2005

A. De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, DeriveApprodi, Roma 2000, ISBN 88-87423-26-1 (*)

È convinzione diffusa che, nella nostra epoca, molte delle categorie, delle pratiche, delle istituzioni caratteristiche della modernità siano entrate irreversibilmente in crisi. Eppure non tutto ciò che si è sviluppato nell'età precedente ha esaurito le sue funzioni. Più spesso queste pratiche e queste istituzioni si trasformano per adattarsi alla nuova realtà. Sembra corretto, quindi, partire dall'idea del 'mutamento' per cogliere il significato ed il peso delle trasformazioni sociali in atto.

Questo è particolarmente evidente nel caso dei meccanismi del controllo sociale. Alessandro De Giorgi, con grande chiarezza, illustra nel suo libro alcuni di questi passaggi. La definizione stessa che suggerisce l'autore invita a prestare particolare attenzione alla trasformazione, alla dislocazione delle pratiche del controllo sociale. Questo - scrive infatti De Giorgi - «è il processo (storico) di costruzione del rapporto tra potere e devianza: potere di definire le norme ed etichettare chi da esse devia, potere di indurre conformità e reprimere difformità, potere di tracciare la differenza tra normale e patologico, potere di correggere punendo e di punire correggendo» (p. 15-6). Ed è la stessa struttura del libro a ricordare che abbiamo a che fare con processi storici di cui è essenziale cogliere la tendenza e gli «orientamenti».

L'analisi di De Giorgi attraversa idealmente la seconda metà di questo secolo. Fino alla metà degli anni Settanta il paradigma elaborato dalla ricerca sociologica e criminologica era di tipo essenzialmente «disciplinare». Era diffusa, cioè, la convinzione di poter intervenire positivamente sulle cause della devianza. Alla base di questa convinzione l'idea della «trasformabilità», della possibilità di prevenire o di trattare in modo 'terapeutico' le situazioni in cui si riteneva potessero avere origine i fenomeni della devianza. La pena, in questo contesto, era pensata come un meccanismo essenzialmente «correzionale», con una funzione di utilità sociale. Parallelamente, in questi anni, si rinforzava la tendenza a pensare come positivo il fenomeno della «socializzazione» della pena, cioè della moltiplicazione dei luoghi e delle forme della pena, per sottrarre al carcere la sua tradizionale centralità.

Gli effetti di questa concezione, all'inizio degli anni Settanta, sono la diminuzione della popolazione carceraria da un lato, e l'«allargamento delle reti di controllo» all'interno della società dall'altro. Questo fenomeno riguarda anche l'Italia, ma soprattutto l'America, a cui De Giorgi presta grande attenzione. Si potrebbe dire che le funzioni del controllo, fuoriuscendo dal carcere, si disperdono in molteplici rivoli all'interno della società, investendo più o meno direttamente un numero sempre più grande di persone. L'idea della «trasformazione» degli individui persegue la realizzazione dell'utopia disciplinare implicita nel nucleo teorico di questo paradigma: rimuovere gli effetti della devianza cercando di intaccarne le cause presunte. Tuttavia, prosegue l'autore, il paradigma si rivela utopico proprio sul terreno dell'esperienza. Semplicemente, le previsioni normative di questo modello disciplinare non rispecchiano i mutamenti della realtà sociale.

De Giorgi utilizza con estrema efficacia le analisi di Michel Foucault, in modo tuttavia originale e cercando di arricchire la ricostruzione del filosofo francese. Il potere disciplinare che si dispiega in questo periodo è composto da una serie di pratiche di esercizio alla normalità morale, all'obbedienza, all'educazione. Se in una prima fase, in età classica, il carcere aveva una centralità assoluta per la produzione disciplinare, nella seconda metà del nostro secolo crescono per importanza altre strutture del trattamento. Il progetto rimane tuttavia il medesimo, la «produzione di soggetti utili a mezzo di pene utili».

È nella prima metà degli anni Settanta, tuttavia, che comincia a venir meno l'ottimismo teorico sulla risocializzazione e sulla rimozione delle cause della devianza. Si ha in quel periodo un mutamento significativo nel modello dominante di trattamento della devianza. La delusione verso il trattamento 'utile' e la correzione delle cause lascia il posto ad uno scetticismo nei confronti delle reali possibilità di ridurre il rischio della devianza. De Giorgi sottolinea come questo spostamento si accompagna ad una contrazione della spesa pubblica in questo campo e, più in generale, ad un progressivo restringimento del Welfare state e delle politiche economiche di impostazione keynesiana prevalenti fino a quel momento. Sul piano teorico questo spostamento coincide con la sostituzione dell'obiettivo della prevenzione e della correzione con l'obiettivo delle deterrenza e dell'intimidazione. Sul piano pratico, da un trattamento personalizzato, disegnato sul singolo soggetto deviante, si passa ad un intervento diffuso, diretto all'ambiente, moltiplicando gli ostacoli - anche fisici e materiali - per ostacolare la condotta deviante, ad esempio in contesti metropolitani.

