2015
Da figlio a
bambino:
il fanciullo come persona titolare di diritti
Luigi
Fadiga
(Garante per l’infanzia e l’adolescenza dell’Assemblea
legislativa dell’Emilia-Romagna)
1. La CRC e la sua ratifica
Con la legge n. 176 del 27 maggio 1991, il
Parlamento
italiano ha autorizzato il Presidente della Repubblica a ratificare la
Convenzione sui Diritti del Fanciullo (Convention on the Rights of
the Child adottata
a New York il 20 novembre 1989, di sèguito CRC). Con il deposito degli
strumenti di ratifica, avvenuto il 5 settembre 1991, la CRC ha
acquisito il valore di legge dello Stato italiano. In forza degli
obblighi internazionali così assunti dall'Italia, le sue disposizioni
che non richiedono modifiche della legge interna sono immediatamente
applicabili nel nostro Paese, e a loro volta le norme interne
incompatibili con le disposizioni della CRC sono abrogate.
2. Un problema non solo linguistico
Il testo ufficiale della CRC è redatto in due
lingue:
inglese e francese. Il nostro legislatore si è trovato subito di fronte
a un problema: come tradurre in lingua italiana il termine inglese child,o
il corrispondente francese enfant?
Con la parola “bambino”? Ma la Convenzione si applica a tutto l'arco
della minore età e dunque fino al diciottesimo anno. “Ragazzo”? Ma
sorge il problema inverso: non si può chiamare ragazzo un bimbo di un
anno, e meno che mai un neonato. “Minorenne” o “minore”? Ma quei
sostantivi provengono da un aggettivo diminutivo e hanno un evidente
sapore semantico riduttivo e limitativo. La scelta è caduta così sul
desueto termine “fanciullo”, che ricorda il libro Cuore e che a
rigore non è applicabile ai bambini piccolissimi, né ai giovani
prossimi alla maggiore età.
Questa iniziale divagazione è filologica solo in
apparenza. Essa infatti cerca di dimostrare come nella lingua, nel
diritto, nella cultura e nel costume italiani, non si disponga di un
termine che designi (per usare le parole della CRC) “ogni essere umano
avente un'età da zero a diciotto anni”. In sostanza e paradossalmente
si tratta di termini intraducibili, come intraducibile era la parola single,
che è entrata nell’uso non potendo certo essere tradotta con “zitella”,
per di più indeclinabile al maschile.
Un’altra apparente divagazione deve essere fatta,
non di
carattere linguistico ma sociologico. La sociologia dell'infanzia
(Saporiti, Sgritta, Qvortrup1)
ha messo in luce che le persone minori dei diciotto anni rappresentano
ormai l'unica fascia sociale debole priva di un sistema di
rappresentanza. I minorenni non votano, non hanno sindacati, non hanno
partiti politici, non hanno l'arma dello sciopero. Per questa fascia
sociale la nostra lingua nemmeno possiede un termine appropriato.
L'unica via che hanno i suoi appartenenti per far sentire la loro voce
è quella che passa attraverso il filtro degli adulti che per legge li
rappresentano: genitori, tutori, organismi socio-assistenziali e
simili.
La voce del fanciullo è quindi una voce
necessariamente
mediata, ma non da un interprete (che se sbaglia traduzione lo fa per
insufficiente professionalità), bensì da coloro che hanno su di lui un
potere, quanto meno di fatto.
3. Figlio o persona minorenne?
Dal punto di vista giuridico si giunge a conclusioni
analoghe. Infatti nel Libro primo del Codice civile e fino all’entrata
in vigore d.lgs. 154/2013 (vale a dire fino al 7 febbraio 2014) il
soggetto minorenne è sempre stato preso in considerazione unicamente
come figlio. Ciò significa che egli è stato ed è pensato come membro di
uno status (lo status filiationis), a prescindere dalla
sua minore età. E a questo proposito va ricordato che negli status le
persone non sono considerate nella loro individualità ma come membri di
un certo gruppo sociale (es.: lo status civitatis), cosicché è
la loro appartenenza al gruppo a determinarne diritti e doveri, e non
il loro essere persona.
