2008

Alcune osservazioni su verità, relativismo, filosofia e dibattito pubblico (*)

Annalisa Coliva (**)

Entrerò subito in medias res visto che se siamo qui invitati a discutere Per la verità. Relativismo e filosofia di Diego Marconi è perché si tratta di un libro che avrà certamente un ruolo importante sulla scena filosofica nazionale, e per i suoi propri meriti e per il prestigio dell'autore.

Approvo incondizionatamente il "principio di competenza" (p. vii) cui si richiama Marconi e deploro l'abitudine perlopiù italiana e francese di pensare al filosofo come a un intellettuale globale. Chi abbia mai cercato di fare seriamente il primo mestiere - in epoca contemporanea, s'intende - sa che è pressoché incompatibile col secondo (ci sono eccezioni, quindi, ma credo siano poche). (1) Concordo inoltre con Marconi sul fatto che non è vero che "le questioni pubbliche siano, in quanto tali, tabù per i filosofi" (p. viii). Un filosofo può e, se ne ha l'occasione, deve, intervenire su questioni pubbliche là ove possa dare un contributo competente, com'è il caso della discussione su verità e relativismo. Quanto un libro potrà fare per correggere le immagini spesso distorte della verità e del relativismo che aleggiano nel dibattito pubblico è presto per dirlo. Speriamo in bene.

In realtà, però, leggendo il volume di Marconi, si capisce ben presto che, nonostante si dica che lo scopo del libro è, "se vogliamo, (...) leggere i giornali alla luce di qualche decennio di discussioni filosofiche su verità e relativismo" (p. vii), si tratta di un libro di presa di posizione su questi temi, che compaiono sì sui giornali, sui media, nei discorsi dei politici e del Papa, ma per rivendicare in primo luogo una certa concezione filosofica. Quale? Se capisco bene, la posizione che Marconi vuole sostenere è che c'è un senso in cui la verità è cosa banale e buona, di cui non avere paura, che corrisponde a molte intuizioni di senso comune, almeno in quel dominio di discorso che va sotto il nome di "fattuale". Inoltre, che la verità si rivela assai utile in ambiti in cui forse oggigiorno molti tenderebbero a prediligere una sua edulcorazione se non proprio la sua sparizione, segnatamente in quello etico. Infine, che il relativismo concettuale, connesso con quello fattuale, e il relativismo etico sono da rifiutarsi e da sostituire con quella che, ai miei occhi, appare essere una concezione realista sia del discorso fattuale sia di quello etico.

Procederò nella discussione a ritroso, dicendo che mi trovo assolutamente d'accordo con Marconi nel ritenere che certi valori che nell'immaginario collettivo sembrano implicare il, ed essere implicati dal, relativismo - in primis la tolleranza e il rispetto della diversità - possano essere condivisi anche da chi lo rifiuta. Sono altresì d'accordo che quanto più una società è complessa, tanto più c'è bisogno di un dibattito serio su questioni etiche (e di meno political correctness e falsi buonismi, in fin dei conti). Il relativismo, purtroppo, corre spesso il rischio di svuotare di significato tale dibattito, riducendo le scelte valoriali a mere questioni di gusto o d'inclinazione individuale (o sociale), di fronte alle quali il confronto etico razionale non può che cessare, o cedere il passo a considerazioni pragmatiche e utilitaristiche. Sono anche d'accordo sul fatto - ampiamente riconosciuto non solo nella letteratura filosofica sull'argomento, ma anche, per esempio, nel dibattito pubblico americano, oramai consapevole dei danni che il relativismo diffuso ha comportato e comporta nella società - che il relativismo ingeneri insoddisfacenti politiche "del doppio standard" (cfr. pp. 130-132, anche se Marconi non usa questa etichetta) e dia in effetti sostegno a forme di grande conservatorismo (pp. 132-133). Per le prime è legittimo criticare eticamente solo comportamenti che si danno all'interno dei propri confini culturali o valoriali, dovendo così ammettere ogni nefandezza - dal proprio punto di vista - quand'è prodotta entro confini culturali o valoriali diversi, rispetto ai quali risulta eticamente legittima (sempre che lo sia davvero). Per il secondo, invece, se mancano valori esterni al sistema, come si può criticare il sistema, o certe sue parti, standone all'interno? Ma, se ne si fuoriesce, non si ricade forse nella situazione del "doppio standard"? Stando così le cose, le politiche conservatrici, se non anche fondamentaliste, risulterebbero eticamente inattaccabili.

