2016
Diritti e politica negli Stati liberal-democratici. Riflessioni intorno a L’orientamento sessuale. Cinque domande tra diritto e filosofia di Gianfrancesco Zanetti.
Recensione
di Lucia Re
In L’orientamento sessuale. Cinque domande tra diritto e
filosofia[1] Gianfrancesco
Zanetti ricostruisce il dibattito teorico che si è svolto negli Stati
Uniti, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, a proposito del
trattamento giuridico dell’orientamento sessuale. La discussione
affonda le radici nella riflessione filosofica e giuridica inglese in
tema di rapporto fra diritto e morale, a partire dalla nota distinzione
fra “self-regarding actions” e “other-regarding actions” teorizzata da
John Stuart Mill in On Liberty. Sul tema sono intervenuti,
direttamente o indirettamente, grandi filosofi e filosofe del diritto e
della politica contemporanei. Si pensi in primo luogo alla
contrapposizione fra Herbert L. A. Hart[2] e Sir Patrick Devlin, che, nell’Inghilterra della metà
del Novecento, difese la repressione penale degli atti omosessuali fra
adulti consenzienti, appellandosi alla c.d. “disintegration thesis”:
quegli atti, in quanto contrari alla “morale comune”, erano per Devlin
possibili fattori di disintegrazione della coesione sociale[3].
Ad avere avuto un impatto diretto sul dibattito statunitense
in tema di trattamento giuridico dell’orientamento sessuale sono poi
state le riflessioni sul liberalismo e sul rapporto fra diritto e
giustizia di filosofi quali Ronald Dworkin, John Rawls, Martha C.
Nussbaum e John M. Finnis. L’analisi filosofica si è strettamente
intrecciata con una serie di vicende processuali, consentendo il
progressivo formarsi di una giurisprudenza favorevole al riconoscimento
dei diritti degli omosessuali, secondo una traiettoria che muove dalla
sentenza Bowers v. Hardwick del 1986 – nella quale la Corte
Suprema sancì la legittimità della legge della Georgia che puniva la
sodomia – fino al pieno riconoscimento a livello federale
dell’uguaglianza fra matrimonio omosessuale e matrimonio eterosessuale
avvenuto nel 2015 con la sentenza Obergefell et al. v. Hodges.
Nel libro, Zanetti limita consapevolmente la sua analisi ad
alcuni aspetti di questo dibattito filosofico e giuridico anglosassone
e struttura la sua esposizione intorno a cinque tesi, riformulate come
altrettante domande, che idealmente possono essere fatte proprie anche
da chi non condivide le posizioni assunte sulle diverse questioni
affrontate. Si tratta di una scelta strategica che consente
all’argomentazione di svilupparsi secondo un disegno coerente, senza
perdersi nei dettagli della ricostruzione storica, soffermandosi sulle
questioni più rilevanti dal punto di vista giusfilosofico.
La tesi di partenza è, del resto, quella dello specifico
rilievo assunto dalla riflessione filosofico-giuridica sui problemi
posti dall’orientamento sessuale. “L’orientamento sessuale – scrive
Zanetti – è il problema classico relativo alla coercizione giuridica
della morale” [4]. Esso emerge
come problema tipico riguardante la relazione fra diritto e morale in
rapporto alle discriminazioni delle minoranze[5]. Il riconoscimento dei diritti delle
minoranze sessuali è collegato inoltre alla interpretazione dei
principi di uguaglianza e non discriminazione. Non a caso, l’autore
mette in luce, sin dalle prime pagine, come la questione del
trattamento dell’orientamento sessuale in ambito statunitense possa
considerarsi analoga alla questione del riconoscimento dei diritti
degli afro-americani.
La vicenda ricostruita nel libro si è svolta in tre fasi (ed è
questa la seconda tesi che viene enunciata nel testo), le quali “sono
collegate fra loro in una successione genetica, non assolutamente
cronologica”[6]: “ogni fase
costituisce la condizione necessaria ma non sufficiente per
l’attivazione della fase successiva”[7] (quarta tesi).
Come si è accennato, nella prima fase la discussione ha
riguardato la rilevanza penale dei comportamenti omosessuali fra adulti
consenzienti. Si sono confrontate la tesi che sosteneva l’illegalità di
tali comportamenti e quella che ne difendeva la legalità, in primo
luogo per rispetto del principio liberale di non punibilità dei
comportamenti privi di offensività, i cosiddetti victimless crimes.
Tale opposizione è espressa nel libro con riferimento alla coppia
concettuale legal/illegal. Si tratta, com’è noto, di un
dibattito molto complesso – centrale per la filosofia del diritto – che
riguarda il rapporto fra diritto e morale e che, sul piano giuridico,
ha interessato principalmente il diritto penale.
