2010

World Bank, World Development Report 2010. Changing the Climate for Development, ISBN 9780821379875

Il Rapporto sullo Sviluppo 2010 della Banca Mondiale si interroga sulla relazione biunivoca tra sviluppo e cambiamento climatico e sulle possibili strategie di policy e governance globale volte ad evitare che le legittime necessità di crescita dei paesi meno sviluppati non intacchino il benessere delle future generazioni e l'esistenza stessa dell'intero pianeta. Allo stesso tempo, si considera quella del cambiamento climatico come un'opportunità di riconversione ed ammodernamento di impianti industriali obsoleti nei paesi sviluppati e di cooperazione con i paesi in via di industrializzazione affinché intraprendano un sentiero di crescita sostenibile.

La tematica è più attuale che mai. Il recente Vertice di Copenaghen sul clima ha, infatti, mostrato che le preoccupazioni per l'innalzamento delle temperature e le sue conseguenze sul breve e medio termine sono reali e condivise. Tuttavia, le imminenti esigenze di crescita economica e superamento della crisi finanziaria e delle sue ripercussioni sull'economia reale, sono ancora troppo forti per portare ad un accordo capace di mettere in discussione l'attuale modello di sviluppo basato su energie fossili.

Qual è, potenzialmente, l'impatto del cambiamento climatico sullo sviluppo? L'aumento di fenomeni naturali estremi e carichi di conseguenze drammatiche, come alluvioni, siccità, desertificazione, tifoni, la cui causa è attribuita in primis all'aumento delle temperature, comporta costi umani ed economici che sottraggono necessariamente risorse dalla crescita. Inoltre, la pressione esercitata su molti ecosistemi mette a rischio i principali mezzi di sussistenza delle popolazioni locali, soprattutto laddove si accettasse uno scenario "business-as-usual", e cioè un ulteriore aumento della temperatura di 5° C entro la fine del secolo. Per la verità, la letteratura scientifica non concorda in maniera unanime sul legame tra riscaldamento globale ed il presunto aumento di eventi climatici estremi, come emerso di recente dall'inchiesta "Climategate" del quotidiano britannico "The Guardian". Uno studio di Schulte del 2008 ha rassegnato 539 paper dal 2004 al 2007, trovandone il 45% esplicitamente o implicitamente a favore dell'ipotesi di cambiamento climatico e il 6% esplicitamente o implicitamente contrario (vedi Klaus-Martin Schulte, 2008, "Scientific Consensus on Climate Change?", Energy & Environment, Vol. 19(2) ).

Il Rapporto, che non affronta la questione, stima che i paesi meno sviluppati pagheranno più del 70% dei costi dovuti al cambiamento climatico, a causa della loro maggiore dipendenza dal capitale naturale e della vicinanza fisica a luoghi più esposti a fenomeni naturali devastanti. La loro maggiore vulnerabilità finanziaria ed istituzionale li rende, peraltro, meno resilienti rispetto ai paesi sviluppati, determinando una ripresa più lunga e complessa. Eticamente e politicamente, ciò è semplicemente inaccettabile, considerando che i cittadini dei paesi ad alto reddito contribuiscono al riscaldamento globale, mediamente, cinque volte in più dei cittadini dei paesi a basso reddito; inoltre, lo stock di emissioni accumulato dalla rivoluzione industriale in poi è quasi interamente addebitabile ai paesi sviluppati.

La strategia proposta dai curatori del Rapporto è perciò di intervenire immediatamente attraverso azioni di mitigazione per mantenere i livelli del riscaldamento entro dei limiti accettabili, e cioè 2° C in più rispetto alle temperature precedenti alla rivoluzione industriale. Tuttavia, ciò comporta un intervento rapido e delle strategie condivise, che vincolino i paesi a rispettare gli impegni presi. Come si sottolinea nel Rapporto, l'impatto di un solo paese che sceglie di giocare come free-rider è minimo ma se tutti scelgono questa strategia, le conseguenze sul clima potrebbero essere devastanti, annullando qualsiasi sforzo individuale. Da qui, l'esigenza di evitare di imporre politiche univoche a tutti e di considerare le diverse esigenze di crescita e sviluppo.

