2015

Il bambino e la sua famiglia: adulti che rispondano ai suoi bisogni



 Marco Scarpati

(Vicepresidente ECPAT Italia)







  1. Il diritto alla famiglia e alla sua guida

Durante i lunghi ed elaborati lavori preparatori della CRC1 la discussione sul ruolo della famiglia nella protezione del bambino fu posta all’attenzione generale soprattutto da quelle nazioni che erano intimorite dalla nascita d’una Convenzione internazionale che avesse a cuore solo i diritti di libertà del minore. La loro paura era che la Convenzione si limitasse a prendere atto della fase di creatività sociale grazie alla quale il minore stava assumendo un ruolo centrale nella famiglia e, di conseguenza, importante nella società. Il tutto a discapito degli altri soggetti del diritto che con lui (e prima di lui) componevano il suo ristretto nucleo sociale: i genitori o le persone delegate alla sua cura ed educazione.

Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del XX secolo, in effetti, la famiglia aveva di molto modificato il suo assetto sociale e alla vecchia famiglia patriarcale tipica della civiltà contadina s’era sovrapposto un nuovo modello di famiglia, assai meno numerosa e nella quale gran parte degli adulti erano impegnati in attività che li tenevano lontani dalla vita famigliare. Questa nuova famiglia, che viveva lontana dai nuclei clanici da cui era originata, era distratta dalle impellenti necessità economiche, culturali, educative e sociali e aveva un limitato numero di bambini. Questi pochi figli diventavano, proprio come ogni merce rara, preziosi. Su di loro e sulle loro necessità ruotava l’economia famigliare e venivano costituiti nuovi servizi pubblici e privati2.

I nodi da sciogliere erano diversi: molti Paesi temevano che una più incisiva protezione del bambino come persona potesse andare a detrimento dei diritti delle famiglie. Anche sulla stessa definizione di famiglia sorgevano problemi interpretativi che erano stati ignorati dalle convenzioni internazionali elaborate negli anni precedenti le quali non avevano approfondito la questione “famiglia”, limitandosi a proteggere la maternità, i livelli minimi di salario famigliare, la libertà di matrimonio, l’età minima per il matrimonio, etc.

Del resto nessuna delle convenzioni elaborate aveva stabilito con precisione che cosa fosse una famiglia. Giungere a una definizione che unisse, sotto il medesimo vincolo, tutte le tipologie di famiglia esistenti al mondo non era semplice: quello che in molti dei Paesi africani le persone intendono per famiglia, con i vincoli che ne discendono, ad esempio, è un insieme d’individui molto ampio e allargato.

Era difficile creare una definizione di famiglia che potesse mettere d’accordo esigenze culturali ed etniche, oltreché giuridiche ed economiche, assai distanti. La sintesi su cui convennero fu, per certi versi, semplicissima: introdurre un concetto flessibile che si limitasse a fotografare la poliedrica situazione sociale presente al mondo, in cui coesistono, con pari dignità e con pari diritto di tutela, famiglie formate da due persone e famiglie assai più ampie e complesse diverse dalle prime.

Tale valutazione apparve come l’unica che poteva avere una qualche possibilità d’essere accettata da tutti. Infatti, se si ritiene necessario difendere il bambino nella sua famiglia e concedere ai genitori i poteri necessari affinché tale difesa sia possibile, è bene non sottilizzare eccessivamente su cosa sia una famiglia, giacché la comunità nella quale il bambino nasce ha già focalizzato tale concetto. La famiglia come istituzione sociale, in altri termini, è antecedente alla nascita del suo concetto nel diritto essendo la primaria forma di aggregazione sociale. Di conseguenza, non può essere disciplinata se non prendendo atto che tutti i modelli esistenti hanno dato buona prova di sé e che tutti i modelli di famiglia vanno visti come corretti e, di conseguenza, protetti3.