Caratteristica dello status filiationis è
una
relazione intergenerazionale, che nel caso di figlio minorenne è una
relazione di subordinazione. Solo recentemente il bimillenario istituto
giuridico della patria potestas è stato messo in ombra
dall’art. 1 della legge 10 dicembre 2012 n.219 e dal d.lgs. 154/2013
sopra citato. La riforma così operata ha abolito ogni differenza tra
figli nati nel matrimonio e fuori del matrimonio (art. 316), e ha
sostituito al termine “potestà” quello di “responsabilità”. Ma
soprattutto ha introdotto nel codice civile due norme di grandissimo
rilievo, che aprono orizzonti nuovi anche all’interprete. Si tratta
dell’art. 315 bis e dell’art. 336 bis. Nel primo, accanto ai doveri del
figlio verso i genitori si parla dei suoi diritti nei loro confronti:
diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente
nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni;
diritto di crescere in famiglia e mantenere rapporti significativi con
i parenti; diritto di essere ascoltato nelle procedure che lo
riguardano. Nel secondo, e cioè nell’art. 336 bis relativo al diritto
all’ascolto2,
per la prima volta si prende in considerazione la persona minorenne in
quanto tale, anche a prescindere dal suo status di figlio.
Dunque, e contrariamente a quanto accadeva prima
della
recente riforma, il diritto all’ascolto è divenuto la via maestra che
permette alla fascia sociale delle persone di minore età ed ai suoi
singoli appartenenti di far sentire la loro voce e di esprimere in
prima persona bisogni e desideri.
4. L’ottica della CRC
Proprio quest’ultimo è l'approccio della CRC, dove
il
fanciullo è preso in considerazione in quanto persona: egli è, come si
è detto, “un essere umano avente un’età da zero a diciotto anni”, e in
quanto tale è titolare di diritti civili e sociali fin dalla nascita e
a prescindere dal suo successivo (e in certa misura eventuale) status
di figlio. Ne consegue che quei diritti valgono anche nei confronti
degli altri membri del gruppo di appartenenza e possono essere fatti
valere anche in contrasto o in conflitto con loro. Per di più, sin dai
primissimi articoli viene sancito dalla CRC il criterio della
preminenza dell’interesse del minore (art. 3) e il dovere dei genitori
di dare al fanciullo “l’orientamento e i consigli adeguati
all'esercizio dei diritti che gli sono riconosciuti dalla Convenzione”.
Viene così introdotto un dovere dei genitori che in qualche misura
tocca le loro stesse scelte educative di fondo: chi pretende di educare
il figlio come cosa propria e insindacabilmente si pone fuori dalla
Convenzione e dai suoi obblighi.
A questo proposito una giurisprudenza coraggiosa
portata
avanti dai Tribunali per i minorenni della Calabria ordina
l’allontanamento dal nucleo familiare dei ragazzi appartenenti a
famiglie della ‘ndrangheta, sul presupposto che occorre sottrarli
all’influenza dei boss mafiosi, di per se stessa lesiva del diritto
all’educazione. A prescindere dagli aspetti procedurali, certamente
complessi, la sostanziale conformità di tale giurisprudenza alla CRC
non può essere messa in dubbio.
In tutt’altro contesto e situazione ma con ottica
non
dissimile, assai di recente la Procura per i minorenni di Torino ha
chiesto al Tribunale misure civili di protezione nei confronti di
bambini collocati dai genitori fuori dalla famiglia in un convitto di
una comunità Yoga. E a questo proposito va ricordato che a norma della
legge 184/1983 e s.m., i genitori non hanno più il potere di collocare
il figlio fuori della casa familiare, e che non è consentito il
ricovero dei minori in istituto.
5. Genitori e care givers
È da notare che, nel testo dell’articolo 5 della
CRC, le
responsabilità “dei tutori o di altre persone legalmente responsabili
del fanciullo”sono equiparate alle responsabilità dei genitori. Nel
nostro diritto interno ciò non avviene. I poteri del genitore nella
qualità di legale rappresentante del figlio sono assai maggiori di
quelli del tutore, che ha bisogno dell’autorizzazione del giudice
tutelare o del tribunale per una lunga serie di atti considerati
eccedenti l’ordinaria amministrazione (cfr. artt. 374-375 cod. civ. in
rel. all’art. 320 stesso codice). Parallelamente, i controlli
sull’esercizio della potestà sono assai meno invasivi di quelli
sull’esercizio della tutela, e sono sempre controlli ex post e
mai ex ante.
Occorre cioè che la condotta del genitore abbia prodotto un grave
pregiudizio del figlio (art. 330) o sia comunque pregiudizievole al
figlio (art. 333), e dunque occorre che un danno si sia già verificato.
Manca infatti nel nostro diritto la nozione di enfant en danger
propria del diritto minorile francese, dove il pericolo di pregiudizio
è sufficiente a legittimare un intervento preventivo di protezione.
