2009

C. Schmitt, Die Wendung zum diskriminierenden Kriegsbegriff, Duncker & Humblot, Berlin 1938, trad. it. Il concetto discriminatorio di guerra, a cura di Stefano Pietropaoli, Prefazione di Danilo Zolo, Laterza, Roma-Bari 2008, ISBN 978-88-420-8503-4

Ridotto al silenzio dalle alte cariche del partito nazionalsocialista per la sua ideologia non 'ortodossa', Carl Schmitt, nell'isolamento dell''emigrazione interna', consegna alle stampe, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, il saggio Die Wendung zum diskriminierenden Kriegsbegriff.

A settant'anni dalla sua prima edizione, lo scritto, fino ad oggi inedito per il pubblico italiano, viene presentato da Laterza con la Prefazione di Danilo Zolo. Se Die Wendung, per i temi trattati, appartiene agli scritti giusinternazionalistici di Schmitt, d'altra parte, come precisa il curatore Pietropaoli, il testo svolge "un ruolo di trait d'union tra il saggio Concetto di "Politico" e l'opus magnum del 1950, Il nomos della terra" (p. XXXIX). E ciò va ribadito al di là delle interpretazioni dei critici e degli esegeti che colgono nella produzione internazionalistica il "segno di una frattura teorica" (p. XXXV), rispetto alle precedenti riflessioni.

Die Wendung, conferma, invece, come la riflessione schmittiana mostri tendenzialmente, dal "decisionismo" all'"ordinamento concreto", unitarietà e coerenza quali segni di un "lungo, drammatico itinerario teorico"(p. XL). Pur distanti dallo stile suggestivo al quale Schmitt ci ha abituati, le pagine del saggio propongono, seppure abbozzate, delle tesi che sono di grande rilievo, poiché propongono non solo un'acuta interpretazione delle relazioni tra il vecchio 'occidente europeo' e il nuovo 'occidente americano', ma offrono una conferma sorprendente della 'profezia apocalittica' annunciata: "l'avvento di una guerra globale sottratta a ogni controllo e limitazione giuridica, ampiamente asimmetrica, nella quale una grande potenza neoimperiale si schiera non solo e non tanto contro singoli Stati, quanto contro organizzazioni di 'partigiani globali' (Kosmopartisanen) che operano su scala mondiale usando gli strumenti e perseguendo gli obiettivi di una guerra civile" (p. XXVIII). Non diversamente dagli scritti degli anni '50, in questo testo la critica schmittiana investe l'ideologia universalistica di impronta liberaldemocratica, quale fondamento teorico della Società delle Nazioni e denuncia il ricorso da parte di quest'ultima, alla "guerra giusta", inscindibilmente connessa alla discriminazione del nemico. Quel che in Die Wendung viene da Schmitt sottolineato con forza è che, nell'ambito di una visione universalistica, il confine tra ciò che è guerra e ciò che non lo è, diviene labile e illusorio generando "anarchia e caos" (p. 81) e spalancando l'abisso di una "guerra civile mondiale". Non a caso, già nel '38, Schmitt si esprime così: "Oggi la questione quindi non è più se una guerra sia giusta o ingiusta, lecita o illecita, ma se sia realmente una guerra o non lo sia. Il grande contrasto 'planetario' fra i popoli è già così profondo da toccare i concetti più essenziali e porre il dilemma tra guerra e non guerra" (p. 65).

Accanto all'esame accurato di alcune importanti pubblicazioni giuridiche straniere quali testimonianze "della nuova fase di sviluppo in cui è entrato il diritto internazionale del dopoguerra" (p. 5), Schmitt si impegna in una critica del "nuovo concetto internazionale di guerra" - critica che domina l'impianto teorico del saggio - e sostiene che la 'svolta' impressa al diritto internazionale da Woodrow Wilson è la chiave di lettura per comprendere la dissoluzione dello jus publicum europaeum. Se il 2 aprile 1917 - data dell'entrata in guerra degli Stati Uniti - rappresenta, per Schmitt, come sottolinea Zolo, "una data di eccezionale valore simbolico" (p. V), è perché essa inaugura nel diritto internazionale un nuovo orientamento di matrice universalistica. Questa nuova fase - dominata in realtà dal "progetto egemonico statunitense" (p. XI) - è, agli occhi di Schmitt, molto più che un semplice episodio degli eventi bellici, poiché consacra "la fine della centralità politica e giuridica dell'Europa" (p. VI).

Se in questo saggio il 2 aprile 1917 è, un evento insistentemente ricordato, non è - lamenta malinconicamente Schmitt - "per rievocare controversie giuridiche internazionali ormai dimenticate, ma per non lasciar cadere nell'oblio e rendere infruttuosa una delle esperienze più importanti nella storia del diritto internazionale, se non addirittura la più importante" (p. 79). L'intervento in guerra contro la Germania da parte della potenza americana, che in questa occasione revoca la sua politica neutralista, per farsi paladina della 'libertà dei popoli' e della 'pace mondiale', genera "una profonda torsione" (p. VI) che per Schmitt è "foriera di conseguenze impensabili" (p. 73). Le logiche della guerra "vecchio stile", basate sui concetti non discriminatori di guerra e di neutralità che avrebbero dovuto regolare e limitare le ostilità, cedono ora il passo ad un nuovo repertorio bellico, di ispirazione wilsoniana, in cui la guerra è tale solo se può definirsi giusta e addirittura umanitaria. Trasformatasi da "grande spazio" difensivo, territorialmente definito con la dottrina Monroe, in una linea di squalificazione morale del resto del mondo secondo l'interpretazione universalista e despazializzata di Wilson, la linea dell'emisfero occidentale impone adesso ovunque, come osserva Zolo, " il monopolio della sua economia, della sua visione del mondo, della sua interpretazione del diritto internazionale, del suo stesso linguaggio e vocabolario concettuale" (p. X).

