" semplicemente quando ci viene proposta in forza di un'argomentazione, solida o fallace che sia, piuttosto che come articolo di fede o mera credenza. In questo senso debole del termine "giustificazione", è evidente che qualcosa può essere giustificato agli occhi del parlante ma per nulla vero. In un secondo e più forte senso, potremmo intendere una asserzione come "giustificata" quando ci viene proposta in forza di un'argomentazione solida e non fallace. Talvolta si parla di "warranted assertibility". Si sono seguiti tutti i passaggi di una certa procedura di controllo e si è dunque "autorizzati" a ritenere vera una certa cosa, come quando sottoponiamo la nostra automobile a revisione e il verdetto è positivo. Tanto il meccanico quanto noi alla fine dei test siamo "giustificati" nel ritenere che la vettura soddisfi i requisiti di legge per poter circolare. Tecnicamente, diremo che un'asserzione è giustificata quando "è derivata in modo convincente da premesse plausibili" (p. 11). Però può darsi il caso, osserva Marconi, che anche un'asserzione giustificata in questo senso risulti poi falsa. Dall'ottica della teoria tolemaica si davano una serie di proposizioni giustificate eppure poi risultate non vere.

Infine, in un terzo senso è possibile costruire il concetto di giustificazione in modo talmente stringente da includervi la verità della proposizione. Una autentica giustificazione comporta la verità di quanto è giustificato, altrimenti si tratta di una giustificazione apparente, creduta vera per motivi storici, contestuali, tradizionali, di interesse, o per qualsiasi altro motivo, ma non di meno di una giustificazione falsa. Credevamo che una proposizione fosse dimostrata ma in effetti alla luce dei fatti dobbiamo ricrederci: non lo era. Il difetto di questa terza accezione di "giustificazione" è di svuotarla di senso, attraverso la circolarità con la verità: giustificato è diventato solo un ridondante sinonimo di vero, che nulla aggiunge.

Trovo questa argomentazione ineccepibile ma non del tutto completa. Per completarla occorrerebbe compiere la stessa operazione di analisi semantica sul versante del concetto di verità, non solo su quello di giustificazione. Scopriremmo allora che la verità non può essere intesa come corrispondenza con i fatti del mondo senza un'argomentazione in proposito. Non è affatto ovvio che sia questo il significato di verità e nulla nell'argomentazione di Marconi ci spiega perché dovremmo accogliere questa versione del concetto di verità, sicuramente venerabile e autorevole, ma non unica e oggi diventata assai più dubbia, dopo il nuovo orizzonte aperto dalla svolta linguistica. Ciò che sicuramente è condivisibile nella argomentazione di Marconi è la difesa di un idea non-relativistica di verità. Ma che una nozione non-relativistica di verità debba coincidere con l'idea di verità come corrispondenza con stati del mondo indipendenti dalla nostra interpretazione non è così ovvio. La sussistenza di stati del mondo indipendenti atti a discriminare fra proposizioni descrittive vere e non vere presuppone una concezione del rapporto linguaggio-mondo in cui il linguaggio non ha alcuna valenza formativa nei confronti della segmentazione del mondo stesso. Nomina elementi del mondo già costituiti come discreti e non li costituisce. Solo a queste condizioni, ed assumendo una traducibilità esaustiva di ogni linguaggio in ogni altro linguaggio, è ipotizzabile che il "modo in cui stanno le cose nel mondo" sia il solo fattore che rende vera o non vera una asserzione. Se invece ci ritraiamo da un'affermazione così radicale, da una così totale negazione dell'opera di Wittgenstein - il quale già nel Tractatus sosteneva che "i limiti del linguaggio (del solo linguaggio che io comprendo) significano i limiti del mio mondo" (5.6.2) - avremo con ciò creato uno spazio concettuale per pensare che vi è un altro componente, lo si chiami o meno giustificazione, che rientra a pieno titolo nella determinazione di un'asserzione come "vera". Questo componente è la scelta valida, ragionevole, giustificata, piuttosto che arbitraria, di uno fra diversi modi possibili di segmentare il mondo.

