2008

La questione del relativismo tra filosofia e dibattito pubblico

Paolo Casalegno (*)

Il libro di Marconi (1) include tre capitoli.

Il primo illustra la nozione di verità, da un lato insistendo sulla distinzione tra verità e giustificatezza, dall'altro spiegando perché sia infondata la convinzione diffusa che il parlare di verità sia di per sé impegnativo sul piano metafisico: così impegnativo, secondo alcuni, da rendere la nozione stessa di verità filosoficamente illegittima. Il secondo capitolo affronta il tema del relativismo. Dare un senso preciso all'idea che il vero e il falso siano relativi - dice Marconi - non è facile, e spesso chi trova una tale idea attraente è solo vittima di una confusione: magari non tiene conto proprio di quella distinzione tra verità e giustificatezza che è stata messa a fuoco nel capitolo precedente, e crede di poter dedurre la relatività della verità dal fatto che si possono avere criteri di giustificazione diversi senza che ci sia alcun metacriterio per scegliere tra essi; oppure pensa che la verità debba essere relativa perché può accadere che qualcosa sia pensabile per chi adotta un certo schema concettuale ma non per chi ne adotta un altro. Su questi due capitoli non dirò nulla, salvo che ne condivido quasi interamente il contenuto e che li trovo ammirevoli per la chiarezza e l'incisività con cui Marconi conduce la sua analisi. Non inganni il tono piano dell'esposizione: solo chi abbia riflettuto a fondo sulle ardue questioni qui trattate e le padroneggi pienamente può avere una tale capacità di selezionarne gli aspetti essenziali e di presentarli sfrondati da tutto ciò che è superfluo.

Con il terzo capitolo viene in primo piano il tema del relativismo etico e il discorso si fa un po' meno lineare. Ciò che complica il quadro non è semplicemente l'estrema intricatezza del problema filosofico. In questi ultimi anni, come si sa, di relativismo si è parlato molto - di volta in volta indicandolo come causa di decadenza e corruzione o, all'opposto, esaltandolo come fondamento e garanzia di pace, tolleranza, ecc. - nell'ambito del dibattito ideologico-politico innescato da due ordini di fatti: da un lato, gli interventi militari in paesi di tradizione islamica promossi dagli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001; dall'altro la necessità di compiere scelte a livello legislativo riguardanti materie come le forme di convivenza diverse dalla famiglia tradizionale, la fecondazione assistita, l'aborto, l'eutanasia, ecc. Orbene: Marconi è attento anche a queste discussioni sul relativismo. Con abilità riesce a tenere insieme tutto e a presentare efficacemente le sue due tesi principali: anche in etica il relativismo è indifendibile; contrariamente a ciò che si tende a dare per scontato nel dibattito pubblico, non c'è nessuna connessione diretta tra l'essere relativisti da un lato e l'avere queste o quelle opinioni politiche dall'altro. Ciò che Marconi dice è sempre interessante e spesso condivisibile. Ma, com'era forse inevitabile data la stratificazione di questioni diverse, talvolta la sua argomentazione non ha più il nitore dei primi due capitoli.

Le osservazioni che seguono, raggruppate in due paragrafi, riguardano tutte questo terzo capitolo.

1. Il puro e l'impuro

La bestia nera di Marconi è un relativismo approssimativo e facilone che asserisce senza solidi argomenti l'incommensurabilità di sistemi di valori, forme di vita, culture, ecc. ed esorta, in termini spesso confusi o addirittura incoerenti, a una sorta di tolleranza universale e indiscriminata. Condivido l'insofferenza di Marconi per quella che è, in primo luogo, una mancanza di rigore concettuale. Di solito, per chi sostiene un punto di vista del genere il rifiuto dell'idea di principi morali assoluti è tutt'uno con il rifiuto dell'idea di verità assoluta; e ciò che induce a rifiutare quest'ultima sono gli equivoci denunciati da Marconi nei primi due capitoli del libro. Per mostrare la debolezza di questa forma di relativismo - che chiamerò "relativismo a buon mercato" - Marconi non deve fare altro, dunque, che riprendere e ribadire cose già dette.

Marconi ha ragione anche quando sottolinea che «non c'è motivo di pensare che il relativismo scettico sia la sola giustificazione possibile per una "politica di tolleranza e di pace"» (p. 146). I sostenitori del relativismo a buon mercato (qui Marconi parla di relativismo "scettico" perché l'aggettivo è usato dall'autore che sta commentando; ma è un dettaglio irrilevante) intervengono sovente nel dibattito pubblico in difesa, appunto, di una politica di tolleranza e di pace. L'intenzione è buona, ma può essere perseguita anche senza aderire al relativismo. «Tolleranza e pace - dice Marconi - sono valori sostantivi» (ibid.), valori che può abbracciare e difendere anche chi relativista non è. (Un po' troppo ottimistica, forse, questa considerazione aggiuntiva: «Per essere tolleranti non c'è bisogno di credere che la verità non esista o che la conoscenza sia impossibile: basta ricordare quali sono stati i frutti dell'intolleranza» (ibid.). Ciò che accade ogni giorno intorno a noi dimostra, purtroppo, che per chi, oggi come sempre, predica ed esercita l'intolleranza il ricordo dei suoi frutti non costituisce affatto un deterrente.)