Di questa concezione cosmopolitica - ispirata ai presunti valori della libertà e della democrazia - è intrisa, per Schmitt, non solo la struttura della Società delle Nazioni, ma anche gran parte della teoria del diritto internazionale statunitense ed europeo. Le opere di George Scelle (Précis de droit des gens) e di Hersch Lauterpacht (The Function of Law in the International Community), analizzate da Schmitt nel suo saggio, gli appaiono indizi non trascurabili che segnalano la 'nuova fase' a cui è pervenuto il diritto internazionale.

Differenti nello stile e nell'impronta intellettuale, i testi di Scelle e Lauterpacht tendono secondo Schmitt "alla costruzione di un ordinamento giuridico universale del mondo, garantito da istituzioni in cui la Società delle Nazioni, la comunità internazionale universale, l'ordine mondiale e l'umanità si sovrappongono, si completano e si sviluppano reciprocamente" (p. 16). Si afferma così, sostiene Schmitt, "un diritto internazionale completamente nuovo, che manda in frantumi il concetto di Stato" (p. 13) e nel quale l'individuo diventa l'unico soggetto giuridico del diritto internazionale e l'"unico destinatario di ogni norma" (p. 21). Quello che emerge dagli scritti di Scelle e Lauterpacht è un modello individualistico e insieme universalistico, il cui progetto di edificazione di una civitas maxima porta alla "detronizzazione" dello Stato e alla "denazionalizzazione" della guerra che, "in nome del dogma universalistico", viene dunque bandita perché considerata "crimine internazionale supremo".

Non è rilevante, precisa Schmitt, porre al centro del diritto internazionale il potere legislativo, cercando "di trasformare il mondo in uno 'Stato di diritto mondiale'" (p. 29), come propone Scelle, né tantomeno, come suggerisce più prudentemente Lauterpacht, creare "una magistratura che dà vita a un common law internazionale" (p. 39), divenendo così l'istituzione centrale del diritto internazionale. Ciò che va sottolineato è che per Schmitt entrambe le tesi eludono il problema fondamentale: e cioè il concetto di guerra.

Ora che "la questione della guerra giusta è stata posta" (p. 61) e che la centralità dello Stato quale detentore dello jus ad bellum è stata rimossa, è opportuno chiedersi "se il nuovo concetto internazionale di guerra, che ha avuto origine nella Società delle Nazioni e nel Patto Kellogg, e che su questa base distingue tra guerra giusta e guerra ingiusta, [...] possa funzionare come elemento ordinatore" (p. 61). Il disordine in atto, contrassegnato da "numerose lotte sanguinose di fronte alle quali si evita prudentemente di usare il concetto di guerra" (p. 3), appare a Schmitt il segno inconfutabile che nessun ordine alternativo è seguito al dissolvimento dei vecchi ordinamenti. Un motivo in più per far luce sul nuovo concetto di guerra che, lungi dal rappresentare, per Schmitt, una semplice analisi di carattere teorico, aiuta tutt'al più, sul piano giuridico, "a disperdere la nebbia delle attuali ingannevoli finzioni e a mostrare la reale situazione del diritto internazionale odierno" (p. 3). Banditi i presupposti tradizionali della guerra en forme, si inaugura così, in nome di un principio universalistico-ideologico, con pretesa ecumenica, un nuovo tipo di guerra: la moderna guerra giusta totale. L'irruzione di una discriminazione nel diritto internazionale - risalente al trattato di Versailles del 1919, nel quale si condanna come 'criminale' l'imperatore Guglielmo II e che Schmitt non si stanca di rievocare - non solo "priva del loro prestigio e della loro dignità i concetti di guerra e di nemico" (p. 68), ma annientandoli entrambi, riduce la guerra ad un'esecuzione o "azione di polizia" internazionale condotta legittimamente dalle 'forze del bene' contro i perturbatori della pace. Entro questo orizzonte manicheo che divide il mondo in buoni e cattivi, non c'è posto per la neutralità dei terzi che perde, così, ogni legittimità: "Non appena viene negata l'idea di una possibile neutralità e con essa la nozione di 'Stato terzo' non partecipante alle ostilità, emerge la pretesa di esercitare un dominio universale o regionale" (p. 65).

Non c'è da stupirsi - insiste Schmitt - che nella guerra "discriminante" moderna, abbandonato il concetto di justus hostis "capolavoro della ragione umana" insieme allo Stato, riemerga, quale nemico da annientare, il pirata, ovvero, "per evocare la versione moderno-metropolitana dei pirati, il gangster" (p. 72), che ai nostri giorni assume il volto del terrorista. La regressione del concetto giuridico di justus hostis a concetto teologico di nemico assoluto, trasforma il nemico in un mostro disumano che non va solo sconfitto ma annientato.

Non ha dubbi Schmitt quando afferma, nell'Introduzione a Die Wendung, che "la storia del diritto internazionale è una storia del concetto di guerra" (p. 3) poiché è in esso che "si rispecchia il disordine dell'attuale situazione mondiale" (p. 3) in cui non è dato intravedere - al di là di una pretesa universalistica che distrugge Stati e popoli (p. 73) - un possibile 'ordinamento concreto' capace di colmare il vuoto lasciato dal tramonto di "una teoria ordinatrice del diritto internazionale forse debole ma sicuramente autentica ed efficace" (p. 73).

Non può sfuggire la scottante attualità di queste pagine, il cui valore profetico è sempre più confermato ed arricchito dagli avvenimenti della realtà odierna che, dalla guerra del Golfo alla guerra "umanitaria" fino alla guerra al terrorismo, segnano tragicamente la nostra epoca.

Claudia Terranova