2014
La sovranità come “funzione” dello Stato. Una
critica di Alfredo Codacci-Pisanelli al dogmatismo volontaristico
Gian Paolo
Trifone
Abstract
- Secondo la teoria di A. Codacci-Pisanelli, la sovranità, lungi da un
criterio volontaristico, risulta manifestazione potestativa dello
Stato-persona a cui fa capo. In questa misura, essa è funzionale ad uno
'scopo' ordinamentale ed è sottoposta ai limiti imposti dal diritto
pubblico. Tale impostazione ha anche un impatto sulla riqualificazione
dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, in una dimensione
organica.
Abstract
- According to the theory of A. Codacci-Pisanelli, sovereignty, far
from a voluntary policy, results as a potestative manifestation of the
State-person to which it belongs. To this extent, it is functional to a
'purpose' and it’s subject to the limits imposed by public law. This
approach has also an impact on the redevelopment of the legislative,
executive, and judiciary powers in an organic dimension.
La pubblicazione di un saggio sulla sovranità – in
riferimento ad un
contesto nazionale e ad un periodo storico definiti – non sembri
inappropriata in una Rivista di filosofia e storia del diritto
internazionale.
Se il diritto internazionale, tradizionalmente,
parte dall’assunto
groziano per cui, in ogni paradigma relazionale, l’esperienza umana si
muove secondo regole generali, in prospettiva di una «sistemazione
delle condotte»1,
la sovranità è la «razionalizzazione giuridica» del potere inteso come
criterio gerarchizzante2,
dunque ordinante delle diverse funzioni nell’ambito dello Stato, che
del sistema giuridico internazionale è struttura primaria. In via
principiale, la ricerca dell’ordine in seno ad una comunità
giuridicamente determinata riguarda entrambe le organizzazioni, sia
pure con le opportune connotazioni.
Questo scritto contribuisce a mettere in risalto
l’esigenza della
legittimazione dell’autorità tra Otto e Novecento, per cercare dove
veramente risiede «quel potere ultimo di decisione, che, nel momento in
cui acquistò consapevolezza di sé, si definì sovrano»3.
Nel 1891, i Tipi T. Nistri e C. di Pisa danno alle
stampe Il dogma della sovranità popolare4 di
Alfredo Codacci-Pisanelli5.
Si tratta del testo letto dal giuspubblicista in occasione
dell’inaugurazione di quell’anno accademico presso l’Ateneo pisano che,
come di consuetudine, affidava la prolusione al più giovane dei docenti
incardinati.
La formazione culturale di Codacci-Pisanelli è di
indirizzo germanista6;
il principio che ispira la sua opera è quello giusformalistico; Pietro
Chimienti lo annovera tra gli aderenti all’indirizzo scientifico
orlandiano insieme, fra gli altri, ad Arangio Ruiz, Brusa, Brondi,
Cammeo, Donati, Forti, Santi Romano. Su Vittorio Emanuele Orlando ed il
‘metodo giuridico’ non è il caso di soffermarsi7.
Resta solo opportuno, in questa sede, il richiamo al concetto di
«presenza storica concreta dello Stato giuridico» che, con Orlando,
diventa il «nucleo fondamentale di quella realtà giuridica che era
ritenuta capace di vincolare la stessa soggettività del potere
politico», la quale - come è stato autorevolmente osservato - diventa
«razionalmente agente secondo modalità giuridicamente calcolabili»8.
Codacci-Pisanelli si allinea su tali posizioni, tra
coloro i quali
sostengono che «se […] diritto costituzionale e politica non vanno
confusi, è pur vero che questa gravita accanto a quello e fornisce la
spiegazione di alcuni rapporti e fenomeni della vita dell’ordinamento
statuale». Il primo tra i meriti del giurista deve ritenersi la
«comprensione storica». Il giovane giuspubblicista fiorentino è
dell’idea per cui «il diritto pubblico vive bensì accanto alla politica
ma non deve essere politica». Pertanto, l’indagine scientifica non
dovrebbe tendere alla giustificazione di alcune «situazioni storiche e
politiche», a supporto di esse9.
Il medesimo orientamento emerge anche da un’altra
prolusione, che il
giurista aveva tenuto qualche anno prima presso l’Università di Pavia.
Affrontando, da un lato, la distinzione tra diritto amministrativo e
diritto costituzionale, e tra diritto amministrativo e scienza
dell’amministrazione dall’altro, egli concludeva che si tratta di parti
del medesimo diritto pubblico, nel cui ambito il diritto costituzionale
costituisce l’ordinamento fondamentale e il diritto amministrativo «la
disciplina che studia l’insieme organico delle norme, delle leggi,
degli atti e delle istituzioni che mirano ad ordinare le funzioni dello
Stato, politicamente già costituito»10.
In questa prospettiva, la politica è fattore caratterizzante del
diritto pubblico; ma quest’ultimo vive nella sua espressione come
tecnica ordinamentale, che non deve rischiare di essere confusa col suo
elemento sostanziale, pena l’incomprensione della «struttura giuridica
degli istituti»11.
Storicizzare equivale a collocare il fenomeno
giuridico nel suo
precipuo contesto, contro ogni astrattismo. Rimane dunque, nel giurista
fiorentino, sempre viva l’attenzione per i “fatti”, secondo un angolo
di osservazione realistico continuamente rimarcato nel corso della sua
trattazione sulla sovranità popolare.
Il lavoro di Alfredo Codacci-Pisanelli si colloca
all’interno di un
più ampio progetto di revisione del concetto di sovranità da parte dei
giuristi formalisti12,
che mette su un piano secondario la accezione filosofico-politica a
favore del «momento dell’effettivo potere e del suo esercizio»13
quale espressione della «capacità giuridica» dello Stato, secondo il
principio per cui la capacità giuridica di un soggetto «comprende tutti
i diritti di esso»14.
Diversamente dalla dottrina costituzionalistica - che vede la sovranità
in capo alla nazione «quale ente collettivo di ragione esprimente
principi universali, i quali rinviavano alla personalità umana»15;
la realistica - che interpreta la sovranità come mero dato di fatto16;
e la sociologica - che muove dalla società quale plesso organico17,
la dottrina formalistica considera la sovranità «originaria
esplicazione della personalità dello Stato nella sua capacità di
comandare autocraticamente entro un dato territorio»18.
Se la sovranità può dirsi sottoposta a dei limiti19,
essi sono «giuridici» nella misura in cui sono imposti dallo Stato a sé
stesso. Limiti sociali e politici non sono effettivamente concepibili
dal momento che il «comando assoluto» dello Stato «è la forma politica
della sua stessa convivenza». In questo senso, lo Stato vive attraverso
il suo diritto, che del primo è dichiarazione imperativa, «sempre
accompagnata da una serie di regole a mezzo delle quali, in caso di
controllo o di controversia, si possa pervenire ad un comando
obbligatorio, sicché il circolo si richiude sempre con una
manifestazione di volontà assoluta»20.
