2008

La teoria realistica della verità e la politica

Franca D'Agostini (*)

1. Considerazioni preliminari

Il libro di Marconi è a mio avviso un esempio particolarmente ben riuscito di uso pubblico della filosofia. Data l'esistenza di un dibattito pubblico che riguardi un tema di competenza filosofica (nel caso in questione: la verità), un buon contributo di un filosofo consiste nell'aggiornare chi dibatte circa le teorie recenti, ed eventualmente presentare un suo apporto originale. Non si tratta di divulgazione (anche se Marconi mi sembra usi questo termine, che considero fuorviante), ma di una specifica applicazione del lavoro filosofico, un suo uso specifico: tra l'altro nel contesto – quello dei dibattiti democratici – che è esattamente la fattispecie in cui e per cui 'la filosofia' (il nome e la cosa stessa) si è affermata, tra il V e il IV secolo a. C. (Non si parlerebbe di divulgazione se un matematico fornisse precisazioni su un complicato problema di logaritmi a un chimico: è il suo mestiere farlo, anche se certo utilizzerà un linguaggio accessibile al chimico.)

In particolare, si può sostenere che il libro, pur avendo un tema che interessa la metafisica, la logica, l'epistemologia, fornisce un contributo specifico alla politica, in qualcosa di cui la politica – e la riflessione su di essa - ha forse oggi particolarmente bisogno. La questione si può riformulare così:

  1. la zona di creazione di una politica basata sul contratto dei cittadini è la sfera pubblica;
  2. la sfera pubblica è lo spazio in cui si misurano e si valutano le ragioni programmatiche e identitarie;
  3. le ragioni si valutano soppesando tesi e le loro giustificazioni razionali, ossia nel confronto argomentativo;
  4. la nozione di verità costituisce un presupposto ineliminabile della pratica dell'argomentazione.

Si tratta di quattro postulati: i primi tre sono generalmente condivisi, mentre il 4 è in discussione, e le possibili obiezioni sono: - la nozione di verità non è necessaria per il corretto svolgersi del confronto razionale; - la nozione di verità, intesa come relazione (da definirsi) tra discorsi e fatti (o mondo, o stati di cose), è in qualche modo dannosa, perché il tenerne conto genera caratteristiche difficoltà (come si vedrà: di tipo epistemico ed etico).

Questa presentazione del problema risulta leggermente spostata rispetto al modo in cui Marconi sviluppa il tema (1), ma credo sia utile tenerne conto, visto che ci muoviamo nel contesto problematico della rilevanza della nozione di verità (con i suoi correlati) in politica. In effetti, penso che esaminato in questa prospettiva il discorso di Marconi riveli la sua maggiore utilità, come cercherò di far vedere soprattutto nell'ultimo paragrafo di questo contributo.

In quel che segue proverò anzitutto a ricostruire il procedimento di Marconi cercando di evidenziare quel che credo sia il suo aspetto più interessante: la messa in luce dell'inaggirabilità dell'uso della parola 'verità' in senso realistico (§ 2); quindi cercherò di applicare la teoria realistica della verità (o meglio l'accezione realistica del predicato 'vero') al problema sopra descritto del dibattito politico, ossia: alla difesa del postulato 4 (§ 3). Negli ultimi due paragrafi, rivolgerò due obiezioni a Marconi, quindi cercherò di far vedere che il suo discorso potrebbe utilmente servire per un chiarimento delle ragioni scettiche (in altri termini: è probabile che proprio una teoria realistica della verità possa servire come strumento contro una forma particolarmente insidiosa di dogmatismo).

2. Dalla 'verità' alla verità

Per la verità non si spinge fino a esaminare l'uso effettivo del concetto di verità (né propriamente fornisce notizie dettagliate sulle teorie recenti della verità, che però stanno sullo sfondo dell'intera analisi). Si limita a mettere in luce un certo numero di errori dei relativisti (scettici, pluralisti, nichilisti).

La maggior parte di questi errori sono evidenziabili utilizzando l'antico argomento anti-scettico fissato da Aristotele nel IV libro della Metafisica, che si può riassumere rapidamente nella seguente formula: chi nega o relativizza il concetto di verità (e altri concetti affini, come realtà o oggettività) semplicemente si contraddice. Si tratta dell'argomento detto "elenctico" (per confutazione), su cui esiste una letteratura sterminata (2). Marconi ne offre diverse versioni, con una certa preferenza per quelle che mettono in gioco l'uso/significato delle parole 'vero'/'verità'. Ossia, in breve: secondo Marconi i relativisti-pluralisti (o almeno alcuni di loro) usano 'vero', 'verità', ma nella migliore delle ipotesi intendono dire qualcosa d'altro, nella peggiore, non sanno ciò di cui stanno parlando.

Impostare la questione del relativismo nei termini del significato della parola verità non è soltanto una mossa 'da filosofo del linguaggio' (o se si vuole 'da filosofo analitico'). Essa infatti ha almeno due importanti conseguenze. Anzitutto, cattura una situazione che è a ben guardare sotto gli occhi di tutti. Nelle molte discussioni attuali che vedono nuovi oggettivismi o realismi (più o meno "muscolari", alla Searle) contrapporsi a posizioni più o meno classicamente antirealiste (e anti-descrittiviste) si ha spesso l'impressione che gli avversari dell'oggettività e della verità parlino d'altro: dicono 'realtà', ma intendono dogmatismo, dicono 'verità' ma intendono prepotenza; inversamente dicono 'relativismo' ma intendono gentilezza, buona educazione, dicono 'antirealismo' ma intendono libertà da visioni della realtà scarsamente giustificate e asserite acriticamente. Occorreva mettere in luce il problema, e provare a ristabilire un corretto uso della parola, non tanto per ridurre una importante discussione sui fondamenti a una disputa verbale (in alcuni casi non è esattamente così), ma per illuminare un più profondo e sottile fraintendimento, quello appunto su cui il libro insiste particolarmente: la confusione tra verità e giustificazione (si dice 'molte verità' ma si intende: diversi modi di giustificare una tesi o diverse fonti di giustificazione; si dice 'assenza di fatti' ma si intende: mancanza contingente di criteri per confrontare diverse versioni dei fatti).