Compito fondamentale del diritto internazionale quando tratta i diritti umani è quello di creare princìpi giuridici generali che possano adattarsi alle varie esigenze locali senza essere snaturati. Ciò è avvenuto assai bene in questo caso. Solo se si fosse giunti a una previsione che non avesse intenti escludenti gli operatori del diritto che avrebbero dovuto tramutare i princìpi della Convenzione in leggi nazionali avrebbero potuto avere ben chiaro a cosa si riferivano i diritti previsti dalla Convenzione. Sarebbe stato chiaro fin da subito che gli istituti giuridici in materia di famiglia da adattare erano quelli su cui il diritto nazionale s’era sviluppato. Ne conseguiva che la famiglia, nella sua accezione più ampia e comprensiva possibile, andava trattata come priorità dalla Convenzione. Ciò perché solo all’interno della famiglia, e grazie alla duttilità che l’aveva portata a molteplici trasformazioni dovute ai mutamenti culturali e sociali, erano stati tutelati, nei secoli, nelle maniere localmente più corrette, i bambini, e solo in essa sarebbero state possibili forme di tutela dei minori.



  1. Il dibattito alla base dell’articolo 5 della CRC




Lo Stato è sempre più presente in quasi tutte le questioni, anche le più private, dei membri di una famiglia e delle realtà in cui vivono. Sono stati molti i casi in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo è intervenuta, negli anni, in ordine all’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che prevede il diritto al rispetto della vita famigliare e, di conseguenza, il divieto di disturbo-ingerenza nella vita famigliare da parte dello Stato e delle sue amministrazioni4.

Sul fatto che la Convenzione del 1989 si dovesse astenere dall’ingerenza negli affari interni della famiglia convennero diversi Paesi africani. Si unirono a loro tutte quelle nazioni che temevano le novità in materia di bambini e famiglia elaborate dalla cultura sociale europea e recepite dalla giurisprudenza di quel continente. Di tale opinione furono, ad esempio, diverse nazioni dell’America Latina. Così la CRC, prima ancora di sancire il diritto alla vita del bambino, previsto dall’articolo successivo, all’articolo 5, statuisce che:

States Parties shall respect the responsibilities, rights and duties of parents or, where applicable, the members of the extended family or community as provided for by local custom, legal guardians or other persons legally responsible for the child, to provide, in a manner consistent with the evolving capacities of the child, appropriate direction and guidance in the exercise by the child of the rights recognized in the present Convention.

Concetto poi ribadito e meglio esplicitato nell’articolo 18, comma 1, della stessa Convenzione, laddove viene specificato che:


States Parties shall use their best efforts to ensure recognition of the principle that both parents have common responsibilities for the upbringing and development of the child. Parents or, as the case may be, legal guardians, have the primary responsibility for the upbringing and development of the child. The best interests of the child will be their basic concern.


Il testo dell’articolo in esame sottolinea che i genitori dovranno sempre prendere in considerazione anche la capacità evolutiva del minore. La norma, quindi, spinge gli Stati a prendere sempre in considerazione l’incremento di capacità che il bambino, con il passare del tempo e delle sue esperienze, accumula ed elabora. Ciò potrebbe sembrare un concetto talmente ovvio da non dovere essere argomento di discussione. Eppure tale passaggio (che potremmo qualificare come “da bambino sempre minore a minore non sempre bambino”) non fu per nulla semplice o scontato, e su questo dilemma la giurisprudenza internazionale e la dottrina si sono scontrate non poco.

La logica che andava elaborata nella Convenzione sarebbe stata quella di proteggere il bambino e la sua famiglia dalle interferenze scorrette o immotivate dello Stato, ma anche quella di potenziare la protezione del bambino all’interno della famiglia stessa, permettendo a essa di guidare il bambino nei limiti delle esigenze educative e di indipendenza nelle sue differenti fasi di crescita. Permettendo però la possibilità da parte della Amministrazione dello Stato di predisporre un intervento correttivo o persino sostitutivo, al fine di fare in modo che la libertà di guida della famiglia non potesse mai scadere in azioni contrarie all’interesse del minore.

Una proposta di articolo 5, che nasceva come ipotesi d’ulteriore mediazione, fu presentata congiuntamente da Australia, Austria, Olanda e Stati Uniti. In essa si precisava che:


The States Parties to the present convention shall respect the responsibilities, rights, and duties of parents or, where applicable, legal guardians or other individuals legally responsible for the child, to provide, in a manner consistent with the evolving capacities of the child, appropriate direction and guidance in the exercise by the child of the rights recognized in the present Convention5.