Un punto connesso con il precedente è che, contrariamente a ciò che suggerisce il relativismo a buon mercato, essere tolleranti e in favore della pace non significa astenersi dall'esprimere qualsiasi giudizio critico su mentalità, forme di vita, organizzazioni sociali e politiche, ecc. diverse dalle nostre. Qui, di nuovo, concordo con Marconi. Per esempio, trovo perversa l'idea che libertà e democrazia possano essere esportate in Medio Oriente con la guerra, ma non ho difficoltà ad ammettere che, anche prima dell'occupazione militare, in Afghanistan e in Iraq si vivesse peggio che in molti paesi occidentali, a causa tra l'altro proprio della carenza di libertà e democrazia. Ritengo che l'unico scrupolo, quando si fanno confronti del genere, dovrebbe essere quello di riferirli a realtà il più possibile determinate, evitando di ragionare in termini di categorie generali come civiltà, religione e simili. Pur avendo una pessima opinione del sistema politico, dominato dai capi religiosi sciiti, che vige attualmente in Iran, e pur giudicando assai migliori i sistemi vigenti in paesi occidentali di tradizione cristiana, non direi mai che questo è un indizio del fatto che il cristianesimo ha sempre recato in sé un'istanza di libertà ed è quindi superiore all'islam, illiberale e oscurantista per sua natura (farei notare piuttosto come la deplorevole situazione iraniana, analogamente a quella di altri paesi islamici, sia il risultato di vicende storiche in cui hanno avuto non piccola parte le intromissioni dell'Europa e degli Stati Uniti). Peraltro, anche da questo riguardo penso di essere in sintonia con Marconi, il quale osserva, per esempio, che bisogna essere cauti nel parlare di conflitti di valore tra culture perché, se «è già difficile identificare in modo convincente una cultura[,] ancora più difficile è identificare in modo univoco il sistema morale di una determinata cultura, all'interno della quale [...] possono benissimo convivere atteggiamenti morali e opzioni di valore del tutto diverse, incompatibili e antagonistiche tra loro» (p. 124).

La polemica di Marconi contro il relativismo a buon mercato colpisce nel segno; il che però non è certo sufficiente a dimostrare l'impraticabilità di qualsiasi forma di relativismo in etica. Il problema filosofico, considerato nei suoi termini generali, è complesso e variamente ramificato. Il relativista a buon mercato è ansioso di tradurre il proprio punto di vista in atteggiamenti pratici, in prese di posizione definite in ambito politico. Ma il relativismo può essere formulato anche in una prospettiva del tutto diversa: cioè, come una tesi concernente la natura delle norme morali che non ci dice di per sé nulla su quali norme debbano o possano essere adottate. Inoltre, si può essere relativisti in etica anche senza respingere in blocco l'idea di una verità oggettiva e assoluta. Il relativista a buon mercato tipicamente ignora questa distinzione; ma c'è invece chi ne tiene conto, sostenendo contemporaneamente l'oggettività dei fatti e la soggettività e relatività dei valori. Lo stesso Marconi riconosce a un tale approccio una certa attrattiva, là dove scrive che, rispetto alla concezione epistemica della verità (cioè all'identificazione della verità con la giustificatezza), «la concezione soggettivistica dei valori appare [...], almeno a prima vista, molto più plausibile. La ragione di questa apparente plausibilità è che, nel caso dei valori, sembra che non abbiamo un'analoga distinzione tra il valore intrinseco di qualcosa e la nostra opinione sul suo valore. [...] Le cose sono "là fuori", e sono come sono indipendentemente da quel che ne possiamo pensare noi; i valori, invece, non sono "là fuori" indipendentemente dal fatto che noi li attribuiamo (o, almeno, li riconosciamo). O così ci sembra a prima vista» (pp. 112-3). Naturalmente, quest'ultima frase suggerisce che in realtà le cose non stanno come ci sembra a prima vista, e che quindi anche i valori sono oggettivi, sono quello che sono a prescindere dalle nostre opinioni in proposito. Altrove Marconi osserva che, sebbene capiti di rado che le opinioni etiche, politiche o religiose possano essere giustificate in modo tale da guadagnare ad esse un consenso generalizzato, ciò «non equivale a una dimostrazione che in questi ambiti la conoscenza sia impossibile e la discussione infondata» (p. 105). Marconi sembra essere avverso al relativismo etico in ogni sua variante. (2) Ma questa sua avversione, nella misura in cui si estende al di là del relativismo a buon mercato, non è supportata nel libro da argomenti che abbiano il grado di articolatezza e la forza persuasiva che hanno invece gli argomenti sviluppati nei primi due capitoli.

Commenterò brevemente ciò che Marconi dice a proposito di ciò che chiama «soggettivismo nichilistico» o semplicemente «nichilismo». L'idea è che, da un lato, qualcosa sia un valore per un soggetto X solo se X lo riconosce come tale, e che, dall'altro, il riconoscimento da parte di X di qualcosa come un valore sia determinato completamente dalla biologia, dalla psicologia, dalla storia personale di X; sicché in definitiva «è un mero fatto - l'effetto di un processo causale - che qualcosa sia un valore per qualcuno» (p. 116). Il nichilismo, secondo Marconi, conferisce al relativismo etico un contenuto abbastanza preciso, ma ne costituisce anche una versione particolarmente problematica: infatti, «l'operazione nichilistica sui valori, in buona sostanza, abolisce la dimensione morale dell'esistenza e svuota il vocabolario dell'etica» (p. 118). Perché? Perché il nichilismo implica che «non ci sono propriamente valori, ma soltanto preferenze (individuali o collettive) determinate da varie circostanze» e che le opzioni in campo etico sono in definitiva come le scelte dettate dal gusto: « Si scelgono i valori come si scelgono le marche di sigarette o gli abiti da indossare» (ibid.).