La seconda ragione per cui è utile rivedere gli antichi argomenti anti-scettici in termini di uso-significato di certe parole è che in questo modo si effettua un singolare aggancio delle ragioni classiche del fondazionalismo (per l'appunto presentate in testi come il IV libro della Metafisica) ad alcune posizioni classiche dell'anti-fondazionalismo, in particolare, quelle presentate da Wittgenstein in Della certezza. Qui infatti Wittgenstein riconduceva le evidenze 'innegabili' di Moore all'uso-significato di certe parole ("a volte, siamo stregati da una parola..."). Come dire: sì, è impossibile (senza contraddizione) disfarsi della parola 'verità', ma solo per un certo significato della parola 'verità'; impossibile negare che una qualche realtà esista (ci sia), ma perché per 'realtà' si intende... Ora ciò che questo aggancio rivela è che i motivi 'linguistici' (ad verba), normalmente usati per smantellare le pretese della metafisica, possono valere a favore del fondazionalismo (o meglio: di qualche tipo di argomento fondazionale (3)). Ecco dunque quel che ritengo sia il contributo più interessante del libro. Marconi non soltanto fa vedere che c'è una sorta di 'errore' terminologico o concettuale, da parte dei relativisti, ma riesce a far vedere che l'uso standard del concetto di verità (rispetto a cui l'uso relativista risulta erroneo) è giustificato dall'insieme del nostro linguaggio e delle nostre pratiche discorsive. In questo senso – e se gli argomenti funzionano – la disfatta degli antifondazionalisti sembrerebbe essere totale e senza possibilità di revisione. L'inaggirabilità della verità (e – aggiungerei – di tutto ciò che ne consegue) risulta confermata dal significato stesso della parola verità.

Si noti una curiosa circostanza. Anche le cosiddette "evidenze onto-teologiche" hanno questa struttura: Dio risulterebbe esistente per il significato stesso della parola 'Dio'. Sappiamo però che su questa via non si ottiene molto: sarebbe come dire che l'oggetto 'la montagna dorata esistente', per lo stesso significato delle parole che descrivono tale oggetto, è esistente (è il "principio di caratterizzazione", spina nel fianco dei meinongiani): ma evidentemente non c'è-esiste nessuna montagna di questo tipo! Nel caso della verità però la questione è un po' diversa: qui si tratta infatti dell'esistenza non di un oggetto qualsiasi, ma di un concetto, una parola (più precisamente: di un concetto formale). Dunque l'argomento elenctico è molto più forte (se si vuole: la sua circolarità è giustificata dalla natura stessa della cosa di cui si parla). Se riesco a dimostrare che è lo stesso significato della nozione di verità a rendere la verità inaggirabile, e che tale significato è l'unico accettabile (perché non accettandolo si cade in conseguenze contraddittorie, o artificiosamente contro-intuitive), ho dimostrato effettivamente qualcosa: la verità si giustifica da sé, ossia: il concetto di verità è inaggirabile-innegabile.

Questo risultato può sembrare non del tutto nuovo, se si ricorda che 'verità' è uno dei trascendentali, ossia di quei concetti che i medievali indicavano in numero di tre: esse (o unum), verum, bonum. I trascendentali costituiscono strutture fondamentali della ragione, precisamente in questo senso: perché sono concetti-condizioni, nozioni di cui non si può fare a meno, nel discorso razionale. John L. Austin di passaggio, in "Truth" (1950) suggeriva (e credo avesse profondamente ragione) che molte difficoltà della teoria della verità derivano dal non ricordare che si tratta di una "parola straordinaria", per l'appunto una di quelle parole, come 'essere' e 'bene', o anche 'uno' (la lista è in verità più lunga, e in linea di principio aperta), che funzionano come condizioni dell'uso di altre parole.

Ma senz'altro nuova è la riformulazione della tesi che offre Marconi: essa viene presentata non a partire da una ontologia data, né dall'inaggirabilità di un principio logico (le due cose convergono, in Aristotele), bensì riferendosi, molto semplicemente, all'uso razionale delle parole. Dico razionale, e non semplicemente 'comune', o 'standard', perché è implicito nel libro, ed è importante ricordarlo, un legame specifico tra uso comune e uso filosofico del termine 'verità'.

Appunto allora si tratta di capire: quale è il significato di 'vero' che rende la verità intoccabile? Perché non c'è altro significato plausibile? Ed è poi davvero intoccabile, la verità così definita? E infine: che cosa consegue dalla sua intoccabilità?

3. La teoria realistica della verità e la politica

La risposta alla prima domanda è semplice: quando dico 'è vero che p', dove p è un enunciato dichiarativo, per esempio 'il gatto è sul divano', sto dicendo che le cose stanno proprio così: c'è un gatto sul divano. Marconi esprime ciò dicendo che una implicita pregiudiziale realista opera nell'uso del concetto di verità. Non posso dire sensatamente 'è vero che il gatto è sul divano' al tempo stesso sostenendo che non esistono cose, non c'è realtà, non c'è un modo in cui le cose stanno. O meglio, posso dirlo, ma allora quando uso 'vero' intendo dire qualcosa come 'ho il convincimento che il gatto sembri stare sul divano', oppure 'ho qualche ragione per sostenere che il gatto ha tutta l'apparenza di stare sul divano'....