Il pragmatismo di Dewey e Peirce, così come le concezioni più tardi sviluppate da Putnam, Dummett, Apel e da Habermas, ci consegnano un'idea alquanto diversa e tuttavia egualmente non-relativista di verità, che fa perno in vario modo sulla nozione di warranted assertibility, di migliore argomento in condizioni idealizzate (non empiriche) di discorso, di coerenza e funzionalità pragmatica. Diversi per quanto possano essere i punti di partenza di questi autori, in comune condividono una profonda diffidenza verso la strategia filosofica dell'affidare la valenza non-relativistica della verità alla capacità delle asserzioni di rispecchiare con fedeltà - una fedeltà "locale" poi, "punto per punto" piuttosto che "olistica" - un mondo esterno dato e indipendente dall'interpretazione. Non posso qui esaminare queste opzioni alternative, ma le richiamo solo per sottolineare l'indispensabilità di un "supplemento di argomentazione", non rilevabile nel testo di Marconi, prima di potere dare per scontata l'idea che la nozione corrispondentista di verità sia l'unica ad avere le carte in regole per battere il relativismo.

La concessione fatale

Un altro dei nodi problematici su cui vorrei soffermarmi è contenuto nel paragrafo intitolato "La fabbrica dei fatti", all'interno del capitolo dedicato ai "Relativismi". Qui Marconi ricostruisce con accuratezza la posizione ermeneutica: la versione più ragionevole della quale essendo che la possibilità di parlare di verità "in senso realistico" come corrispondenza ai fatti presuppone che si condivida un certo modo, storicamente e culturalmente contingente, di ritagliare il continuum del mondo in concetti "discreti" e si condivida il giudizio o decisione riguardo all'applicabilità di quei concetti condivisi al caso in questione. Come affermava Weber, discutendo di una possibile oggettività nelle scienze sociali, dal continuum degli oggetti possibili e dei loro quasi infiniti aspetti, i ricercatori scientifici devono isolare quelli che meritano la nostra attenzione investigativa dal ben più grande novero dei "fenomeni irrilevanti" e questa selezione è guidata da valori, su cui evidentemente può esistere dissenso "ragionevole" (ossia "non immotivato"). Non può essere guidata da "verità in senso realistico" che, a rigor di logica, possono emergere solo dopo che si è già scelto di investigare un oggetto. Alla weberiana contesa fra i valori si è sostituita, qualche decennio dopo, l'idea di un'irriducibile concorrenza fra una pluralità di tradizioni, culture, concezioni del mondo, paradigmi, e via dicendo. Credo fermamente - con l'autorevole conforto della compagnia di Gadamer, Davidson, Putnam e Williams - che l'idea di incommensurabilità fra questi "schemi concettuali" (forzando il significato originario del termine davidsoniano) sia una sciocchezza, e credo pure che le conseguenze che ci interessano derivino anche dalla più debole, però difendibilissima, tesi di una solo parziale o non esaustiva traducibilità da una cultura, schema concettuale, tradizione, paradigma a un altro. (E tuttavia non mi sono mai trovato così vicino a cedere alla tentazione di credere all'incommensurabilità come quando ho provato a tradurre in inglese l'italianissima frase "Per evitare una spaccatura è stata fatta una fuga in avanti, avendo tuttavia cura di non cadere nel protagonismo"...).

Per metterla in modo più "tecnico": quando Marconi non contesta, a p. 71, che "se i fatti sono costituiti da operazioni interpretative, essi sono relativi a queste operazioni" e dunque "qualcosa è un fatto solo relativamente a una determinata interpretazione"; e quando, a p. 73, concede che anche nel caso delle "umili verità" ("Mi aspettavo che pochi soggetti barrassero la casella A, invece è un fatto che 25 soggetti su 36 l'hanno barrata", oppure "Credevo che il Consiglio di facoltà fosse oggi, invece è un fatto che non c'è) potremmo o non avere nel nostro stock culturale quei concetti senza i quali i cosiddetti fatti non si costituiscono, oppure avere i concetti necessari ma scegliere deliberatamente di non ritenerli applicabili a quei casi; ritengo che in quel momento Marconi conceda l'essenziale alla posizione "anti-realista".