Una volta affermato che i comportamenti omosessuali fra adulti
consenzienti non dovevano essere puniti, in quanto “self-regarding
actions”, si è aperta la discussione circa il valore che lo
Stato è tenuto ad accordare all’orientamento omosessuale. Se la
sessualità e l’affettività omosessuali sono dotate di valore, lo Stato
si deve infatti fare carico di tutelarle da possibili discriminazioni.
Tale questione è riassumibile nella dicotomia “dotato di valore”/“non
dotato di valore” (valuable/non valuable) e investe in
via prioritaria il diritto civile.
Infine, quando si è giunti a riconoscere valore
all’orientamento omosessuale, ci si è chiesti se fosse opportuno
conferire sul piano pubblicistico a tale orientamento un valore pari a
quello attribuito all’orientamento eterosessuale, garantendo l’accesso
degli omosessuali all’istituto del matrimonio civile. L’opposizione
riguarda qui direttamente l’interpretazione del principio di
eguaglianza e, secondo Zanetti, il suo pieno riconoscimento negli
ordinamenti liberal-democratici. Essa può essere sintetizzata dalla
coppia concettuale equal/unequal.
Nonostante il rilievo teorico generale degli argomenti
affrontati, la riflessione filosofico-giuridica sull’orientamento
sessuale in ambito anglosassone “non si è svolta attraverso una serie
di paradigmi teorici che vengono prima elaborati e poi calati nel mondo
concreto del diritto”[8], ma si
è originata “dal basso”, “a partire da specifiche, concrete questioni”[9], comportando l’elaborazione di
argomentazioni “che sono poi risultate concettualizzabili in una loro
conquistata autonomia teorica”[10].
È questa la terza tesi sostenuta da Zanetti.
L’ultima tesi enunciata nel libro è invece che, in virtù della
connessione genetica fra le diverse fasi in cui si è svolta la
riflessione filosofico-giuridica anglosassone sull’orientamento
sessuale, è prima facie possibile assumere posizioni
diversificate sulle diverse questioni discusse di volta in volta[11]. Tratto distintivo dell’argomentazione
sviluppata da Zanetti risiede, del resto, nel “prendere sul serio”
tutte le posizioni emerse nel dibattito, anche quelle più
conservatrici, secondo uno stile argomentativo che ricorda da vicino
proprio quello della Corte Suprema statunitense, la quale assurge a
protagonista della vicenda ricostruita nel libro. Se la riflessione
teorico-giuridica anglosassone sull’orientamento sessuale si è svolta
dal basso, a partire da questioni concrete e concentrandosi su
specifici documenti giuridici, è infatti anche perché essa è stata
anche, se non soprattutto, una riflessione nata intorno al diritto
giurisprudenziale. Essa è dunque per lo più stata attivata da claims,
da rivendicazioni, individuali.
Fra gli autori italiani più esperti di teorie critiche[12], Zanetti, in questo libro sembra
muovere proprio dall’idea che la filosofia parte dall’ascolto delle
rivendicazioni. Il tema del trattamento giuridico dell’orientamento
sessuale è di grande attualità, in particolare in Italia dove nel
maggio del 2016 è stata approvata una legge che per la prima volta
riconosce le unioni civili omosessuali[13], ma il saggio di Zanetti è non un instant book
redatto per intervenire nella discussione odierna, bensì il risultato
di ricerche e riflessioni svolte nel corso degli ultimi anni. Del
resto, come avverte lo stesso autore, il dibattito ricostruito nel
libro non solo è utile per comprendere la traiettoria che ha condotto
al pieno riconoscimento dei diritti dei gay e delle lesbiche negli
Stati Uniti, ma illumina anche questioni di ordine generale, relative
alla interpretazione delle nozioni di uguaglianza e di libertà negli
ordinamenti liberal-democratici (anche se al tema della libertà è
dedicato uno spazio minore nella trattazione). Tale dibattito mostra
inoltre come la teoria filosofica – e in particolare la teoria
filosofico-giuridica e filosofico-politica – sia in grado di dare alla
discussione democratica, alla formazione della cosiddetta “ragione
pubblica”, un contributo particolarmente rilevante. La critica è
infatti – sostiene Zanetti – essa stessa “pratica di eguaglianza”.
Il libro parte dunque da una concezione di filosofia come
“filosofia pratica” che muove dall’esperienza secondo un approccio bottom-up.
Si tratta di un’idea che ha trovato consacrazione nelle filosofie
politiche e giuridiche femministe, le quali hanno teso a rifiutare le
diverse forme di grand theory per porre al centro della
riflessione filosofica – anche filosofico-giuridica – l’esperienza
concreta dei soggetti. Fra le autrici cui si può ascrivere questa
concezione vi sono, ad esempio, Martha A. Fineman[14] e Iris Marion Young[15].