La proposta fu accettata dal Gruppo di lavoro. Il nuovo articolo nascevadalla considerazione che il minore fosse un essere umano da proteggere per le sue caratteristiche in quanto persona in divenire, e che, di conseguenza, occorreva prevedere che il ruolo di guida parentale prendesse atto di ciò, e fosse considerato in continua modificazione in considerazione del continuo evolversi del minore. Un’evoluzione interpretativa del ruolo genitoriale che già aveva segnato il cammino della Corte europea dei diritti dell’uomo la quale, in diverse sentenze, aveva focalizzato tale concetto e modificato i rapporti all’interno della famiglia.

Durante la fase d’elaborazione finale del testo ci furono alcuni rappresentanti che sottolinearono l’opportunità di ricomprendere nell’articolo, fra le realtà famigliari tutelate, anche la famiglia allargata e la comunità di ricovero di minori in situazione di bisogno6 quali luoghi ove il bambino trovava comunque una rilevante forma di protezione. Proprio a tal fine chiesero esplicitamente che esse fossero previste dall’articolo 5 della Convenzione. Parlando delle comunità di ricovero, la loro previsione andava incontro a gran parte della giurisprudenza internazionale, che aveva sempre visto in esse una area di rifugio per i minori a rischio d’abbandono. In effetti, nella versione finale dell’articolo 5, il concetto di famiglia fu dilatato fino a ricomprendere anche la “extended family or community as provided for by local customs”, evitando così ulteriormente di creare pericolose lacune.



3. Il diritto d’ogni bambino a crescere in una famiglia


Le convenzioni internazionali spiegano che ogni bambino ha diritto a vivere all’interno di una famiglia che sia, possibilmente, quella in cui è nato. Lo stesso principio è stato ribadito più volte in negli ordinamenti nazionali. Appare ovvio che la preferenza che deve darsi alla permanenza del bambino all’interno della famiglia di nascita non è sempre possibile: vi sono, spesso, casi in cui le responsabilità genitoriali non possono essere esercitate o altri nei quali le autorità preposte alla tutela dell’infanzia ritengono che sia preferibile, nell’interesse del bambino, che egli sia allontanato dalla famiglia biologica.

La necessità di reperire una famiglia per questi bambini non è un problema solo di questi giorni; essa affonda le sue radici nei tempi antichi. In origine l’adozione nacque però con esigenze ben diverse: quelle d’assicurare agli adulti di poter perpetuare il nome e i riti sacrali famigliari, anche dopo la morte del pater.

Fu con il codice napoleonico che l’istituto ritrovò nuova vita con caratteristiche ben diverse dall’adozione sorta nel diritto romano. Si trattava d’un negozio giuridico bilaterale di stampo privatistico, il cui scopo era prettamente ereditario, pertanto il “contratto” adottivo non tendeva alla creazione di vincoli affettivi ma era motivato dall’esigenza di permettere, a chi non poteva avere figli, la sopravvivenza del nome e la conservazione del patrimonio familiare. Autorizzato a vestire i panni dell’adottante era chi aveva superato i cinquant’anni7, mentre l’adottato non poteva essere minore di diciotto anni8. Ispirati dal Codice Napoleonico, in quasi tutti i codici moderni furono successivamente modificati gli istituti dell’adozione. Anche il codice civile del Regno d’Italia del 1865 (siglato dal ministro Zanardelli) all’articolo 206 sanciva il divieto di adozione di minori di diciotto anni.

Negli Stati Uniti, con una legge del Massachusetts del 1851, entrò in vigore per la prima volta una moderna forma di adozione che aveva quale effetto la qualificazione come filiazione legittima dell’adottato, parificato a ogni altro figlio, se esistente. In Europa la novità non venne subito accettata: la presenza delle ferree regole del diritto romano e un sentire comune ancora ampiamente legato al favor verso il vincolo di sangue osteggiavano la presa in considerazione di tale istituto.