Si potrebbe addirittura rappresentare un “volontarismo istituzionale”,
per cui la sovranità consisterebbe nell’«esercizio supremo di volere da
parte dello Stato per il raggiungimento dei propri scopi, produttivo di
conseguenze coattive sui sudditi», seppure nei «limiti delle facoltà
giuridiche spettanti allo Stato, in base al diritto esistente». Quello
che emerge, in buona forma, è la prospettiva soggettivistica che
attribuisce allo Stato in via esclusiva l’esercizio dell’imperium
attraverso l’atto amministrativo. Fino a configurare una vera e propria
“onnipotenza” dello Stato medesimo: «la sovranità è quella somma
facoltà di volere dello Stato, fatto attivo per il raggiungimento dei
propri interessi, protetta e riconosciuta decisiva dal diritto
obiettivo, secondo la quale lo Stato può volere e raggiungere
coattivamente ciò che vuole»21.
Da parte sua, nel fissare il concetto di sovranità,
Codacci-Pisanelli ne esclude ogni connotato personalistico. Non
appartenendo ad un soggetto o ad un organo particolare dello Stato, la
sovranità diventa una “funzione” attinente all’organizzazione dello
Stato stesso22.
Più precisamente, essa viene ravvisata in un «complesso di facoltà e
diritti […] designati come potestà di organizzazione, di comando e di
divieto»23,
risultando una «manifestazione», da parte di organi diversi e assumente
forme differenti, volgente «in più direzioni e sfere che variano col
mutare dei fini pubblici». Se il criterio della sovranità non coincide
più con quello tradizionale di “potere” di tipo verticistico, viene
scartata automaticamente l’opzione del legislativo come potere supremo.
In una dimensione organica, «il decreto governativo e la sentenza
giudiziaria sono, come la legge, manifestazioni della sovranità, in
quanto contengono comandi o divieti ai quali coloro cui sono rivolti
debbono uniformarsi»24.
Affermata la centralità dell’organizzazione, la
sovranità risulta da
una «coordinazione non di poteri, ma di autorità spesso cooperanti e
talora controllantisi nell’esercizio delle attribuzioni, non in base a
uno schema prestabilito, ma secondo i fatti e i bisogni pratici»25.
Codacci-Pisanelli è perentorio nell’escludere una gerarchia tra
legislativo, esecutivo e giudiziario. Il diritto pubblico, nell’atto di
regolare l’esercizio della «potestà sovrana», pone in essere un
“sistema” ordinamentale, per cui vincola «non meno le autorità che i
cittadini, con norme certe, sicure e stabili». All’interno di tale
sistema vanno definiti i “fini” da perseguire, che costituiscono «la
parte più stabile del potere sovrano» e per la cui realizzazione è
previsto un esercizio in certa misura elastico delle diverse
competenze, sebbene entro “limiti” prestabiliti dalle leggi fondamentali26.
Che poi certe limitazioni siano realmente efficaci,
è motivo di
discussione. Giorgio Arcoleo – in consonanza con Codacci-Pisanelli
sulla unicità della sovranità «nella sua essenza» e sulla diversità di
aspetti relativi al suo esercizio, «pur serbando identico principio e
scopo» - sostiene che ciascun potere ha «rispetto all’altro, un
rapporto di autonomia, in quanto ha esistenza propria: - di coordinazione,
in quanto concorre al medesimo scopo di attuare la sovranità dello
Stato: - di sindacato, in quanto può vigilare e resistere agli
abusi ed eccessi dell’altro potere»27.
E tuttavia lo sviluppo delle attività statali ha ben presto complicato
i rapporti tra le funzioni legislativa, esecutiva e giudiziaria.
Pertanto, nella prospettiva di un coordinamento tra l’esercizio della
sovranità dello Stato e la tutela della libertà dei cittadini, il
costituzionalista distingue potere e diritto,
«attribuendo un carattere obbligatorio al diritto, facoltativo al
potere». Perché detta «facoltà discrezionale» non diventi «arbitraria»,
il potere dev’essere «compreso in una sfera d’azione», ovverosia
regolato da una norma, che lo renda legittimo. Senonché, a tale
«analogia di rapporto col diritto» rischia di sfuggire il governo, per
la sua natura politica di «forza imperante, che trova la sua ragion
d’essere nella necessità di una direzione e di un comando». Una
legittimazione di fatto, insomma: «presumendosi come strumento della
vita stessa dello Stato, [detto potere] assume nella iniziativa e nei
mezzi una parvenza di legittimità, che gli sgombra la via e costringe
il funzionario ad eseguire, i cittadini ad obbedire»28.
Va aggiunto che tale discorso, portato alle estreme conseguenze, non
escluderebbe neanche la natura “politica” della legge come espressione
della volontà popolare.
Come si pone Codacci-Pisanelli di fronte al suddetto
«rapporto di differenza tra diritto e potere»29
? Secondo lui, la sovranità è allo stesso tempo forma ed espressione
dello “Stato-persona” - le cui manifestazioni ed effetti «ci fan certi
della sua non materiale, ma pur reale, esistenza» - e consta di due
elementi: quello stabile, costituito dalla norma «più o meno precisa»;
e quello mutevole «rappresentato dall’energia, più o meno libera,
dell’autorità chiamata ad agire». In questo senso, la definizione di
Orlando, per cui la sovranità è affermazione della personalità dello
Stato come capacità di volere30,
è esemplare. In ogni caso, garante del sistema è il «diritto nazionale»
nella sua vocazione “ordinante”. Esso «vincola il parlamento come ogni
altra autorità quando governa o controlla e lo vincola anche quando
legifera; poiché le nuove leggi debbono coordinarsi a quelle
esistenti». È questo principio della coordinazione, insomma, che
costituisce i limiti sostanziali del potere politico lato sensu.
Contro la sua pretesa onnipotenza, esiste un argine prestabilito anche
rispetto alla carta costituzionale, che, peraltro, è flessibile e
dunque modificabile per legge ordinaria. Se quest’ultima non mina le
fondamenta dell’ordinamento è perché il parlamento riconosce il suo
ruolo all’interno di una costituzione innanzitutto materiale: «nessun
parlamento, che capisca il suo ufficio, imprenderà mai ad un tratto la
demolizione di un intero sistema giuridico vigente per ricostruirlo di
pianta; né farà leggi contrarie ad altre in vigore, delle quali non
s’abbia in vista la riforma»31.