Uso questo termine perché mi considero antirealista ma non relativista. Tutti i relativisti sono "anti-realisti", ma non tutti coloro che sposano una versione non-realista, non-oggettivista, non-corrispondentista, non fondazionalista della verità sono per questo "relativisti": Habermas, ad esempio, sposa un versione consensuale e proceduralista della verità, profondamente anti-realista, e non per questo è un relativista, anzi è un fiero avversario del relativismo postmodernista. Ed io cerco da vari anni di sviluppare una concezione giudizialista della verità - per lo più riguardante il versante morale e politico della verità o validità - in chiave anti-realista ma non per questo relativista.

Perché Marconi con la sua concessione si immette su una slippery slope al fondo della quale c'è la dissoluzione dell'idea "realista" di verità a cui tiene? Non tanto perché dalla contingenza genealogica delle nostre concettualizzazioni - sensibili alla diversità storica e culturale - discenda (come pretendono molti relativisti) la contingenza della loro validità, una tesi che giustamente Marconi critica. Ma per un'altra ragione, più "debole" ma molto più insidiosa, ossia per il motivo che Marconi sta implicitamente ammettendo l'esistenza di due insiemi distinti di ragioni che concorrono a determinare la verità di un'asserzione descrittiva sul mondo. Da un lato la verità di un'asserzione dipende dall'occorrere, dal darsi di certi stati del mondo che la rendono vera. Se il consiglio di facoltà non c'è, non c'è. C'è poco da interpretare. Ma dall'altro - a questo equivale la concessione di Marconi - a monte dei fatti che suffragano o meno le nostre asserzioni c'è la Begrifflichkeit con cui il continuum del mondo viene ritagliato, e se concediamo che possa darsi scelta fra schemi concettuali concorrenti immediatamente sorge un piano completamente diverso per la valutazione delle nostre asserzioni. A questo secondo livello non serve affacciarsi alla finestra e guardare come stanno le cose nel mondo, perché la domanda è piuttosto: quali occhiali dobbiamo inforcare quando ci affacceremo alla finestra? Se i fatti sono "relativi" agli occhiali con cui li guardiamo, la verità di una proposizione dipende (anche) dagli occhiali con cui guardiamo il mondo. Ma la scelta fra una Begrifflichkeit e un'altra, fra un paio di occhiali e un altro, fra un paradigma e un altro non può basarsi su ragioni che dipendono dalla osservazione di fatti che cominciano a essere visibili solo dopo che abbiamo scelto i concetti o gli occhiali con cui guardare il mondo. E che tipi di ragioni raccomandano uno schema concettuale, una Begrifflichkeit, un paradigma rispetto a un altro? Non è mia intenzione qui portare avanti un'agenda esemplarista, secondo cui in ultima analisi queste ragioni si legano in modo non casuale alla autenticità o congruità della nostra identità - ovvero, per dirla in linguaggio non tecnico, si legano al modo in cui rappresentiamo noi a noi stessi.

Ai fini del motivare la mia riserva anti-realista mi basta soltanto notare che, quali che esse siano, le ragioni a favore o contro la scelta ed applicazione di una configurazione concettuale rispetto a un'altra, e dunque i criteri di una scelta "valida" a questo secondo livello, non possono essere dello stesso tipo di quelle che Marconi ci invita ad adottare per il primo livello - quello dello stabilire se una proposizione è suffragata dai fatti, una volta scelti i concetti con cui guardare il mondo. Se fossero eguali - poniamo, in entrambi i casi mi affaccio e guardo come stanno le cose - la distinzione fra i due livelli del nostro discorso sulla verità, concessa alle pagine sopra menzionate, verrebbe infatti vanificata.