Si è spesso sostenuto, in vario modo, e almeno a partire da Kant, che si può usare 'vero' senza pregiudizio realistico (diciamo pure: senza implicazioni metafisiche); per esempio: in un'ottica coerentista o pragmatista. Ma l'obiezione nota è che il coerentismo, nelle sue due principali versioni, non è tanto una teoria della verità (né spiega o giustifica l'uso della parola 'vero') quanto della conoscenza, e della giustificazione. La coerenza è precisamente uno dei principali requisiti delle valutazioni epistemiche: decido di includere p nel mio stock di credenze perché mi risulta consistente con altre credenze già incluse (coerenza in senso stretto); considero p giustificata perché abbiamo raggiunto un accordo razionale su p (coerenza come accordo). Ciò vale anche sostanzialmente per la versione più recente di teoria anti-realistica della verità: l'epistemicismo, su cui si veda più avanti. E vale, a maggior ragione, per le teorie pragmatiste, nelle diverse versioni (come notava sin da principio Russell, discutendo James). Dico che 'p è vero' quando l'assunzione di p è coronata da successo, o si rivela efficace per scopi pratici o scientifici. Ma sostanzialmente: che bisogno ho in questi casi di dire 'è vero che p', visto che ciò di cui sto parlando è visibilmente qualcosa d'altro (mi piace credere che p, ho dei vantaggi nel credere che p)? D'altra parte, è probabilmente una buona osservazione (una 'vera' osservazione) quella di Peirce, secondo il quale credere che p sia vero significa "essere disposti ad agire come se lo fosse". Ma questa tesi non illustra il significato di 'verità', bensì chiarisce l'atteggiamento epistemico che si lega all'assumere p come vero. Infine, anche Heidegger, nel dire che la verità è libertà (e non adaequatio), non sta parlando di verità, ma delle condizioni per cui vediamo-riconosciamo il vero, o dei modi di accesso al vero... (4).

Tutto ciò si può anche esprimere dicendo, con Tarski, che il rispetto dello schema T (anche non interpretato in senso corrispondentista), ossia: 'p è vero se e solo se p', è la condizione minimale che una definizione della verità deve soddisfare per potersi dire una definizione di verità, e non di qualcosa d'altro. Se tutto ciò funziona, e se si accetta questo, allora l'anti-realista deve evitare di usare la parola verità, o dire che a rigore non si dovrebbe usare tale parola, o perlomeno (si vedano per esempio le posizioni di Robert Brandom, e di Bernard Williams) bisognerebbe usarla solo quando per verità si intende 'veridicità'. In altri termini: deve entrare nel regime di quella che David Lewis ha chiamato prescindibilità della verità. Ma può farlo?

Proprio di qui inizia a svilupparsi il panorama delle confutazioni elenctiche di cui ho parlato. È possibile, e a quali condizioni, prescindere dalla verità (nel senso realistico di cui sopra)? In particolare, per quel che ci riguarda: è possibile prescinderne in politica, nel 'farsi' della politica democratica, che presuppone almeno i primi tre dei postulati presentati nell'introduzione a questo testo?

Immaginiamo una situazione ideale: un gruppo di personaggi valuta delle tesi, di qualunque genere, ma direi anzitutto (per mantenerci al caso della politica pura) di tipo programmatico, ossia della forma 'per ottenere x occorre y', 'abbiamo bisogno di x, e il solo modo (o il miglior modo) è y', e altre analoghe. Qui x e y indicano azioni, obiettivi, risultati, procedure, di vario tipo, per esempio: 'per garantire la governabilità occorre una nuova legge elettorale', 'per favorire la crescita economica è necessario promuovere la creazione di una piattaforma programmatica di convergenza', ecc..... La valutazione di queste tesi consiste molto semplicemente nel decidere se accettarle o no, soppesando le ragioni a loro favore, ossia valutando l'accettabilità di altre tesi, che costituiscono ragioni a favore delle prime. Decido che a è accettabile, perché b, che implica a (o se si preferisce, in termini più generici: è vincolata logicamente, epistemicamente, semanticamente, pragmaticamente ad a), lo è (5). Questo è in breve e in sintesi schematica il procedimento di base del dibattito pubblico, ossia del contesto discorsivo in cui 'si fa' la politica democratica, tanto come politica "di discorso" o "di costituzione di identità", quanto come "politica di provvedimento" (che per l'appunto si esprime in base a tesi programmatiche) (6).

Ora nel descrivere l'intero procedimento si può evitare (di fatto l'ho evitato) di parlare di verità: posso accettare b, e/o conseguentemente a, e/o qualche altra tesi, ma non perché sono (o credo siano) vere, ma semplicemente perché per varie ragioni mi sembrano accettabili (per esempio comparativamente preferibili ad altre). Questo vuol dire molto semplicemente che posso essere razionale, posso partecipare al dibattito pubblico, senza dover presupporre (per lo meno esplicitamente) che l'accettabilità di una tesi dipenda da come è fatto il mondo (7). Dunque se 'vero' sta a significare una relazione tra le parole, quel che si dice, e come è fatto il mondo, o 'come stanno le cose', questa relazione può sussistere o meno, ma di qualunque cosa discutiamo, non sembra necessario metterla in gioco, ossia non è necessario valutare quel che si dice in base a come è fatto (o come si ritiene che sia fatto) il mondo.

Questa è l'archi-scena del detrattore (razionale) della verità. È solo la scena preliminare, perché la fase successiva consiste nel dire: posto che si può prescindere dalla verità, tra le ragioni di accettabilità di una tesi, la peggiore è forse proprio il presupporre che sia vera, perché questo ci espone non soltanto all'errore (quel che credo essere vero, e che accetto come tale, potrebbe non esserlo), ma anche a una serie di conseguenze indesiderate. Per esempio gli accettanti a titolo di verità potrebbero avanzare dei diritti speciali a sfavore degli accettanti a mero titolo pragmatico, e su questa base promuovere l'attuazione di programmi dannosi per la collettività o sue parti specifiche. Oppure, altro argomento: il cercatore della verità nel dibattito pubblico ne troverebbe ben poca, è meglio dunque che si rassegni a lavorare sulle opportunità, le forze retoriche, le pressioni politico-economiche, ecc... (8)