Zanetti nel suo saggio sembra però muovere anche dalla
convinzione espressa da una filosofa attenta alla elaborazione di
concetti analitici astratti e di argomenti normativi come Martha
Nussbaum. Nel suo Women and Human Development, ella sostiene
che la teoria critica ha:
un grande valore pratico per la gente comune non dedita alla
filosofia, a cui offre sia una cornice in cui inquadrare ciò che sta
loro accadendo, sia un insieme di concetti con cui criticare abusi che
altrimenti rimarrebbero nell'ombra e senza nome sullo sfondo della vita[16].
Per Nussbaum, gli argomenti sistematici offerti dalla teoria
filosofica svolgono una importante funzione pratica: consentono “la
selezione dei nostri pensieri confusi, criticando realtà sociali
ingiuste e prevenendo quel tipo di razionalizzazione autoillusoria che
ci rende spesso complici dell'ingiustizia”[17]. Molte decisioni pubbliche e private
sono prese sulla base di presupposti filosofici impliciti, talora
inconsapevoli. I punti di vista che guidano le deliberazioni pubbliche
sono spesso la sintesi di diversi “frammenti teorici assai generali
derivati dalla consuetudine, dalla religione o dalle scienze sociali”[18]. In mancanza di un confronto che
espliciti i presupposti filosofici, “i punti di vista più influenti
saranno probabilmente quelli sostenuti semplicemente dalle persone più
potenti o retoricamente più efficaci”[19]. La filosofia richiede invece una deliberazione pubblica
basata su un'argomentazione chiara che espliciti i presupposti del
discorso. Essa tenta di dare peso all'argomentazione che ha maggiore
coerenza e chiarezza invece che a quella sostenuta dai proponenti più
rumorosi[20].
Il lavoro di Zanetti mi pare presupporre questa idea della
filosofia e l’impegno affinché essa possa influenzare il confronto
politico democratico. Oltre che pratica di uguaglianza, la stesura, la
lettura e la discussione pubblica di questo libro[21] sono dunque un esercizio di democrazia.
Un esercizio quanto mai opportuno in un momento, come quello attuale,
in cui – nella maggior parte dei paesi occidentali – l’impressione è
che lo spazio democratico sia schmittianamente diviso fra amici e
nemici, sia un’arena nella quale le posizioni liberal si
scontrano con concezioni del bene comune ancorate a indiscutibili
verità metafisiche o a doxae inconfutabili, fondate su una
“epistemologia dell’ignoranza”[22].
Queste concezioni pretendono sovente, alla lettera, di “dettare legge”
e, proprio con riferimento agli omosessuali, contribuiscono a creare un
clima omofobico[23] nel quale
maturano, anche in Occidente[24],
persecuzioni quotidiane e crimini gravissimi, come la terribile strage
compiuta a Orlando in un locale notturno frequentato soprattutto da
persone LGBTI, il 12 giugno del 2016, per la quale il cordoglio
espresso a livello globale nei social e nei mass media
è stato sensibilmente minore rispetto a quello manifestato in occasioni
analoghe, quando le vittime non erano in maggioranza appartenenti a
minoranze sessuali[25].
Il dibattito teorico-giuridico statunitense ricostruito da
Zanetti appare allora molto significativo perché mostra la fatica che
la teoria critica deve compiere per intaccare i pregiudizi e, al
contempo, mette a fuoco una tensione tipicamente liberal-democratica
fra la “logica della legge” – dettata dalla maggioranza parlamentare –
e la “logica dei diritti fondamentali” – sottratti alla disponibilità
delle maggioranze politiche, attraverso la tutela offerta dal potere
giurisdizionale nell’ambito dello Stato di diritto. Si tratta di una
tensione antica – rilevata, com’è noto, in modo molto chiaro già da
Alexis de Tocqueville ne La democrazia in America – e che negli
Stati di diritto contemporanei – come ha ben messo in luce Emilio
Santoro nel suo libro Diritto, diritti. Lo Stato di diritto
nell’era della globalizzazione[26] – si fa ancora più forte poiché è inserita in un
orizzonte globale caratterizzato da intergiuridicità[27]. Anche questa dimensione – quella cioè
della intergiuridicità e della progressiva importanza del dialogo di
costituzionalismo fra le Corti nazionali e fra queste e le Corti
sovranazionali – si palesa nella vicenda anglo-americana ricostruita da
Zanetti, nella quale la Corte Suprema è giunta a vietare le leggi che
punivano penalmente i comportamenti omosessuali fra adulti consenzienti
richiamando esplicitamente la giurisprudenza della Corte Europea dei
Diritti Umani in Lawrence v. Texas (2003).