Dovendo fare la parte del diavolo, mettendomi nei panni del relativista che non sono, direi però che ci sono alcune conseguenze che Marconi trae dal relativismo che forse non sono obbligate: per esempio, il nichilismo (pp. 113-119). Certo, in una visione naïf del relativismo (quella preferita da Ratzinger, Pera e ultimamente anche da Fini nel discorso d'insediamento alla Camera), se una azione può essere, come tale, sia eticamente giusta sia sbagliata, allora, come tale, non è né l'una né l'altra cosa. Ma il relativista più accorto (Gilbert Harman, per esempio) non sostiene questo. Sostiene invece che, dati certi standard di valutazione, quell'azione è buona e, dati altri, no. Ma, ovviamente, benché si possa divergere nel giudizio, lo si fa perché si abbracciano valori diversi. Detto in breve, come la relativizzazione del moto a sistemi di coordinate differenti non lo fa venire meno (all'interno di ciascun sistema di coordinate), così la relativizzazione del giudizio etico a diversi standard di valutazione (a diversi sistemi etici, se si preferisce) non fa venir meno i valori e la possibilità di giudizi genuinamente etici. Il prospettivismo, che è la forma più plausibile che il relativismo etico (e non solo) può prendere, (2) garantisce l'esistenza di valori, non assoluti, ovviamente, ma interni a una particolare prospettiva (sociale o individuale), che può coesistere con altre. Inoltre, tali valori possono tutti essere riconosciuti come esistenti, non, ovviamente, all'interno della propria prospettiva, ma di altre. In questo senso, il prospettivista parrebbe avere le risorse per ammettere la pluralità dei valori, benché non li possa abbracciare tutti (né credo voglia o debba farlo, contrariamente a quanto Marconi suggerisce (p. 115)).

Sempre mettendomi dalla parte del diavolo, direi che il realista, invece, sulla pluralità dei valori ha seri problemi: per un realista si può non sapere chi sia in errore, ma se per uno una data azione è giusta e per l'altro no, almeno uno dei due dev'essere in errore. Le scelte e le azioni che ne conseguono, pertanto, sono determinatamente giuste o sbagliate, benché si possa a volte non sapere quali siano giuste e quali no.

Come ho anticipato, non sono affatto favorevole al relativismo, perché ha conseguenze pratiche perniciose, ai miei occhi. Però non è chiaro che se la pluralità dei valori è un valore e vogliamo in qualche modo garantirla, lo potremmo fare abbracciando il realismo. Il mio sospetto è che in realtà non siamo davvero interessati a garantire la pluralità dei valori, ma, piuttosto, delle scelte, almeno in taluni casi. Ora, il realista può farlo, ma solo appellandosi al fatto che, almeno in certi casi, non sappiamo - perché è difficile e complesso venire a saperlo - se è eticamente giusto compiere una data azione o il suo contrario. La libertà di scelta, a questo punto, appare però essere il frutto dell'ignoranza etica, il che è un po' strano.

Forse, invece, se ci sta a cuore la pluralità delle scelte, se riteniamo cioè che, quali che siano i nostri convincimenti anche etici, è difficile condannare eticamente - che so? - Piero Welby che desiderava porre fine alla sua agonia, come pure approvarne incondizionatamente la scelta, potremmo essere tentati da un'immagine né relativista, né realista dell'etica, ma antirealista. Potremmo dire, per esempio, che senza menti come le nostre non vi sarebbero azioni buone o cattive. Inoltre, che non è vero, neppure in linea di principio, che ogni questione etica è risolvibile (anche se molte lo sono). Pertanto, che non è vero che ci sia il giusto ordinamento - quale che sia - tra, per esempio, il diritto alla vita e il diritto all'autodeterminazione (che sono i principi in gioco nel caso dell'eutanasia ma anche dell'aborto). (3) Ovviamente, ognuno di noi può scegliere un ordinamento piuttosto che l'altro, a seconda delle proprie inclinazioni individuali e della propria storia personale (che comprende anche l'essere cresciuti all'interno di un particolare sistema valoriale). Però, quale che sia la scelta in questi casi complessi, non può essere in nessun senso eticamente motivata e motivabile. Quindi, nei casi in cui i nostri principi etici non "riescono a parlare" dobbiamo riconoscere non che non sappiamo determinare la scelta eticamente corretta per ignoranza (realismo), o che non vogliamo farlo per ignavia (alcune forme di relativismo), ma che non siamo in grado di specificarla perché è per principio impossibile farlo (antirealismo). In tali casi si assiste perciò a quello che potremmo chiamare il "silenzio dell'etica", silenzio che rimette in gioco altri criteri di scelta, del tutto umani, comprensibili e rispettabili.