Il nostro detrattore razionale della verità in questo modo però si è messo in pasticci da cui non potrà mai più uscire. Infatti, il problema fondamentale è che per farci accettare la fase due, ossia il gentile (o fermo) consiglio: 'disfatevi della verità!', il detrattore non ha altro mezzo che dirci: dovete essere d'accordo con me, perché questo è vero, ossia: è proprio così che è fatto il mondo. Perché dovremmo accettare che la verità di una tesi non è un buon criterio di accettabilità, se non perché questo è un fatto, ossia il mondo è proprio fatto così (ossia: è vero che sono state ingaggiate e combattute guerre in nome della verità, ed è vero che in suo onore sono state create istituzioni di dolore e di morte, ed è vero che pretendendo verità si può sbagliare)? Si noti che questo vale anche per il più tranquillo e modesto detrattore della verità su base pragmatica, il quale sostenga: no, non ho niente di principio contro la verità, l'unica cosa che dico è che non è utile nel dibattito pubblico mettere in gioco i fatti, o meglio 'come stanno le cose', perché questo ci espone a perdite di tempo notevoli, a complicati e lunghi processi di accertamento...Ebbene, anche in questo caso 'è utile lasciare da parte la (questione della) verità' può essere accolta solo come tesi vera, e da accettarsi sulla base della sua corrispondenza a fatti (o comunque a una qualche relazione con le cose come stanno o sono state in passato), e naturalmente si potrà sempre obiettare che accettarla ci esporrebbe a processi lunghi di accertamento, tra l'altro noiosi accertamenti concernenti fatti ed evenienze di tipo storico e metateorico, che toglierebbero molto tempo a buoni e più interessanti accertamenti di tipo pratico, rivolti al mondo, e all'immediato presente.

Tutto questo ripete sostanzialmente la struttura dell'argomento aristotelico (e platonico, e socratico: forse l'inventore degli argomenti elenctici è stato addirittura Democrito), e i molti argomenti sviluppati da Marconi nel libro si avvicinano a questo tipo di analisi. Due aspetti credo siano degni di nota. Il primo è che il vero di cui si parla, e di cui non è possibile disfarsi, è il vero con implicazioni realistiche (metafisiche), non è una generica veridicità, condizione attesa o sperata di qualsivoglia confronto umano, non è il vero-coerente, generato dall'accordo dei parlanti, non è neppure l'idea regolativa postulata dalla "comunità della comunicazione" di Apel. È proprio quel vero che sta a significare una relazione tra linguaggio e mondo. Il secondo è che in questo contesto il vero davvero non prescindibile risulta essere il vero meta-teorico, quello delle generalizzazioni, e delle ipotesi programmatiche. Come dire: per sbarazzarsi della verità delle cose piccole e qualsiasi, occorre smobilitare un grande quantitativo di verità concernenti le cose massime e universali.

4. Obiezioni

Si sarà capito che del discorso di Marconi condivido le ragioni principali, e forse si sarà intuito che mi spingerei anche più oltre, sulla via della difesa dei concetti di verità e realtà dai loro detrattori, e della critica del pluralismo e del relativismo. Ma ci sono due questioni che meritano a mio parere una riflessione, e su cui la mia analisi si discosta da quella di Marconi.

La prima riguarda la tesi "la verità è cosa banale e quotidiana", che Marconi presenta in chiusura del libro, ma che guida gran parte delle sue considerazioni: penso che la tesi non sia in sé sbagliata (per qualche senso di 'quotidiano', anche se ho dubbi su 'banale'), ma possa avere implicazioni fuorvianti, di cui merita tenere conto. La seconda implica una mozione a favore degli scettici: ci sono ragioni dello scetticismo (e del relativismo, e del pluralismo) di cui Marconi non dà conto, e che però forse sono le ragioni migliori. Le due questioni sono connesse.

a. Il ristabilimento della nozione corretta di verità implica dal punto di vista di Marconi, che in ciò segue una tendenza in largo senso deflazionistica, un ridimensionamento del concetto di verità: "In buona parte della filosofia contemporanea la verità è stata indebitamente drammatizzata" (p. 152). In effetti, questa esigenza deflazionistica può essere ricondotta anche a una diagnosi dell'errore relativista, ossia: il relativista esagera l'importanza e la natura del concetto di verità, e perciò è indotto a sbarazzarsene. O meglio: "si generalizzano indebitamente le difficoltà che abbiamo sempre incontrato nell'acquisizione di vere e proprie credenze filosofiche, etiche, religiose... Ma non c'è nessuna ragione di estendere al concetto di verità in quanto tale il senso di frustrazione generato – a ragione o a torto – dalla ricerca filosofica o religiosa" (p. 153).

Ora io credo che la diagnosi sia probabilmente giusta, ma al tempo stesso penso che insistere sulla natura "banale e quotidiana" del concetto di verità sia sbagliato. Anzitutto, perché l'uso proprio della parola verità, anche volendo mantenersi al minimo indispensabile, non è propriamente normale. In effetti, 'verità' è semplicemente il modo in cui il linguaggio dice che c'è una relazione tra lui stesso e come stanno le cose, e questa relazione non è importante, in moltissimi contesti. La non-rilevanza della verità è peraltro dimostrata dal fatto che se ne può prescindere: dico ''il gatto è sul divano' è vero', ma potrei dire più semplicemente 'il gatto è sul divano', dico ''la neve è bianca' è vero', ma potrei dire benissimo 'la neve è bianca'. È questa la teoria detta della ridondanza della verità, e ha dalla sua buone ragioni anche se evidentemente corrisponde solo a una metà dello schema T (da sinistra a destra del doppio condizionale), ossia 'se 'p' è vero allora p'. Ora questa visione unilaterale del bicondizionale funziona (ha un senso appropriato) proprio per quelle verità di tutti i giorni su cui Marconi consiglia di focalizzare l'attenzione (il gatto sul divano, la neve bianca). Invece, è precisamente nel caso delle tesi controverse (e in particolare nel caso di quelle filosofiche) che la verità dileguata ricompare, ed è difficile trattare le tesi controverse (o perlomeno moltissime di esse) se non si fa ricomparire la verità.