Cosa fare? Le parole d'ordine del Rapporto sono mitigazione e adattamento. Mitigazione significa diminuzione delle emissioni di gas serra, cioè passare da un'economia basata su tecnologie ad alto consumo di energie fossili ad una a basso consumo. Per raggiungere l'obiettivo di stabilizzare l'aumento della temperatura entro 2° C, il Rapporto stima che le emissioni dovrebbero cominciare a diminuire sin da subito dell'1,5% l'anno. Un ritardo di soli 10 anni comprometterebbe definitivamente il raggiungimento di questo obiettivo; infatti, la riduzione di emissioni comincia ad incidere sulla concentrazione di CO2 nell'atmosfera, e quindi sulla temperatura, solo dopo diversi anni. L'adattamento implica rivedere le proprie strategie di sopravvivenza, gli stili di vita e le modalità attraverso cui gli ecosistemi vengono pensati, gestiti e costruiti. Di conseguenza, un obiettivo che nel Rapporto viene definito come "accettabile", "responsabile", ma non ottimale, implica mutamenti a livello globale pressoché ambiziosi.

Come farlo? Innanzitutto, attraverso politiche pubbliche ed industriali lungimiranti, basate su pianificazioni di lungo periodo: nei prossimi anni, la costruzione di nuove infrastrutture, i piani urbanistici e la creazione e riconversione di nuovi impianti industriali dovranno tutti tendere ad un consumo limitato di energie fossili. Ciò sarà possibile solo attraverso un'accelerazione nell'adozione di nuove tecnologie, la cui creazione e diffusione richiede necessariamente un aumento degli investimenti in ricerca, sviluppo e implementazione, che il Rapporto stima compreso tra i 100 e i 700 miliardi di dollari.

L'aumento del risparmio energetico dovuto all'incremento dell'efficienza è considerato come la modalità di riduzione delle emissioni più economica anche se non necessariamente la più semplice da attuare: infatti, essa implica di rivedere completamente come l'energia è prodotta, distribuita ed utilizzata. La seconda opzione è di incrementare l'uso su larga scala di energie rinnovabili, al fine di recuperare sui costi medi. La scarsità di siti adeguati per l'energia eolica, idrica e geotermale, la dispendiosità dell'energia solare e, infine, gli alti costi ambientali legati alla deforestazione per la produzione di biomasse, rendono questa possibilità di difficile attuazione. La terza opzione è il ricorso al nucleare, che però presenta criticità legate allo smaltimento delle scorie, alla sicurezza degli impianti e alle sue degenerazioni militari. La possibilità di catturare e stoccare l'anidride carbonica emessa durante i processi di combustione fossile, permetterebbe di diminuirne il rilascio nell'atmosfera, ma attualmente questo tipo di tecnologia non è ancora disponibile.

Date le attuali possibilità tecnologiche, perciò, la combinazione delle fonti energetiche risulta come l'alternativa più ragionevole seppure non ottimale. Inoltre, la totale riconversione del capitale fisico o il passaggio a pratiche di utilizzo dei suoli più sostenibili, potrebbero avere dei costi troppo alti. D'altra parte, una prospettiva basata unicamente sui rendimenti di breve-medio termine implicherebbe il rischio di restare bloccati nell'utilizzo di tecnologie ad alto consumo di energie fossili e, quindi, in una dinamica "business-as-usual". La comunità internazionale deve intervenire al fine di garantire radicali mutamenti nell'organizzazione delle società e dei comportamenti individuali e collettivi. Un accordo internazionale è necessario perché i paesi sviluppati si impegnino non solo in azioni di mitigazione ma anche di guida e finanziamento delle politiche dei paesi meno sviluppati, in particolare in termini di trasferimento tecnologico.

Al di là delle politiche volte alla riduzione dei gas serra, la Banca Mondiale ritiene fondamentale che i paesi adottino dei comportamenti in linea con i mutamenti imposti dal cambiamento climatico e dai suoi (potenziali) effetti: i sistemi di allerta rapida, il monitoraggio, e, ancora una volta, la creazione di infrastrutture e costruzioni adeguate possono ridurre notevolmente il rischio di conseguenze nefaste dovute ad eventi estremi. Inoltre, è importante assicurare la disponibilità di liquidità nel caso in cui tali eventi avvengano inaspettatamente e ciò richiede il finanziamento di fondi di emergenza, politiche di protezione sociale e safety nets.

La chiave di volta resta, perciò, nello sforzo GLOBALE di gestione del cambiamento climatico, attraverso azioni volte ad affrontare alla radice le cause del problema ed a limitare al massimo il rischio di danni (potenziali) oppure ad essere pronti ad affrontarli con mezzi adeguati qualora accadano. Il Rapporto suggerisce di fare affidamento su strategie che definisce "robuste", che tengano, cioè, conto di diversi scenari e possibili risultati, piuttosto che di un solo risultato ottimale per un dato set di aspettative (per esempio, la riduzione di un determinato quantum di emissioni, come nel caso dell'Unione Europea); ciò implica necessariamente flessibilità e diversificazione nella capacità di risposta al fine di assicurarsi elevati margini di errore e reversibilità.