Quanto al governo, come già accennato, esso non è
mero esecutore
«d’un indefinito e indefinibile volere altrui», ma si presenta come
un’autorità il cui esercizio non si arresta alla pedissequa
applicazione delle leggi. Queste, tuttavia, ne definiscono la sfera di
azione; in caso di eccedenze, il governo è sottoposto a sindacato
giudiziario, amministrativo e parlamentare, secondo un preciso sistema
di controlli. Ciò che conta è che «le norme restano semplici limiti al
di là dei quali non è lecito andare; ma entro i quali rimane, tuttavia,
una più o meno ampia sfera discrezionale. Ond’è che la determinazione
della volontà politica non si esaurisce nella determinazione delle
regole». È la vita stessa, secondo Codacci-Pisanelli, a presentarsi
refrattaria agli schemi prestabiliti, e il diritto deve adeguarsi al
suo processo dinamico. Se quindi «la relazione tra la legge e il
governo ha più il carattere negativo di limitazione che quello positivo
di determinazione», ciò avviene in varia misura in ciascun settore: «in
ogni ramo e in ogni grado dell’amministrazione le norme lasciano una
maggiore o minore libertà d’azione». A ben vedere, sostiene il
giuspubblicista, anche l’operato dei «più umili agenti» si presenta
«non come mera esecuzione di un ordine generale o speciale»;
l’esercizio di una funzione, insomma, implica una certa elasticità
relativamente al fatto che è compiuta da uomini in riferimento a
esigenze concrete: «ricercare le cautele che ne assicurino il corretto
esercizio sarà il compito d’ogni pubblicista»32.
Nel negare «potere» agli organi legislativo, esecutivo e giudiziario,
il giurista fiorentino non è isolato: la sovranità non spetta «a
qualche organo particolarmente [bensì] allo Stato nella sua piena
personalità»33.
Il principio è ampiamente condiviso: «l’unità dello Stato importa che
il potere supremo è uno, come una è la sovranità»; quello che si scinde
è il suo «esercizio», attraverso «il complesso delle svariate funzioni»34.
Si tratta di riconoscere l’immanenza del diritto
nazionale di fronte
alla contingenza del provvedimento normativo; ovvero, che «il diritto
debba considerarsi come avente un’esistenza indipendente e superiore
all’organo che nella esplicazione concreta della sovranità è destinato
alla dichiarazione del diritto»35. La sovranità – come
anche è stato di recente osservato36
– non può essere oggetto di disposizioni attraverso un privato atto di
autorità, bensì si svolge «secondo la volontà dello Stato, manifestata
nella legge»37.
La sublimazione del soggetto politico nell’ente giuridico si compie dal
momento che «gli atti della sovranità conservano piena efficacia, anche
quando venga meno la persona del principe che li ha emanati […], perché
essi sono atti dello Stato persona collettiva»38.
E dunque, supporre che il diritto esista per legge è da reputarsi «un
errore costituzionalmente inammissibile»; mentre è vero il contrario:
«che la legge esiste per il diritto»39.
Alla luce delle precedenti osservazioni, il popolo
viene addirittura
esautorato da ogni esercizio politico: esso è considerato mero
«destinatario» della sovranità, poi che viene «assunto
nell’organizzazione dello Stato». E persino dopo il passaggio al
«regime democratico», la natura istituzionale rimane immutata, sicché
il popolo, una volta «ammesso» all’esercizio della sovranità, prende a
sua volta «la posizione di organo dello Stato»40.
Ciò per dire che il potere politico è soltanto una particolare
conformazione dell’ente giuridico cui fa capo.
Nondimeno secondo un indirizzo sociologico, la
sovranità dello Stato è la «determinazione dell’ordine giuridico»41,
tanto da riguardare il momento organizzativo della compagine sociale in
forma di mera concessione. Essa «non è un diritto»42,
ma si esprime attraverso il diritto in termini di «organizzazione della
costrizione sociale»43.
In questa visuale, quello che emerge è l’inevitabile «rapporto di
forza» tra «il potere sovrano e i suoi subordinati», al di fuori del
quale è vano ragionare di volontarismo democratico. Anche la democrazia
– e persino il socialismo -, come sistema ordinamentale, rientrerebbe
nella «necessità oggettiva» del «momento di signorìa», pena
«l’anarchismo che negando nella sua forma stessa l’ordine giuridico, [e
che] vorrebbe quell’elemento evitare, non può costituire il principio
di nessuna organizzazione sociale»44.
Per sintetizzare, ogni diritto ed ogni potere risultano come «permessi»
dallo Stato. Ciò, peraltro, esclude qualsiasi digressione in merito
alla presunta autonomia dei poteri legislativo ed esecutivo. Ancora una
volta, solo lo Stato ha «reale autonomia perché solo questo ha
sovranità»45.
Ma la sociologia ammette diversi punti di
osservazione: pur
stabilito che «come non vi ha Stato senza diritto, così non vi è
diritto senza Stato», la «norma» può ben diventare misura del «rapporto
armonico» tra gli scopi dei singoli e gli scopi comuni: in
quest’ottica, la «moltitudine vivente in un dato territorio» non
potrebbe esistere se non «ordinata a vita comune»46,
nella concezione che riconosce una specifica comunità in relazione allo
«spirito di popolo», ossia «un determinato carattere del popolo,
diverso dallo spirito e carattere degli individui, di cui è solo la
risultante armonica»47.
Pertanto, quando si fa riferimento alla «vita vissuta dalle singole
forze individuali e sociali esistenti nel seno di uno Stato» in
relazione all’esplicazione della sovranità, essa va intesa quale «vita
unitaria, complessiva», che è quella propria delle società umane
organizzate giuridicamente48. Senza vulnerare
l’assioma che «la sovranità compete allo Stato» come potere
«astrattamente, in principio, illimitato»49.
Ne consegue che tra Stato e diritto non c’è un elemento primario
rispetto all’altro, ma necessaria coincidenza: «lo Stato è organo del
diritto, il diritto è una delle funzioni, la funzione specifica dello
Stato». In quest’altra prospettiva, l’elemento autoritativo non è più
determinante: «lo Stato non può essere trasformato in un animale, né
ridotto a un mero rapporto di comando e di ubbidienza»50.
Il diritto è riconosciuto spontaneamente da parte dei consociati in
forza del «principio di autorità politica, o Sovranità propriamente
detta», che spetta esclusivamente allo Stato quale «mezzo alla
conservazione sociale»51.