In parte ciò è stato già suggerito nel § 3, discutendo i detrattrori razionali della verità, ma un modo per confermarlo è ricordare che la tesi di fondo dei minimalisti-deflazionisti è che il predicato 'vero' ha una utilità specifica, non è propriamente ridondante, anzi è in qualche modo inevitabile usarlo nelle generalizzazioni, del tipo 'tutto quel che dice Giacomo è vero'. Ma quando si parla di generalizzazioni si intendono molte cose: anche 'bisogna fare x per ottenere y' è una generalizzazione; anche 'la condizione minimale perché una definizione di verità possa dirsi tale è il rispetto dello schema T' è una generalizzazione. L'enunciazione di programmi, strategie, principi della vita associata (esempio classico: definizione giuridica di persona) sono generalizzazioni. In altri termini: posso forse prescindere dalla verità quando parlo di gatti e di divani, di cose tranquille e banali che popolano la vita, ma quando comincio a pensare in generale, ecco che facilmente il concetto risalta fuori. Si vede bene allora che verità è come dice Austin una "extraordinary word", precisamente perché ricompare e rivela la sua massima importanza in contesti filosofici o quasi-filosofici, e specificamente: quando si tratta di generalizzazioni fondamentamentali, che fissano i preliminari della vita individuale e associata.

In un testo del 2005, Robert Brandom si preoccupava di spiegare perché la verità "non è importante in filosofia" ("Why truth is not important in philosophy"); ritengo invece proprio che sia importante solo o soprattutto in filosofia (9). Brandom scrive: "benché ci possa piacere parlare dei fenomeni in termini di verità (in terms of truth), non abbiamo bisogno di farlo, e non perdiamo niente di essenziale non facendolo". L'argomento elenctico è facilmente inferibile: per credere a quel che Robert dice dobbiamo pensare che sia vero, che corrisponda a come stanno le cose (nella nostra-sua esperienza), diversamente perché mai dovremmo accettarlo? Ma se noi non vediamo ragioni per accettare la sua tesi, e invece abbiamo ragioni per accettare la tesi opposta, ecco che la valutazione comparartiva delle ragioni dovrà mettere in gioco la verità. "In filosofia" forse c'è molto da fare, ma una gran parte di questo è precisamente valutare e confrontare le ragioni "in terms of truth".

Direi che si dovrebbe rovesciare la tesi brandomiana: forse non ci piace parlare di verità, o usare o presupporre il concetto di verità, ma sembra inevitabile farlo, e non facendolo semplicemente perdiamo l'occasione di capire perché alcune tesi (alcune generalizzazioni) sono accettabili, e altre no. Se andiamo a rivedere i quattro postulati del dibattito pubblico-politico, e ci spostiamo nel contesto dell'Atene democratica, dove si afferma la parola 'filosofia', ci accorgiamo che i primi tre postulati sono condivisi da filosofi e sofisti, ma solo i filosofi si avventurano anche a sostenere il quarto. L'azione pubblica della filosofia (socratico-platonica, e poi aristotelica) nasceva precisamente nel considerare la non prescindibilità del concetto di verità (e del lavoro della filosofia in politica), proprio in contesti decisionali, in quei contesti che le politiche pragmatizzate (e le filosofie pragmatistiche) vorrebbero far viaggiare liberi, senza riferimento a 'come è fatto il mondo'.

b. Insomma, Marconi tende ad assottigliare il concetto di verità, come fanno molti filosofi contemporanei, e non sono sicura che sia una buona strategia. In generale, molti autori sostengono concezioni 'thin' dei trascendentali, di questi tempi, e ci sono alcune ragioni per farlo, di cui non possiamo qui riferire in dettaglio. Però preferisco il suggerimento di Austin: credo che sia in generale sempre meglio ricordare la natura speciale se non "straordinaria" delle parole filosofiche come essere, bene, vero (e loro derivati) (10).

Una delle ragioni per cui credo che sia preferibile accogliere il suggerimento di Austin illumina l'altra mozione critica, ossia la difesa di un certo tipo di scetticismo-relativismo. Tradizionalmente, gli scettici sono stati presto consapevoli dell'autocontraddizione implicita nei loro argomenti (per lo meno, lo sono stati pienamente a partire dal momento stesso in cui hanno iniziato a definirsi 'scettici'). Lo scettico 'coerente' in effetti riconosce l'onore delle armi al fondazionalista, su questo punto, e dice: d'accordo, è vero, entrando nel dibattito razionale ho bisogno di verità e realtà (e anche di bene e giusto), ma lascio a te il dibattere, l'argomentare e la ragione e il senso, io mi limito a sospendere l'intera procedura; le mie tesi in effetti non 'entrano' nel dibattito, ma lo concludono virtualmente, e per quel che mi riguarda: sono i katartika pharmaka, i farmaci purificanti, che se ne vanno insieme alla filosofia, tolgono se stesse, e anche la ragione che le ha generate. Mi servo dunque della negazione della verità per rinunciare una volta per tutte alle verità, della negazione del bene per rinunciare alla ricerca del bene, e della negazione dell'essere per rinunciare alla comprensione dell'essere...

Ma non c'è pace per gli scettici, quando se la prendono con i trascendentali. Infatti, come diceva Aristotele (il quale in verità confutava gli anticipatori degli scettici, "i sofisti e i dialettici"): come potrà lo scettico andare a Megara, invece di gettarsi in un pozzo? Come potrà distinguere un uomo e una trireme? Come potrà – questo lo diceva Hegel – pagare le tasse, comprarsi da mangiare, andare all'opera? per tutte queste operazioni, occorre saper riconoscere il vero dal falso, quel che c'è da quel che non c'è, e anche quel che è meglio e peggio, quel che è bene e quel che non lo è (11). Dunque lo scettico continua a usare ciò di cui dichiara di essersi già disfatto; in questo modo fa un po' la figura di uno strano individuo che sta seduto su una panchina nel parco, e ripete a chiunque passi: le panchine sono inutili e dannose, guardatevi dalle panchine!