Ciò si spiega con la radicata presunzione che le
scelte
dei genitori siano sempre coincidenti con l’interesse del figlio, fatta
eccezione per quelle di carattere patrimoniale. Per queste infatti
l’art. 320 cod. civ., rubricato significativamente “Rappresentanza e
amministrazione”, prevede in modo esplicito l’ipotesi del conflitto di
interessi patrimoniali e la conseguente nomina di un curatore speciale
da parte del giudice tutelare. Manca invece nel codice civile analoga
esplicita previsione per il conflitto di interessi non patrimoniali, e
la giurisprudenza di merito ha dovuto sudare non poco per dare spazio a
questa ipotesi, che nella nostra società attuale è ben più frequente e
non meno pregiudizievole dell’altra.
Lo squilibrio è diretta conseguenza di un diritto
minorile
e di famiglia incapaci di rinnovarsi secondo un disegno organico di
largo respiro, capaci invece e soltanto di interventi settoriali
incompleti e non coordinati. Ne è un buon esempio la meccanica
sostituzione del termine “potestà genitoriale” con quello di
“responsabilità genitoriale”, operato dal d.lgs. 2013 n. 154 in
attuazione della delega di cui alla l. 2012 n. 219 senza che vi sia
stata una contestuale ridefinizione generale dei doveri e poteri dei
genitori. L’equivalenza genitori/care givers di cui vi è traccia
nella CRC è invece diretta conseguenza di un approccio tutto basato sul
diritto della persona di minore età ai diritti primari di essere curato
ed educato, e quindi di un approccio costruito su una relazione di
responsabilità e non su una relazione di potere.
6. Freni e acceleratori
Nel nostro Paese l’adeguamento della normativa
interna
diretta alla integrale applicazione della CRC è caratterizzata da
grande lentezza. Basti considerare che risale al 1975 l’ultima riforma
organica del diritto di famiglia, e che gli interventi successivi –
compresi quelli più recenti – hanno tutti un approccio parziale e di
settore. Esistono fattori frenanti che rallentano il processo evolutivo
del nostro diritto, e gli impediscono di tenere il passo con i profondi
mutamenti dei modelli familiari che sono in atto. Si tratta di fattori
di ordine culturale sociale e politico, tra i quali è oggettivamente
difficile trovare una scelta sufficientemente condivisa. E d’altra
parte esistono anche fattori di accelerazione, che si sviluppano nella
giurisprudenza e nell’attività dell’interprete.
Tra i freni si possono individuare due percorsi che
vanno
in senso contrario alla CRC o quanto meno al suo spirito: quello del
figlio come ‘dono’ e quello del figlio come ‘diritto’. Il primo non è
privo di suggestioni positive. Esso tuttavia ha dei rischi, perché
trova radici nella concezione tradizionale della potestà genitoriale e
ne rappresenta in certo modo l’ultimo stadio: da figlio come ‘proprietà
privata’ a figlio come ‘forza militare’ o ‘forza lavoro’; da figlio
come ‘erede’ e ‘continuatore della stirpe’, o come ‘aiuto per la
vecchiaia’ a figlio come ‘dono’. Nessuna di queste immagini considera
prioritaria la persona, e la stessa immagine del dono evoca
necessariamente la res, cioè la cosa che viene donata, della
quale si diventa domini a tutti gli effetti.
Il secondo percorso che si sviluppa in senso
contrario
alla CRC e ne costituisce un freno è più insidioso. Esso infatti porta
alla conseguenza che il figlio va considerato come un diritto, cosicché
il desiderio di genitorialità si trasforma in un ‘diritto alla
genitorialità’. Si tratta di un radicale capovolgimento di prospettiva,
che trova causa nella nozione di salute così come intesa e proposta
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, vale a dire una condizione
di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non soltanto assenza
di malattia o di infermità.
In una definizione così vasta, che per certi versi evoca quella del
diritto alla felicità della Costituzione degli Stati Uniti d’America,
trova largo spazio il concetto di fertilità/infertilità e di ogni
possibile rimedio. Gli enormi progressi della biologia e della
riproduzione assistita rinforzano questa nuova concezione del figlio
come diritto, che reifica il fanciullo ancor di più della concezione
del figlio come dono. Essa meriterebbe riflessioni ben maggiori di
quante se ne facciano. Ma una prima riflessione è agevole: in questo
quadro, la nozione di fanciullo così come intesa dalla CRC acquista
un’importanza ancora maggiore: non basta più parlare di diritti del
figlio, occorre parlare di diritti del fanciullo.