Passando invece al secondo capitolo, sono del tutto d'accordo con l'attacco di Marconi al relativismo concettuale e a quello fattuale ad esso connesso. Mi domando però se l'immagine che Marconi pare prediligere, ovvero che il nostro sistema concettuale, quale che sia, ci permette solo di avere accesso a fatti empirici, che esistono indipendentemente da noi, si possa sostenere dicendo che "in un mondo privo di menti niente e nessuno avrebbe accesso ad alcuna verità, ma questo non vuol dire che niente sarebbe vero di quel mondo", per esempio che "il sale è cloruro di sodio" (p. 69). Sembrerebbe una verità del senso comune. Tuttavia è bene fare attenzione, perché si può sostenere che, in effetti, qui stiamo pensando a un mondo senza menti - dove gli esseri umani non ci sono (più) - ma pur sempre dall'interno delle nostre categorie, che, per esempio, contemplano la suddivisione in sali e in elementi chimici. Ma siamo davvero sicuri che il mondo come tale sia già diviso in fatti e, più in particolare, in sali ed elementi chimici? Ho la sensazione di no. In questo senso, quindi, si può pensare che non è così scontato che avere uno schema concettuale permetta solo di avere accesso a verità (cioè a fatti) che sarebbero lì comunque, anche se non ci fossero le nostre menti, e ritenere, per contro, che l'esistenza di menti dotate di uno schema concettuale contribuisca a creare tali verità (fatti). Ovviamente bisogna intendersi sul senso di quel "creare": come già Rorty (in questo erede di Putnam) ha rimarcato più volte, non va inteso in senso causale, ma rappresentazionale (1998, p. 80). Non creiamo l'esistente ex nihilo tramite le nostre categorie, come forse vorrebbe un filosofo idealista. Piuttosto, l'esercizio delle nostre categorie, insieme all'esperienza sensibile, permette di avere rappresentazioni del mondo, che, come tale, esiste in maniera causalmente indipendente da noi. Quelle rappresentazioni, a loro volta, devono essere verificate e possono essere confermate o smentite, a seconda dei casi. (4) Quelle che sono confermate sono verità, o fatti, quelle che non lo sono, invece, sono rappresentazioni false. Ma verità e fatti non sono rappresentazionalmente indipendenti dalle nostre categorie e dalle nostre strutture percettive. In fin dei conti, se capisco bene, Rorty non sta facendo altro che sfruttare un'immagine kantiana dei fatti. Ovviamente Rorty va oltre, ritenendo che ci possano essere elementi di discrezionalità maggiori di quelli che credo in effetti ci siano nella "costruzione" rappresentazionale della realtà, arrivando a sostenere che sono possibili "mondi" diversi, incompatibili tra loro eppure tutti ugualmente legittimi (in questo ancora erede di Putnam). Ma, almeno fino a che non compie questi due passi ulteriori e non scontati, mi pare che stia dicendo qualcosa di condivisibile.