Il riferimento alle panchine vorrebbe suggerire che il principio stabilito da Marconi non è del tutto sbagliato: la verità è cosa banale, ma nel senso che è un po' come una panchina nel parco: che cosa dovreste avere contro di lei? Se ne avete voglia sedetevi, se no, lasciatela in pace. Tuttavia, lo scettico di ultima generazione, alla Sesto Empirico (e si può pensare che i migliori tra gli scettici contemporanei siano di questo tipo) è un personaggio diverso. Egli dice: io non sto parlando di quei casi di enunciati veri di cui parla Marconi, ossia il gatto sul divano, la strada che si trova di fronte a casa mia, la differenza tra un uomo e una trireme, e neppure sto parlando del teorema di Pitagora, o della morte di Napoleone. Invece, la mia preoccupazione sono le verità controversiali, quelle su cui non siamo d'accordo, precisamente: le verità d'emergenza. Tu mi dici che sono un fanatico apocalittico, che generalizzo condizioni d'emergenza, ma accidenti, è proprio in questi casi difficili, controversi, che salta fuori non la verità, ma il problema della verità!

In effetti i trascendentali sono a condizioni normali come panchine, hanno il compito puramente meccanico e passivo di fornire un appoggio alle cose che diciamo. Diventano importanti, acquistano l'importante statuto di problemi filosofici, quando le (presunte) verità (e le ipotizzate esistenze, e i possibili valori) oscillano, non si sa bene dove collocarle, o entrano in conflitto tra loro... Ecco dunque l'argomento che Marconi, dovendo difendere la banalità della verità (contro gli apocalittici) lascia cadere: i migliori scettici non sono tanto avversari di quella verità semplice di cui parla, né propriamente della verità in generale, ma piuttosto di un certo uso della parola verità. Si tratta dell'uso che in nome della verità istituita muove guerre e liquida (o brucia sul rogo) i dissidenti. È questo uso che gli scettici, storicamente, hanno avversato. Sesto Empirico dice (Schizzi pirroniani, I, 192 3) io non ho niente da eccepire a chi mi dice che il pane è fatto di acqua e farina, o a chi mi spiega che esistono case e alberi, ma non è questo ciò su cui esorto a sospendere il giudizio, bensì "sulle frasi dogmatiche riguardanti le cose non evidenti". Il vero problema è che chi non conosce i propri limiti conoscitivi è pronto a fare la guerra, non circa i gatti sul divano, ma in nome delle verità più zoppicanti e controverse (che sono per l'appunto quelle su cui c'è guerra).

5. Conclusione: chi sono i dogmatici?

Da questo punto di vista, e ammesso che c'è un senso in cui lo scetticismo non si contraddice, ed è anche perfettamente ragionevole (12), si può vedere bene che gli argomenti di Marconi potrebbero contribuire a far funzionare meglio il dispositivo della cautela scettica, che è peraltro uno dei requisiti indispensabili della filosofia, propriamente intesa. (Penso avesse ragione Hegel nel sostenere che lo scetticismo è il metodo della filosofia, e ne snatura il senso chi, per avversarlo o per sostenerlo, lo trasforma in presa di posizione teorica).

La questione su cui vorrei attirare l'attenzione di chi ha ancora la pazienza di seguire è questa. Il vero avversario dello scettico è un sistema di pensiero che è il più pericoloso avversario della verità e della filosofia: il sistema dei dogmatici, per i quali non c'è altra designazione che questa: gente che si fa una forza della propria ignoranza. Sembra solo una antipatica presa di posizione dogmatica contro i dogmatici (come direbbe Ratzinger, uno dei maestri contemporanei nell'uso degli argomenti elenctici). Ma non è così, e lo vediamo bene proprio considerando da vicino un argomento suggerito da Marconi.

Dice Marconi: un errore caratteristico (forse l'errore fondamentale) del relativista scettico consiste nel confondere verità e giustificazione. L'operazione è grandemente rischiosa, come rivela il "paradosso della teoria epistemica della verità", la cui prima formulazione si deve a Crispin Wright, e che Marconi riformula nel libro. A mia volta ne offrirò una versione che credo possa illustrare bene la natura specifica del dogmatismo. Si consideri il seguente argomento

  1. non ho giustificate ragioni per credere che il mio vicino di casa sia un extraterrestre
  2. poiché giustificato coincide con vero, non posso dire che sia vero che il mio vicino è un extraterrestre (per 1)
  3. non è vero che il mio vicino è un extraterrestre (per 1 e 2)
  4. il mio vicino non è un extraterrestre (per 3, e per la Def. di verità: Vp ↔ p)
  5. è vero che il mio vicino non è un extraterrestre (per 4 e Df. V)
  6. ho giustificate ragioni per credere che il mio vicino non sia un extraterrestre.

La conclusione sembra abbastanza sensata (anche se in definitiva, accettando di botto 1 e 6, si ha una fallacia ad ignorantiam: non so che p, dunque: so che non-p). Normalmente, rispetto ai nostri vicini di casa noi ci comportiamo così, dunque lavoriamo come se l'assenza di giustificazioni fosse essa stessa una giustificazione a sfavore. È tra l'altro abbastanza naturale comportarsi così, se si considera il principio che David Lewis chiama "elusivity of knowledge", ossia il fatto che la maggior parte delle cose che sappiamo le sappiamo perché in verità non ne sappiamo molte altre, e se dovessimo considerare ogni volta tutto ciò che non sappiamo non potremmo dire di sapere alcunché.