In Italia, la giurisprudenza ha svolto a lungo un ruolo di
supplenza in materia di tutela delle famiglie non tradizionali, ruolo
che probabilmente dovrà continuare a svolgere anche in seguito
all’approvazione della legge sulle unioni civili[28]. Non solo, ma la giurisprudenza,
europea e costituzionale, è stata dirimente nel convincere le forze
politiche a trovare comunque un compromesso per il riconoscimento delle
unioni omosessuali[29]. Anche
per questo aspetto la vicenda statunitense ricostruita da Zanetti è
paradigmatica, poiché è stato il ricorso alla giurisdizione che ha
consentito di superare l’impasse del dibattito politico
democratico.
Zanetti – con questo libro – sembra dirci però che c’è bisogno
di entrambe le cose: della tutela dei diritti da parte della
giurisdizione, chiamata a sviluppare un’argomentazione che deve
soddisfare alcune condizioni di asseribilità poste dalla comunità degli
interpreti[30] e non può
dunque ricorrere ad argomenti di tipo perfezionista, ma anche di una
democrazia deliberativa nella quale tutti – e l’autore sembra dirci
anche gli intolleranti – possano fare sentire la propria voce in
condizioni di parità. Una democrazia in cui possa cioè formarsi quello
che Iris Marion Young ha chiamato un “pubblico eterogeneo”[31] e le istituzioni prendano decisioni che
possono essere argomentate razionalmente, sulla base di riferimenti
empirici, rifiutando l’appropriazione dello spazio pubblico da parte di
gruppi di pressione che promuovono orientamenti fondamentalisti.
Se la tutela dei diritti fondamentali da parte della
giurisdizione appare – anche in Italia – come un punto fermo, questo
spazio democratico è invece un obiettivo a cui tendere o, forse meglio,
al quale non rinunciare in partenza. Esso può essere creato – sembra
suggerire Zanetti – anche grazie alle ricadute che le argomentazioni
sviluppate in sede giurisprudenziale possono avere sull’opinione
pubblica e sul dibattito politico. A rafforzare questa convinzione è la
vicenda statunitense del movimento per i diritti civili degli
afro-americani. Il ragionamento che Zanetti sviluppa nel libro si fonda
infatti sull’idea – anche questa riconducibile a Iris Marion Young –
che non si debba avallare una “politica delle identità”, finalizzata a
riconoscerle, cristallizzandole e creando una opposizione fra identità
concorrenti (come hanno fatto alcune teorie multiculturaliste). Si deve
piuttosto prendere atto che sono le strutture sociali (e giuridiche) a
creare i gruppi, attraverso una eterodesignazione che determina una
oppressione sociale, ma che può essere assunta da chi è assegnato a un
gruppo per lottare contro quella stessa oppressione. In questo senso,
il riconoscimento del matrimonio omosessuale non è solo una questione
di uguaglianza formale, ma implica un mutamento della norma sociale
sulla base della quale sono state strutturate storicamente le società
patriarcali. Attribuire alle unioni omosessuali lo stesso valore che si
accorda a quelle eterosessuali significa infatti scardinare quello che
Monique Wittig ha identificato come il “privilegio eterosessuale”[32], con un’espressione non a caso simile a
quella usata per la “bianchezza” della pelle da autrici riconducibili
alla Critical Race Theory, come Cheryl I. Harris[33] e Barbara Flagg[34].
Come la “bianchezza”, così l’eterosessualità rappresenta nelle
nostre società un privilegio che si collega a uno status. È un
privilegio poco visibile, ma al quale sono legate precise aspettative
che nel tempo sono state affermate, legittimate e protette dalla legge
(richiamo qui le parole usate da Harris a proposito della “bianchezza”[35]). Ecco allora che il riconoscimento del
matrimonio omosessuale – come hanno ben capito i suoi oppositori, in
particolare in Italia dove è stato creato un “ghetto giuridico”[36] per le unioni civili omosessuali
considerate come “specifica formazione sociale” e private del requisito
della fedeltà[37] – può
essere visto non come il punto di arrivo di una politica dell’identità
(benché in Italia esso appaia ancora lontano), ma come una tappa
intermedia di una “politica della differenza posizionale”[38] che mette in discussione la norma
sociale eterosessuale, ovvero l’idea che l’eterosessualità sia la
regola e l’omosessualità sia l’eccezione/devianza.
Riconoscere le unioni civili fra persone dello stesso sesso è
allora un primo timidissimo passo verso l’uguaglianza. Istituire il
matrimonio omosessuale è una conquista di uguaglianza e determina la
messa in discussione della norma sociale eterosessuale[39]. Riflettere su questo conduce però, a
mio avviso, a interrogarsi su almeno due questioni che Zanetti ha
volutamente lasciato in ombra per dispiegare la sua efficace strategia
argomentativa: il tema della genitorialità omosessuale – del suo
riconoscimento ma anche dei problemi che la genitorialità omosessuale
maschile può porre se forgiata sul modello della famiglia nucleare – e
quello, collegato, della opportunità di continuare a fare della coppia
fondata su un legame sessuale – di quella che Martha Fineman ha
chiamato la sexual family[40] – la cellula-base della società, attraverso la quale lo
Stato alloca risorse materiali e accorda riconoscimento sociale.
