2016

Il diritto al gioco: tra teoria e casi concreti 



Flavio Milandri

(Presidente nell'Associazione “Fantariciclando. Educazione, creatività, innovazione”)





1. Relazione, diritto al gioco, crescita.


Nel cambio di paradigma conseguente alla metamorfosi in atto dei sistemi sociali si può riscontrare una rottura della relazione tra diritto al gioco, crescita, partecipazione?

In questo scritto si affronterà la questione prendendo le mosse dalla Convenzione Internazionale dei diritti dell'infanzia e da un caso concreto che ne prende sul serio spirito e indirizzi. La Convenzione non è infatti solo un codice di norme giuridiche, bensì un vero programma pedagogico di educazione alla libertà e alla responsabilità basata sul rispetto. L’educazione alla libertà comporta necessariamente consapevolezza, responsabilità, reciprocità in interazione con la comunità operosa (Bonomi 2012)[1] e la responsabilità sociale, culturale, civile. In altri termini, al tramonto della dittatura generazionale, almeno in Italia, ci si interroga su quali sono le nuove frontiere in materia di affermazione del diritto al gioco e alla partecipazione dei minori.

Attraverso il gioco l'uomo apprende il fatto che esistono categorie di comportamenti. Il gioco permette di acquisire competenze e relazioni sociali, interiorizzare regole e valori, motivare l'apprendimento e sviluppare l'identità. I diritti dei bambini attraverso il gioco del fare e disfare favole, ad esempio, rappresentano un espediente per prendere posizione contro l’ingiustizia e la passività. C’è necessità di rispondere ai bisogni espressi e latenti dell’universo infantile, di sostenerli con ricerca e azione, iniziando dai luoghi, come evidenziato dalla Convenzione Internazionale dei diritti dell'infanzia con l’art. 31. “Gli stati […] riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e a partecipare liberamente alla vita culturale e artistica”. Questo articolo è, per l’occasione di questo scritto, l’epitaffio sulla porta per entrare nel mondo dei bambini. I piccoli ci ascoltano e sono influenzati in maniera significativa da contesto e ambiente anche nell’età evolutiva. Ecco perché attenzioni e stimoli rinforzano e modellano certe mappe cognitive, alcuni studi parlano di reti neuronali, mentre un ambiente deprimente edifica mappe sfilacciate.

Tema centrale della Convenzione è il diritto all’ascolto (ex art. 12), che vede il minore diventare a tutti gli effetti soggetto di diritto e attore sociale. Questo rinforza la grande attenzione da porre all’ascolto attivo, manifestazione, al contempo, della libertà di espressione e del diritto di partecipazione, quindi all’agency[2]. Da questo punto di vista sono le “buone pratiche” messe in atto dagli adulti e contemporaneamente da amministrazioni consapevoli, da professionisti dei servizi sociali, educativi e sanitari, nella scuola e nel volontariato, nell’economia civile, che spingono in avanti alcuni cambiamenti rilevanti.

L’impalcatura della Convenzione unisce il richiamo a una condizione di debolezza o pericolo dei bambini nel loro presente, proiettandoli in un futuro migliore (protezione e sviluppo, educazione e salute), e un’attenzione inedita per la loro partecipazione nel presente. L’analisi della partecipazione può quindi essere un caposaldo importante per capire i diritti dei minori. I bambini sono osservati per il loro sviluppo, la loro formazione, il loro apprendimento ma anche come attori sociali capaci di assegnare significati a ciò che li circonda e come agenti sociali in grado di modificare il contesto in cui agiscono: si evidenzia così l’importanza della partecipazione sociale dei bambini.

La differenziazione dei significati attribuiti ai diritti dei bambini che riverberano fasi storiche e priorità scientifiche può essere colta ovviamente nella Convenzione dell’ONU. Questa Convenzione identifica una serie di diritti dei bambini che toccheremo implicitamente per puntare alle premesse, al nostro focus. Il diritto alla partecipazione, il diritto alla libertà di espressione, il diritto alla condivisione di attività ricreative, culturali e artistiche. I diritti a condizioni di vita adeguate, allo sviluppo, all’educazione nonché alla salute e alla terapia. La partecipazione sociale può essere intesa come partecipazione alla comunicazione con adulti e altri bambini: i fatti sociali sono theory laden, carichi di teoria e la comunicazione è osservabile come combinazione di azione, comprensione, informazione, interazione. Essa più in generale provvede ad un innesco solo se mossa dall’ascolto attivo (Sclavi 2003)[3] nel nostro caso, dalla complicità dell’adulto di riferimento. Su questo sfondo, partecipazione sociale può significare rel-azione.