Ma provate a sostituire 'il mio vicino di casa è un extraterrestre' con 'il mio vicino di casa non è un extraterrestre', e avrete la forma universale del delirio paranoide: otterrete cioè, per le esatte ragioni di cui sopra, che il vostro vicino è senz'altro un extraterrestre, perché non avete ragioni per ritenere che non lo sia (come diavolo fate a dire che non lo è? che cosa sapete della mente del vostro vicino, e che cosa sapete degli extraterrestri?). Posto: 'il mio vicino è un extraterrestre' = p, abbiamo:

  1. non ho giustificate ragioni per ritenere che non p, dunque: ¬G¬p
  2. ¬V¬p (per Gp ↔ Vp)
  3. ¬¬p (per Df. V)
  4. p (per DN)
  5. Vp (per Df. V)
  6. Gp (per Gp ↔ Vp)

Più in generale: provate a spostare l'argomento in relazione a tesi davvero controverse, e di interesse pubblico, e capirete come il dogmatico riesce a farsi una forza della propria (e collettiva) debolezza epistemica, e a proclamare dogmi in osservanza e sul principio della propria (e collettiva) ignoranza.

Che cosa c'è che non funziona, nel meccanismo? Gli epistemicisti dicono, molto semplicemente: ciò che non funziona è lo schema T, ossia la definizione realistica di verità. Essa implica infatti che non c'è terzo tra vero e falso, e poiché p non è vero, deve dirsi falso, dunque deve essere vera la negazione di p. Di qui (per Dummett, per Williamson) l'accettazione della teoria epistemica, ma sulla base della negazione dell'importo realistico del concetto di verità. Delle due regole che ci servono per le derivazioni patologiche di cui sopra si ammette la Gp ↔ Vp (verità equivale a giustificazione), ma non si accetta Vp ↔ p, la definizione minimale di verità. Secondo Marconi (e secondo me, e secondo altri) il difetto sta nell'altro manico: nell'identificazione appunto di vero e giustificato. Posso benissimo conservare Vp ↔ p, che in fondo è l'escogitazione più semplice e intuitiva che abbiamo riguardo a quella "parola straordinaria" che è la verità (benché lo schema T susciti alcuni problemi ben noti, su cui però qui non si può discorrere), e sbarazzarmi invece di Gp ↔ Vp che implica una deviazione non del tutto giustificata (se non sulla base di un discutibile fenomenismo: ma questa è un'altra storia) dall'uso comune e filosofico del concetto di verità.

Così eccoci al vero bivio: si tratta di accettare l'impostazione epistemica della nozione di verità, ma violando la condizione minimale; oppure rispettare la condizione minimale, ma rinunciando all'epistemicismo. Chi accetta condizione minimale+epistemicismo è per l'appunto il dogmatico, fonte dei maggiori rischi per la comunità degli individui ragionevoli: è lui infatti che a partire dalla sua formazione paranoide deciderà di favorire la pena di morte, odiare gli immigrati, discriminare le donne, ecc...

Molte ragioni degli scettici più avvertiti sono riconducibili proprio alla critica di tale venefica mescolanza di epistemicismo e realismo. Si noti: non sono solo i dogmatici religiosi, a compiere l'errore, ma anche i dogmatici-scienziati (escludo i dogmatici-filosofi, visto che si tratta di un ossimoro: se sono dogmatici non sono filosofi). La scienza non è di principio dogmatica (nel senso di cui sopra), o perlomeno non dovrebbe esserlo (non le fa comodo esserlo), eppure il potere istituito dell'ignoranza ha fatto danno a volte, anche in ambito scientifico (e per quella scienza che dimentica le proprie basi filosofiche). Pensiamo per esempio alla formula: 'poiché non ci sono prove che p, allora non p', di comune uso in molti settori della scienza. In alcuni casi, è ragionevole, ricorda Marconi, comportarsi così. Ma un principio di cautela scettica consiglierebbe di non fare appello alla verità bensì al problema della verità nei casi controversi. (Questa forse è filosofia pratica: predere buone decisioni in regimi di sospensione dell'assenso.)

In conclusione, e giusto per tornare alla questione 'politica-verità', direi che una migliore consapevolezza circa i concetti di verità e realtà potrebbe produrre, all'interno del dibattito pubblico, condizioni decisamente migliori. Non soltanto allo scopo di favorire il confronto e l'accordo (sarebbe augurabile, ma è un po' come il calculemus di Leibniz), ma allo scopo di promuovere la ricostituzione di un terreno della politica che da tempo risulta (mi sembra, e sembra a molti) disgregato e confuso. La metafisica fondamentalmente pragmatista (l'espressione è volutamente provocatoria: ma esiste una metafisica pragmatista, in quanto esiste una visione del mondo, di come stanno o vanno le cose, che fa da sfondo alle posizioni dei pragmatisti) che ha guidato la teorizzazione politica fino a qualche tempo fa (con eccezioni solo molto recenti (13)) ha portato alla progressiva pragmatizzazione del discorso politico. La politica "di provvedimento" ha esponenzialmente dominato sulla politica "connected", ossia tendente a legare le proprie scelte a consapevoli opzioni filosofiche. L'età cosiddetta postideologica prevederebbe una politica di mera azione e puro programma, non connessa a specifiche visioni della realtà. Ciò che gli argomenti elenctici insegnano però è che quando pretendete di disfarvi di cose come realtà e verità (o anche di diminuire la loro rilevanza), in realtà (o in verità) state già facendo uso dell'una e dell'altra, e in una forma pericolosamente quanto più inconsapevolmente dogmatica.


Note

*. Professore di Filosofia della scienza, Politecnico di Torino.

1. Si avvicina piuttosto, se si vuole, alla riconsiderazione delle basi argomentative della politica, nell'etica del discorso di Jürgen Habermas e Karl Otto Apel: ma se ne distingue, perché l'etica del discorso sistematicamente prescinde (per ragioni filosofiche) dalla questione di cui qui stiamo parlando, ossia dalla verità intesa in senso realistico. Rimando ad altra sede la discussione della posizione "post-metafisica" di Habermas, e accenno solo di passaggio, più avanti, alla teoria regolativa (neokantiana-pragmatista) di Apel.

