2009

Commenti a La forza dell'esempio. Il paradigma del giudizio

Chiara Bottici (*)

Esistono due tipi di filosofi. Da una parte, ci sono i sistematizzatori, coloro che riprendono le idee altrui, le valutano, le rimuginano, le propagano e le divulgano. Tutto ciò può essere fatto più o meno bene (esistono anche grandi sistematizzatori che sono passati poi alla storia), ma nella maggior parte dei casi si tratta di un'attività del pensiero che, per quanto utile a riempire le cattedre universitarie, è destinata a non resistere alla critica del tempo. Dall'altra, stanno invece quelli che qualcosa da dire la hanno loro stessi. A volte, proprio perchè portatori di istanze nuove, hanno più difficoltà ad affermarsi. Oltre ad una buona dose di fortuna e di creatività filosofica, non guasta in questo caso una certa tenacia, la capacità di portare avanti le proprie idee nonostante le mode ed i colpi più o meno favorevoli della sorte.

Alessandro Ferrara appartiene senz'altro a questa seconda categoria. Da anni si è impegnato nella promozione di un progetto filosofico che, per quanto non privo di precedenti anche illustri, rimane però originale proprio per la torsione conferita ed il contesto filosofico in cui si inserisce: il paradigma del giudizio. Dopo aver mostrato la fruttuosità di questo paradigma per un recupero in chiave riflessiva del concetto di autenticità (nel fortunato Autenticità riflessiva, Feltrinelli, 1999) e per uscire dalle secche di un'arida contrapposizione tra universalismo e particolarismo nell'affrontare il tema della giustizia (in Giustizia e giudizio, Laterza, 2000) Ferrara approda adesso al punto forse più alto della sua riflessione. Più alto, appunto, perchè in grado di ricomprendere e gettare nuova luce sul suo percorso precedente: dall'esempio alla giustizia e l'autenticità.

L'originalità dell'approccio sta già tutta nel titolo: quanti libri di filosofia politica parlano oggi della forza dell'esempio? Bisogna forse andare alla ricerca nei libri di estetica per trovare cenni in questa direzione. E gettare un ponte tra estetica e filosofia politica è forse uno dei meriti (ma, per chi ama i settori disciplinari a compartimenti stagni, demeriti) del libro. Riprendendo il tema kantiano del sensus communis, Ferrara ne fa il perno concettuale per ripensare il valore filosofico dell'esempio. Quest'ultimo è ciò che si presenta già come deve essere (p. 18). E l'esistenza del sensus communis è ciò che ne garantisce la specifica valenza normativa al di là del contesto di origine. Come un'opera d'arte riuscita media tra l'universale ed il particolare proprio perchè si presenta già nella sua particolarità come universale, così l'esempio è un particolare da cui può scaturire l'universale.

A scanso di equivoci, si dica subito però che non si tratta di un sensus naturalisticamente reinterpretato: non esiste un senso comune che naturalisticamente unifichi l'intera umanità. Né d'altra parte si può procedere verso un ispessimento fenomenologico ed ermeneutico di questa nozione: la riabilitazione gadameriana del Vorurteil, ad esempio, lascia ogni interpretazione prigioniera del suo contesto di origine e va quindi accantonata (p. 44). Sviluppando intuizioni che sono già presenti in Kant, almeno in quello che resiste alle tentazioni naturalistiche, Ferrara propone una terza via: "il sensus communis rivisitato è allora questo sapere intorno alla riuscitezza di un'identità e che utilizza un lessico situato in qualche modo "prima" o "sotto" il livello della differenziazione delle culture" (p. 52).

Un esempio, come l'opera d'arte riuscita, contiene un'istanza di universalità perchè in grado di suscitare in noi un sensus del tutto particolare, quello appunto dell'affermazione e promozione della vita ovvero di un'identità autentica o realizzata. Ecco la proposta filosofica. Può piacere o meno, ma la sua rilevanza mi pare indubbia. Non sono un'antropologa di professione, ma l'idea che le diverse culture, pur nella loro varietà e mutevolezza, possano trovarsi a convergere nel riconoscere in cosa consista una vita realizzata o frustrata mi pare sia da prendere seriamente in considerazione. Tanto più oggi, in un contesto (filosofico ma anche politico) in cui si rischia altrimenti di rimanere prigionieri dell'arida contrapposizione tra universalismo e particolarismo.