La partecipazione attiva si può realizzare nei diversi sistemi sociali che coinvolgono i bambini: è però evidente che partecipare attivamente non significa di per sé avere un peso importante nella comunicazione. Il concetto di agency indica una forma di particolare partecipazione che manifesta autonomia nell’azione, cioè una scelta tra azioni possibili, che promuove un cambiamento sociale. Addentrandoci per questa via ci imbattiamo nel modo di esplorazione proprio del fanciullo e nel suo sguardo sul mondo. Ecco fiaba e gioco. Ci è facile anche da adulti seguire questo percorso suggerito da Mario Lodi che ci ha invitato a restituire ai bambini la possibilità e il piacere di scoprire, giocando, concetti scientifici e abilità tecniche che li aiutino ad ampliare la loro cultura e, da adulti, la loro umanità. Questo è anche una anticipazione sul perché ogni anniversario della Carta dei diritti del fanciullo debba sì essere celebrato, ma soprattutto riempito di contenuti contemporanei che la mettano costantemente in dialogo con i bisogni di chi abita, in concreto, i luoghi.



2. Privare i bambini del diritto al gioco è una trappola.


Per consentire ai bambini le possibilità di gioco, in una società industrializzata, erano gli anni Sessanta del secolo scorso, si avanzavano a nome delle comunità operose richieste che ancora oggi nella società post paiono cariche di senso. Ai genitori: che avessero piena coscienza del diritto dei bambini al gioco. Ai proprietari di case, ai costruttori e imprenditori edili: che riservassero appositi spazi per il gioco dei bambini. Alle autorità locali: che riconoscessero al gioco la stessa importanza attribuita al traffico e che assicurassero, non solo lo spazio per il parcheggio degli automezzi, ma anche quello per il gioco dei bambini. Agli architetti, agli urbanisti ed agli educatori: che si impegnassero a conservare e a incrementare la destinazione di aree per il tempo libero, non solo come fatto estetico ma come reale bisogno dei bambini e delle famiglie. Alle autorità centrali: che rivedessero, alla luce di questi principi, le norme legislative sull’edilizia scolastica materna, elementare e secondaria, sull’edilizia popolare, sulla pianificazione urbanistica.

Ancora oggi chi anela un mondo diverso sa che, arrivati alla fine di un necessario lavoro di riflessione, non ci si ferma, che il bisogno di giustizia non ha fine. La matrice della speranza, spesso ha affermato l’indimenticato pedagogista brasiliano Paulo Freire, è la stessa dell’educabilità dell’essere umano: l’incompiutezza del suo essere del quale è diventato cosciente. Sarebbe una pesante contraddizione se, incompiuto e consapevole della sua incompiutezza, l’essere umano non si inserisse in un permanente processo di speranzosa ricerca: questo processo è l’educazione[4]. Ma proprio perché ci troviamo imbrigliati in una infinità di vincoli, mai forse come oggi abbiamo necessità di sottolineare, nella pratica educativa, il senso della speranza, la ricerca di una visione. Per i piccoli questa via passa da salire su un albero, giocare alla caccia al tesoro con gli amici, fare una gara di corsa e gettarsi nel fango prima dei 13 anni … per diventare più creativi e imparare ad affrontare la vita con più coraggio e autonomia rispetto a chi, ha recentemente affermato Peter Gray, psicologo e biologo al Boston College, ha passato l’infanzia tra videogiochi e play-station[5]. Questo autore studia da anni gli indici di creatività dei ragazzi americani constatando il progressivo precipitare nella banalità dove il conformismo sostituisce la partecipazione. L’allarme non è certamente ribaltabile tal quale in Italia[6] ma con l’autore possiamo certamente condividere un punto: privare i bambini del diritto al gioco è sbagliato ed è ora di smetterla.