2. Forse vale la pena ricordare le forme più semplici dell'argomento: se 'niente è vero' è vero, allora qualcosa è vero; se 'esistono molte verità' vuol dire che su una stessa cosa si possono dire cose opposte identicamente vere, allora anche 'esiste una sola verità' (ossia: 'su ciascuna cosa c'è una sola verità che si possa dire') potrebbe essere vero; se 'ogni verità è relativa' è una verità relativa, allora esistono verità assolute. È bene notare che, come si vedrà anche più avanti (§ 3) gli argomenti elenctici non sono solo giochi logici (sintattici) ma hanno uno specifico radicamento nella struttura e natura dei concetti coinvolti; inoltre, i contro-argomenti tradizionalmente usati (per esempio che l'elenchos sconfiggerebbe il nichilista, ma non il relativista o il pluralista) non funzionano. Ho trattato questi temi in più luoghi ma anzitutto cfr. Disavventure della verità, Einaudi, Torino 2002. Qui e altrove ho anche mostrato le analogie e differenze tra l'elenchos più classico, gli "argomenti trascendentali" (cfr. R. Stern, cur., Transcendental Arguments, Clarendon 1999), le "autocontraddizioni performative" (cfr. K. O. Apel, K. O. Apel, Discorso, verità, responsabilità, a cura di V. Marzocchi, Guerini, Milano 1997) e altri tipi di argomenti anti-scettici.

3. Va ricordato che la parola 'fondazionalismo' ha diversi significati tecnici, alcuni dei quali non sono affatto incompatibili con qualche forma di scetticismo filosofico. Cfr. M. R. Depaul, cur., Resurrecting Old-Fashioned Foundationalism (Rowman & Littlefield, New York London 2001), R. Fumerton, Epistemology (Blackwell, Oxford 2006); S. F. Aikin, "Prospects for Skeptical Foundationalism", in Metaphilosophy, 38, 5, Oct. 2007.

4. Da certi punti di vista, questi argomenti finiscono per dimostrare che la teoria realistica della verità (sia essa corrispondentista o di altro tipo) non è una teoria rivale di altre, ma non nel senso indicato da Lewis, il quale sosteneva che la teoria della corrispondenza non è "rivale" di altre, perché semplicemente non è una vera teoria della verità (cfr. D. Lewis, "Forget about the correspondence theory of truth", Analysis, 61, 2001).

5. La locuzione 'b implica a' significa in questo caso: non è possibile che b sia razionalmente accettabile, e non sia accettabile a.

6. Prendo le locuzioni "politica di discorso" e "di provvedimento" da Salvatore Veca (cfr. La priorità del male e l'offerta filosofica, Feltrinelli, 2005), che a sua volta le trae da A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta e altri saggi (Feltrinelli, Milano 1993).

7. H. Putnam ha sostenuto una tesi di prescindibilità delle descrizioni (ovvero, secondo lui, dell'ontologia) in Ethics Without Ontology (Harvard University Press, Cambridge, Mass. 2004), sostenendo che non ogni asserzione è una descrizione. In effetti l'asserzione 'bisogna fare x per ottenere y' non può dirsi propriamente una descrizione (almeno per qualche significato ragionevole di questo termine). Per gli argomenti contro questa e altre tesi di Putnam si può leggere la recensione al libro scritta da Peter van Inwagen, per il Times Literary Supplement, ma in particolare: nel momento in cui Putnam dovesse sostenere le ragioni per cui 'bisogna fare x per ottenere y' avrebbe davvero difficoltà a farlo senza mobilitare qualche descrizione.

8. È da notare però (Marconi noterebbe) che questi sostenitori del 'realismo politico' usano 'verità' in modo improprio quel che intendono dire è che nel dibattito pubblico manca la sincerità (o la veridicità).

9. Lo ricordava indirettamente Wittgenstein in Della certezza: nessuna persona dotata di senno direbbe 'è vero che questa è una mano', ma Moore lo direbbe ("quest'uomo non è pazzo, stiamo solo facendo filosofia...").

10. D'altronde proprio dalla 'non-banalità', e anzi dalla natura 'fondamentale' (e quindi in qualche modo eccezionale) della parola verità derivano gli argomenti elenctici di cui abbiamo parlato. C'è un buon suggerimento in un testo recente di Massimo Dell'Utri (M. Dell'Utri, "Relativismo e oggettività", Discipline Filosofiche, XVII, 2, 2007). Un "segno indiretto" del carattere speciale o "fondamentale" del concetto di verità, dice Dell'Utri, è "la situazione nettamente differente che si creerebbe qualora dal nostro sistema concettuale espungessimo il concetto, ad esempio, di gatto, e qualora espungessimo appunto il concetto di verità: opportuni adattamenti in altre parti del sistema permetterebbero di compensare, ancorché faticosamente, la perdita del concetto di gatto, mentre nessuna compensazione del genere sarebbe possibile nel caso del concetto di verità. Non si riuscirebbe cioè a distribuire su altri concetti il peculiare ruolo da esso svolto". Ma su questo credo che Marconi sarebbe d'accordo, e non è forse questo aspetto che la sua normalizzazione del concetto di verità mira a eliminare o ridurre.

11. Questa obiezione, è bene ricordarlo, toglie di mezzo anche il classico rifugio dello scettico nella pratica, che tanto viene elogiato come caratteristica dello scetticismo antico (vedi per esempio E. Spinelli, Questioni scettiche, Roma, Lythos 2005). Anche la tesi 'vivo meglio senza verità' zoppica, proprio alla resa dei conti della pratica: come potrebbe in effetti vivere lo scettico pragmatico senza verità, visto che per andare a Megara e bere un caffè gli occorre l'uso implicito del concetto di verità (nel senso realistico del termine)? Considero migliore invece l'altro buon argomento scettico, di cui parlerò più avanti, basato sulla diversa natura delle verità.

12. Si noti: non è il senso del fenomenismo, ossia (detto molto banalmente) della tesi 'non c'è modo di distinguere realtà e sogno', che Marconi ritiene essere probabilmente inconfutabile, ma non rilevante.

13. A quanto so, Thomas Pogge per esempio appartiene a questa controtendenza.