Codacci-Pisanelli non è indifferente a certe
suggestioni, ma tiene
distinta la sovranità come «concetto giuridico formale», per cui essa
«non è illimitata, come non è indivisibile, né indelegabile». Il
diritto pubblico, nella sua dimensione razionale, la limita e la
ripartisce in ragione degli obiettivi sostanziali dello Stato. Il che,
si torni a dire, non esclude il campo di esame sociologico, che tende a
stabilire «quali elementi sociali si fanno, nei diversi casi, valere in
quella forma giuridica che è lo Stato»; né quello politico, che ricerca
«per un dato paese il miglior modo di distribuzione della sovranità»52.
Ad ogni buon conto, l’indagine giuridica conduce alla negazione della
concentrazione del potere ed alla distribuzione delle facoltà a diverse
autorità coordinate tra loro.
In questa visuale, la sovranità popolare è valutata
in senso
critico. Già Orlando aveva evidenziato l’errore di «intendere il
rapporto fra popolo e Stato come rapporto fra un soggetto portatore di
volontà e un mezzo funzionale alla realizzazione di questa»53
. Giudicando il diritto pubblico «nel modo stesso che il diritto
privato, come un complesso di principi giuridici sistematicamente
considerati», il fondamento della sovranità come diritto dello Stato
«non potrà essere sostanzialmente diverso dal generale fondamento di
ogni diritto»; secondo tale schema, la fonte del diritto sovrano ha
certamente a che fare col popolo, ma non nel senso “rousseauviano” del
complesso dei singoli individui. Analogamente, anche per la dottrina
organicistica «una volta che gl’individui non solo esistono, ma altresì
coesistono, e debbono necessariamente coesistere per la forza di
attrazione che li raggruppa nel corpo sociale, non può l’individuo
essere la fonte della sovranità»54.
Siamo a un punto di convergenza: la «coscienza collettiva del popolo»
qualifica l’«indole giuridica» del diritto di uno Stato, secondo i suoi
«precedenti storici»55.
È invece il richiamo alla costituzione formale come
«più alta
espressione della volontà generale» a diventare fuorviante, laddove
riporta la sovranità in capo al «corpo sociale» incarnato nella nazione56.
Il rischio è di confondere la nozione giuridica della capacità statuale
col suo contenuto politico, quest’ultimo espresso dalla volontà
popolare attraverso la rappresentanza. Il popolo è soggetto politico
mutevole; lo Stato è persona giuridica immanente. Ma «la sovranità, in
quanto esplica la capacità dello Stato, non può derivare che da un
concetto giuridico, il quale si può legare ad una persona morale, non
mai al popolo, che in nessun tempo e in nessuna parte del mondo ha
potuto e potrà mai assumere personalità ai fini del diritto»57.
Bisogna aggiungere che il tentativo di
Codacci-Pisanelli è piuttosto
quello di chiudere definitivamente la discussione ideologico-politica e
ripartire dal presupposto giuridico: essendo la presenza dello Stato
ineccepibile, il problema del suo fondamento non ha più ragione di porsi58.
Il che, per converso, si può dire anche del diritto: «ove si guardi
alla natura del diritto come funzione, e funzione essenziale, dello
Stato, esso non appare che come una manifestazione di volontà dello
Stato stesso […]. Ed è perfettamente indifferente per costruire la
teorica di questa manifestazione di volontà, una volta formatasi, il
considerarla volontà necessaria o volontà libera»59.
Stato e popolo non possono coincidere nella titolarità del potere
sovrano, perché questo è un insieme di manifestazioni giuridicamente
configurabili60.
Il principio democratico, dunque, deve essere analizzato a partire dal
significato di “potere del popolo”, al di là di posizioni ideologiche61.
Muovendo dall’osservazione della democrazia come
forma di governo
praticabile, Codacci-Pisanelli si interroga sulla compatibilità delle
istanze della sovranità popolare con i principi alla base dell’«ordine
obiettivo»62;
in altre parole: «se sia possibile dare seguito a quelle istanze
mediante i pilastri concettuali delle costituzioni»63,
oppure se il “sistema giuridico-politico”, per come impostato, non
impedisca la realizzazione di quelle istanze.
La supposizione della «volontà» popolare mette in
discussione il
concetto di sovranità come funzione e, di conseguenza, destabilizza la
forma-Stato, dato il principio per cui l’unica configurabile nello
«Stato moderno libero» è la volontà «del popolo ordinato ad unità, e
che come tale si distingue dalle individualità dei suoi membri, è
indipendente da essi, si contrappone ad essi e su di essi si manifesta
come potere»; che è potere legittimo in quanto «trova il suo
riconoscimento e la sua norma nell’ordine giuridico esistente nello
Stato»64.
Nella misura in cui lo Stato è comunità necessaria,
nel senso che l’uomo non può fare a meno di viverci, quest’ultimo non
può nemmeno sottrarsi al suo potere di imperio, che è originario, cioè
non derivato «da altra forza o volontà superiore o precedente». Il che
esclude, da parte del popolo, qualsiasi decisione di aderirvi o meno65.
Ma pur volendo fermarsi alla prospettiva del buon
governo,
l’elemento quantitativo già di per sé si presenta come fomite di
disordine e tendente all’anarchia. Ciò che Codacci-Pisanelli trova
pericoloso è il passaggio dall’assolutizzazione del soggetto collettivo
“Stato” al soggetto collettivo “popolo”, quest’ultimo incondizionabile
e quindi dispotico. La prima vittima della sovranità popolare è,
infatti, la libertà, una volta messo in crisi lo spazio politico come
insieme di relazioni ordinate a sistema. Se, insomma, la sovranità non
è l’attributo di un organo, ma la connotazione dell’organismo nella sua
complessità, riferirla a un soggetto particolare aprirebbe la strada al
dispotismo. Come il Nostro osserva a proposito di Rousseau e
dell’illimitatezza della sovranità66:
«quando il popolo sovrano si riunisce, ogni legge tace, ogni altra
potestà cessa. Allorché appare il creatore e padrone, la creatura ed il
servo si tirin di canto»67.
Come detto, il giuspubblicista fiorentino identifica
società e Stato
nelle coordinate dell’organizzazione giuridica; al contrario, la
volontà popolare non può accettare regole e limiti, essendo sottoposta
unicamente a sé stessa: «se avesse una norma qualsiasi da rispettare,
l’assemblea non rappresenterebbe più tutto il volere dello Stato e
quindi non sarebbe più sovrana»68.
Per tale motivo egli non può condividere le teorie giusnaturaliste:
«l’ipotesi dello stato di natura e del contratto si rivela falsa e
funesta. Falsa, poiché, contro ogni esperienza, eleva a causa unica dei
fenomeni politici la volontà degli individui»; ma l’aspetto peggiore è
l’instabilità a cui questa idea conduce, «perché fatale conseguenza di
essa […] è che un popolo possa e debba considerarsi sempre allo stato
di natura; cioè autorizzato ad infrangere, da un momento all’altro, e
senza rispettare nulla, quell’ordine giuridico che è condizione
indispensabile del benessere, e del progresso sociale»69.