Non è vero - si potrebbe essere tentati di rispondere - che il nichilista sia costretto ad assimilare l'adesione ai valori morali alle mere scelte di gusto, perlomeno se, come gli esempi di Marconi suggeriscono, queste ultime sono concepite come cose di scarsa importanza. Anche l'oggettivista etico più convinto - si potrebbe dire - deve ammettere che le nostre esistenze sono in larga misura plasmate dalla nostra costituzione fisica e psicologica e dalla nostra storia personale: chi negherebbe mai che questi fattori, agendo per via causale, concorrano a determinare non solo dettagli marginali come la predilezione per un tipo di sigarette o un certo hobby, ma il nostro intero stile di vita, le nostre simpatie e antipatie più radicate, i nostri odi e amori più intensi e profondi? Chi negherebbe mai che fattori puramente causali intervengano a costituire il nostro stesso senso di identità personale? Ma allora - si potrebbe concludere - che cosa c'è di così assurdo nell'idea che anche l'adesione a certi valori morali piuttosto che ad altri sia determinata da cause dello stesso tipo?

In realtà, rispondendo a Marconi in questo modo, ci si lascerebbe sfuggire il punto cruciale della sua obiezione al nichilismo. Scrive Marconi:

Si noti: i "valori" del nichilista non perdono la loro natura di valori perché non siano più in grado di orientare il comportamento di chi li riconosce. Gusti e preferenze possono condizionare il comportamento al massimo grado. [...] I gusti sono in questo senso impegnativi quanto i valori. Non sono, però, impegnativi sul piano specificamente morale (p. 117).

Il medesimo concetto è sviluppato in quest'altro passo:

Presentare una scelta come determinata casualmente da fattori "oggettivi" riduce la nostra responsabilità, e soprattutto dissocia la scelta da ogni giudizio di superiorità sull'oggetto della scelta [...] Una scelta motivata soltanto dai propri gusti non implica alcun giudizio di valore su ciò che viene scelto, né di disvalore su ciò che viene scelto. Allo stesso modo, se una scelta è determinata soltanto da circostanze oggettive - biografiche, ambientali, sociologiche - essa non implica alcun giudizio di valore (p. 101).

Dunque, sebbene alcuni dei suoi esempi siano da questo riguardo un po' fuorvianti, il contrasto tra valori morali e gusti che, secondo Marconi, rende assurdo il nichilismo non è costituito da un diverso grado di radicamento nella nostra psiche o di incidenza sui nostri comportamenti; è invece una differenza intrinseca e irriducibile concernente il tipo di giudizi attraverso i quali l'adesione ai valori morali e le preferenze di gusto rispettivamente si esprimono e il tipo di impegni che, tramite la formulazione di questi giudizi, si contraggono.

Una volta chiarito questo, però, c'è ancora spazio per una difesa del nichilismo. Ammettiamo pure che, come sostiene Marconi, i giudizi morali - per il nostro modo di intenderli, per il tipo di giustificazioni che ne diamo e le conseguenze che ne traiamo - debbano essere classificati in una categoria nettamente distinta da, e non riducibile a, quella dei giudizi di gusto (o più in generale dei giudizi per mezzo dei quali diamo voce a predilezioni dichiaratamente soggettive). La cosa è plausibile. C'è, intuitivamente, un divario netto tra il dire, da un lato, "Detesto le fragole" o "Mi piace la montagna" e il dire, dall'altro, "Si devono aiutare i più deboli" o "E' male non mantenere la parola data": in particolare, io posso rendere conto esaurientemente delle due prime affermazioni menzionando una mia caratteristica fisica (sono allergico alle fragole) o certi dati autobiografici (quando da bambino mi portavano in vacanza in montagna, mi ci divertivo più che al mare); nel caso dei giudizi morali, considerazioni del genere sarebbero una giustificazione inadeguata e rischierebbero anzi di suonare incongrue. Benissimo. Ma da ciò segue forse che il nichilista, per il fatto di sostenere che anche l'adesione ai valori morali è determinata, in fondo, dalla nostra costituzione psico-fisica e dalla nostra storia personale, «abolisce la dimensione morale dell'esistenza e svuota il vocabolario dell'etica»? Non necessariamente. La tesi del nichilista è, in realtà, compatibile con il riconoscimento della specificità e irriducibilità del linguaggio morale e del sistema concettuale che lo sottende.