Ancora, Marconi ci ricorda che i Greci non avevano la tavola degli elementi e che quindi non potevano accedere a "Il sale è cloruro di sodio". Tuttavia, ribadire che (se è vero) era vero anche allora che il sale è cloruro di sodio non è un'osservazione che corrobori, come tale, il realismo (cfr. p. 82). Ovviamente dall'interno del nostro schema concettuale il sale è cloruro di sodio e, se ciò è vero, lo è sempre stato e sempre lo sarà. Ma questo non vuol dire cogliere un aspetto della realtà come tale, indipendentemente da qualunque schema concettuale o quale che sia lo schema concettuale che adottiamo. Se dunque di realismo si può parlare in questo caso, si tratta di un realismo interno a uno schema concettuale (e percettivo), che rende possibili certe categorizzazioni e descrizioni della realtà (come hanno sostenuto Putnam, almeno in un certo periodo, e, forse, Kant). Ora, non so se Marconi si accontenterebbe di questa forma di realismo. Ho l'impressione (e solo l'impressione) di no - anche perché, in effetti, questa è una forma di realismo con cui almeno alcuni antirealisti sarebbero del tutto d'accordo - e che prediliga un realismo più robusto, un realismo che vorrebbe cogliere la realtà così com'è "at its joints". Se è quest'ultimo realismo quello che vuole - ma, ripeto, non ne sono sicura -, non mi sembra che si possa sostenere con gli argomenti che ho riportato; (5) se invece vuole il realismo più debole - quello interno - siamo d'accordo, benché sia utile notare che è una forma di realismo così debole da andare benissimo anche a un antirealista (fattuale e non semantico, ovviamente).

In ultimo, passo a considerare il primo capitolo, ove Marconi si scaglia contro coloro che non accettano una concezione classica, ancorché postcorrispondentista, della verità e che, in particolare, sostengono che la verità vada spiegata nei termini (se non addirittura eliminata a favore) della giustificazione. (6) Non ho le idee completamente chiare sulla questione della verità, e, onestamente, qualche perplessità sulla teoria epistemica ce l'ho anch'io. Ma Marconi ha certamente antipatie più forti delle mie nei confronti di quest'ultima. Mi metterò quindi dapprima nei panni di un sostenitore di tale teoria per cercare di ribattere alle critiche di Marconi e poi concluderò con una mia debole perplessità sulla concezione epistemica.

Marconi distingue tre sensi di "giustificazione" via via più forti (pp. 11-13), fino a implicare la verità di quanto è giustificato. Ora, la questione è annosa, ma è solo se si fa ricorso a quest'ultimo senso di "giustificazione" - problematico perché, per esempio, porterebbe almeno a prima vista alla revisione della concezione classica della conoscenza (per quanto irrobustita da clausole di affidabilità) - che si può sostenere che un'eventuale concezione epistemica della verità sarebbe circolare perché "in realtà quando parliamo di giustificazione parliamo, indirettamente, anche di verità" (p. 21). Ed è solo sulla scorta di questo senso di "giustificazione" che si può sostenere che coloro che vorrebbero "fare a meno del concetto di verità sostituendolo o surrogandolo con questo o quel concetto di giustificazione" (ivi) - e immagino che qui Marconi abbia in mente almeno alcune affermazioni di Rorty -, starebbero proponendo un'eliminazione di "vero" solo apparente. Se, invece, la giustificazione non implicasse la verità, allora si potrebbe sostenere che la prassi di fare asserzioni giustificate può essere presa come base per spiegare il nostro concetto di verità. (7) Di conseguenza, le critiche sulla circolarità, che Marconi muove contro la concezione epistemica della verità, non andrebbero a buon fine. (8)

Inoltre, spesso Marconi sembra prendersela con coloro che vorrebbero definire la verità in maniera epistemica, cioè facendo ricorso all'idea che siano vere tutte e solo le proposizioni giustificate (ad opportune condizioni, s'intende, sennò si tratterebbe di una palese assurdità). Ma i fautori della concezione epistemica più avveduti, da Hilary Putnam (negli anni Ottanta del xx secolo) a Crispin Wright, non sono impegnati in un progetto di tal fatta: cercano di fornire una delucidazione del concetto di verità, non una sua definizione. Perciò eventuali problemi di circolarità, ammesso che vi fossero e - se si concede il punto precedente - vi sarebbero solo se "giustificazione" fosse intesa nel senso più robusto, non li potrebbero impensierire più di tanto. Come si è detto, posto che il progetto sia quello di esplicare il concetto di verità e non di definirlo, se si ammette che la prassi del fare asserzioni giustificate è basilare, la si può sfruttare per cercare di chiarire in che cosa consista la verità: per esempio dicendo che sono vere quelle asserzioni (e credenze) che risultano essere giustificate al limite della ricerca (Putnam), oppure che sarebbero giustificate da un agente epistemico ideale (Dummett), oppure che sono tali che non abbiamo nessuna ragione di rivederle per quante informazioni ulteriori assumiamo (Wright), o altro ancora.