A parere di Codacci-Pisanelli, i principi
giusnaturalisti sono
talmente astratti che i loro stessi teorici sono talvolta costretti a
ridimensionarli. Riferendosi a Grozio, il nostro giurista non lo fa
così irresponsabile da non accorgersi che fondare lo Stato sulla sola
volontà dei consociati «ferisce ogni ordinamento politico». Ma, nel
tentativo di salvare il salvabile, il filosofo olandese diventa
incoerente, laddove giustifica l’assoggettamento del popolo a un
principe e nega l’opzione della ribellione; fino a ritenere plausibile
che il consenso del popolo al contratto possa essere «tacito o
presunto», a dispetto dell’affermazione per cui «il patto di una
generazione non può vincolare in alcun modo le successive»70.
In ogni caso, il giurista confuta il dogmatismo fin
dalle sue
origini. In risposta alla domanda: «a chi spetti e d’onde venga la
potestà sovrana», sono analizzate tre teorie: la teocratica, la
democratica e la giuridico-politica.
Partendo dalla prima, Codacci-Pisanelli compie una
ricognizione che
dai tempi più remoti, attraverso la dottrina medievale “delle due
spade”, fino alla scuola teologica dopo la Rivoluzione francese,
presenta il dato comune per cui chi governa «riannodandosi
personalmente al cielo, acquista prestigio e incute timore ai suoi
sudditi; i quali tanto più volentieri s’acquetano all’altrui dominio,
quanto più ne reputano alta e misteriosa la causa»71.
Il vizio, insomma, è quello di confondere la «vita religiosa» con la
«vita civile» - ossia occultare il principio della laicizzazione del
diritto consistente nella liberazione da ogni crisma non soltanto
sacro, ma più ampiamente ideologico - ponendo a giustificazione
dell’ordinamento «la rivelazione» e, per l’appunto, il «dogma».
Capovolto il punto di osservazione, si tratta del
medesimo strumento
di legittimazione della teoria democratica attraverso il concetto di
“sovranità popolare”, che, rispetto all’epoca moderna, trova – a detta
di Codacci-Pisanelli – la sua origine nella lotta tra papato e impero72.
Sia dai guelfi, sostenitori dell’origine immediata del potere papale da
Dio; sia dai ghibellini, per cui «viene direttamente da Dio anche la
spada temporale, in nulla, perciò, all’altra inferiore»73,
il popolo era sempre chiamato a testimone dell’autorità dell’una o
dell’altra parte74.
Ma, realisticamente, il concetto di “popolo” è mal formulabile75,
ammesso che non si faccia riferimento alle masse, sempre
strumentalizzate da parte di fazioni politiche che, facendo appello al
“diritto” che quelle avevano di giudicarle, cercavano di delegittimarsi
a vicenda.
Allo stesso modo, in seguito alla riforma, i
protestanti avrebbero
stabilito che «la comunanza dei cristiani avesse, per diritto divino,
una potestà suprema nelle questioni religiose, e riconoscendo così una
specie di sovranità popolare in fatto di fede, estese presto, appena la
lotta lo richiese, questo principio anche alla sfera politica»76,
inducendo i cattolici a fare altrettanto. Di conseguenza, il diritto di
sollevare il “tiranno”, per non aver rispettato il suo dovere di
governare secondo il mandato divino quale custode della sovranità in
vece del popolo, diventava un principio «sempre asserito e non mai
dimostrato», a beneficio di chi se ne sapesse servire. Per tutti i casi
descritti, il problema è comune. Trasferire la sovranità dal sistema
istituzionale a titolari del tutto imprecisati può condurre solo alla
sovversione: «il concetto di sovranità, per natura sua necessariamente
giuridico-politico, diventa un non senso […] quand’è scompaginato da
quel fatto dell’organizzazione politica che lo determina»77.
Insomma, l’affermazione per cui «l’idea democratica
è tenuta a battesimo dalla teocratica»78
può essere smentita dall’osservazione realistica per cui il governo,
inteso come attività pratica, verrebbe addirittura «prima della
legislazione, concepita come complesso di norme che regolano o limitano
quell’attività». Soprattutto, la legislazione non va confusa con la
sovranità per quanto già osservato, ossia che al legislatore
spetterebbe soltanto «una delle funzioni sovrane»79,
non potendo l’assemblea popolare dettare all’esecutivo regole o
disposizioni talmente esaurienti da richiederne semplicemente
l’applicazione.
Né sarebbe sostenibile la legittimazione della
democrazia secondo la
«legge naturale» per cui potrebbe esistere un popolo senza principe, ma
non un principe senza popolo80. Un’altra astrazione,
dato che manca l’idea del popolo come «grandezza costituente»81.
Ma anche una volta fissato il concetto di popolo come corpo
rappresentativo ed il rapporto di legittimazione tra esso e la
costituzione82,
ci si sarebbe trovati comunque in presenza di un dualismo tra il
rappresentato e il rappresentante, tale da «impedire al cittadino una
effettiva partecipazione al potere»83.
Se invece si ragionasse in termini di democrazia
diretta, la
sublimazione dell’idea democratica condurrebbe al cesarismo. Esempi
recenti si ricavano dai plebisciti napoleonici: «gli antitirannici
citano […] gli imperatori bizantini con quella stessa ingenuità con cui
i democratici d’oggi citano più fondatamente gli ultimi due imperatori
francesi. E chi più e meglio dei cesari, antichi e moderni, potrebbe
fare l’apologia di questo comodo e eterno istrumento di tirannide?»84.
Il bersaglio è ancora Rousseau; come accennato, il forte individualismo
che il ginevrino sostiene si trasforma inevitabilmente nel dispotismo
della maggioranza, complicando, invece che risolvendo, il rapporto tra
potere e libertà. A riguardo, anche Grasso: «la barriera che il diritto
naturale aveva innalzato contro la volontà assoluta del monarca, e che
dal campo delle dottrine era stata tradotta nel campo dei fatti in
legge solenne colle dichiarazioni dei diritti dell’uomo, veniva
abbattuta virtualmente coll’assoluto impero riconosciuto alla volontà
della massa dei cittadini o della maggioranza di essi»85.
Ciò, non ostante Rousseau avesse avuto il merito di considerare il
legame tra i cittadini nello Stato, anziché come un rapporto di
soggezione, come un «vinculum juris», ossia nei termini di un rapporto
giuridico. E tuttavia, questa grande intuizione ha subito sofferto il
«difetto logico» di stimare quel vinculum juris come «anteriore
allo Stato, e quindi anche al diritto»86.
