2010

B.A. Ackerly, Universal Human Rights in a World of Difference, Cambridge University Press, Cambridge 2008, pp. 388, ISBN 978-0521707558

Secondo Brooke Ackerly le teorie di genere rappresentano un punto di vista privilegiato per esaminare il problema dell'universalità dei diritti umani perché portano alla luce quelle violazioni dei diritti che rimangono nascoste dalle disuguaglianze strutturali inscritte nel tessuto sociale. Nello stesso modo in cui le teorie di genere mettono in questione l'organizzazione celatamente maschilista delle nostre società, così possono risultare utili per scardinare il tessuto di preconcetti che rendono invisibili alcune lesioni dei diritti umani. Questo approccio si lega a una critica dell'epistemologia che presiede ai discorsi abituali intorno alla possibilità di una fondazione universale dei diritti, condotta sulla base dell'identificazione tra atteggiamenti epistemologici e assetti di potere sottostanti. Ackerly sottoscrive una preferenza per le teorie della giustizia non-ideali (in senso rawlsiano: che cioè non prescindono dai conflitti che empiricamente si verificano all'interno della società) e ritiene che solo un approccio "impuro" alle questioni fondazionali può risultare fruttuoso. Parallelamente, Ackerly critica i tentativi di fondazione dei diritti basati su metafisiche religiose o secolari "trascendenti" - per esempio, gli approcci che fondano i diritti sul concetto di dignità umana o su teorie deontologiche della morale - per promuovere una teoria "immanente" dei diritti.

Ma quali sono i capisaldi dell'approccio immanente promosso da Ackerly? In primo luogo, la preferenza per una teoria politica piuttosto che metafisica dei diritti umani, intendendo con questa specificazione l'opzione a favore di un approccio che tenga conto della dimensione pratica e del radicamento empirico dei diritti senza perseguire un'impossibile fondazione normativa. In secondo luogo, la tesi secondo la quale il tema dell'universalità dei diritti richiede, per essere sviluppato nella maniera più appropriata, un'epistemologia destabilizzante, vale a dire un approccio epistemologico che rinunci identificare una volta per tutte gli assunti irrivedibili sui quali si fonda la metodologia di indagine proposta ma che, al contrario, si dedichi attraverso approssimazioni successive e soprattutto attraverso la messa in discussione dei risultati parziali ottenuti alla costruzione di una teoria dei diritti accettabile dal più vasto numero di soggetti. Su queste basi Ackerly critica le proposte di autori come Charles Taylor, Joshua Cohen e Martha Nussbaum, che per un altro verso, mostrano una marcata sensibilità verso le tematiche del confronto interculturale e che anticipano alcuni esiti della riflessione di Ackerly stessa.

Nei capitoli che compongono la seconda parte del volume Ackerly espone nel dettaglio i criteri metodologici seguiti nell'elaborazione della propria teoria immanente dei diritti umani. Ackerly propone una costruzione 'dal basso', alimentata dai resoconti delle attiviste che, in ogni parte del mondo, operano per l'estensione e l'implementazione dei diritti umani. Data la provenienza eterogenea dei contributi che la teoria deve sistematizzare, le tecniche di elaborazione adottate devono consentire l'accomodamento di visioni spesso contrastanti fra loro e riempire i vuoti lasciati dalle voci che, per effetto della censura politica, non hanno trovato via di espressione.

Ackerly sostiene che dal confronto con le istanze delle attiviste emergono due tratti generali che una teoria immanente e universale dei diritti umani deve incorporare. La teoria deve essere una teoria dinamica, nel senso di lasciare spazio a discrepanze nella lista dei diritti riconosciuti. Questa caratteristica riflette il fatto che attiviste che operano in regioni del mondo differenti hanno diversi modi di costruire le proprie scale di priorità e di selezionare i temi salienti della battaglia per il riconoscimento politico delle garanzie personali. Il secondo aspetto rinvia invece al fatto che, nonostante le differenze contenutistiche, le attiviste che operano per il riconoscimento dei diritti umani sembrano condividere una salda fiducia nel radicamento universalistico dei diritti stessi e nella loro qualità di strumenti a disposizione dei soggetti per un ampliamento delle loro capacità/potenzialità individuali. In questo modo, dando credito alla pratica delle attiviste in favore dei diritti umani sparse nel mondo, Ackerly sostiene di poter produrre una giustificazione immanente dell'universalizzabilità, se non dell'universalità, dei diritti umani, tale da superare il particolarismo implicito dei tentativi di fondazione tradizionali.

Pur guardando simpateticamente alle tesi avanzate da Ackerly, non è possibile non rilevare che esse non risultano sufficientemente motivate. In effetti, il confronto di Ackerly con il dibattito contemporaneo sulla materia è concentrato soprattutto nei capitoli che compongono la prima parte del volume, mentre i capitoli che compongono la seconda parte si alimentano soprattutto all'esperienza personale dell'autore nel campo dell'attivismo in favore dei diritti. In questo modo Ackerly rinuncia sostanzialmente a discutere un gran numero di autori, di problematiche e di soluzioni alternative che sarebbero pertinenti alle tematiche affrontate. Venendo a un'obbiezione più teorica, non c'è dubbio che l'esperienza dell'azione in favore dei diritti umani "dal basso" possa recare un apporto determinante all'implementazione di un autentico dialogo interculturale. Ci si può interrogare, tuttavia, se esso non richieda di essere integrato o coordinato con un analogo dibattito che si svolga al livello delle istituzioni internazionali e che insista più direttamente sulle dimensioni più teoriche e politiche della materia. Parafrasando Kant si può forse concludere che se il dibattito accademico senza il confronto con l'azione dal basso rischia di rimanere troppo astratto, la riflessione sull'attivismo militante che prescinda dalla teoria risulta non sufficientemente strutturata.

Leonardo Marchettoni