Per chiarire i termini della questione, torna buono l'esperimento mentale seguente. Immaginiamo una comunità i cui membri siano abituati a fare riferimento a due elenchi - A e B, diciamo - che includono ciascuno cose assai disparate: animali, piante, oggetti, alimenti, luoghi, attività, stati in cui un individuo può occasionalmente trovarsi, ecc. Le cose nell'elenco A sono dette "pure", quelle nell'elenco B "impure". Questa classificazione ha conseguenze importanti per la vita della comunità: essa induce a forme di comportamento anche molto complesse che rispecchiano, parlando in generale, un atteggiamento positivo nei confronti delle cose che figurano nel primo elenco, e un atteggiamento negativo nei confronti di quelle che figurano nel secondo. Peraltro, i membri della comunità non sanno spiegare in modo articolato che cos'è che rende puro ciò che è puro e impuro ciò che è impuro, non sono in grado di fornire, per queste due nozioni, qualcosa che somigli a una definizione. Negherebbero che "puro" e "impuro" significhino rispettivamente attraente e disgustoso, sebbene l'elenco A includa molte cose che i più trovano attraenti e l'elenco B molte cose per le quali i più provano disgusto; negherebbero che significhino rispettivamente salubre e insalubre, sebbene molte cose classificate come pure siano davvero salubri e molte classificate come impure insalubri; negherebbero che significhino rispettivamente consentito e vietato dai libri sacri, sebbene i libri sacri dicano in forma esplicita di molte cose pure che sono consentite e di molte cose impure che sono vietate; ecc. Gli elenchi A e B sono aperti, soggetti ad ampliamento e talvolta a rettifica. Di tanto i tanto i sapienti della comunità si chiedono se sia pura o impura una cosa non ancora classificata o la cui classificazione sia stata messa in dubbio; dal modo in cui affrontano la questione si capisce che si tratta secondo loro di stabilire una verità di fatto, non di prendere una decisione arbitraria; dopo una lunga discussione trovano un accordo ed esprimono un parere; e la loro autorevolezza fa sì che tale parere sia accettato dagli altri.

Di fronte a una quadro come quello descritto, noi, osservatori esterni non partecipi delle credenze della comunità, ci domandiamo quali mai possano essere le proprietà designate dagli aggettivi "puro" e "impuro". Rileviamo alcune regolarità, facciamo alcune ipotesi; ma, nonostante i nostri sforzi, non ne veniamo a capo. Finiamo per concludere che i membri della comunità sono vittime di una illusione: non è vero che, quando usano questi due aggettivi, stiano parlando, come pensano, di due proprietà determinate; non è vero che, quando si interrogano sulla purità o impurità di qualcosa, si pongano una questione che ha un'unica risposta oggettivamente corretta; la progressiva costituzione degli elenchi A e B è determinata in realtà da fattori eterogenei e casuali. Insomma: finiamo per adottare un'analisi nichilistica del puro e dell'impuro. Si dovrà allora dire che questa nostra analisi abolisce quella che è, per i membri della comunità, una «dimensione dell'esistenza» e che ne «svuota il vocabolario»? In un certo senso sì, naturalmente; ma in un altro senso no: non nel senso che l'analisi tradisca la specificità e irriducibilità del modo di pensare e di esprimersi dei membri della comunità quando sono in gioco il puro e l'impuro. Siamo persuasi, poniamo, che i vermi e i cioccolatini sono stati classificati tra le cose impure gli uni perché provocano in molti un'istintiva ripugnanza, gli altri perché una volta un sommo sacerdote ne ha fatto indigestione: non per questo siamo costretti a dire che, nel linguaggio della comunità, "I vermi sono impuri" e "I cioccolatini sono impuri" equivalgono rispettivamente a "I vermi mi ripugnano" e a "Se uno mangia troppi cioccolatini, gli viene il mal di pancia". L'analisi nichilistica è perfettamente compatibile con il riconoscimento del fatto che i membri della comunità concepiscono e usano gli aggettivi "puro" e "impuro" come se designassero due proprietà oggettive non suscettibili di essere caratterizzate in modo compiuto con parole diverse. Inoltre, il nichilista può benissimo descrivere le conseguenze che la classificazione delle cose in pure e impure ha per la vita della comunità; può addirittura avere buone ragioni per sostenere che, sebbene fondata in definitiva su un'illusione, l'abitudine di classificare le cose in questo modo ha, all'interno della comunità, una funzione positiva.

Orbene, è così ovvio, pur tenendo conto di tutte le differenze, che il caso dei concetti morali non assomigli a questo, immaginario, delle nozioni di puro e impuro? Io non lo trovo ovvio affatto. Non ho un'opinione precisa e stabile circa la natura dei concetti morali; ma mi sembra che quello che Marconi chiama nichilismo - se formulato con la debita accortezza e dissociato da atteggiamenti pratici determinati (in particolare da quell'indifferentismo generalizzato che non è in realtà una sua conseguenza necessaria) - non sia in partenza così assurdo come Marconi sembra ritenerlo. Ci saranno magari solidi argomenti per respingerlo; ma nel libro di Marconi questi argomenti non sono menzionati.

2. Argomenti profani

Mettiamo da parte le questioni filosofiche generali e rivolgiamo la nostra attenzione al modo in cui la discussione sul relativismo si è andata configurando in questi ultimi anni come tema del dibattito pubblico corrente. Nell'introduzione al libro Marconi scrive:

Le tesi filosofiche hanno di rado implicazioni politiche dirette. Perciò ho cercato di evitare di aver l'aria di voler stabilire chi, tra il relativista e l'antirelativista, è il vero amico della democrazia liberale, il vero critico del potere, il vero avversario dell'autoritarismo e del totalitarismo, e al tempo stesso il più sicuro baluardo contro il terrorismo e le altre forme di violenza intollerante. Semplicemente non credo che nessuna di queste posizioni sia una diretta conseguenza di questa o quella forma di relativismo, o di negazione del relativismo (pp. viii-ix).