In questo sta la forza del libro: portare avanti una proposta filosofica ambiziosa (niente meno che la promessa di uscire dalle secche dell'impasse post-svolta linguistica!) e disegnare un percorso filosofico coerente per farlo. Qualcuno la troverà esemplare, altri potranno essere più scettici, ma la proposta c'è. E non è poco.

Come pure nelle opere esemplari, anche in questa rimangono però a mio avviso alcune zone grigie. La prima potrebbe addirittura essere l'anello che non tiene, quello che minaccia di caduta l'intero edificio se non opportunamente puntellato: la giustificazione dell'estetica kantiana come punto di partenza per la nozione di sensus communis. Vorrei a questo proposito sollevare almeno un dubbio. Forse Kant poteva (ancora) dire che l'opera d'arte ben riuscita può esercitare una richiesta di consenso universale perchè le opere d'arte che la sua epoca e quelle precedenti avevano ritenuto tali erano oggetti come la Venere di Milo o la Gioconda di Leonardo. E' ancora valida quell'affermazione nell'epoca post-orinatoio di Duchamp? Possiamo, con la stessa presunzione, portare chiunque davanti alle scatole di pomodoro di Andy Warhol e chiedere un consenso universale? E' difficile trovare qualcuno che di fronte alla Nike di Samotracia o il David di Michelangelo non avverta un sensus di promozione della vita. Ma cosa risponde il non iniziato quando viene messo di fronte ad un orinatoio o del pomodoro in scatola? Forse anche lì si potrà avvertire la stessa cosa, ma in questo caso il passaggio da Kant a noi va giustificato. Forse no, ed in questo caso bisogna ripensare una parte del percorso.

Un'ulteriore direzione da prendere in considerazione riguarda il ruolo dell'immaginazione. Nei primi due capitoli del libro, quelli in cui si delineano le basi del paradigma dell'esempio, l'immaginazione sembra giocar un ruolo centrale. Recuperando Kant ma anche la Arendt delle Lezioni sulla filosofia politica di Kant, Ferrara sostiene che l'immaginazione è ciò che, entrando in contatto con un oggetto, trasforma il contatto sensoriale con il molteplice in rappresentazione (p. 47). In altre parole, è ciò consente di riunire insieme, sotto le differenti modalità del giudizio determinante e riflessivo, elementi particolari e nozioni generali (p. 71). L'immaginazione sembra quindi (e non sorprendentemente) giocare un ruolo assolutamente centrale di sintesi dell'esperienza. Gli esempi ben riusciti, si potrebbe dire, sono quelli che stimolano la nostra immaginazione prima ancora che la nostra ragione. Mentre ciò sembra emergere chiaramente all'inizio (sopratutto nei primi due capitoli), nel prosieguo del libro, laddove il paradigma del giudizio viene esemplarmente applicato alle diverse tematiche (male radicale, repubblicanesimo politico, giustificazione ed applicazione dei diritti umani, integrazione europea e ruolo pubblico della religione), questa centralità dell'immaginazione si perde. Si assiste ad una sorta di sua progressiva eclissi: brevemente menzionata nel capitoli 4, 5 e 6, si perde del tutto nel capitolo 7 sull'applicazione dei diritti umani, nell'8 sull'integrazione europea e nel 9 sul nuovo ruolo della religione nella sfera pubblica. Il lettore è qui lasciato con un'esemplarità per così dire tutta razionale, in cui l'immaginazione è scomparsa. Non a caso, nel riferimento alla nozione hegeliana di normatività situata (capitolo 6), in cui il reale stesso tende già a farsi razionale, sembra esserci poco spazio, ma anche poco bisogno di immaginazione. Chi avesse creduto, con i primi capitoli del libro, che immaginazione e ragione giocano su un piede di parità, rimarrebbe deluso. Compaiono in coppia sì, ma solo all'inizio: in ultima istanza è la ragione che, ancora una volta, la fa da padrona.


*. Dipartimento di Filosofia, Università di Firenze.