Se questo ragionamento tiene, allora anche la difesa proposta da Marconi di una visione non relativista, corrispondentista, della verità diventa una difesa a metà: si riduce a una esposizione dei motivi per cui è infondato il relativismo una volta che abbiamo scelto di muoverci entro un orizzonte concettuale - oppure, nel caso in cui l'asserzione da valutare è topograficamente posta all'intersezione fra due o più schemi concettuali, paradigmi, tradizioni, ecc., il che fortuitamente neutralizza la diversità dei medesimi. Ma si tratta di una difesa a metà, senza che ci sia una parola intorno a cosa rende la scelta di muoversi entro un orizzonte concettuale più "vera", più "ragionevole" o semplicemente "migliore" della scelta di muoversi entro l'orizzonte concorrente. E una difesa a metà equivale a nessuna difesa.

Nel testo di Marconi non si trova traccia di questo secondo pilastro di una visione non relativista della verità. Non si trova né la ambiziosa (ma a mio avviso insostenibile) tesi per cui è il mondo medesimo a "obbligarci" a categorizzarlo, ritagliarlo in certe maniere piuttosto che altre, né la tesi per cui le diverse maniere di categorizzarlo sono "a nostra disposizione" come scelte ed esisterebbero scelte più o meno "valide" in un senso che rimane da chiarire, né la tesi foucaultiana secondo cui quello è il luogo su cui il sapere si mischia con il potere. C'è invece una lacuna argomentativa che impedisce alla difesa di una nozione anti-relativistica della verità di andare a buon fine.

Verità, mente e certezza

Un terzo insieme di considerazioni riguarda il nesso di verità, certezza ed esistenza di menti umane. Marconi sostiene che la tesi, avanzata fra gli altri anche Heidegger e da Rorty, per cui senza menti umane non si dà verità di proposizioni confonderebbe "verità" ed "accesso alla verità". Per contro, afferma Marconi, "in un mondo privo di menti niente e nessuno avrebbe accesso ad alcuna verità, ma questo non vuol dire che niente sarebbe vero di quel mondo" (p. 69).

Alla luce di quanto sin qui detto possiamo comprendere come non sia del tutto evidente che questa affermazione possa essere condivisa senza ulteriori qualificazioni di cui però non troviamo traccia nell'argomentazione sviluppata in Per la verità. In primo luogo, i fatti non sono tutti uguali. Dobbiamo a John Searle la distinzione, di fondamentale importanza per chiunque si occupi di azione, di società e di politica, tra i cosiddetti "fatti bruti" e i cosiddetti "fatti istituzionali". Se intendiamo per "fatti istituzionali" quegli stati del mondo che presuppongono la condivisione di significati, possiamo capire meglio i limiti della tesi per cui anche in un mondo senza menti esisterebbero delle verità. Potrebbero esistere delle verità riguardanti dei fatti bruti, per esempio che oltre i centro gradi centigradi l'acqua cambia di stato e si trasforma in vapore. Ma non potrebbe esistere alcuna verità, altrettanto fattuale, che includa un qualche elemento istituzinale. Per esempio, senza menti umane non potremmo mai darsi il caso che in una cassaforte si trovino migliaia di banconote da 50 euro, perché senza l'esistenza di menti umane un pezzo di carta filigranata con certe caratteristiche fisiche e con determinati segni impressi non sarebbe mai una banconota da 50 euro. Dunque in un mondo privo di menti qualcosa continuerebbe ad essere vero, per esempio che l'acqua del mare è salata e quella dei fiumi no, ma l'area dei fatti indipendentemente sussistenti si restringerebbe notevolmente per la drastica eliminazione di tutto l'universo dei fatti istituzionali.

In secondo luogo, se accettiamo l'idea che i fatti che rendono vere le nostre affermazioni sono collegati all'adozione di configurazioni concettuali e si costituiscono solo dopo che abbiamo inforcato gli occhiali di una simile configurazione, questa concessione retroagisce anche sulla tesi della indipendenza della verità da menti umane che la pensano. Non si vede infatti come la verità di una proposizione che "corrisponde" al modo in cui stanno le cose nel mondo possa per un verso essere in qualche modo collegata a un frame concettuale con cui menti umane situate nella storia si raffigurano ciò che può esistere nel mondo, e per l'altro verso essere indipendente da qualsiasi frame concettuale quando ancora non vi siano o non vi siano più menti umane in grado di adottare quello o un altro frame concettuale. Delle due l'una: o la verità di una proposizione non dipende da come concettualizziamo il mondo, e questo vale anche quando vi siano menti umane (e dunque non si capisce il perché della concessione operata nella sezione "La fabbrica dei fatti"), ovvero ne dipende (come sembra evincersi dal medesimo paragrafo) e dunque quando non vi sono "menti che concettualizzano" non vi sono neanche verità.

