2005

F. Vander, Kant, Schmitt e la guerra preventiva. Diritto e politica nell'epoca del conflitto globale, Manifestolibri, Roma 2004, pp. 110, ISBN 88-7285-409-1

Il fatto e problema noto col nome di «undici settembre» richiede - scriveva Derrida - una risposta filosofica. E di tale natura è la risposta che presenta Fabio Vander in questo saggio, mettendo a confronto alcuni classici moderni del pensiero filosofico-politico - Hobbes, Kant, Schmitt - con gli esiti aberranti delle reazioni all'undici settembre, in particolare la dottrina (e purtroppo anche la pratica, col suo corteo di distruzioni, stragi e massacri) della «guerra preventiva».

Ho trovato la pars destruens di questo pamphlet più soddisfacente della pars construens. Convincente è infatti la proposta di riflettere teoricamente su questi temi rinunciando a manicheismi o a contrapposizioni di civiltà alla Huntington: la sfida terroristica alla globalizzazione non può essere ridotta - come fanno i leader politici statunitensi nel loro fondamentalismo di matrice cristiana - al confronto tra Bene e Male, perché in questo modo si finisce per parlare lo stesso linguaggio del terrorismo, contrapponendo alla jihad la crociata, alla fatwa afgana la fatwa texana.

Nella sua riflessione sulla guerra preventiva Vander ricorre a Kant criticando allo stesso tempo l'interpretazione fattane da Carl Schmitt. È vero infatti che per Kant non c'è diritto senza forza, ma questo non giustifica e non legittima né crociate né guerre offensive, aggressive o preventive condotte allo scopo di affermare e conservare l'egemonia mondiale. Non le giustifica nemmeno se a sostenere la strategia dell'attacco preventivo non è solamente il governo degli Stati Uniti con la sua attuale deriva autoritaria e liberticida; Vander mostra infatti sulla scorta di studi e rapporti precisi come la stessa tendenza sia riscontrabile nelle dottrine militari di Russia e Cina.

Come contrastare la dottrina antidemocratica della guerra preventiva, come restaurare il diritto e i diritti, si chiede Vander nella pars construens? La risposta è debole - come accennato - di fronte alla forza, anzi alla superpotenza delle posizioni avversarie. Bisogna tornare alla politica classica, ripete l'A., allo stato diritto, occorre criticare e respingere sia la guerra continua sia la monarchia universale, occorre rilanciare l'idea habermasiana (fermamente sostenuta anche da Otfried Höffe) di una comunità internazionale che contrasti lo stato di natura fra stati. Ma basta continuare a predicare di tornare all'origine, ha senso rilanciare concetti vetusti per quanto venerabili? È sufficiente chiedere agli Usa di tornare indietro alle loro migliori tradizioni abbandonando - la richiesta è ancora di Habermas - le attuali clamorose violazioni dei diritti umani e dei contratti internazionali, prima di tutto «il cuore della carta delle Nazioni Unite, - il divieto di guerre di aggressione»? (Jürgen Habermas in un colloquio con la Deutsche Presseagentur, riportato in Information Philosophie, n. 4, 2004, p. 144). Non sarebbe più efficace cercare di andare avanti e di immaginarsi dottrine innovative così valide e forti da difenderci dai guerrieri del terrorismo e dai guerrieri della democrazia?

Francesca Rigotti