Mentre invece tali ultimi due lemmi sono inseparabili, com’è vieppiù
evidente in rapporto ai diritti soggettivi: «formato uno Stato,
costituito il diritto, riconosciuto l’uomo come soggetto possibile di
diritti, la volontà del singolo ha efficacia giuridica ed obbligante,
in quanto alla espressione di essa lo Stato e il diritto connettono
determinati effetti, che si ottengono coll’esercizio di un’azione»87.
La conclusione è che la libertà dell’individuo, al di fuori dello
Stato, è inconcepibile; essa è possibile solo nei termini di una
libertà giuridica, entro i limiti tracciati dal diritto dello Stato.
Anche per il suddetto motivo, il popolo, come
totalità
indifferenziata dei cittadini, risulta una grandezza ideale che occorre
rappresentare88.
Con buona pace di Rousseau, che partendo dall’indelegabilità del potere
sovrano mette in discussione il sistema parlamentare89,
per cui «il proposito di secondare le tendenze degli elettori non è e
non può essere sempre il solo impulso determinante» da parte degli
eletti. Secondo una posizione analoga, Luigi Rossi avrebbe accusato
Rousseau di «anarchia feudale», conseguentemente alla assurda pretesa
per cui «l’obbedienza politica da[rebbe] diritto [ai cittadini] di
richiedere come controprestazione da parte dello Stato, che esso si
modelli e governi secondo la volontà individuale»90.
Contrario al principio della rappresentanza secondo mandato imperativo,
Rossi ravvisa nel filosofo la contraddizione fondamentale della delega
della sovranità da parte del popolo a favore di fiduciari. Sullo stesso
tono, Codacci-Pisanelli: la componente elettiva del Parlamento non
porta avanti gli interessi di una parte, seppure maggioritaria, ma pone
in essere «una rappresentanza complessiva della società»91.
Fin qui le affinità. Le opinioni dei due giuristi
finiscono invece
per divergere a proposito della posizione del Parlamento: “cerniera”
tra Stato e popolo, secondo Rossi, che riconosce la sovranità in capo
all’Assemblea rappresentativa92;
mentre Codacci-Pisanelli, a sua volta contrario alle idee di delega e
di mandato, attribuisce alla Camera una mera funzione all’interno dello
Stato sovrano, secondo un principio condiviso, peraltro, anche da
giuristi non proprio in linea con la corrente formalista. Il ‘realista’
Chimienti parte dalla osservazione dell’istituto rappresentativo «in
rapporto con l’azione degli altri organi costituzionali della sovranità
dello Stato»93,
ritenendo opportuna la «ricostruzione giuridica» della rappresentanza,
cioè non sociologica o politica; si tratti però di «ricerca giuridica
che non si perda e svanisca in un vuoto schematico di formule, avulso
affatto da ogni contatto con la realtà»94.
Attenzione per l’elemento sociale, dunque, ma nella consapevolezza
della «tendenza costante della società ad avvicinarsi allo Stato»95.
Tutto sommato non lontano dalle conclusioni di Codacci-Pisanelli,
Chimienti considera le rappresentanze «organi costituzionali dello
Stato, con funzioni di Stato». In altri termini, la funzione del
Parlamento è una delle manifestazioni della sovranità, che rimane
espressione della suprema istituzione: «non contrasta con il nostro
concetto di sovranità, la formazione di un organo dello Stato in seno
alla società, il quale si affermi in collaborazione con gli altri
organi della sovranità»96.
Ciò detto, a non venir messo in discussione è il
principio della
rappresentanza dei capaci. Secondo Chimienti, la rappresentanza,
“politica” «dal punto di vista della formazione o composizione
dell’organo medesimo», entra nel campo del diritto «come scelta di
capaci, e come tale è regolata e disciplinata dal Diritto
costituzionale»97;
Rossi ne fa un fatto di misura e di gerarchia, per cui l’elezione «sia
proporzionata secondo le diverse classi […] ma non ugualmente, bensì
secondo il vario grado di intelligenza, di cultura, di moralità»98.
Infine, per Codacci-Pisanelli «l’elezione politica non è una
delegazione, ma una funzione di scelta; mercé la quale coloro cui si
riconosce capacità o facoltà di scegliere, cioè gli elettori, designano
quelli ritenuti più capaci e quindi più atti a legiferare»99.
Il che appare come espressione di una gerarchia naturale in seno alla
società. Entro questi termini, non si esclude che la gestione della
cosa pubblica possa essere approvata «dai più»; ma è impossibile una
deliberazione comune, se non in maniera tale che «uno o più la
propongono e gli altri, unanimi o a maggioranza, vi consentono»100.
Ad ogni buon conto, quello che viene posto in
risalto è ancora e
sempre l’errore di identificare potere legislativo e potere sovrano,
attribuito anche a Montesquieu, la cui teoria dei poteri101,
secondo Codacci-Pisanelli, è una «filiazione storica» della sovranità
popolare. Alla ricerca di una garanzia della libertà politica come
assolutamente negativa, la divisione delle funzioni pubbliche riduce lo
Stato a un «congegno», provocandone lo «smembramento». Quale il nesso
tra separazione dei poteri e sovranità popolare? Codacci-Pisanelli fa
riferimento a due criteri di distinzione; il primo, tra regola e
applicazione; il secondo, tra volontà e azione, che risultano
speculari, allorché regola e volontà da una parte - applicazione a
azione dall’altra, hanno significati analoghi. A rigore del primo
binomio, il potere legislativo – consistente nell’emanazione delle
norme – è rappresentativo della volontà, mentre al governo –
applicazione, quindi azione – spetterebbe la mera funzione di
esecuzione di essa. Pertanto, rispettivamente al sintagma “volontà
sovrana”, solo il legislativo potrebbe definirsi potere. Se non che –
afferma Codacci-Pisanelli – «la determinazione della volontà politica
non si esaurisce nella determinazione delle regole». In questa
prospettiva, è più opportuno riferirsi alla distinzione tra i due
aspetti materiale e formale degli atti di sovranità, espressa anche da
Cammeo: «se una separazione meccanica ed assoluta delle tre funzioni in
tre organi non è desiderabile, né possibile, […] è certo che, nello
Stato costituzionale, a ciascun organo è attribuita in prevalenza una
determinata funzione alla quale gli altri due subordinatamente
cooperano»102.