Da noi, con l’approvazione del codice Rocco, venne abolito il divieto d’adottare minori di diciotto anni. La natura “speciale” di questa nuova adozione si evidenziava anche dal fatto che non si stabiliva alcun rapporto di parentela fra l’adottato e la famiglia dei nuovi genitori (e neppure vincoli ereditari con coloro che non erano i genitori) e che persisteva la possibilità di revoca dell’adozione stessa per motivi d’indegnità.

È solo negli anni Sessanta che emerge l’esigenza d’una nuova forma d’adozione di minori che fosse centrata maggiormente sui diritti dell’infanzia. La discussione che accompagnò in Italia l’elaborazione della legge 5 giugno 1967, n. 431 sull’adozione speciale fu tutt’altro che incruenta e diversi degli attori usarono toni tutt’altro che pacati: per alcuni degli intervenienti al dibattito la parificazione della filiazione affettiva a quella di sangue era un vulnus alla sacralità dei vincoli naturali. Giuristi cattolici di chiara fama, quale Lucifredi, che al momento era parlamentare, e il professor Scaduto, arrivarono persino a definire come sacrilega tale azione. Fortunatamente la legge passò, ma la pessima opinione che parte dei giuristi aveva espresso sull’adozione rimase scolpita nella dottrina e nella discussione fra giuristi, e ne fu prova la pessima giurisprudenza che negli anni subito successivi alla promulgazione della legge in oggetto fu prodotta da alcuni Tribunali italiani.

Solo negli anni Ottanta del XX secolo anche in Italia si arrivò ad una normativa che, partendo dalla considerazione che alla base dell’adozione non c’era il diritto della coppia ad avere un figlio, ma il diritto d’un bambino ad avere una stabile coppia di genitori, giunse a una maggior considerazione dell’istituto dell’adozione fornendogli una nuova e forte vitalità.



4. L’adozione internazionale


Le origini di questo istituto risalgono alla fine del secondo conflitto mondiale, quando diverse famiglie statunitensi, spesso composte da ex membri dell’esercito che avevano operato nei Paesi dell’Europa e dell’Asia occupati dalle forze alleate, mosse da uno spirito di solidarietà e dall’altissimo numero di minori in stato di abbandono presenti negli orfanotrofi, effettuarono molte adozioni di minori provenienti soprattutto dai Paesi che maggiormente avevano subito danni dal conflitto: primariamente Germania, Italia, Grecia, Giappone. Con gli anni le esigenze di genitorialità si allargarono ad altri Paesi (anche a causa dei molteplici fronti di guerra che s’aprirono) e le famiglie americane, seguendo gli interventi militari del loro Paese, s’orientarono dapprima verso i bambini della Corea e poi verso quei Paesi dell’Indocina nei quali sostavano le truppe americane, dal Vietnam alle Filippine, dalla Cambogia alla Thailandia.

Le prime adozioni internazionali europee avvennero principalmente all’interno del circuito continentale. Verso la fine degli anni Sessanta, in concomitanza con l’approvazione a Strasburgo della Convenzione europea sull’adozione dei minori, l’Europa iniziò ad accogliere bambini africani e latinoamericani, fino a diventare il continente leader nelle innovazioni in materia, portando a quest’istituto la miglior cultura giuridica del vecchio continente. L’iniziale mancanza di regole comuni creava difficoltà interpretative e problemi nell’iter adottivo. Spesso, ad esempio, le norme che portavano alla dichiarazione di adottabilità di un bambino nel Paese di nascita non corrispondevano a quelle necessarie all’adozione nel Paese dei possibili genitori.

Fu su proposta dell’Italia, che l’Ufficio permanente della Conferenza dell’Aja di diritto internazionale privato inaugurò nel 1988 i lavori preparatori per una convenzione internazionale che si conclusero il 29 maggio 1993, quando la Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale9 fu aperta alla firma10.

Ai lavori preparatori parteciparono nazioni che rappresentavano interessi a volte inconciliabili, cioè nazioni che avevano bambini negli orfanotrofi e nazioni nelle quali vi erano coppie genitoriali disponibili. Ciò si nota leggendo le definizioni alla base della Convenzione: volutamente, ad esempio, fu individuata e decisa una definizione molto ampia di adozione. Così all’articolo 2 della Convenzione vengono definiti (e accettati) come “adozioni” tutti gli istituti privatistici che creano un rapporto di filiazione, non limitando la Convenzione alla mera regolamentazione della cosiddetta adozione legittimante11, ma lasciando spazio anche alla definizione giuridica dell’adozione semplice (quella cioè non legittimante, e che non crea rapporti famigliari fra l’adottato e tutti i membri della nuova famiglia).