Ancora, è vero, come riporta Marconi in Appendice (pp. 162-163), che per Wright c'è un argomento potente contro l'equazione tra "vero" e "giustificato". Ma, secondo Wright, questo non è un argomento contro la concezione epistemica tout court, ma solo contro una concezione epistemica che abbia pretese definitorie e/o che non abbandoni la logica classica, necessaria per derivare la contraddizione (Wright 1992, pp. 42-45). Quindi, se non abbiamo pretese definitorie e/o siamo disposti ad abbandonare la logica classica necessaria per derivare la conclusione dell'argomento di Wright, quell'argomento non comporta la disfatta della teoria epistemica. Wright stesso, dopo tutto, abbraccia la teoria epistemica, almeno in certi ambiti (ed è complessivamente un pluralista, cioè ritiene che, in ogni ambito del discorso, il predicato "vero" debba rispettare alcune caratteristiche superficiali, ma che possa designare proprietà diverse a seconda dei casi). Questo mette in evidenza un'ulteriore strategia di difesa possibile, per un sostenitore della teoria epistemica, cioè confinare la propria tesi solo a certi ambiti. Per esempio, un sostenitore di tale teoria potrebbe confinarla al caso del comico e del gusto e dire che se a tizio (nel pieno delle sue facoltà mentali e in condizioni complessivamente normali) una barzelletta fa ridere e una torta piace e ha quindi giustificazioni per asserire "Questa barzelletta è divertente" e "Questa torta è gustosa" (e continua ad averle per quante informazioni ulteriori possa considerare), allora è vero che la barzelletta è divertente e la torta gustosa.

Quindi, ammettendo che c'è un senso di "giustificato" che non implica la verità e che una buona teoria epistemica non ha pretese definitorie, l'avversario di quest'ultima può opporvisi appellandosi o al fatto che ci sono buone ragioni per non abbandonare la logica classica, oppure al fatto che una concezione della verità parziale, che varrebbe solo per alcuni ambiti e non altri e che aprirebbe la strada al pluralismo, non lo interessa. (9)

Non entrerò nel merito della prima strategia di difesa della concezione antiepistemica, ma la seconda credo si possa valutare sulla base delle sue conseguenze "metafisiche". Prendiamo il caso del numero dei pianeti nell'universo. Supponiamo di ritenere, al meglio delle nostre conoscenze, che sia x. In una prospettiva realista è tuttavia possibile che ci sbagliamo e che non sia x, ma y. Ora, per un realista a tutto campo, il discorso sul comico, per esempio, è simile a quello fattuale. Pertanto è concepibile l'idea che, se davvero nessuno mai trovasse divertente una barzelletta, potrebbe ciononostante essere vero che lo è e che siamo complessivamente in errore. Ma questa, francamente, è una conseguenza un po' strana. Per chi sarebbe divertente la barzelletta, se non per noi? Per il Dio delle barzellette, forse?

D'altro canto, se non altro per amore di semplicità, sarebbe bello non doversi impelagare nei meandri del pluralismo e pensare che "vero" designi sempre la stessa proprietà. Quindi, la domanda da porsi è: c'è una versione della teoria epistemica che possa valere a tutto campo e, in particolare, per il discorso fattuale, che è tradizionalmente quello in cui ha più difficoltà?

Come ci ricorda Marconi, le obiezioni del senso comune alla teoria epistemica sono: (i) che sembrano esserci più verità in cielo e in Terra di quante non saremo mai in grado di asserire/credere tanto meno in maniera giustificata; e (ii) che un'asserzione/credenza può essere giustificata (sulla scorta del secondo senso di "giustificazione" - si noti -) e non essere vera.