Un punto di vista di encomiabile lucidità, che nel terzo capitolo Marconi sviluppa con coerenza ed efficacia. L'unico rilievo che posso fare è il seguente. La già citata affermazione secondo cui «non c'è motivo di pensare che il relativismo sia la sola giustificazione possibile per una politica di tolleranza e di pace» vale, naturalmente, sia contro gli amici della tolleranza e della pace convinti che non potrebbero essere tali se non fossero relativisti, sia contro coloro che sulla critica del relativismo innestano operazioni ideologiche, perlopiù di infima qualità intellettuale, a sostegno di politiche intolleranti e guerrafondaie. Marconi, però, sembra preoccuparsi quasi soltanto dei primi. Il motivo mi sembra facile da intuire: è ai primi che, sul piano delle opzioni concrete, Marconi si sente vicino, ed è per lui una spina nel fianco constatare che scelte politiche valide siano sostenute ricorrendo a quella che è a suo avviso una cattiva filosofia; dai secondi, invece, si sente presumibilmente così lontano da non avvertire neanche il bisogno di criticarli in modo articolato. Perfettamente comprensibile. Ciò non toglie, però, che il lettore possa avere l'impressione di una certa asimmetria. Inoltre, il prevalere della polemica antirelativistica induce talvolta Marconi a quelli che a me paiono piccoli lapsus (in verità molto rari). Per esempio, gli capita di scrivere:

In una situazione in cui le società e le culture non sono più protette dalla distanza, il confronto è inevitabile: la scelta è soltanto tra un confronto serio, fondato su conoscenze, e la chiacchiera multiculturale, basata su aneddoti, impressioni e pregiudizi (p. 100).

Qualunque cosa si intenda per "serio", è indiscutibile che il confronto o è serio o non è serio. Personalmente, però, tra le cose non serie farei rientrare anche, oltre la «chiacchiera multiculturale», tutte le nefaste scempiaggini su identità, radici, conflitto tra civiltà, orgoglio dell'Occidente, ecc. per mezzo delle quali si è cercato e si cerca di coonestare scelte di politica internazionale che con la salvaguardia di grandi valori etici e culturali non hanno in realtà nulla a che fare.

A proposito di confronto serio, fondato su conoscenze: altrove Marconi afferma che «il valore della tolleranza» è «considerato, non a torto, tipicamente europeo-occidentale» (p. 133). Non a torto? Secondo Amartya Sen, «la tesi [...] dell'eccezionalismo occidentale in materia di tolleranza» è «frutto solo d'ignoranza». (3) Ne so troppo poco per avere in proposito un'opinione personale (anche se i fatti menzionati da Sen mi colpiscono come significativi). Comunque, trattandosi di una tesi controversa e che per giunta, vera o falsa che sia, si presta a usi capziosi ("siccome noi siamo tolleranti e loro no, bombardiamoli" o, meno ferocemente, "siccome noi siamo tolleranti e loro no, vietiamogli di costruire moschee"), è forse inopportuno asserirla senza addurre evidenza a suo sostegno.

Mi hanno lasciato un po' perplesso certe considerazioni che Marconi fa verso la fine del libro, subito prima del riepilogo conclusivo. Qui si parla degli interventi della Chiesa cattolica su temi come famiglia, procreazione, eutanasia, ecc; più precisamente, si parla, se ho capito bene, di come i laici dovrebbero reagire a questi interventi. Marconi sembra polemizzare con posizioni che io trovo ragionevoli: dunque su qualcosa non siamo d'accordo. Al tempo stesso, però, non mi è neanche chiaro quale sia il punto principale del dissenso. Forse si tratta semplicemente di questo: secondo Marconi, i laici dovrebbero cercare di far valere le proprie ragioni concentrandosi di volta in volta sui singoli temi, anziché sostenere in generale che, in materie di questo genere, deve essere tutelata al massimo la libertà di ciascuno di comportarsi come vuole; secondo me, invece, la difesa di un tale principio generale dovrebbe essere una priorità. Analizzerò queste pagine un po' minutamente. Se Marconi mi dirà che l'ho frainteso e coglierà l'occasione per chiarire il suo pensiero, lo riterrò un buon risultato.

Comincio con una lunga citazione che incorpora un'altra citazione:

Naturalmente, che ci sia scarso consenso intorno alle giustificazioni che vengono proposte per questa o quella credenza religiosa o etica non abolisce il diritto di ciascuno di presentare quelle credenze come giustificate: si tratterà di vedere caso per caso, come sempre, se le giustificazioni proposte siano accettabili. [...] Nel dibattito pubblico non si accredita una tesi presentandola come oggetto di fede, né la si scredita in nome della laicità. Chi rifiutasse di dar ragione delle proprie tesi meriterebbe davvero il titolo di 'dogmatico', che invece non spetta automaticamente a chi, semplicemente, propone tesi minoritarie che sono, mettiamo, parte integrante di una visione religiosa delle cose. Le autorità religiose o anche i semplici credenti, che intervengono nel dibattito pubblico proponendo tesi coerenti con la loro visione religiosa ma sostenendole con argomenti «profani» sono spesso sospettati di mistificazione: in realtà, si dice, sostengono quelle tesi perché le fanno derivare dalla loro fede, e i loro argomenti sono un puro orpello retorico:

Si crea spesso l'equivoco per cui gli esponenti della religione-di-Chiesa dichiarano di voler difendere posizioni secondo "ragione" puramente umana e laica, mentre in realtà la forza del loro argomentare poggia (in modo non detto) su postulati religiosi o di dottrina teologica o metafisica, che sono di fatto sottratti alla discussione pubblica corrente e alla presunta incompetenza dei laici (Rusconi 2006, p. 48). (4)

Le obiezioni di questo genere, a me pare, sono irrilevanti. Le argomentazioni vanno sempre prese al loro valore facciale: se sono cattive argomentazioni, vanno respinte perché sono cattive; se sono buone, vanno accolte quali che siano le ragioni profonde e nascoste che hanno indotto a metterle in campo. [...] Processi alle intenzioni e denunce di secondi fini sono scorciatoie che lasciano il tempo che trovano [...], e tendono a spostare il confronto dal piano della discussione a quello dell'insulto (pp. 146-7).