L'idea del mutamento, della trasformazione lenta e progressiva delle pratiche del controllo, non deve far dimenticare che alcuni fenomeni, letti in una certa prospettiva, assumono il carattere di una vera e propria rottura. È questo il caso del nuovo modello di controllo sociale, che De Giorgi chiama «paradigma attuariale». Questo si caratterizza per non essere più rivolto ad un soggetto determinato o ad una situazione problematica individuale. Si rivolge piuttosto a comportamenti, ad eventi, ad un «rischio» che è descritto e percepito come diffuso, collettivo, soprattutto ineliminabile. «Credo che la logica assicurativa - afferma l'autore - offra un esempio efficace della nuova razionalità dei sistemi di controllo sociale» (p. 37).

Il punto di vista soggettivo, individuale, rivolto ad un trattamento 'personalistico' della devianza, è abbandonato a favore di un punto di vista collettivo, statistico, sganciato dal singolo caso e basato non più sull'efficacia del trattamento, bensì sull'efficienza e sul minor costo. L'autore sottolinea come, sul piano pratico, intere classi di soggetti sono tenute nel mirino degli apparati repressivi e di controllo indipendentemente dai comportamenti individuali. Nella precedente logica disciplinare la cosiddetta uguaglianza di fronte alla legge si era sempre mantenuta su un piano solo formale. Le carceri hanno sempre ospitato classi significativamente omogenee di persone, in termini ad esempio di colore della pelle o di reddito. Tuttavia «la retorica dell'uguaglianza ha consentito quanto meno di contenere determinati abusi del potere punitivo. Invece, da un certo momento in poi, si dice esplicitamente che gli esseri umani devono essere trattati diversamente a seconda della classe (di rischio) a cui appartengono. Ed è chiaro che la classe di rischio si sovrappone alla classe sociale» (p. 41).

La rottura di questo modello definito attuariale col modello disciplinare classico non deve tuttavia far dimenticare che entrambi appartengono ad una medesima storia. Proprio sottolineando questo aspetto De Giorgi mette in relazione questa ricostruzione con alcune delle posizioni più mature di Foucault, in particolare quelle sulla governamentalità. Ciò che emerge con chiarezza da queste pagine è l'affermazione da un lato di una «nuova filosofia del rischio criminale», dall'altro come questa novità si articoli perfettamente con alcuni strumenti classici del controllo sociale, primo fra tutti il carcere. La sua centralità «non è rimessa in discussione dalle nuove pratiche attuariali. Anzi, tutto sembra dimostrare che a una riduzione qualitativa delle funzioni degli istituti tradizionali del controllo corrisponda una espansione quantitativa del loro ruolo. Aumenta la popolazione carceraria. Una popolazione per la quale il penitenziario è una zona d'attesa, un luogo di contenimento provvisorio» (p. 48).

Queste pagine introducono efficacemente la seconda parte del volume, dedicata al rapporto tra migranti e devianza. È chiaro infatti che tra le classi di persone candidate ad occupare un posto d'onore nella logica attuariale del controllo si trova quella dei migranti. Qui De Giorgi è particolarmente vicino alle analisi sociologiche che, negli ultimi anni, hanno offerto alcuni dei risultati più interessanti e più convincenti in questo campo, come quelle di Alessandro Dal Lago o di Loic Wacquant. In particolare, l'autore sottolinea con chiarezza la tensione implicita nel rapporto che le società occidentali intrattengono con i migranti nella nostra epoca. Non si tratta né di un'esclusione e di un rifiuto radicale, né di un'inclusione e di un allargamento della cittadinanza. Si tratta al contrario di un'«inclusione subordinata», funzionale alle esigenze del mercato del lavoro dei paesi di destinazione (insistevano su questo meccanismo, sulla tensione 'strutturale' nel mondo occidentale tra universalismo da un lato e razzismo e sessismo dall'altro, già Etienne Balibar e Immanuel Wallerstein nel volume Razza, Nazione, Classe. Le identità ambigue, Edizioni Associate, Roma 1990). De Giorgi sottolinea con efficacia come questa inclusione subordinata si traduca sul piano pratico in un controllo dei flussi. «Una limitazione degli ingressi sulla base delle effettive esigenze del sistema produttivo, affiancato da una politica legislativa di "dosaggio" dei diritti di cittadinanza, costringe di fatto le cittadine e i cittadini immigrati ad accettare qualsiasi forma di integrazione economica, purché offra qualche prospettiva di inclusione e soprattutto eviti l'espulsione» (p. 55).