Verità e politica

Infine, essendo per formazione e professione un filosofo della politica più che un epistemologo o un filosofo del linguaggio, mi sento molto coinvolto da un certo clima di fondo che percepisco sia nella parte finale del libro di Marconi, sia in alcuni interventi che mi hanno preceduto nel forum. Quando si lascia il terreno della epistemologia e della filosofia del linguaggio per affrontare il tema della verità in politica e nella morale, bisogna aver cura di esercitare lo stesso livello di rigore concettuale. Lo sforzo di riabilitare un concetto non-relativistico di verità affermando che il mettere guerre civili e persecuzioni sul conto del concetto di verità equivale a gettare il bambino con l'acqua sporca e affermando che per essere tolleranti "basta ricordare quali sono stati i frutti dell'intolleranza" (p. 146) mi sembra uno sforzo non all'altezza della complessità delle questioni implicate.

In primo luogo, nell'ambito della politica non abbiamo soltanto a che fare con verità in senso cognitivo o descrittivo. Certi enunciati si presentano come descrittivi ma a ben guardare non lo sono. Proviamo a rispondere alla domanda "Il feto è persona?". Dove si guarda nel mondo per conoscere la risposta? Nel rispondere a questa domanda elementi descrittivi - per esempio, la fattualità della somiglianza di certi processi che hanno luogo nel feto e nella persona umana, la potenzialità biologica del diventare individuo umano compiuto, ecc. - vanno a congiungersi con elementi che riguardano la ragionevolezza del nostro tracciare una linea fra l'indubitabile differenza che permane tra feto e persona e le sue conseguenze giuridiche e morali. Qui non è questione di guardare come stanno le cose nel mondo, è questione di argomentare intorno a come dovrebbero stare. Si può anche sposare una tesi realistica e dire che si dà un unico modo in cui dovremmo pensare che le cose dovrebbero stare nel mondo - indipendentemente dal fatto che questo modo sia accessibile a noi o meno. Il punto è però che una politica liberale e democratica si distingue da una politica non liberale e non democratica precisamente per il fatto di rinunciare a porre la forza coercitiva del diritto - senza la quale non si dà ordinamento politico alcuno - al servizio di concezioni che si autodichiarano unilateralmente "nel vero". Ovvero non si dà spazio concettuale per pensare la democrazia e il liberalismo senza presupporre il rispetto del pluralismo. E rispetto del pluralismo vuol dire che i soggetti trovano "giusto" porre la forza coercitiva del diritto al servizio di una verità forse più limitata, ma condivisa, che dunque consente a tutti di vivere in armonia con le proprie concezioni più profonde, piuttosto che al servizio dell' "intera verità" per come noi da cattolici, da laici liberali o da marxisti (per restare alle tre canoniche culture politiche nostrane) la vediamo.

Questa svolta è stato spesso vista come una "deriva pragmatica" - iniziata con il liberalismo antiperfezionista di Rawls - la quale depotenzia il concetto di verità e tende ad espellerlo dalla politica, sostituendolo con il consenso. Sarebbe qui fuori luogo affrontare il tema della verità nella politica. Ma i fautori di un concetto "realistico" di verità farebbero bene a prendere nota del fatto che esso è in tensione con una concezione liberal-democratica della politica - dove per concezione liberal-democratica intendo una concezione secondo cui l'uso legittimo (piuttosto che arbitrario) della forza coercitiva del diritto poggia sul suo accordarsi con principi costituzionali che tutti (piuttosto che solo alcuni fra) i cittadini, in quanto liberi ed eguali (piuttosto che in condizioni di diseguaglianza), potrebbero sottoscrivere alla luce dei loro principi (piuttosto che alla luce di considerazioni prudenziali riguardo ai rischi del dissenso). Come in un processo esiste una verità processuale, fondata sugli atti, che fa premio sulle convinzioni soggettive degli attori, così nella politica democratica la verità che vincola tutti non può che essere una verità in cui tutti, e non solo alcuni, si riconoscono. Elites illuminate possono avere le mani più libere per agire in nome della verità, ma la legittimità democratica, la politica democratica, non ha lo spazio concettuale per separare la verità dalla giustificazione. O meglio: la verità in senso "realistico" è un concetto "politicamente inerte", inagibile, la mera supposizione di come le cose potrebbero stare, mentre solo la verità "giustificata in condizioni ideali" (non certo la verità imposta) entra a pieno titolo in quella pratica che chiamiamo politica.