Sotto il primo profilo, appare chiaro infatti che istituire il
matrimonio omosessuale significa, non tanto sul piano logico, quanto
sul piano della battaglia giurisprudenziale che può seguirne, aprire la
strada al pieno riconoscimento delle c.d. “famiglie arcobaleno”.
Mettere in questione la norma sociale eterosessuale equivale cioè a
sancire la fine di un meccanismo di controllo della sessualità e, ancor
più, di definizione dei confini della riproduzione legittima. È su
questo punto che in Italia si è avuto lo scontro più acceso in tempi
recenti ed è un punto sul quale pare profilarsi di nuovo la tensione
fra “logica della legge” e “logica dei diritti”.
Si tratta di un tema molto delicato perché coinvolge i diritti
dei minori, in primo luogo di quelli che già vivono nelle “famiglie
arcobaleno”, ma investe anche il modo di intendere la genitorialità: è
in gioco il pieno riconoscimento della “genitorialità sociale” – degli
omosessuali e degli eterosessuali – ma anche la necessità di un
dibattito etico, oltre che giuridico, approfondito sulla “gestazione
per altri” e sulla concezione della genitorialità come diritto o come
responsabilità[41].
La messa in discussione della centralità della “famiglia
sessuale”, ovvero della famiglia nucleare fondata su un legame di tipo
sessuale fra i coniugi, potrebbe allora essere una via per riconoscere
le diverse forme che possono assumere i legami affettivi, compresi
quelli genitoriali, per affrontare molte delle questioni legate alla
cura nelle società contemporanee[42] e, probabilmente, anche per cercare migliori strategie
di contrasto alla violenza di genere[43]. Questo non significa, necessariamente, militare per la
cancellazione dell’istituto matrimoniale (eterosessuale o omosessuale),
né negare che in quel vincolo molte e molti abbiano trovato una fonte
di gioia e un orizzonte di senso, beni cui gli omosessuali devono poter
accedere. Significa però sottolineare la natura escludente
dell’istituto matrimoniale nel momento in cui esso è posto come base
organizzativa della società. Forse, almeno al livello della riflessione
filosofica e sociologica, possiamo allora porci questa domanda: perché
dobbiamo continuare a dare questa importanza al vincolo sessuale? Nelle
società contemporanee le concezioni della sessualità sono molteplici,
la famiglia basata sul vincolo sessuale fra gli sposi eterosessuali è
stata riconosciuta come un luogo anche di grande violenza e di
frequente subordinazione delle donne e dei minori agli uomini. Non è
allora opportuno battersi per un maggiore riconoscimento di altre forme
di vincolo sociale, affettivo, solidale, etc.? Possiamo immaginare di
togliere alla unione basata sul vincolo sessuale il ruolo di
dispositivo produttore dell’ordine sociale? Possiamo rinunciare a
un’immagine idealizzata della “famiglia naturale”, e anche alla sua
rivisitazione in chiave omosessuale, per regolare la realtà sociale a
partire da ciò che essa è, da come, piaccia o non piaccia, essa si è
trasformata?
In questa ottica mi pare significativo come nella sentenza Obergefell
vs. Hodges la Corte suprema, nel riconoscere, nel 2015, il
matrimonio omosessuale, abbia sostenuto che “marriage is a keystone of
the Nation’s social order”[44].
Ed è in effetti ancora così dal punto di vista del diritto, benché
probabilmente non lo sia più dal punto di vista sociale[45]. L’obiettivo del riconoscimento del
matrimonio omosessuale ha dunque un valore importante, in primo luogo
per mettere fine alla discriminazione di un gruppo sociale,
inaccettabile nelle società liberal-democratiche. Al contempo,
tuttavia, si dovrebbe forse pensare di accostare a “strategie
affermative”, come quelle volte al riconoscimento del matrimonio
omosessuale, delle “strategie trasformative”[46], di più difficile realizzazione, ma che
la critica può tenere presenti come un orizzonte cui tendere: strategie
che mettano in discussione la centralità della sexual family
all’interno del nostro modello (occidentale) di organizzazione sociale,
privilegiando piuttosto il riconoscimento delle diverse relazioni di
cura[47].
[1] Gf. Zanetti, L’orientamento
sessuale. Cinque domande fra diritto e filosofia, Bologna, il
Mulino, 2015.
[2] Cfr. H.L.A. Hart, Law,
Liberty and Morality, Stanford, Stanford University Press, 1963.
[3] Devlin formulò
questa tesi esprimendo una posizione minoritaria all’interno della
commissione incaricata dal governo inglese di affrontare la questione
delle c.d. “Homosexual Offences” previste dall’ordinamento penale. Il
lavoro che condusse alla pubblicazione, nel 1957, del Report of the
Departmental Committee on Homosexual Offences and Prostitution,
meglio conosciuto come Wolfenden report, è ricostruito accuratamente
nel libro di Zanetti.