7. Qualcosa si muove
Sarebbe sbagliato tacere dei segnali di attenzione
che
provengono dalla giurisprudenza a questo proposito. Il primo e il più
lontano va individuato nella notissima sentenza 2002/1 della Corte
costituzionale, che ha riconosciuto al minorenne la qualità di parte in
senso sostanziale nei procedimenti civili che lo riguardano. Si tratta
di una decisione che ha indicato al legislatore il percorso mancante, e
che ha aperto all’interprete larghi spazi non ancora del tutto
utilizzati. Il più recente segnale può invece essere indicato nella
giurisprudenziale di legittimità e di merito concernente il cosiddetto
“danno endo-familiare”.
La nozione di danno endo-familiare, e cioè della
responsabilità aquiliana nei rapporti familiari, è oggetto di una
profonda rielaborazione diretta alla tutela dei diritti fondamentali
della persona. La Corte di Cassazione con la sentenza 2013/26205 e da
ultimo con la sentenza 3070/2015 ha confermato la condanna di un padre
al risarcimento del danno con decorrenza dalla nascita a favore dei
figli che non aveva voluto riconoscere come suoi, rifiutando la
responsabilità di dare loro assistenza morale e materiale. I giudici di
legittimità hanno precisato che la privazione degli elementi fondanti
dei doveri di solidarietà del rapporto di filiazione costituisce una
grave violazione dell'obbligo costituzionale sancito dall’art. 30 della
Costituzione “nel senso rafforzato dall'integrazione con la fonte
costituzionale costituita dal diritto dell'Unione europea e dalla
Convenzione di New York del 20.11.89 ratificata con L. 176 del 1991 sui
diritti del fanciullo”. Pertanto, la violazione dei doveri di
mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole
(nella specie il disinteresse mostrato dal padre nei confronti del
figlio per lunghi anni) non trova sanzione solo nelle misure tipiche
previste dal diritto di famiglia, ma può integrare gli estremi
dell'illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti
costituzionalmente protetti. E questo perché “il diritto del figlio
naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato, nei confronti di
entrambi i genitori, è sorto fin dalla sua nascita”: preesiste dunque
allo status di figlio e ha riguardo soltanto al suo essere
persona titolare di diritti.
8. Diritti ma anche doveri
Tra i freni che in qualche modo si frappongono a una
piena
e convinta attuazione nel nostro Paese della CRC e dei suoi principi
sui diritti del fanciullo va messa l’obiezione di quanti non riescono a
condividere un approccio alle nuove generazioni basato sui diritti e
non anche sui doveri, e vedono specialmente nei diritti di libertà di
pensiero, di coscienza e di religione un attentato alle responsabilità
educative dei genitori.
Circa quest’ultimo aspetto, se è vero che la CRC
delinea
un tipo di “fanciullo” che non ci è familiare, occorre però
sottolineare che l’art. 14 della stessa CRC riafferma il diritto-dovere
dei genitori di guidare il fanciullo nell’esercizio di quei diritti in
maniera che corrisponda allo sviluppo delle sue capacità; che per
l’art. 29 l’educazione del fanciullo deve avere tra l’altro come
finalità quella di sviluppare in lui il rispetto dei diritti dell’uomo
e il rispetto dei genitori e altresì quella di prepararlo ad assumere
le responsabilità della vita. Dunque, come già rilevava un maestro del
diritto minorile, Carlo Alfredo Moro, la CRC non è soltanto un codice
di norme giuridiche, bensì un vero programma pedagogico di educazione
alla libertà e alla responsabilità basata sul rispetto: e in
quest’ottica riesce molto difficile non condividerla.
Si aggiunga che nel contesto italiano, per una serie
di
tradizioni e ragioni culturali cui si sono ora aggiunte ragioni
economiche, l’uscita dei figli dalla famiglia avviene con fortissimo
ritardo rispetto agli altri paesi europei. Secondo i dati del
censimento del 1991 il 91% dei giovani maschi di 20-24 anni e il 75%
delle giovani donne della stessa fascia di età si trovava ancora nella
casa dei genitori. Appena il 3% dei maschi e il 2% delle donne vivevano
soli. Negli ultimi censimenti (2001 e 2011) il fenomeno risulta in
espansione. Cifre di questa chiarezza mostrano che nelle giovani
generazioni di italiani è presente una forte resistenza all’assunzione
di responsabilità proprie della vita adulta, e una conseguente spinta
al rinvio di quel momento. Ovvio che la crisi economica abbia favorito
il fenomeno, che tuttavia ha radici più profonde e strutturali.