Ma un teorico della verità epistemica potrebbe replicare a (i) e (ii) dicendo che dipendono dal porsi dal "punto di vista di Dio", cioè oltre la reale esperienza umana, passata, presente e futura, che è proprio quello che lui si rifiuta di fare: non siamo in grado di asserire giustificatamente che, poniamo, il 3 maggio di dieci anni fa Berlusconi abbia starnutito tre volte (né di negarlo). Nessuno ha tenuto traccia di questa quisquilia e supporre che le cose siano andate così (o altrimenti) significa porsi dal punto di vista di un'entità che non coincide con l'umanità, cui nulla sfugge, neppure gli starnuti di Berlusconi. Analogamente, è solo mettendoci "dal punto di vista di Dio" che possiamo immaginare che il giorno in cui la nostra specie dovesse venir meno, lo farà avendo avuto un gran numero di credenze giustificate, al meglio delle proprie possibilità di ricerca, eppur false.

D'altronde, però, è difficile scrollarsi di dosso l'impressione che sia determinatamente vero o falso che il 3 maggio di dieci anni fa Berlusconi abbia starnutito tre volte; oppure che un giorno la nostra specie potrà venir meno portando con sé - si fa per dire - un insieme di credenze giustificate alcune delle quali potrebbero essere ciò non di meno false.

Arrivati a questo punto della dialettica, il teorico della verità epistemica fa solitamente appello a un agente epistemico ideale, che avrebbe potuto tener traccia degli starnuti di Berlusconi e che, il giorno in cui la nostra specie dovesse disgraziatamente venir meno, avrebbe solo credenze giustificate in maniera affidabile e, perciò, vere. Quindi il fautore della verità epistemica ha un po' di margine di manovra per rispondere alle obiezioni (i) e (ii).

Ovviamente, però, questo margine di manovra ha un costo elevato, perché fa uso di una ipotesi - quella dell'agente epistemico ideale - che a me non sembra filosoficamente più scontata e accettabile di quella di cui fa uso il suo avversario realista, cioè quella di potersi mettere "dal punto di vista di Dio". Quale morale trarne? Non so, ma, a prima vista, mi verrebbe da dire che entrambe le concezioni della verità, se considerate a tutto campo, riposano su assunzioni - quella di potersi mettere "dal punto di vista di Dio" - o mobilitano astrazioni - quella dell'agente epistemico ideale - che saranno anche depositate nel senso comune, da un lato, o piuttosto intuitive, dall'altro, ma che, se riportate in superficie e analizzate attraverso il lavoro filosofico, non sono né ovvie né scontate. Quindi sarebbe forse utile considerare la possibilità di abbandonare pretese universaliste, muoversi solo in domini specifici e tentare di costruire, per i domini tradizionalmente realisti, una concezione minimale di verità (ma un po' più robusta del deflazionismo à la Horwich), che, in fin dei conti, è quello cui mira Wright in Truth and Objectivity.

Per concludere: al di là delle apparenze e anche dei pronunciamenti dell'autore, Per la verità non è un testo filosoficamente privo di ambizioni. Al contrario, è densissimo di temi filosoficamente scottanti e molto complessi. Ha il grande pregio della chiarezza e di fare emergere i tratti essenziali di una posizione ortogonale rispetto a chi nega che la verità sia una categoria fruibile e sostiene che dovremmo abbracciare forme di relativismo in ogni dove. Sono d'accordo con Marconi sulla necessità di sviluppare e difendere alternative a queste posizioni, anche se non è scontato come debbano essere sviluppate. Insisto, però, anche se Marconi per la sua innata pacatezza forse non la metterebbe in maniera così passionale, che si tratta di una partita affascinante e importante: ne va della comprensione del nostro rapporto con la realtà, intesa in senso lato, da quella fattuale a quella etica ed estetica. Ne va anche di come vogliamo essere ed educare i nostri figli: se disposti a fare battaglie per i valori, ancorché non necessariamente convinti che, in ogni caso, le questioni etiche siano decidibili; oppure se inclini a forme di permissivismo o a politiche del doppio standard che lasciano il tempo che trovano. Come tutte le partite difficili, però, i suoi esiti non sono scontati e da qui, io credo, discende il suo fascino perenne.