[4] Cfr. Gf. Zanetti, L’orientamento
sessuale, cit., Prefazione (Edizione Kindle).
[5] Ibid.
[6] Ibid.
[7] Ibid.
[8] Ibid.
[9] Ibid.
[10] Ibid.
[11] Ibid.
[12] Com’è noto egli
ha curato il volume Filosofi del diritto contemporanei, Milano,
Cortina, 1999, che ancora oggi è punto di riferimento per chi voglia
accostarsi al pensiero filosofico-giuridico tardo-novecentesco e, con
Kendall Thomas, Legge, razza e diritti. La Critical Race Theory
negli Stati Uniti, Reggio Emilia, Diabasis, 2005, volume che ha
fatto conoscere in Italia gli autori riconducibili a questa importante
corrente giusfilosofica statunitense.
[13] Legge
20 maggio 2016, n. 76 sulla Regolamentazione delle unioni civili tra
persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, entrata in
vigore il 5 giugno 2016.
[14] Cfr. M. A.
Fineman, N. S. Thomadsen, a cura di, At the Boundaries of Law.
Feminism and Legal Theory, New York, Routledge, 1991.
[15] Cfr. I. M.
Young, Justice and the Politics of Difference, Princeton,
Princeton University Press, 1990.
[16] M. C. Nussbaum,
Women and Human Development. The Capabilities Approach,
Cambridge, New York, Cambridge University Press, 2000; tr. it. Diventare
persone. Donne e universalità dei diritti, Bologna, il Mulino,
2001, p. 54.
[17] Ibid.
[18] Ivi, p. 359.
[19] Ibid.
[20] Cfr. Ibid.
[21] L’autore si è
impegnato in molte presentazioni e discussioni pubbliche dell’opera.
Una di queste è stata organizzata da Jura gentium con il Dottorato di
Scienze giuridiche dell’Università degli studi di Firenze il 19 maggio
2016 e ha visto la partecipazione attenta di dottorandi studiosi di
diverse discipline giuridiche (cfr. http://www.juragentium.eu/jg/i_Seminari/Voci/2016/5/19_LORIENTAMENTO_SESSUALE._UNA_RICOGNIZIONE_DELLA_GIURISPRUDENZA_E_DEL_DIBATTITO_ANGLOSASSONE.html).
[22] Sulla
“epistemologia della ignoranza”, volta a tracciare i confini fra ciò
che si deve sapere e ciò che si può escludere dagli oggetti di
conoscenza, cfr. B. Casalini, “Ingiustizia epistemica: note su un
dibattito di teoria politica”, in A. Simone, F. Zappino, a cura di,
Fare giustizia. Neoliberismo, diseguaglianze sociali e desideri di
buona vita, Milano, Mimesis, 2016, pp. 129-141.
[23] Su quella che è
stata definita State-sponsored Homophobia a livello globale, cfr. A.
Caroll, State Sponsored Homophobia 2016. A world survey of sexual
orientation laws: criminalisation, protection and recognition,
Geneva, ILGA, 2016, http://ilga.org/downloads/02_ILGA_State_Sponsored_Homophobia_2016_ENG_WEB_150516.pdf.
[24] Come il libro
di Zanetti, così queste mie riflessioni, si limitano a ciò che avviene
nei paesi liberal-democratici c.d. occidentali. Il quadro delle leggi e
delle pratiche omofobiche a livello globale è infatti molto complesso e
non si può qui darne conto. Basti ricordare che, come ha evidenziato il
rapporto pubblicato da ILGA (A. Caroll, State Sponsored Homophobia
2016, cit.), sono ancora molti gli Stati che prevedono la
detenzione - e anche l’ergastolo - per i comportamenti omosessuali fra
adulti consenzienti e ben 13 Stati membri delle Nazioni Unite prevedono
la pena di morte. Nessuno di questi Stati è uno Stato occidentale.
[25] Segnalo che il
14 giugno (un giorno dopo la strage, avvenuta la notte del 12) i
maggiori quotidiani italiani online hanno derubricato la notizia,
pubblicandola solo dopo quelle riguardanti l’operazione chirurgica
affrontata da Silvio Berlusconi, la vittoria dell’Italia nella prima
partita degli Europei di calcio 2016, la possibile uscita della Gran
Bretagna dalla UE a seguito del referendum del 23 giugno, l’uccisione
di una coppia di poliziotti a Parigi rivendicata da un giovane che ha
sostenuto di appartenere all’Isis (cfr. http://www.repubblica.it/; www.corriere.it; http://www.lastampa.it/ consultati
il 14 giugno 2016).