L'autore prosegue la sua analisi articolando questa efficace lettura teorica ai recenti provvedimenti più significativi per la gestione dell'"emergenza" immigrazione, dagli accordi di Schenghen del 1985 alla Convenzione di applicazione dei medesimi accordi del 1990, dalla legge Martelli dello stesso anno fino all'ultimo provvedimento legislativo del 1998. De Giorgi interviene con particolare enfasi sul provvedimento di creazione dei cosiddetti "Centri di permanenza temporanea e di assistenza". Da più parti ed in modo autorevole sono state sollevate riserve significative sulla conformità di questi 'campi' ai principi costituzionali, per le misure ingiustificate di limitazione della libertà personale, applicate indipendemente dall'aver commesso alcun reato. In queste pagine l'analisi scientifica si unisce ad un preciso ed ineludibile impegno politico e di civiltà; inoltre sulla base dei rapporti e delle testimonianze dei molti volontari impegnati in queste strutture l'autore afferma con decisione che «i campi di concentramento post-disciplinare devono essere chiusi immediatamente» (p. 65).

Nella terza parte del volume l'autore torna ad analizzare alcuni aspetti teorici delle modalità di sviluppo del controllo sociale. In particolare il legame tra le nuove pratiche del controllo e le trasformazioni che avvengono nel sistema produttivo con il passaggio al post-fordismo oppure, in altre parole, il rapporto tra «modi di produzione» e «modi di punizione». De Giorgi sottolinea come un'impostazione puramente materialistica del problema sia insufficiente ed inadeguata a comprendere le trasformazioni avvenute e quelle in corso. Una dimensione fondamentale del problema è quella della «costruzione del consenso» intorno alle nuove pratiche ed ai nuovi paradigmi usati per descrivere la realtà sociale. Le dinamiche simboliche, ad esempio, insieme alla costruzione sociale dei problemi relativi alla devianza ed al «trattamento linguistico» degli stessi fenomeni, devono essere posti al centro dell'analisi. L'esperienza oggettiva del ciclo economico e quella soggettiva del controllo sociale sono infatti mediate proprio da queste dinamiche simboliche e dai codici comunicativi dominanti.

Ad esempio, afferma l'autore, «in momenti caratterizzati da un disagio economico diffuso e da una insicurezza sociale generalizzata, le élites del potere sembrano attivare strategie di dislocazione dei problemi, ovvero favoriscono la costruzione di un immaginario sociale punitivo, al fine di distogliere da questioni più profonde l'allarme sociale, che in questo modo si concentra sui criminali, sui devianti, sui diversi: in generale su un nemico. Ciò permette di spiegare perché, al verificarsi di determinate situazioni economico-sociali, corrisponde la realizzazione di crociate morali contro determinati fenomeni che vengono di volta in volta indicati al pubblico come fonte di tutti i mali. Dalla pedofilia alla microcriminalità, dalle droghe, alle mafie, al terrorismo. Rendendo possibile la dissociazione dei fenomeni reali dai metadiscorsi socialmente costruiti intorno a essi, questo tipo di analisi valorizza l'importanza dei fattori "culturali" nell'ambito delle dinamiche di conservazione dell'ordine costituito» (p. 91).

De Giorgi utilizza a più riprese l'espressione élites del potere. Se questa, a prima vista, può apparire un'espressione un po' generica, in realtà ha il merito di spiegare come i meccanismi descritti si dispongano in modo del tutto trasversale rispetto alle tradizionali appartenenze politiche. Partiti di destra e di sinistra non si sono distinti in modo significativo, negli ultimi anni, nella gestione dei fenomeni di migrazione e, più in generale, delle "emergenze" continuamente rispolverate. Riprendendo l'ipotesi di Dario Melossi, l'autore afferma quindi che la diffusione sempre maggiore di un vocabolario orientato alla punitività ed al rigore verso la devianza, in situazioni di crisi economica ad esempio, fa parte di una pratica strategica delle élites per favorire il consenso nei confronti dell'autorità impegnata contro il crimine. In questo modo si ottiene l'effetto di 'distogliere' «l'attenzione del pubblico» dai fattori strutturali che determinano la situazione di crisi.

Un'appendice interessante - in realtà si tratta di un vero e proprio saggio - è dedicata al fenomeno che dà il nome al libro, l'ideologia della zero tolerance, che ha origine in America e che deve la sua fama al sindaco di New York Giuliani. Mostrando un'ottima conoscenza dell'esperienza newyorkese così come della documentazione ufficiale, De Giorgi mostra da un lato l'inconsistenza dei proclami trionfalistici dei sostenitori della zero tolerance, dall'altro i costi altissimi e l'enorme pericolosità di un modello che molti vorrebbero importare anche in Italia. Chiude il volume un'ampia ed aggiornata bibliografia particolarmente attenta alla realtà Americana.

Filippo Del Lucchese

*. Da Swif - Rivista Elettronica di Filosofia, giugno 2001.