Circa l’obiezione che la CRC concede diritti ma si
dimentica dei doveri, la risposta è più facile. Basta infatti notare (e
far notare) che se io ho diritto al gioco e al riposo, anche l’altro ha
uguale diritto; se io ho diritto a non essere oggetto di derisione o di
atti di bullismo, anche il mio compagno di banco ha lo stesso diritto;
che se io ho diritto a non essere discriminato per motivi di razza, di
colore, di sesso, di lingua, di religione o di qualsiasi altra mia
diversità, uguale diritto hanno tutti i miei compagni di scuola e
ciascuno di essi.
Per concludere su questo punto, un’educazione alla
libertà
comporta necessariamente consapevolezza di responsabilità e di
reciprocità: cosicché, insieme ai diritti del fanciullo, essa ne
riafferma e ne rafforza tutti i doveri.
9. Ruolo dei garanti
Non molti anni addietro, nel 2006, in tutto il
nostro
Paese erano appena tre i Garanti regionali per l’infanzia e
l’adolescenza: quelli del Veneto, del Friuli Venezia Giulia, e delle
Marche. Da allora sono più che quintuplicati, e ormai solamente la
Sicilia, la Sardegna e il Piemonte con la Valle d’Aosta ne sono privi.
Un simile sviluppo deve fare riflettere sulle sue ragioni e sulle sue
prospettive.
Quanto alle prime, alcune sembrano da sottolineare.
In
primo luogo, si è verificato nel Paese un progressivo aumento di
conoscenza e di consapevolezza dei nuovi diritti del fanciullo sanciti
dalla Convenzione delle Nazioni Unite e dell’esigenza di dar loro
concreta attuazione sul territorio regionale. Un forte stimolo in
questa direzione è stato dato dalla legge 28 marzo 2001 n. 149,
“Diritto del minore ad una famiglia”, che ha riaffermato tra l’altro il
dovere delle Regioni di sostenere i nuclei familiari a rischio al fine
di prevenire l’abbandono; di promuovere iniziative di formazione
dell’opinione pubblica sull’affidamento e l’adozione; di organizzare
corsi di aggiornamento professionale degli operatori sociali (art. 1,
co. 3). Anche la legge 8 novembre 2000 n. 328, “Legge quadro per la
realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”,
ha contribuito nel senso predetto. In Emilia-Romagna va ricordata la
l.r. 12 marzo 2003 n. 2, “Norme per la promozione della cittadinanza
sociale e per la realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali”.
Quanto alle seconde, e più in generale, alcuni
fattori
hanno fatto emergere l’esigenza di specifiche figure di garanzia per
l’infanzia e l’adolescenza. Tra questi il rapido mutamento dei modelli
familiari; il progressivo sganciamento del rapporto genitore-figlio
dall'appartenenza genetica; la presa di coscienza che il bambino è
persona titolare di diritti prima ancora di essere figlio; che può
esservi conflitto di interessi anche non patrimoniali tra diritti del
figlio e genitore legale rappresentante; che la rigida presunzione di
coincidenza tra volontà del genitore e diritti del figlio si è fatta
sempre più debole.
Infine, la necessità di mantenere una stretta
interazione
tra protezione socio-assistenziale, protezione giudiziaria e territorio
ha accelerato il processo. Quell’interazione infatti, già assicurata
dai poteri ufficiosi attribuiti fin dal 1983 al tribunale per i
minorenni, era stata fortemente compromessa dalla legge 149/2001 con
l’attribuzione al solo pubblico ministero minorile dei poteri di
iniziativa in materia di stato di abbandono.
È recente la nomina del garante infanzia della
Regione
Lombardia, cosicché si può ritenere ormai prossimo il completamento
della rete dei garanti regionali. Ciò costituisce un segnale preciso
della rilevanza acquisita da queste figure e delle prospettive di
sviluppo che esse possono avere nell'ambito del sistema pubblico di
protezione dell'infanzia e dell'adolescenza. La legge 12 luglio 2011 n.
112, istitutiva dell’Autorità garante nazionale per l’infanzia e
l’adolescenza, ha previsto una Conferenza nazionale composta da tutti i
Garanti regionali o da altre figure analoghe. Ad essa spetta il compito
di promuovere linee comuni di azione in materia di tutela dei diritti
dell’infanzia e dell’adolescenza e di individuare forme di costante
scambio di dati e di informazioni sulla condizione delle persone di
minore età a livello nazionale e regionale.