Il tema è complesso e di rinnovata attualità intersecando l’antico e il moderno, il post moderno e il futuribile che, nella globalizzazione delle merci, entrano in contatto come mondi coesistenti nell’intreccio tra reale e virtuale. In questo contesto i nativi digitali hanno a disposizione una grande quantità di codici e di strumenti di apprendimento e comunicazione formativa e sociale. «Apprendono per esperienza attraverso un deweyano “learning by doing” inconsapevole e naturale. Costruiscono la loro esperienza non linearmente ma per successive approssimazioni secondo una logica che è più vicina a quella abduttiva di Peirce, che non a quella induttiva di Galileo o a quella deduttiva di Aristotele» (Ferri 2011, p. 48)[7]. Resta un solo timore, secondo alcuni studiosi, nell’uso precoce della tecnologia: l’impoverimento della creatività. Ad esempio Tilde Giani Gallino in una recente intervista ricorda: con i tablet disegnano, imparano, ma sono sicuramente più liberi con un foglio bianco e i pennarelli: hanno uno spazio totalmente loro per esprimersi senza barriere. Il massimo della creatività i bambini lo raggiungono entro i sette anni, peccato limitarli. Il gioco, come unanimemente sostenuto già dalla maggior parte degli studiosi del Novecento, riveste un ruolo importante nel formare le relazioni che i bambini hanno con i corpi, gli strumenti, le comunità, l’ambiente che li circonda, la conoscenza. La maggior parte dell’apprendimento che i bambini hanno nei primi anni di vita avviene attraverso il gioco con i materiali che hanno a portata di mano: oggi quindi dobbiamo annoverare tra questi smartphone e tablet. Sempre attraverso il gioco, i ragazzi si mettono alla prova con differenti ruoli, sperimentando processi centrali per la cultura, manipolando risorse fondamentali ed esplorando l’ambiente che li circonda.

Il bambino, del resto, impara giocando da subito, da quando nasce. I suoi strumenti sono i sensi e la mente. Con i primi raccoglie i dati della realtà. Con la mente confronta, riflette, ricorda. Conserva le sensazioni in ripostigli segreti dove possono restare tutta la vita. Il suo metodo è corretto: raccoglie dati, li compara, li seleziona, formula ipotesi, le verifica, ricava sintesi. Pare fondamentale sostenere i bambini e il loro metodo naturale di ricerca e, al loro fianco, lasciare ad essi il piacere di scoprire-giocando concetti scientifici ed abilità tecniche che li aiutino ad ampliare la loro cultura. Occorre evidentemente affiancare all’istruzione formale una educazione non-formale oltre a quella informale e forse andare oltre l’insegnamento fondato sulla memorizzazione e ripetizione di formule. Una via migliore è passare ad apprendimenti attraverso il gioco, le sensate esperienze, e le conseguenti riflessioni cui i giochi danno luogo, affermava Mario Lodi “il maestro che giocava”, anche grazie a chi insegna, all’adulto di riferimento, alla comunità educante. Per i piccoli il gioco è il loro lavoro e la fantasia una finestra sul mondo. Il bambino ha tre livelli di rappresentazione della realtà: attivo, iconico, simbolico, corrispondenti ciascuno a tre modalità della conoscenza: mediante l’azione, l’immaginazione, e in ultimo la simbolizzazione. I primi livelli di sviluppo della conoscenza sono quindi di natura esecutiva e, prima ancora che il bambino sia in grado di rappresentarsi il mondo con simboli relativamente indipendenti dall’azione, egli apprende tramite le azioni concretamente e abitualmente compiute per conoscerlo. E la concretezza del pensiero infantile esige una scuola del bambino che sia scuola di vita e di esperienze, colorata da curiosità. Ma l’infanzia si rapporta con un contesto, una cornice, un ambiente sociale che è quello adulto fin dai primi mesi di vita. La fiaba è quindi particolarmente utile per affrontare il mutamento che lo investe, che coinvolge tutti i suoi referenti educativi, e in momenti di crisi spesso travolge anche l’idea stessa di educazione (Milandri 2014, p. 11)[8].