Tre punti a mo' di commento.

Primo. Direi anch'io che ciascuno ha il diritto di «presentare [le proprie] credenze come giustificate»; anzi, direi semplicemente che ciascuno ha il diritto di presentare le proprie credenze. Marconi afferma: «nel dibattito pubblico non si accredita una tesi presentandola come oggetto di fede». Non mi è chiaro che cosa significhi "accreditare nel dibattito pubblico"; comunque, se qualcuno dichiara pubblicamente di credere qualcosa per fede, io non mi scandalizzo: magari lo sto persino a sentire e magari trovo quello che dice interessante.

Secondo. «Le argomentazioni vanno sempre prese al loro valore facciale: se sono cattive argomentazioni, vanno respinte perché sono cattive; se sono buone, vanno accolte». Sottoscrivo. E nel caso specifico delle argomentazioni addotte dalle autorità cattoliche a sostegno dei loro decreti in campo etico - perché di questo appunto si sta parlando -, ritengo che siano perlopiù argomentazioni cattive, anzi pessime: sovente «meri orpelli retorici». Quando si deve valutare la bontà di una (presunta) argomentazione, il dire che si tratta di un mero orpello retorico non è affatto un'«obiezione irrilevante»; al contrario, è un'obiezione sostanziale.

Terzo. Un conto sono le argomentazioni, un altro l'argomentare e il discutere. Dovendo decidere se impegnarmi in una discussione, o se perseverare in una discussione già avviata, non posso non tenere conto dell'atteggiamento e dei fini dei miei interlocutori. Le ragioni (profonde e nascoste o magari alla luce del sole) che inducono qualcuno a mettere in campo certe argomentazioni non hanno il potere di trasformare un'argomentazione buona in una cattiva o viceversa, ma rendono più o meno sensato, a seconda dei casi, il mio discutere con lui.

Fermiamoci su questo punto. Dice Marconi: «Chi rifiutasse di dar ragione delle proprie tesi meriterebbe davvero il titolo di 'dogmatico', che invece non spetta automaticamente a chi propone tesi minoritarie che sono parte di una visione religiosa delle cose». In realtà, l'essere o no dogmatici non ha molto a che fare con il dare o non dare ragione delle proprie tesi, almeno se per "dare ragione" si intende il sostenere per mezzo di argomentazioni. Da un lato, al livello delle scelte etiche fondamentali la possibilità di argomentare è in generale assai più ridotta di quanto Marconi (al pari di molti altri) sembri supporre: per usare le semplici parole di Hume, «la morale è più sentita che giudicata». Dall'altro, si può essere dispostissimi a dare ragione delle proprie tesi ed essere ciò nonostante dei dogmatici. Dogmatico è colui il quale - indipendentemente dal fatto che possa e voglia sostenere il proprio punto di vista con argomentazioni esplicite e articolate - esclude a priori la possibilità di riconoscersi in errore, di cambiare idea, di uscire mai da una discussione ammettendo che chi la pensava diversamente da lui lo ha convinto. Inutile aggiungere che questo è l'atteggiamento tipico delle autorità ecclesiastiche quando emettono i loro pronunciamenti in campo etico. Molti di noi credono di sapere un sacco di cose su come è fatto il mondo; al tempo stesso, si rendono conto che l'errore è sempre in agguato e che la fiducia nella propria capacità di distinguere il vero dal falso è tanto più fondata quanto più si è pronti a sottoporre i propri convincimenti alla prova della logica e dell'esperienza, modificandoli se necessario. Analogamente, possiamo accettare certi principi morali e, al tempo stesso, essere aperti a una loro revisione, se a ciò dovesse indurci qualche argomentazione persuasiva o, più verosimilmente, qualche esperienza personale o magari l'esposizione a condizioni, forme di vita, mentalità diverse dalle nostre. Ma un atteggiamento aperto di questo genere è, ovviamente, quanto di più remoto si possa immaginare dalla rigidezza dottrinale - dogmatica, appunto - propria della gerarchia della Chiesa cattolica.

Ho detto sopra che discutere con qualcuno è più o meno sensato a seconda del suo atteggiamento e dei suoi fini. Ha senso una discussione con il dogmatico? Perché no? Per esempio, può avere il senso di una pubblica tenzone: so che il mio interlocutore non ammetterà mai di avere torto, ma chi assiste al nostro confronto potrà giudicare liberamente se sono migliori le sue argomentazioni o le mie. Nel caso della discussione relativa ai temi etici su cui insiste la Chiesa, però, ci sono varie complicazioni, tra cui quelle derivanti dal fatto che la Chiesa pretende spesso di far valere i suoi decreti anche per chi non li condivide, chiedendo che le leggi dello Stato si conformino a essi. Nel tentativo di legittimare una tale pretesa, la Chiesa ricorre a ciò che Marconi chiama «argomenti profani». E' la famosa storia della "morale naturale": per giustificare questa o quella norma etica - si sostiene - è sufficiente ricorrere a principi che (i) sono accessibili anche all'intelligenza non illuminata dalla fede e (ii) sono vincolanti per tutti, credenti e non credenti. Il laico che, senza mettere in questione una siffatta impostazione, si impegni a discutere gli argomenti della Chiesa relativi a un qualche tema specifico, rischia di trovarsi irretito in una situazione dialettica ambigua.

