2005

S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Roma 2002, pp. 164, ISBN 88-8353-085-3

Slavoj Žižek è un autore che spicca per la capacità di utilizzare e intrecciare con ritmo frenetico e incalzante filoni disciplinari e approcci analitici di natura estremamente composita: dalla filosofia alla politica, dalla critica cinematografica alla psicoanalisi, fino alla cultura popolare. Dopo la pubblicazione de Il godimento come fattore politico (Raffaello Cortina, Milano 2001), Benvenuti nel deserto del reale è l'ultima fatica del filosofo sloveno tradotta in italiano: si tratta dell'ampliamento di un saggio uscito in Germania sull'11 settembre. Argomento tutt'altro che privo di una copiosa letteratura, si dirà: eppure, lo stile volutamente provocatorio, rende il testo una lettura mai banale e scontata, benché a tratti contorta e in alcuni punti discutibile. Rovesciando nei fatti la visione gramsciana, Žižek afferma la necessità di una sorta di "intellettuale in-organico", sempre pronto ad evidenziare le mistificazioni ideologiche di tutti i poteri costituiti e istituzionalizzati, in un costante sforzo di decostruzione analitica delle fenomenologie per ricombinarle in nuovi paradigmi interpretativi che sfuggano agli aut-aut che sempre più spesso ci vengono imposti ("o con noi o con il terrorismo" è solo il più recente).

Benvenuti nel deserto del reale è la frase pronunciata da Morpheus, il noto personaggio di Matrix che guida la resistenza in una Chicago post-guerra globale, in cui la realtà materiale è virtuale, prodotta da un mega-computer al quale sono tutti connessi. Il libro prende infatti le mosse da un parallelismo tra lo scenario dipinto dai fratelli Wachowski, registi del film, e la New York del dopo 11 settembre. L'attacco al World Trade Center, secondo l'autore, è la concretizzazione delle fantasie hollywoodiane, l'ingresso nella realtà di quell'apparizione fantasmatica che il tubo catodico da decenni ci trasmette attraverso i film di fantascienza e gli orrori di zone del globo credute "remote". Non è più l'industria cinematografica che guarda all'industria bellica, ma viceversa: non solo Steven Spielberg rifà ET eliminando la parola "terroristi" e sostituendo alle pistole dei poliziotti più rassicuranti torce elettriche, ma un gruppo di registi e sceneggiatori su mandato del Pentagono disegna macchine da guerra e fantastrategie filmiche che risultano più reali del reale. Su questa base, Žižek si oppone al compito del "ritorno al reale" attribuito dal senso comune alla psicoanalisi, per seguire invece la lezione di Jacques Lacan: è necessario "attraversare la fantasia", identificarsi con essa, soprattutto con quella fantasia che forma l'eccesso che resiste all'immersione nella realtà che quotidianamente viviamo.

Distante dai comodi profeti del giorno dopo, subito pronti alla formuletta di rito del "niente sarà più come prima", per l'autore l'11 settembre non è stato il grande evento che apre il XXI secolo, ma lo spettacolare canto del cigno del XX. Il futuro scenario avrà inizio quando al fuoco e al metallo delle torri gemelle sventrate, subentrerà una guerra in cui l'attacco è invisibile, spogliata delle ultime vestigia di tangibile materialità. Seguendo questo filo di ragionamento, è con l'attacco all'Afganistan e la diffusione del panico da antrace in Occidente che possiamo ricavare le prime indicazioni sul nuovo millennio: "Una superpotenza che combatte un misero paese deserto e che allo stesso tempo è ostaggio di batteri invisibili: questa, e non le esplosioni del WTC, è la prima immagine della guerra del XXI secolo" (p. 44). Una guerra invisibile che ancor più che in passato lascia la maggioranza delle persone in balia delle possibilità manipolatorie dei media, perché è attraverso lo schermo e le connessioni virtuali che la guerra esiste e prende forma. In questo nuovo contesto, viene meno ogni netta differenza tra guerra e aiuti umanitari: lo stesso aereo può alternativamente sganciare bombe o pacchi di cibo, far sbarcare soldati o volontari della Croce Rossa, imporre potenza militare o consenso ideologico. Qui l'analisi è in debito con la preveggenza di Carl Schmitt, che già alcuni decenni orsono ammoniva che la guerra più terribile può essere combattuta solo in nome della pace, l'oppressione più terrificante solo in nome della libertà e la disumanità più abietta solo in nome dell'umanità.

Respingendo l'ormai nota tesi patrocinata da Huntington dello scontro di civiltà, Žižek non si limita ad un generico appello alla tolleranza, ma parla invece di scontri all'interno di ogni civiltà, tutti riconducibili ai nuovi assetti del capitalismo globale. Nell'argomentazione dell'autore emerge un'omologia tra gli Stati Uniti nella veste di poliziotto globale e le azioni di Al Qaeda: la scelta tra Bush e Bin Laden, dunque, si rivela una falsa scelta, perché non si tratta di due parti tra loro radicalmente alternative, bensì di due varianti entrambe schierate sullo stesso versante, quello del capitalismo globale. Secondo Žižek, infatti, i fondamentalisti islamici non sono veri fondamentalisti, rappresentano invece una versione modernizzatrice del mondo arabo: l'attacco dell'11 settembre ne è uno straordinario esempio, con la sua eclatante capacità di utilizzare le più avanzate tecnologie occidentali, nonché la potenza di amplificazione, di produzione simbolica e formativa dei media globali. La lotta al terrorismo, quindi, è secondo l'autore una lotta interna al mondo capitalista, tra una superpotenza e il suo (in termini lacaniani) eccesso osceno.