Bibliografia

  • Boghossian, P.2006 Fear of Knowledge, trad. it. Paura di conoscere, Carocci, Roma.
  • Coliva, A. 2008 Relativismi, Laterza, Roma-Bari, in corso di stampa.
  • Hales, S. 1997 "A consistent relativism", Mind, 106, pp. 33-52.
  • Harman, G. e Jarvis-Thomson, J. 1996 Moral Relativism and Moral Objectivity, Blackwell, Oxford.
  • MacFarlane, J. 2005 "Making sense of relative truth", Proceedings of the Aristotelian Society, 105, pp. 321-339.
  • MacFarlane, J. 2007 "Relativism and disagreement", Philosophical Studies, 132, pp. 17-31.
  • Marconi, D. 2007 Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino.
  • Putnam, H. 1981 Reason, Truth and History, trad. it. Ragione, verità e storia, Il Saggiatore, Milano.
  • Rorty, R. 1998 Truth and Progress, trad. it. Verità e progresso: scritti filosofici, Feltrinelli, Milano.
  • Volpe, G. 2005 Teorie della verità, Guerini Associati, Milano.
  • Wright, C. 1992 Truth and Objectivity, Harvard University Press, Harvard (MA).

Note

*. Ringrazio Eva Picardi, Marco Panza, Sebastiano Moruzzi, Paolo Leonardi e Felice Cimatti per i loro commenti e osservazioni a precedenti versioni di questo intervento. Ho cercato di tenere conto dei loro consigli sia stilistici sia contenutistici, per quanto mi è stato possibile. Resto pertanto la sola responsabile di tutti gli errori, stilistici e contenutistici, che avrò certamente commesso.

**. Università di Modena e Reggio Emilia.

1. Sia perché nel dibattito pubblico, per forza di cose, c'è poco spazio per un'analisi filosofica seria, sia perché il dibattito pubblico nelle società avanzate riguarda spesso temi molto complessi per i quali raramente il filosofo di professione possiede i dati e le conoscenze necessari per dare un contributo competente.

2. La semantica necessaria per dare una formulazione precisa del prospettivismo è stata abbozzata da Hales (1997) e sviluppata da McFarlane (2005, 2007). È interessante notare come non dipenda dall'abbracciare una concezione epistemica della verità, ma, piuttosto, una variante della semantica di Kaplan, in cui il valore di verità dei proferimenti è relativizzato al contesto di valutazione. Per un'analisi dei problemi insiti nel prospettivismo cfr. Coliva (2008, cap. 2)

3. Bisogna poi ovviamente spiegare come questo sia possibile. Per un tentativo, cfr. Coliva (2008, cap. 3).

4. Grosso modo: fissato il significato di "sale", "cloruro" e "sodio", si può notare come il mondo cooperi e non smentisca il risultato ottenuto per analisi chimica che quello che buttiamo nell'acqua per la pasta è cloruro di sodio, mentre smentisce che sia nitrato di potassio, per esempio.

5. Per sostenere questa forma robusta di realismo si dovrebbe provare, perlomeno, che lo schema concettuale è unico, oppure che è intertraducibile con ogni altro (e magari dire addirittura qualcosa o per dimostrare che è vero nel senso di corrispondere a fatti mente indipendenti, oppure per dimostrare che questa idea di fatti dati indipendentemente dalla mente è fallace). Però si noti che Marconi accetta che non tutti gli schemi concettuali si equivalgano, quando ammette che i Greci avevano uno schema concettuale diverso dal nostro e quando sostiene che il nostro non sia traducibile nel loro. A fronte di tale concessione, penso che, benché Marconi dia a volte l'impressione di volere il realismo robusto, in realtà potrebbe essere propenso ad accontentarsi di quello "interno".

6. Per una rassegna sulle teorie della verità, Volpe (2005).

7. Ancora, è solo sulla base di questo senso robusto di "giustificazione" che si può sostenere che non avere conoscenze equivalga a non avere "credenze che possiamo considerare davvero giustificate" (p. 29).

8. Si noti che Marconi non dice esplicitamente che questo terzo senso di "giustificato" è (l'unico) corretto, ma a me pare che le sue osservazioni sulla circolarità possono andare a buon fine solo assumendolo.

9. Non potrebbe appellarsi all'argomento tipicamente strawsoniano che "vero" verrebbe ad avere significati (cioè sensi) diversi perché, come si è detto, per un pluralista à la Wright il senso di "vero" rimane costante, benché possano variare le proprietà che volta a volta quel predicato designa (quindi non è una semantica in cui il senso determini il riferimento).