Malgrado i molti tentativi fatti dalle nazioni occidentali, si dovette prendere atto che sarebbe stato impossibile introdurre nell’ambito convenzionale una parificazione all’adozione legittimante dell’istituto islamico del Kafalah (o El Dham). Il problema era assai complicato, giacché il diritto islamico originario non ha previsto un’adozione piena ma solo una sorta di affidamento extrafamiliare a scopo assistenziale, senza che ne conseguisse una rottura dei legami con la famiglia d’origine12.

Il preambolo della Convenzione individua le priorità e gli scopi della stessa. Subito si vede come essa identifichi nell’interesse del bambino il fine ultimo da raggiungere con l’adozione e ponendo, come scopo precipuo, lo sviluppo armonioso della personalità del minore, realizzabile solo in un ambiente familiare, in un clima di benevolenza, amore e comprensione13.

La Convenzione vuole in tal modo sottolineare e risolvere un aspetto fondamentale della questione: l’assoluta necessità che nel mondo giuridico, e non solo, si venga a delineare un grosso cambiamento culturale nell’adozione internazionale, che deve essere svolta nell’esclusivo interesse del minore in situazione di abbandono, nel rispetto di quei diritti umani già riconosciutigli dal diritto internazionale14 (articolo 1, lettera a). Proprio per questo la Convenzione


impegna gli Stati che la ratificano a una serie di norme per ristabilire il carattere dell’adozione non come cessione o acquisizione di bambini, ma come istituzione intesa principalmente a promuovere e favorire l’interesse del minore in stato di effettivo abbandono, garantendogli una tutela basata sul rispetto della sua identità personale e socioculturale.


Appare di conseguenza la necessità e l’urgenza da parte degli Stati di prevenire ed evitare episodi di sottrazione di minori, ovvero la loro vendita e tratta a scopi adottivi. Per questo la Convenzione ha delineato alcuni princìpi e direttive fondamentali che le legislazioni nazionali hanno poi tramutato in regole precise dell’ordinamento interno.



5. Adozione, genitorialità e princìpi di non discriminazione


L’adozione internazionale è stata oggetto di diverse decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. Anche se restano alcuni aspetti da chiarire, soprattutto sul tema della discriminazione. E in effetti le leggi nazionali hanno operato (applicando spesso motivazioni d’ordine pubblico) scelte decise sulla tipologia dei genitori prescelti: essi devono essere giovani, spesso uniti da un vincolo di matrimonio e quasi sempre devono essere eterosessuali.

La Corte è intervenuta in materia di adozione di minori da parte di single nel caso Wagner e J.M.W.I. v. Lussemburgo15. La signora Wagner, cittadina lussemburghese non unita in matrimonio con il proprio partner, già genitrice naturale di tre figli, aveva adottato regolarmente una bambina in Perù. Rientrata nel suo Paese, la sua richiesta d’ottenere il riconoscimento della sentenza peruviana non fu accettata, perchè in Lussemburgo, per legge, era impossibile un’adozione da parte di un single. Nelle more della decisione la normativa lussemburghese era cambiata, giacché era entrata in vigore una nuova legge che attuava la Convenzione dell’Aja e proprio la successione di differenti leggi nel tempo aveva creato differenze di valutazione da parte di giudici interni che, in precedenza, avevano dichiarato la possibilità di adozioni piene da parte di single.