10. Possibili prospettive
La domanda che ci si deve porre a questo punto
sembra
essere la seguente: potrebbe l’accelerazione dei cambiamenti nei
modelli familiari e nel comportamento delle giovani generazioni
favorire la presa di coscienza che le persone minori di età sono
titolari di diritti prima ancora di diventare giuridicamente figli?
La risposta non è semplice. Il processo sociale e
culturale sintetizzato nel titolo di quese note (“Da figlio a bambino”)
non pare arrestabile, ma lasciato a se stesso non è esente da rischi
anche gravi di far retrocedere anziché avanzare i diritti delle persone
di minore età, e specialmente di quelle della prima e primissima
infanzia. La scienza offre ormai la possibilità di costruirsi un figlio
su misura, scegliendone a priori le caratteristiche
psicosomatiche e anche genetiche, attraverso la selezione dei donatori
di gameti. È una possibilità assai vicina a inquietanti nuove forme di
selezione della “razza”.
Tutto ciò comporta l'esigenza di studiare e
sperimentare,
per le persone minori dei diciotto anni e per i loro diritti, forme di
protezione più appropriate e più adeguate ai tempi. Un ruolo importante
portebbe essere svolto in questo dalle nuove figure di garanzia. Il
legislatore potrebbe riconoscere ai Garanti regionali per l'infanzia e
l'adolescenza il ruolo e le funzioni di tutori pubblici dei minorenni,
con facoltà del giudice di deferire a loro la tutela. Nella Regione
Veneto sono state fatte esperienze a tale riguardo. Altro campo di
sviluppo è quello della curatela. Anche là dove il genitore conserva la
rappresentanza legale del figlio, si possono verificare conflitti di
interesse tali da giustificare la nomina di un curatore, e la necessità
di una sua costituzione in giudizio. L’ufficio del Garante regionale
potrebbe svolgere questo compito.
Un ulteriore possibile scenario, che tuttavia
presuppone
modifiche a livello di normativa statale, è la legittimazione dei
garanti regionali ad intervenire nei procedimenti penali dove il minore
è vittima. A questo proposito si ricorda che già l'art. 3 della legge
regionale 2005 nr. 9 dell’Emilia-Romagna prevede la facoltà del Garante
dell'infanzia e dell'adolescenza di intervenire nei procedimenti
amministrativi ove sussistano fattori di rischio o di danno per bambini
o ragazzi, di prendere visione degli atti e di presentare memorie
scritte e documenti. Ma più ancora si ricorda che gli artt. 91 e segg.
Cod. proc. pen. conferiscono agli enti che hanno finalità di tutela
degli interessi lesi dal reato il potere di esercitare, in ogni stato e
grado del procedimento, i diritti e le facoltà attribuiti alla persona
offesa dal reato. Non parrebbe fuori luogo dunque una norma di legge
dello Stato che riconoscesse ai garanti regionali, nella loro qualità
di enti pubblici di garanzia, poteri analoghi.
Le prospettive di sviluppo delle figure di garanzia
per
l’infanzia e l’adolescenza sopra indicate non sono certo esaustive.
Disegnare un sistema che favorisca uno sviluppo corretto dei diritti
delle persone di minore età richiede un approccio di ampio respiro,
impossibile in questa sede. Tuttavia, va sottolineato che quelle
prospettive, come ogni altra proposta in questo campo, sono
condizionate dai risultati raggiunti in questa prima fase di
operatività dai garanti regionali, dagli ostacoli che hanno incontrato,
e dal tipo di sviluppo che potranno avere nei prossimi anni quelle
figure specializzate. La partita rimane aperta: ma sarebbe un peccato
perdere questa occasione senza averla adeguatamente coltivata e
sperimentata.
1
Si vedano: A. Saporiti, G.B. Sgritta, La staffetta – una ricerca
sui rapporti generazionali, Roma, ed. Lavoro, 1997; G.B. Sgritta, La
condizione dell’infanzia. Teorie, politiche, rappresentazioni sociali,
Milano, FrancoAngeli, 1988; J. Qvortrup, Social Studies of
Childhood Developments since the 1980s,
relazione tenuta a Firenze, Istituto degli Innocenti, il 24 novembre
2009 in occasione del Seminario in memoria di Angelo Saporiti sul tema
“I diritti di bambini e ragazzi a vent’anni dalla Convenzione Onu”.
2
Si veda al riguardo il contributo di Francesca Baraghini in questo Forum.