L'idea che ci siano principi etici che soddisfano le condizioni (i) e (ii) - principi che possono essere conosciuti senza bisogno di dedurli da qualche presunta verità di fede e che hanno validità universale - è un'idea in sé rispettabile e, per così dire, innocua. Il problema sta in un paio di assunzioni ulteriori che conferiscono alla nozione di morale naturale come la Chiesa l'intende un carattere tutto speciale. Dicendo che ci sono principi etici la cui conoscibilità non dipende dalla previa accettazione di una qualche "verità rivelata", si suggerisce che all'identificazione di tali principi possano concorrere tutti tramite il libero confronto delle rispettive opinioni e che nessuno abbia a priori più autorità di chiunque altro in materia. Può perciò sorgere l'illusione che la Chiesa, menzionando principi di cui afferma che soddisfano la condizione (i), attenui il proprio dogmatismo e accondiscenda a dialogare con il non credente su un piede di parità. In realtà, si tratta appunto di un'illusione. Per la Chiesa, i principi della morale naturale non hanno bisogno di essere dedotti da verità di fede; ma solo la luce della fede consente di discernerli in modo chiaro e certo; e quindi, poiché le gerarchie ecclesiastiche si considerano depositarie e uniche interpreti autorizzate della rivelazione, ritengono che anche i loro verdetti nel campo della morale naturale debbano essere accolti come definitivi e insindacabili («il papa è voce della ragione etica dell'umanità» avrebbe detto Joseph Ratzinger se avesse parlato alla Sapienza di Roma nel gennaio del 2008). Questa è la prima assunzione. La seconda riguarda l'interpretazione della condizione (ii). Dire che una norma etica vale per tutti senza eccezioni non significa necessariamente che si debba costringere a rispettarla anche chi non vuole. Supponiamo, per esempio, che sia sempre e comunque immorale suicidarsi; non ne segue affatto che tu debba impedire a un malato terminale di porre fine alle sue sofferenze togliendosi la vita; magari c'è un'altra norma, perfettamente compatibile con la precedente e altrettanto fondamentale, che in un caso del genere ti obbliga a lasciare agire un individuo in conformità alla sua libera scelta, aiutandolo anzi a farlo con dignità. Per la Chiesa, invece, l'attribuzione a una norma etica del carattere di validità universale autorizza proprio a imporne l'osservanza anche a chi non la riconosce. E' solo in virtù di queste assunzioni ulteriori - che, ripeto, non sono affatto conseguenze necessarie di (i) e (ii) - che la nozione di morale naturale può essere invocata dalla Chiesa per cercare di giustificare la propria intromissione nelle scelte dei non cattolici. Se non sbaglio, è più o meno questo ciò che aveva in mente Gian Enrico Rusconi quando ha scritto la frase citata e criticata da Marconi. Il sillogismo delle autorità ecclesiastiche è, in sintesi, il seguente: siccome i principi della morale naturale valgono per tutti indistintamente, bisogna costringere tutti a conformarvisi; ma siamo noi a sapere quali sono i principi della morale naturale; dunque, tutti devono conformarsi a ciò che diciamo noi.

Spero sia chiaro, a questo punto, in che senso rischia di trovarsi in una situazione dialettica ambigua il laico che controbatta gli «argomenti profani» della Chiesa a proposito di questa o quella questione specifica, senza però contestare ciò che la Chiesa, più o meno tacitamente, presuppone e che costituisce lo sfondo su cui il dibattito si svolge. In una discussione, ciò che è presupposto dal mio interlocutore e non è da me esplicitamente respinto, conta come se fosse da me accettato. Il laico dovrebbe quindi avere, in cima alla sua agenda, non la questione della fecondazione assistita o dell'aborto o delle coppie di fatto o qualsiasi altra questione particolare, ma piuttosto la rivendicazione di questi due principi: nel campo della morale non ci sono autorità assolute; qualora, su materie del tipo di quelle di cui si sta parlando, non ci sia unanimità, ciascuno è libero di comportarsi come meglio crede. «Processi alle intenzioni e denunce di secondi fini - dice Marconi - sono scorciatoie che lasciano il tempo che trovano, e tendono a spostare il confronto dal piano della discussione a quello dell'insulto». In realtà, è spesso la discussione a lasciare il tempo che trova: e quando questo accade, quando la discussione lascia ognuno della propria opinione, l'unica alternativa alla tolleranza reciproca è non già l'insulto, che sarebbe poco male, ma il reciproco tentativo di sopraffazione.

Al passo che ho citato all'inizio fanno seguito, nel libro di Marconi, alcune considerazioni ulteriori che meritano anch'esse un breve commento.