Ho affermato che un concetto realistico di verità è in tensione con una concezione liberal-democratica della politica e non che è totalmente incompatibile con essa, perché una sua funzione, soprattutto critica e demistificatoria, continua ad averla. Il famoso "legislatore" rousseauiano mostra la verità di quale sia il bene comune ai cittadini che, deliberando, formeranno così una volontà generale. Ma non può costringerli ad aderirvi, pena lo snaturamento antidemocratico di tutto l'impianto.

Ora una discutibile conseguenza dell'approccio "realistico" alla verità in politica è che, ove accetti ragionevolmente di fare spazio al pluralismo - e questo è certamente il caso di Marconi - esso giustifica l'accettazione del pluralismo e la tolleranza prevalentemente in vista di quelli che storicamente sono stati "i frutti dell'intolleranza" (p. 146). Ci freniamo dal pretendere che le istituzioni sposino la nostra verità - la nostra visione di come stanno le cose nel mondo, ivi incluso l'ordine di precedenza dei valori - per timore di ciò che sappiamo essersi storicamente prodotto quando si è agito cosi, ossia i proverbiali eserciti ignoranti che si scontrano di notte. Questa difesa prudenziale del pluralismo e della tolleranza è assai problematica. Esercita un appeal limitato e selettivo: non impressiona più di tanto di ha meno ragioni per temere il conflitto. Dunque sposta involontariamente l'accento sull'importanza del poter non soffrire le conseguenze del conflitto, per esempio assicurandosi l'appoggio di un potente alleato esterno o incrinando le alleanze dei nostri competitori. Una ricetta per l'instabilità, più che per la stabilità.

Possiamo fare di meglio. Possiamo cercare di giustificare l'accettazione del pluralismo e la tolleranza su basi di principio piuttosto che prudenziali. Questa giustificazione ha spesso assunto una direzione a vario titolo kantiana, invocando a un certo punto il rispetto dell'autonomia dell'altro e il rifiuto di coartarla attraverso l'imposizione della propria verità, della propria visione di come stanno nel cose nel mondo e di come dovrebbero stare. Questa linea di giustificazione della tolleranza ha a sua volta dei limiti, pur poggiando su un principio e non sulla prudenza. Fa appello a un primato dell'individuo e dell'autonomia che alcuni potrebbero trovare indigesto: non occorre andare lontano, basta spostarsi sull'altra riva del Tevere, per trovare chi individua nell'idea moderna e kantiana di autonomia il seme del relativismo. Teorizzazioni alternative riguardo alla giustificazione della tolleranza e dell'accettazione del pluralismo devono allora andare a scalfire proprio l'idea di verità: la strada maestra per giustificare la tolleranza in termini non-prudenziali a chi non crede nel valore dell'autonomia e della ragione individuale sembra dover passare per un' "umiltà epistemica" e una nozione di "ragionevolezza", basate entrambe sui rawlsiani "oneri del giudizio", su cui non posso qui diffondermi oltre, ma che entra immediatamente in tensione con ogni nozione "realistica" di verità. Il che non significa che non si possa recuperare un momento "non relativistico" della verità, lungo linee esemplari (o anche proceduraliste) anche se non corrispondentiste. Ma qui entriamo nel merito di un'altra agenda filosofica, che ci conduce al di là di una disamina critica del brillante saggio di Marconi ed è dunque opportuno fermarsi.


*. Professore di Filosofia politica, Università di Roma "Tor Vergata".