In questo contesto appare nitida la necessità della funzione ponte della “narrazione contemporanea mediata dalla metafora”: raccontare una fiaba è spesso fare una rappresentazione che molto deve alla creatività ma che ha radici nel mondo. Questo permette ai bambini di produrre ipotesi, possibili strade, soluzioni, percorsi ed è già un primo modo per consentire loro di esplorare le molteplici possibilità del proprio mondo recondito.Se il «diritto all’agency» dei bambini può affermarsi soltanto in base ad azioni di adulti che riconoscano il significato e l’importanza delle produzioni di senso e delle scelte dei bambini, occorre rendere merito a quegli adulti mediatori tra due mondi che li accompagnano nelle sfide della crescita. A volte si innescano dinamiche speciali, come nel caso di cui accenniamo poco oltre dove un aiuto ludico narrativo in ricerca operativa trova corrispondenze nel lavoro di prevenzione nell’ambito dell’educazione alla salute e contemporaneamente propone la Convenzione come agente del cambiamento del contesto di vita.



3. “Un educatore deve mostrarti l’orizzonte che non hai mai visto”.


L’educazione viene trasmessa dal gioco in modo efficace, per gioco appunto. Il che non implica senza fatica: giocando si suda, ci si strema ma è un impegno scelto liberamente. La valenza formativa del gioco è rintracciabile in tutte le culture. In più il gioco condivide con la favola due caratteristiche fondamentali: l’universalità e la trans-culturalità. Di nuovo fiaba e gioco. Essi consentono di stimolare abilità sociali che altrimenti sarebbe arduo attivare e permettono di acquisire conoscenze civiche diversamente difficili da raggiungere. Anche in classe un gioco educativo, ovvero un gioco-giocato completato da una riflessione comune o una disamina o un debriefing potrebbe essere parte del percorso educativo. E in molti casi già lo è. Il dopo gioco è la ricostruzione cognitiva dell’agito ludico, la sua analisi. Esso è quel momento in cui gli allievi si fermano a riflettere, con l’adulto di riferimento, portando alla luce quanto attivato nella fase ludica. Nella fase di rielaborazione è essenziale che i protagonisti compiano un processo di negoziazione di significati in cui si socializzi quanto vissuto. Nel gioco il bambino impara a fruire dell’ambiente che lo circonda, modificandolo, e impara anche a valutare i propri limiti per superare o evitare gli ostacoli, a operare confronti: in altri termini, impara l’agire sociale.

Dal punto di vista del soddisfacimento dei bisogni soggettivi, sul piano evolutivo, l’analisi del gioco evidenzia che non vi può essere per l’individuo crescita se non si tengano in conto i suoi bisogni, le sue inclinazioni, le motivazioni ad agire. Si apre per il mondo adulto la sfida di vedere nessi dove tradizionalmente non si vedevano. Cercare una sintonia con la logica abduttiva dei piccoli e dei giovani digitali significa passare da una logica analitica ad una sintetica. Considerare metodologie di ricerca che dalla settorialità approdano alla multidisciplinarietà. Del resto solo così si risponde alla complessità nella quale si vive oggi. Si approda in questo dialogo asimmetrico alla questione conoscenza e divulgazione: dalla informazione alla rappresentazione. Rappresentare nella sfera pubblica il mondo infantile attraverso “reti di speranza” è un percorso sperimentale e già replicabile[9].



Bibliografia.


Baraldi C. (2015), Le basi sociali dei diritti dei bambini, contributo al Forum Jura Gentium.

Bonomi A. (2012), Il difficile sincretismo tra comunità di cura e comunità operosa, Bologna, ASMEPA Edizioni.

Flamigni R.F. e Milandri F. (2014), Bip Calamita e altre star da favola, Faenza, Homeless Book.

Ferri P. (2011), Nativi digitali, Milano, Mondadori.

Freire P. (1973), L'educazione come pratica della libertà, Milano, Mondadori.

Gray P. (2015), Lasciateli giocare, Milano, Einaudi.

Sclavi M. (2003), Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Milano, Mondadori.



[1] Cfr. Bonomi A. (2012), Il difficile sincretismo tra comunità di cura e comunità operosa, Bologna, ASMEPA Edizioni.

[2] Il diritto all’agency dei bambini può affermarsi soltanto in base ad azioni degli adulti che riconoscano il significato e l’importanza delle produzioni di conoscenza e delle scelte dei bambini, come mostra nel suo contributo a questo forum Claudio Baraldi. In inglese l’accezione più comune del termine connota frequentemente un’assenza di quella che gli studiosi sono soliti chiamare ‘agency’, poiché la definizione quotidiana di agente implica che si agisca a beneficio di qualcun altro e non di se stessi.