La situazione che si era creata era tale, a parere della Corte internazionale, da lasciare perplessi rispetto alla chiusura che i giudici interni avevano deciso sul caso. Infatti era sulla bambina che le conseguenze della successione di leggi e di orientamenti giurisprudenziali andavano a riverberarsi, non permettendole, vista l’impossibilità d’ottenere un’adozione piena, di divenire cittadina lussemburghese e comunitaria. Il tutto a seguito di un’adozione regolare e che era stata eseguita secondo legge in Perù. La Corte ritenne che non fosse “possibile far scontare alla bambina le conseguenze di fatti che non sono a lei imputabili e che la piccola, in virtù del proprio status di minore adottata da una madre single che non si vede riconoscere in Lussemburgo il legame famigliare creato dalla sentenza straniera, si trova di fatto penalizzata nella propria vita quotidiana”. Ciò portò quindi la Corte “a concludere che il rapporto di proporzionalità fra i mezzi utilizzati e il fine perseguito” non fosse ragionevole e ad accogliere il ricorso.

Rispetto alla problematica della discriminazione per orientamento sessuale, la Corte di Strasburgo ha modificato la propria opinione con la sentenza E.B. v. Francia16 che ha innovato l’orientamento della Corte rispetto, ad esempio, alla nota sentenza sul caso Frettè v. Francia17.

Il caso era semplice: un’insegnante francese di 45 anni, che dal 1990 aveva una convivenza stabile con una donna, nel 1998 chiese di poter adottare un bambino come single (la legge francese ammette l’adozione da parte di single). Nella documentazione depositata non mentì sul suo orientamento sessuale (dichiarandosi omosessuale) e sull’attualità della convivenza con una donna che la stessa aveva indicato come amante. Come risposta la signora ricevette un diniego all’idoneità all’adozione, basato sul suo orientamento sessuale, identificato come inidoneo alla genitorialità. L’insegnante, dopo aver inutilmente esperito le vie giudiziali nazionali, si rivolse alla Corte europea denunciando la discriminazione ricevuta nel diniego, motivato sulla base del suo orientamento sessuale. E che ciò aveva determinato una discriminazione che creava un grave vulnus alla sua vita famigliare e privata.

La Grande Camera, con una maggioranza di dieci a sette, formalmente non si pronunciò sull’esistenza di un diritto dei cittadini francesi d’orientamento omosessuale ad adottare, ma solo sull’impossibilità di discriminare fra differenti tipologie di single una volta che la legge abbia ammesso la possibilità di adottare da parte di persone non sposate. Secondo i giudici della Grande Camera, i documenti acquisiti nel corso dell’iter adottivo avevano ampiamente dimostrato che la richiedente fosse ottimamente in grado di svolgere le funzioni genitoriali e che seppure la sua partner, con la quale s’era creata una lunga e stabile convivenza, si fosse dichiarata estranea alla scelta adottiva, la stessa fosse risultata, dall’esame svolto dagli incaricati all’istruttoria, quale fornita di ottima attitudine alla genitorialità. Quindi, a parere della Grande Camera, dal punto di vista formale nulla avrebbe legittimamente impedito l’idoneità all’adozione.

Se ciò è quindi vero, a parere della Grande Camera diventava necessario verificare se la differenza di trattamento che si era verificata si fosse basata su una mera discriminazione. Per costante giurisprudenza europea, una differenza di trattamento è discriminatoria se priva di giustificazione oggettiva e ragionevole, nel senso che non persegue una legittima finalità, ovvero non risulta essere il frutto di un ragionevole bilanciamento fra i mezzi utilizzati e il fine perseguito. Ne consegue che se si vogliono fare differenze sulla base dell’orientamento sessuale che non confliggano con la Convenzione europea sui diritti umani, le ragioni alla base di tale scelta devono essere realmente ragionevoli e convincenti. Osservati i motivi alla base di tale scelta da parte del legislatore francese, la Grande Camera non poté che definire assolutamente non sostenibili tali differenze, giacché esse appaiono palesemente discriminatorie e non sorrette da alcuna legittimità e in contrasto con i princìpi di eguaglianza che sono alla base della Convenzione europea.

Ne consegue che l’adozione va concessa ad ogni tipologia di persona che sia dichiarata idonea al seguito di una valida istruttoria compiuta da organismi a ciò deputati, svolta al fine di verificare se il richiedente sia capace di svolgere le funzioni tipiche di un genitore, al di là della propria sessualità, della propria religione o del proprio orientamento politico: è solo su questa capacità personale che deve fondarsi l’idoneità del richiedente all’adozione, a tutela dell’interesse del singolo minore abbandonato a incontrare un genitore veramente capace d’educarlo e allevarlo.