E' sui reconditi meccanismi di produzione del consenso che insiste l'analisi di Žižek. Questi è un implacabile critico dell'"ideologia egemonica del multiculturalismo democratico", intesa come quell'apologia delle differenze tra uguali o comunque integrabili, che alla fine si rivela la più feroce arma per escludere la reale alterità e per bandire ogni possibilità di quello che viene chiamato "antagonismo verticale", ossia una potenziale sintesi conflittuale che metta radicalmente in discussione l'ordine dominante. Sulla scorta di Alain Badiou, inoltre, l'autore critica Deleuze, teorizzatore della proliferazione di differenze non totalizzabili, la cui esaltazione maschererebbe la soggiacente monotonia della vita globale e giustificherebbe la mancanza di radicali alternative al sistema esistente. In più parti del testo l'autore si produce anche in un interessante "corpo a corpo" con Habermas, il più noto tra gli ultimi esponenti di quella che fu la Scuola di Francoforte: ne viene criticato l'"ottimismo" illuministico, quell'appellarsi alla Ragione che finisce spesso per sfociare nell'apologia conservatrice dello status quo liberal-democratico.

Uno dei bersagli preferiti da Žižek è conseguentemente rappresentato da quel pensiero postmoderno che, in nome della fine delle grandi narrazioni e dell'avvento di un'epoca liberata dal peso delle ideologie, auspica un ritorno all'individuo e alla propria intimità quotidiana. Queste argomentazioni, obietta il filosofo sloveno, finiscono paradossalmente per trasformare la stessa privacy in una dimensione completamente alienata e mercificata. "Ritirarsi nella sfera privata significa adottare parole d'ordine sull'autenticità privata che vengono messe in circolazione dalla recente industria culturale [...] Il risultato finale della soggettivazione globale non è la sparizione della 'realtà oggettiva', ma la sparizione della nostra stessa soggettività, trasformata in uno stucchevole capriccio mentre la realtà sociale continua il suo percorso" (p. 91). L'unica possibilità di rottura e inversione di un processo di mercificazione rispetto a cui (almeno in Occidente) non sembra più esserci un fuori, si danno a detta dell'autore nell'invenzione di una nuova collettività.

La mancanza di vita dell'uomo contemporaneo, la noiosa monotonia da cui è attanagliato, è riconducibile alla ricerca della sicurezza come valore in sé, alla paura verso qualsiasi cosa che possa provocare squilibrio. Invece, quel che rende la vita degna di essere vissuta è per l'autore proprio l'eccesso di vita, la consapevolezza che esiste qualcosa per cui si è pronti a rischiare la propria esistenza. Dunque, solo quando si è disposti a correre il rischio dello squilibrio si è veramente vivi. L'odierno homo sacer di cui parla Agamben è, secondo Žižek, colui che è privato della sua umanità e della sua vita attraverso lo stesso paternalismo della sicurezza e dell'equilibrio con cui ci si prende cura di lui, destinatario della biopolitica sistemica. Qui come altrove, l'autore si cimenta nel difficile quanto interessante tentativo di tenere insieme Lacan e Lenin.

Ritornando al testo, un'altra forma di mistificazione funzionale al capitalismo globale è rappresentata dai conflitti etno-religiosi pensati ormai come naturali: per Žižek essi non fanno altro che trasfigurare i reali antagonismi, come è evidente nella tensione arabo-israeliana. Qualche dubbio, tuttavia, suscita la proposta del "socialismo islamico" come hegeliana soluzione del problema: strada che in questi termini è già stata tentata, come lo stesso Žižek sottolinea, e che non ha per nulla sedimentato reali forme di liberazione. Analogamente, alcune critiche sono state mosse al testo per la semplificante lettura della guerra nei territori della ex Jugoslavia: un'analisi che, soprattutto nella troppo veloce individuazione dei non responsabili e delle vittime, non sempre è in sintonia con i complessi quadri che l'autore sloveno si dimostra capace di costruire.

In ogni caso, dal punto di vista metodologico è importante l'indicazione fornita da Žižek: muovendosi nell'ambivalenza dei processi, bisogna essere in grado di sfuggire alle false scelte imposte dall'alto, tanto alle ipotesi reazionarie quanto al compatibile politically correct progressista, per individuare una via di fuga, una terza possibilità che metta radicalmente in discussione le altre due. Un argutissimo esempio di ciò Žižek ce lo fornisce quando, ne Il godimento come fattore politico, critica lo sviluppismo di Marx, che finisce per identificare il capitalismo con l'accelerazione della dinamica produttiva, con il superamento dei limiti che il sistema pone a se stesso: il comunismo, dunque, come completamento delle promesse della rivoluzione capitalistica laddove esse non possono essere mantenute. Ma, chiede l'autore sloveno, l'oggetto del desiderio (l'espansione incontrastata della produttività) rimarrebbe tale anche qualora venisse privato della causa che lo produce (il plusvalore)? E' questo il livello di radicalità con cui ci dobbiamo confrontare.

Insomma, anche laddove il testo pecca di semplicismo o tende a diventare labirintico, rimane uno stimolo e un pungolo importante per un pensiero che voglia essere realmente critico, rifiutando di andare al traino delle categorie imposte dallo status quo, e al contempo evitando le ipostasi e i cortocircuiti in cui tanto pensiero alternativo spesso finisce. Nell'ostinato e mai banale sforzo di mettere in discussione ciò che è accettato, di strappare i veli della mistificazione e dell'ipocrisia, Žižek ci costringe - anche quando non convince del tutto - ad interrogarci continuamente, a non adagiarci mai su certezze che, spesso date per acquisite, nascondono invece il segno profondo di retaggi culturali e identitari da cui ci credevamo liberi.

Gigi Roggero