[26] E. Santoro, Diritto,
diritti. Lo Stato di diritto nell’era della globalizzazione,
Torino, Giappichelli, 2008.
[27] Sulla nozione
di “interlegality” cfr. B. De Sousa Santos, Toward a New Legal
Common Sense, London, Butterworths, Lexis Nexis, 2002.
[28] Ne è prova la
sentenza emessa dalla prima sezione civile della Corte di Cassazione
nel giugno 2016, a pochi giorni dall’entrata in vigore della legge che
regolamenta le unioni civili fra persone dello stesso sesso, con la
quale è stata confermata la correttezza dell’orientamento
giurisprudenziale emerso negli ultimi anni in tema di riconoscimento
agli omosessuali della possibilità – da valutare caso per caso - di
adottare il figlio del partner, in funzione del superiore interesse del
minore (sentenza n. 12962 del 2016). Cfr. in questo numero il
contributo di Luca Giacomelli. Il tema è stato affrontato anche da
Antonio Gorgoni nel suo intervento al seminario sul libro di Zanetti
organizzato da Jura gentium e dal Dottorato in Scienze giuridiche
dell’Università degli studi di Firenze, il 19 maggio 2016. Fra le
pubblicazioni recenti in tema è da segnalare M. Cavallo, Si fa
presto a dire famiglia, Roma-Bari, Laterza 2016.
[29] Mi riferisco in
particolare alla sentenza della Corte europea dei diritti umani, sez.
IV, del 21 luglio 2015, Oliari et al. c. Italia e alla sentenza della
Corte Costituzionale n. 170 del 2014.
[30] Cfr. E.
Santoro, op.cit., cap. 4.
[31] Cfr. I. M.
Young, Justice and the Politics of Difference, cit., in
particolare cap. 4.
[32] Cfr. M. Wittig,
The Straight Mind and Other Essays, Boston, Beacon Press,
1992.
[33] C. I. Harris, La
bianchezza come proprietà, in K. Thomas, Gf. Zanetti, a cura di, op.
cit., pp. 85-109.
[34] B. Flagg, Ero
cieco, ma ora vedo, in K. Thomas, Gf. Zanetti, a cura di, op.
cit., pp. 79-84.
[35] C. I. Harris, La
bianchezza come proprietà, cit., p. 85.
[36] Riprendo questa
espressione da F. Zappino, “Sovversione dell’eterosessualità”, Effimera,
31 marzo 2016, http://effimera.org/sovversione-delleterosessualita-federico-zappino/
(ultima consultazione 13 giugno 2016).
[37] Cfr. Legge 20
maggio 2016, n. 76.
[38] Cfr. I. M.
Young, “Structural Injustice and the Politics of Difference”, in G.
Craig, T. Burchardt, D. Gordon, a cura di, Social Justice and
Public Policy. Seeking Fairness in Diverse Societies, Bristol,
Policy Press, 2008, pp. 77-104. Cfr. anche Ead., Justice and the
Politics of Difference, cit., in particolare cap. 6. Il confronto
fra questa concezione di Iris Marion Young e quella multiculturalista
di Taylor è sintetizzato da Brunella Casalini in B. Casalini, L. Cini, Giustizia,
uguaglianza e differenza. Una guida alla lettura della filosofia
politica contemporanea, Firenze, Florence University Press, 2012,
cap. 12.
[39] Sulla
eteronormatività sociale, oltre a Wittig, si possono vedere le opere di
autrici ormai “classiche” del femminismo come Carla Lonzi e Adrienne
Rich, nonché la complessa riflessione filosofica di Judith Butler.
[40] M. A. Fineman,
“The Sexual Family”, in M. A. Fineman, J. E. Jackson, A. P.
Romero, a cura di, Feminist and Queer Legal Theory: Intimate
Encounters, Uncomfortable Conversations, London, Ashgate, 2009,
Emory Public Law Research Paper, No. 09-74, disponibile su
http://ssrn.com/abstract=1516635.
[41] Il tema della
“gestazione per altri” ha occupato il dibattito pubblico italiano in
occasione della discussione della legge sulle unioni civili
omosessuali. Il modo in cui tale questione è stata sollevata
strumentalmente per non consentire agli omosessuali l’adozione del
figlio del partner è certamente da condannare; sarebbe però – mi pare –
azzardato rimuovere i problemi etici e giuridici – problemi in parte
distinti e che potrebbero trovare soluzioni diversificate – che la
“gestazione per altri” porta con sé, in nome della battaglia per i
diritti degli omosessuali.
[42] Su questi
problemi si può vedere ad esempio A. Sciurba, La cura servile, la
cura che serve, Pisa, Pacini, 2015. Sul tema specifico delle
relazioni di cura oltre l’orizzonte della “sexual family” cfr. B.