1Convenzione sui diritti dell’Infanzia, approvata a New York, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificato con Legge 27 maggio 1991n. 176.


2Su questo argomento molto interessanti sono gli spunti contenuti nel libro (e nella prefazione) seguente: J. Bakan, Assalto all’Infanzia, Come le corporation stanno trasformando i nostri Figli in consumatori sfrenati, (prefazione di C. Saraceno) Milano, Feltrinelli, 2012.


3A tale proposito, molto stimolante appare la lettura di due interessanti volumi: V. Pocar e P. Ronfani, La famiglia e il diritto, Bari, Laterza, 2008; P. Donati, Manuale di sociologia della famiglia, Roma-Bari, Laterza, 2006.


4Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata, assieme al suo Protocollo addizionale, con legge 4 agosto 1955, n. 848.


5Si veda, a tal riguardo, UN Doc. E/CN.4/1987/25, par. 33.


6Si tratta delle istituzioni di accoglienza di minori (orfanotrofi, case famiglia, istituti, etc.) che hanno bisogno di attenzioni parentali e che non possono far riferimento a realtà famigliari classiche sia temporaneamente che definitivamente.


7Un’età assai avanzata, per l’epoca, e nella quale si riteneva fosse ormai impossibile giungere a una diversa forma di filiazione.


8L’età dell’adottato era legata al ruolo d’erede che doveva avere: egli doveva avere già maturato doti di lealtà e di onestà e, assieme a esse, doti di accorto amministratore, così che potesse fin da subito collaborare con il padre alla gestione dei beni di famiglia.


9The Hague Convention of 29 May 1993 on Protection of Children and Co-operation in Respect of Intercountry Adoption si può interamente trovare sul sito della Conferenza dell’Aja sul diritto internazionale privato <http://www.hcch.net>. Nel sito si possono trovare tutte le informazioni sul percorso che ha condotto alla Convenzione, ivi compresi i lavori preparatori. Il sito riporta anche l’elenco aggiornato dei Paesi che vi hanno aderito.


10L’Italia ha ratificato la Convenzione con Legge 31 dicembre 1998, n. 476, pubblicata su Gazz. Uff. 12 gennaio 1999 n. 8. Il testo si può trovare in <http://www.commissioneadozioni.it/Contents/?idpagina=47>


11Si identifica come legittimante quell’adozione che crea, fra genitori e bambino adottato, dei rapporti famigliari identici a quelli esistenti per i figli legittimi all’interno di una famiglia convenzionale.


12Parliamo dei legami ereditari, famigliari e d’assistenza, che permangono in capo al minore nei confronti della sua famiglia originaria.


13Concetti non giuridici, bensì fattuali o psicologici, proprio come a ribadire ed esaltare ancora una volta il concetto (alla base della CRC) di “interesse superiore del minore” che, lo ricordiamo, deve essere alla base d’ogni decisione inerente l’infanzia.


14Quali, ad esempio, quelli previsti dalla Convenzione di New York.


15Wagner et J.M.W.L. v. Luxembourg, n. 76240/01.


16E.B. v. France, 43546/02, definito dalla Grande Camera il 22 gennaio 2008.


17Philippe Frettè vs France, n. 61517/00. In questo caso la Corte decise, il 26 febbraio 2002, che non era discriminatorio il rifiuto di permettere a un uomo dichiaratamente omosessuale, il diritto di accedere all’adozione di un minore. La decisione lasciò molto perplessi, giacché nel corso della procedura per accertare l’idoneità ad adottare da parte del signor Frette, nessuna obiezione fu sollevata sulla sua capacità genitoriale, che anzi fu descritta come ottimale. L’unico problema che si evidenziò nelle carte procedurali fu quello dell’orientamento sessuale del richiedente, con una palese discriminazione illegittima. La Corte si rifugiò dietro all’interesse superiore del bambino a essere adottato da un genitore non omosessuale come superiore rispetto a quello dell’adulto che chiede di non essere discriminato per il suo orientamento sessuale.