[3] Cfr. Sclavi M. (2003), Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Milano, Mondadori.

[4] Cfr. Freire P. (1973), L'educazione come pratica della libertà, Milano, Mondadori.

[5] Cfr. Gray P. (2015), Lasciateli giocare, Milano, Giulio Einaudi.

[6] Con l’evoluzione della tecnologia la sfida è distinguere tra uso buono e abuso dei nuovi strumenti. Giovanni Corsello (2015), Presidente della Società Italiana di Pediatria, in una recente intervista ricorda inoltre che: bisogna sempre accompagnare i bambini più piccoli nell’uso delle tecnologie. Non lasciarli da soli ma guidarli in una interazione.Resta poi importante evitare un uso continuo e troppo prolungato; meglio intervallare con altre attività.

[7] Ferri P. (2011), Nativi digitali, Milano, Mondadori.

[8] Milandri F. (2014), Abi-tanti l’immaginario, in Flamigni R.F. e Milandri F. (2014), Bip Calamita e altre star da favola, Faenza, Homeless Book.

[9] A tal proposito, cercando di operativizzare i concetti espressi, Fa(r)Volare 2015/16 – Un educatore deve mostrarti l’orizzonte che non hai mai visto è un progetto, promosso dall'Associazione “Fantariciclando. Educazione, creatività, innovazione”, che mette in dialogo la comunità operosa e i luoghi di cura propone ricerca sociale a partire dal territorio. Con i piedi piantati nella medicina sociale e nella sanità pubblica, si guarda alla salute del bambino nell’interazione micro-macro che include la produzione di sapere medico-scientifico, relazionale, narrativo, artistico.

L'obiettivo di questa idea progettuale è quello di gettare in chiave metaforica ed esperienziale le basi di una cultura materiale europea dove la metafora è protagonista dell'analisi del contemporaneo per affrontare le principali questioni del fanciullo all'interno della comunità dissolta ed evoluta. Questo conduce al secondo focus progettuale definito dall’allestimento di finestre iconografiche in Pediatria: la fantasia è un modo altro di guardare la realtà, un intreccio per dare contenuti attuali e inclusivi alla “Giornata mondiale del fanciullo” aggiungendo colori operativi a commemorazioni istituzionali, pur necessarie, ma in apparenza lontane dall’interazione con il mondo della vita.

L'ipotesi di programma si presenta con i seguenti pilastri: dieci favole (che affrontano in metafora i bisogni dei bambini), dieci tavole artistiche (rappresentazione sintetica) e una mostra itinerante opera collettiva di autori europei tra cui italiani, portoghesi, sammarinesi (rel-azione), mappe cognitive (interazioni). Nell’insieme il progetto si propone come un percorso di impulso della ricerca medica e sociale, anche con rappresentazioni poetiche, e un e-book di favole contemporanee. Un processo narrato quindi, che attraversa la logica fantastica e personaggi verosimili per attivare il desiderio di conoscenza. Si cercherà, per questa via, di dare avvio anche a un progetto europeo sulla favola contemporanea per disegnare il futuro e rappresentare come l’esperienza educativa, nelle storie, nell’infanzia, sia insostituibile tanto che, senza di essa, gli adulti non sarebbero in grado di apprendere nessun linguaggio sociale.

La questione non passerà inosservata mettendo a contatto immaginari e strumenti: pediatrici ed educativi, psicologici e narrativi. Del resto anche i bambini amano giocare con delle tracce immaginifiche per mettere alla prova la realtà. Per loro è un modo rilevante di imparare a stare in maniera adattiva nel mondo. Per noi una prospettiva di “vita speranzosa” sta nello stupore e nella fantasia di cui il piccolo è l’interprete naturale. Per accedere a questo universo utopico occorre interagire con lo “spirito dell’infanzia”. Aprendosi al piacere del gioco e del gratuito, dell’invenzione, dell’amore senza ritorno. Smascherando la “coazione a superare”, così presente nella storia del potere e intrisa di conformismo, apatia, menzogna, nonché di ricorrenza ossessiva del proprio vantaggio.