I curatori del Rapporto sullo Sviluppo 2010 propongono una visione del problema ragionevole e assolutamente non velleitaria. Individuano un obiettivo pragmatico di riduzione delle emissioni e la via per raggiungerlo. Con onestà intellettuale, ammettono che l'incertezza dovuta alla disponibilità di adeguate tecnologie verdi e alla riconversione degli impianti industriali e degli ecosistemi a fonti di energia più sostenibili, non permette di individuare strategie ottimali ed obiettivi puntuali, ma solo impegni sull'attuazione di determinate policy. D'altra parte, malgrado la consapevolezza globale del problema e l'interesse da parte della comunità internazionale, l'esistenza di egoismi nazionali incrociati rende il raggiungimento di un credibile accordo internazionale infattibile, privando di senso qualsiasi azione volta alla mitigazione.

Il Rapporto stesso ammette che investire nell'adattamento piuttosto che nella mitigazione implica un rischio notevole, a causa della gravità e dell'irreversibilità dei danni che potrebbe, potenzialmente, provocare uno scenario "business-as-usual". La sensazione è che, per non apparire velleitari, semplicemente si eviti di affrontare nodi cruciali per la mitigazione. Malgrado ci si soffermi più volte sulla necessità di mutare i propri stili di vita, il modello consumistico dominante, che rappresenta uno standard di vita per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, non viene mai messo in discussione. Per esempio, si assume l'aumento del consumo di carne come un dato oggettivo e imprescindibile, malgrado contribuisca sensibilmente all'incremento delle emissioni di gas serra lungo l'intera filiera produttiva e alla competizione nell'utilizzo delle risorse. Si riconosce il diritto dei paesi meno sviluppati di consumare più carne, ma, paradossalmente, non si contempla il dovere dei paesi sviluppati di consumarne di meno.

L'assunto in base al quale l'efficienza del mercato garantirebbe sia la sicurezza alimentare globale sia un minore impatto ambientale dell'attività agricola non sembra sufficientemente robusto. Infatti, l'accettazione degli alti costi ambientali e sociali legati all'agricoltura intensiva e alla distribuzione di beni primari, seppure mitigati da tecnologie più sostenibili e ancora non disponibili, risultano difficilmente giustificabili in un Rapporto che si occupa di cambiamento climatico e sviluppo. Risulta altresì discutibile il fatto che si critichi, giustamente, l'uso eccessivo del trasporto privato ma non si metta in discussione l'inutile movimentazione di merci volta a soddisfare abitudini alimentari con un'alta impronta ecologica. Sarebbe stato apprezzabile porre la questione della legittimità di certi modelli di consumo nonché della responsabilità dei governi di educare i propri cittadini al consumo di beni prodotti localmente e a basso impatto ambientale.

Riguardo poi le fonti energetiche, il Rapporto sottovaluta eccessivamente le potenzialità dell'efficienza energetica, che relega al ruolo di mero Caronte nel passaggio alle rinnovabili e al nucleare. In realtà, puntare sull'efficienza presenta criticità e rischi inferiori rispetto alle altre fonti, costi minori per i consumatori e la possibilità di adattare le tecnologie attualmente esistenti (su questo si veda Andrea Molocchi, 2010, "Il risparmio di energia, virtù dimenticata"; Andrea Molocchi, 2010, "Risparmiare Energia: gli incentivi possibili"). Il rischio di restare bloccati in tecnologie ad alto impatto ambientale risulta dall'eccessiva incertezza legata a tecnologie ancora non disponibili o poco compatibili con il capitale fisico e le competenze attualmente esistenti. Inoltre, in questo campo c'è ancora molto da sperimentare: ne sono un esempio gli impianti cogenerazione di energia e calore, che permettono di risparmiare fino al 40% di energia rispetto a quelli convenzionali.

Diverso il discorso per molti paesi in via di sviluppo, soprattutto quelli Africani, le cui condizioni economiche e geografiche sono spesso inadeguate per installare un efficiente sistema elettrico tradizionale, per non parlare delle centrali nucleari, e per i quali le energie rinnovabili possono rappresentare un'alternativa fattibile. E' il caso del fotovoltaico: diversi progetti sono presenti in Zambia, Tanzania e Mali e sono attualmente finanziati dalla Banca Mondiale e dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP). E' chiaro, tuttavia, che nel prossimo futuro la cooperazione internazionale può fare molto in questo campo, soprattutto se si supera una certa impostazione legata al mero trasferimento tecnologico coinvolgendo le università e i ricercatori dei paesi beneficiari nella creazione di tecnologie appropriate.

Sara Turchetti