L'idea che il tentativo della gerarchia ecclesiastica di influenzare il processo legislativo in materia di etica della convivenza e della procreazione costituisca una inammissibile interferenza viene giustificata - Marconi afferma - appellandosi al principio generale secondo cui «ciascuno è libero di praticare le proprie convinzioni morali e anche di propagandarle, ma non dovrebbe volerle imporre ad altri per legge» (p. 148). Circa questo principio, Marconi esprime dei dubbi che argomenta così:

Lo Stato italiano ha leggi che rispecchiano convinzioni morali largamente diffuse ma non unanimi: si pensi, ad esempio, alle norme sulla tutela del paesaggio. Si dirà che il paesaggio è ovviamente un bene collettivo, e quindi spetta alla collettività normare il suo uso mentre, ad esempio, il corpo di ciascuno è soltanto suo e quindi ciascuno ne fa quello che vuole. Tuttavia, non è così in tutti i casi: il nostro Codice Civile proibisce ad esempio l'automutilazione [...]. Oppure, si pensi alle norme contro la crudeltà sugli animali: in questo caso sono state [....] imposte a tutti certe convinzioni morali che, almeno nel nostro paese, non sono certo unanimi; eppure gli animali non sono un bene collettivo, nella maggior parte dei casi sono proprietà privata di qualcuno (pp. 148-9).

Il mero fatto che lo Stato italiano abbia certe leggi (5) non significa assolutamente nulla in un contesto in cui la questione è come debbano essere le leggi. Ma non insisterò su questo punto perché il punto cruciale è un altro. Sarebbe certo difficile negare che possano essere accettabili «leggi che rispecchiano convinzioni morali largamente diffuse ma non unanimi»: siccome l'unanimità piena è rara, chi negasse una cosa del genere sarebbe costretto a sostenere che non si ha quasi mai il diritto di legiferare. Per conto mio, auspico leggi che, prima ancora di tutelare il paesaggio o vietare l'automutilazione, rispecchino certi ideali di uguaglianza e solidarietà che, appunto, sono largamente diffusi ma non unanimemente condivisi. Al tempo stesso, però, tutti coloro che non sono fautori del totalitarismo - e quindi, presumo, anche Marconi - ammettono che c'è una sfera di libertà individuali che le leggi non devono violare. Il problema è allora semplicemente se a questa sfera appartenga un'ampia gamma di comportamenti rispetto ai quali la gerarchia ecclesiastica manifesta invece una ossessiva volontà di controllo. Io credo di sì.

A proposito poi dell'opinione di un cattolico intelligente e sensibile che ha criticato gli interventi politici dei vescovi italiani, Marconi scrive:

Da un punto di vista laico, i vescovi sono cittadini italiani come gli altri [...] e hanno diritto di costituire una lobby che si propone di influenzare l'opinione pubblica e il processo legislativo, tanto quanto hanno il diritto di farlo gli industriali del tabacco e del petrolio. I vescovi italiani si comportano, di fatto, proprio come una lobby, cercando di influenzare i parlamentari di cui sono in grado di condizionare l'elezione. Che questo possa non piacere a un cattolico, si capisce; ma un cittadino qualsiasi non dovrebbe avere in questo caso particolare, obiezioni diverse da quelle che può avere all'azione delle lobby in generale. [...] Le lobby possono non piacere, ma, a quanto pare, sono un aspetto inevitabile dei sistemi di democrazia parlamentare; e questi sistemi, si sa, sono i peggiori eccettuati tutti gli altri (pp. 149-50).

In realtà, grazie al Concordato, i vescovi sono cittadini italiani un po' diversi non solo da me, ma persino dagli industriali del tabacco e del petrolio. E in un paese come il nostro, in cui l'invadenza proterva della Chiesa si estende a tutti i settori della vita civile e politica, parlare di lobby dei vescovi ha quasi il sapore dell'eufemismo. Quanto all'ultima frase di Marconi nel passo citato, si può rispondere così. La democrazia si dà per gradi. Sebbene una democrazia perfetta sia un ideale irrealizzabile, chi apprezza la democrazia e ritiene che abbia ancora senso perseguirla non può non guardare con inquietudine a tutti quei casi - li si chiami casi di lobbismo o come si vuole - in cui un gruppo cerca di imporre certe scelte alla collettività agendo al di fuori dei canali attraverso i quali i cittadini possono normalmente esprimere la loro volontà ed esercitare il loro controllo: ogni situazione del genere, infatti, corrisponde a un meno di democrazia. Non è che le lobby possono non piacere; a chi crede davvero nella democrazia, non possono piacere. E chi crede davvero nella democrazia vorrà che il fenomeno sia contenuto e regolato il più possibile. Per ciò che riguarda specificamente l'influenza sul potere politico dalla gerarchia ecclesiastica, si può osservare che in altri paesi a democrazia parlamentare - anche paesi con una forte tradizione cattolica - essa è molto minore che da noi: quindi, sia vero o falso in generale che «le lobby sono un aspetto inevitabile dei sistemi di democrazia parlamentare», non c'è motivo di ritenere che le intrusioni indebite della Chiesa debbano essere subite come una necessità storica ineluttabile.


Note

*. Dipartimento di Filosofia - Università degli Studi di Milano; e-mail: paolo.casalegno@unimi.it.

1. Sto parlando naturalmente di D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino 2007. Si riferiscono a quest'opera tutte le indicazioni di pagina che non riguardino esplicitamente altri testi.

2. Da diversi passi del terzo capitolo si evince che Marconi concepisce come oggettivi non solo i valori morali, ma anche quelli estetici: e infatti tratta insieme i due casi, come se ponessero un problema unico. Questo comporta delle complicazioni ulteriori che comunque non intendo qui esaminare.

3. A. Sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un'invenzione dell'Occidente, Mondadori, Milano 2004, p. 23.

4. Il testo da cui qui Marconi cita è G. E. Rusconi, "Laicità ed etica pubblica", in Laicità (a cura di G. Boniolo), Einaudi, Torino 2006, pp. 47-69.

5. Si veda anche ciò che Marconi dice a p. 108.