Casalini, “Care Relationships Beyond the “Natural-Sexual” Family”,
intervento alla Conferenza internazionale su “Critical care: advancing
an ethic of care in theory and practice”, University of Brighton, 13-14
settembre 2012, inedito. Per un’analisi degli aspetti problematici
della cura anche dal punto di vista di chi è chiamato a fornirla (per
lo più si tratta di donne), cfr. E. Kittay, Love’s Labor. Essays on
Women, Equality and Dependency, New York, Routledge, 1999.
[43]I sempre più
frequenti femminicidi illustrano chiaramente – almeno in Italia – che
la coppia eterosessuale e la famiglia nucleare sono spesso strutturate
su rapporti di potere asimmetrico e sulla violenza nei confronti di chi
tenta di sfuggire al modello normativo tradizionale della
sottoposizione della donna all’uomo. La letteratura sociologica e
filosofica in tema è copiosa. Oltre agli scritti di teoriche femministe
come Carla Lonzi e Catharine MacKinnon, si può vedere L. Melandri, Amore
e violenza. Il fattore molesto della civiltà, Milano, Bollati
Boringhieri, 2011.
[44] http://www.supremecourt.gov/opinions/14pdf/14-556_3204.pdf
[45] In “The Sexual
Family” (cit.) Fineman cita una indagine del Census Bureau degli Stati
Uniti dalla quale emergeva che la percentuale delle donne che vivevano
senza un marito negli Stati Uniti era nel 2005 pari al 51% del totale
delle donne adulte. La crescente percentuale di matrimoni che si
concludono con la separazione e il divorzio e l’aumento delle madri single
nella maggioranza dei paesi occidentali indicano che la realtà sociale
non ha più nel matrimonio la sua pietra angolare, ma questa immagine
tende a permanere negli ordinamenti giuridici (nonostante anch’essi
registrino via via dei cambiamenti; si pensi, in Italia, alla recente
legge n. 55 del 2015 che ha istituito il c.d. “divorzio breve”).
[46] Per questa
distinzione fra “strategie affermative” e “strategie trasformative”,
anche con specifico riferimento alla questione del riconoscimento del
matrimonio omosessuale, cfr. N. Fraser, “Giustizia sociale nell’era
della politica dell’identità: redistribuzione, riconoscimento e
partecipazione”, in N. Fraser, A. Honneth, Redistribuzione o
riconoscimento? Una controversia filosofico-politica, Roma,
Meltemi, 2007, pp. 15-134, vedi in particolare pp. 55 e ss. e pp. 96 e
ss.
[47]La critica alla
famiglia tradizionale, al matrimonio e alla coppia eterosessuale è
ricorrente nel pensiero filosofico, non solo contemporaneo, ed è stata
al centro della riflessione femminista della seconda metà del
Novecento. Essa ha ispirato esperienze sociali di vario genere, volte a
individuare nuove forme di organizzazione in grado di superare il
modello antropologico-politico fondato sulla fedeltà coniugale, la
norma eterosessuale, la difesa della sfera affettiva come sfera
esclusivamente privata, ecc. La tesi di Fineman, che io riprendo qui,
mira tuttavia non a riproporre questi “modelli critici” che sono
spesso, a loro volta, fortemente normativi, ma a mettere in evidenza il
ruolo che lo Stato può giocare nel garantire riconoscimento alle
relazioni di cura esistenti di fatto, relazioni che possono anche non
essere il frutto di scelte individuali, come avviene per molte madri single
o nei casi in cui qualcuno, o, più probabilmente, qualcuna si trovi a
fornire assistenza a persone anziane, disabili ecc. Non posso in questa
sede dare conto delle diverse proposte che promuovono una nuova
politica della cura. Mi limito a rinviare, per il tema in genere, a J.
C. Tronto, Moral Boundaries. A Political Argument for an Ethic of
Care, New York, Routledge, 1993, di cui Alessandra Facchi ha curato
l’edizione italiana: J. C. Tronto, Confini morali. Un argomento
politico per l’etica della cura, Reggio Emilia, Diabasis, 2006. Di
Tronto si è occupato anche Gianfrancesco Zanetti in Id., “L'etica
della cura e i diritti”, Ragion pratica, 23, 2004, pp.
523-529. Per un’analisi della relazione fra politiche della cura e
modello della famiglia nucleare rinvio invece a M. A. Fineman, The
Neutered Mother, the Sexual Family and other Twentieth Centuries
Tragedies, New York, Routledge, 1995 e Ead., The Autonomy Myth.
A Theory of Dependency, New York, The New Press, 2004; cfr. anche
con riferimento specifico al tema discusso da Zanetti in L’orientamento
sessuale, N.D. Polikoff, Beyond (Straight and Gay) Marriage.
Valuing All Families under the Law, Boston, Beacon Press, 2008. Per
una discussione di questi e di altri testi sul tema, cfr. B Casalini, Care
Relationships Beyond the “Natural-Sexual” Family, cit.