Una separazione della volontà dall’azione è improbabile in ragione
della componente discrezionale che ogni funzione, all’interno del
sistema, opportunamente mantiene. Pertanto, «ogni atto dello stato può
essere considerato sotto un duplice aspetto: sotto l’aspetto formale e
subbiettivo che dir si voglia, dell’organo da cui è emanato: sotto
l’aspetto materiale ed obbiettivo del suo contenuto intrinseco,
rispondente ad una delle funzioni dello Stato sopra distinte»103.
Infatti, un regime in cui al popolo spettasse la suprema – quindi
incontrollata – determinazione «delle norme più minute» paralizzerebbe
l’azione giudiziaria, costringendola alla pedissequa applicazione del
dettato normativo; ma contemporaneamente le lascerebbe arbitrio
assoluto in caso di lacune, ossia «tutto ciò su cui, pur non essendovi
regole da applicare, o avendosi norme insufficienti, si dovesse in via
particolare statuire»104.
In altre parole, «alla male intesa ed eccessiva teoria della sovranità
popolare in tanto si fa colpa di costruire un regime antigiuridico ed
antiliberale, in quanto in base ad essa si pretendono accentrare ad un
solo organo (popolo o suoi rappresentanti diretti) le tre funzioni»105.
Tecnicamente, identificare la sovranità popolare con l’organo
legislativo condurrebbe a confondere la sovranità originaria – ossia
«in sé stessa […] concepita come la fonte di tutti i poteri pubblici,
la sintesi di tutti i diritti dello Stato»106
- e la sovranità derivata – «considerata nella sua attuazione», vale a
dire «l’autorità concreta che questi poteri esercita, o, con più
corretta espressione, gli organi che della sovranità sono investiti»107.
Ma anche da una prospettiva “organicistica”, le conclusioni sono
analoghe: sostenere la primazia del Parlamento significherebbe
«sovrapporre un organo dello Stato al sistema di cui è parte», il che
ne farebbe «un insieme instabile, contingente e provvisorio di rapporti
giuridici»; mentre invece si è al cospetto di un «sistema giuridico
determinato e fisso, nel quale ciascuna parte ha la propria ragione
d’essere»108.
È oltremodo inappropriato, da parte di Montesquieu,
l’esempio del
sistema ordinamentale inglese a sostegno delle sue teorie. Lungi da una
divisione rigida, «il parlamento inglese partecipava alla statuizione
di singoli provvedimenti e il governo dettava anch’esso da solo delle
norme nei limiti del diritto nazionale. In Inghilterra non s’era pur
anco avuta, come mai s’ebbe neanche poi, quella divisione della
giurisdizione civile e penale dall’amministrazione, che sul continente
era già da un pezzo avviata»109.
Il diritto inglese è eminentemente «fattuale», modellato sui bisogni
reali del Paese e improntato al bilanciamento delle funzioni, piuttosto
che alla divisione dei poteri110.
Ma soprattutto, custodito da un re la cui funzione di veto, malintesa
da chi ne rileva la sola efficacia negativa, consiste nel garantire la
forma di governo equilibrata nel rispetto dei limiti costituzionali: il
che concerne la maggior parte delle leggi, votate ad iniziativa del
governo, «che ne presenta i progetti e ne accetta le modificazioni
sulla base degli accordi presi con la corona»; nonché i progetti di
iniziativa parlamentare, che richiedono il vaglio dell’esecutivo in
accordo col re. Dunque, «il re non può, nei casi ordinari, negare il
suo assenso a ciò che si fa e si vota sapendo già, per mezzo dei suoi
ministri, che egli vi consente». Per non dire delle crisi di governo,
la cui soluzione spetta sempre al Capo dello Stato. In definitiva,
conclude Codacci-Pisanelli, anche per quanto concerne il sistema di
gabinetto, «il principio fondamentale dello Stato libero moderno resta
quello che nessun atto acquista incondizionato valore di legge e virtù
di alterare il diritto nazionale senza il consenso di tutte le parti
costituenti l’autorità legislativa» e, in primis - in
Inghilterra come in Italia - al «re in Parlamento»111.
Addivenendo alle conclusioni, cura principale di
Codacci-Pisanelli è
la stabilità del diritto pubblico nazionale. Quella che il popolo
sovrano non può garantire, anzi minaccia di sovvertire, perché, «se
avesse una norma da rispettare […] non sarebbe più sovrano». L’arbitrio
governativo, come quello individuale, hanno bisogno di argini:
«l’individuo, il collegio o l’assemblea chiamati a governare, finché
hanno una regola da seguire o un limite da rispettare, non possono,
facilmente e impunemente, sostituire il proprio capriccio a quello che
dev’essere nel dato caso il potere sovrano», che non consiste nel
volere del giudice, né è l’effetto della norma, che da sola rimarrebbe
astratta e inefficace: «quell’atto è dello Stato e il volere sovrano in
questo […] consta»112.
1
I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica
nell’Età moderna, Torino, Giappichelli, 2002, p. 162.
2
D. Quaglioni, La sovranità, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 4.
3
N. Matteucci, voce “Sovranità” in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino
(a cura di), Dizionario di politica, Roma, Istituto Geografico
De Agostini, 3, 2006, p. 469.
4
Successivamente in A. Codacci-Pisanelli, Scritti di diritto pubblico,
Città di Castello, Tip. Lapi, 1900, p. 122 ss.
5
Sulla vita e le opere del giurista e politico fiorentino, le voci
“Codacci-Pisanelli, Alfredo”, a cura di A. Sandulli, in Dizionario
biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), Bologna, I, Il
Mulino, pp. 556 – 557 e “Codacci-Pisanelli, Alfredo”, a cura di F.
Socrate, in Dizionario biografico degli italiani Treccani, 26
(1982), <http://www.treccani.it/enciclopedia/alfredo-codacci-pisanelli_(Dizionario-Biografico)/>.
6
Ossia «delle
prime affermazioni del modello pandettistico che al principio del nuovo
secolo diverrà comune a tutte le branche del diritto, della prevalenza
nella didattica dell’indirizzo teorico e scientifico su quello
professionale, della nascita dei nuovi saperi specialistici
disciplinari e delle nuove figure di professori universitari ‘alla
tedesca’, istituzionalmente dediti all’attività di ricerca all’interno
delle Università» (G. Cianferotti, Storia della letteratura
amministrativistica italiana, I, Milano, Giuffrè, 1998, p. 685 ss.).
7
Mi sia consentito rinviare a G.P. Trifone, Il diritto al cospetto
della politica. Miceli, Rossi, Siotto Pintòr e la crisi della
rappresentanza liberale,
Napoli, ESI, 2010, p. 18 ss. Su V.E. Orlando la bibliografia è
vastissima. Mi limito a citare A. Volpicelli, “Vittorio Emanuele
Orlando”, Nuovi studi di diritto, economia e politica, 1,
(1927-28); G. Cianferotti, Il pensiero di V.E. Orlando e la
giuspubblicistica italiana fra Ottocento e Novecento, Milano,
Giuffrè, 1980; A. Mazzacane, I giuristi e la crisi dello stato
liberale in Italia fra otto e novecento, Napoli, Jovene, 1986; L.
Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento,
Roma-Bari, Laterza, 1999; M. Fioravanti, La vicenda intellettuale
del giovane Orlando (1881-1897), Firenze, Eurografica,
1979; Id., “Popolo e Stato negli scritti giovanili di Vittorio Emanuele
Orlando”, in Id., La scienza del diritto pubblico. Dottrine dello
Stato e della Costituzione tra Otto e Novecento, I, Milano,
Giuffrè, 2001; A. Schiavone, Stato e cultura giuridica in Italia
dall’Unità alla Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1990; D. Quaglioni,
“Ordine giuridico e ordine politico in Vittorio Emanuele Orlando”, Le
carte e la storia, 1 (2007), pp. 17-26.
8
M. Fioravanti, “La scienza italiana del diritto pubblico”, Ius
Commune, X (1983), Frankfurt am Main, V. Klostermann, p. 223.
9
Errore che
veniva imputato ad alcuni giuristi tedeschi coevi, come Paul Laband, il
quale «sostiene tesi politiche nell’interesse dell’equilibrio delle
forze tradizionali dei componenti l’impero creato nel 1870, anche
quando, come i legisti medievali, la sua tecnica e l’arte sua di
giurista sono al servizio della politica di Bismarck» (P. Chimienti,
“Le istituzioni politiche ed il diritto costituzionale”, in Id.,
Saggi, Diritto costituzionale e politica, Napoli, Perrella, I,
1914, pp. V ss. e 78).
10
A. Codacci-Pisanelli, Come il diritto amministrativo si distingua
dal costituzionale e cosa sia la scienza dell’amministrazione,
Pavia, L. Vallardi, 1887. Cfr. anche A. Sandulli, op. cit., p.
556.
11
G. Cianferotti, Il pensiero di V.E. Orlando, cit., p. 272.
12
Il
passaggio dalla dottrina italiana del 1848 – cosiddetta di fondazione
costituzionale e improntata ai principi di «libertà e Stato» - agli
anni della scuola ‘orlandiana’ – impegnata nella riconsiderazione della
«libertà dello Stato» -, è messo in evidenza da L. Borsi, Nazione
democrazia Stato. Zanichelli e Arangio-Ruiz, Milano, Giuffrè, 2009,
p. 399 ss.
13
A. Majorana, Il sistema dello Stato giuridico, Roma, Loescher,
1889, p. 123.
14
«Così la
sovranità, affermazione della capacità giuridica dello Stato, comprende
tutti i diritti pubblici o, con espressione sintetica, essa stessa è il
diritto dello Stato» (V.E. Orlando, Principi di diritto
costituzionale, Firenze, Barbera, 1889, p. 59).
15
L. Borsi, Nazione,
cit., p. 291. È il caso di menzionare almeno A. Brunialti (“Il diritto
costituzionale e la politica nella scienza delle istituzioni”, in Id.
(ed.), Biblioteca di Scienze Politiche e Amministrative, sr.
II, vol. VII, pt. I, torino 1896, pp. 3-990, e vol. VII, pt. II, torino
1900, pp. 1-1025), F.P. Contuzzi (Trattato
di diritto costituzionale. Manuale ad uso degli studenti delle
università e degli Istituti superiori e degli aspiranti alle Carriere
amministrativa e giudiziaria, Torino, Unione Tipografico-editrice,
1895, p. 138 ss.), G. Arcoleo (Diritto costituzionale, Napoli,
Jovene, 1907, p. 89 ss.).
16
Cfr. tra gli altri, M. Siotto Pintòr, I capisaldi della dottrina
dello Stato, Roma, F.lli Bocca, 1901; Id., “Per la concezione
realistica della norma giuridica”, Università degli Studi in
Perugia. Annali della Facoltà di Giurisprudenza, 4 (1906), pp.
133-159; A. Ferracciu, “Il Diritto costituzionale e le sue zone
grigie”, Università degli Studi in Perugia. Annali della Facoltà di
Giurisprudenza, 3 (1905), pp. 83-126; U. Forti, Il realismo nel
diritto pubblico. A proposito di un libro recente, Camerino, Tip.
Savini, 1903 (con riferimento al volume di Leon Duguit L’Etat, le
droit objectif et la loi positive del 1901).
17
Cfr. V. Miceli, La forza obbligatoria della consuetudine
considerata nelle sue basi sociologiche e giuridiche, Perugia,
Unione Tipografica Cooperativa, 1899; Id., Il saggio di una nuova
teoria della sovranità,
Firenze, Loescher, 1884-87; A. Bartolomei, “Diritto pubblico e teoria
della conoscenza, II, Per la determinazione giuridica dello Stato”, Università
degli Studi in Perugia. Annali della Facoltà di Giurisprudenza,
1 (1903), pp. 169-186; F. Racioppi, Forme di Stato e forme di
governo, Firenze, Società Ed. Dante Alighieri, 1898.
18
G. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto costituzionale italiano,
Roma, F.lli Bocca, 1913, p. 17.
19
Ma c’è
anche chi, come E. Presutti, non esita a sostenere la illimitatezza
della sovranità, in quanto non configurabile come un diritto; al
contrario, diritti sono quelli in capo agli organi dello Stato, perché
«facoltà limitate da norme giuridiche» (Istituzioni di diritto
amministrativo. Parte generale, Napoli, Tocco, 1904, p. 28).
20
G. Arangio Ruiz, Istituzioni, cit., p. 21. Si tratta
evidentemente della recezione delle teorie di Gerber (Grundzuge des
deutschen Staatsrechts,
Lipsia, Tauchnitz, 1865). Una critica al giurista tedesco arriva da
parte di G. Grasso: «lo Stato avendo una capacità di volere tutta sua,
consistente nella facoltà di comandare, ossia di manifestare, per
l’adempimento dei compiti suoi, una volontà obbligante tutto il popolo,
Gerber trovava in questo contenuto della volontà statuale il carattere
specifico e differenziale della personalità dello Stato di fronte alle
persone giuridiche del diritto privato». Ma «se non vediamo che un
soggetto, lo Stato, e dei sudditi oggetti della sua dominazione, questo
sarà un fatto, non un diritto. E siccome l’essere persona vuol dire
essere soggetto di diritti e non solo portatore ed arbitro di una forza
– così il disconoscimento della personalità dei cittadini nel campo del
diritto pubblico conduce al diniego della personalità dello Stato, cioè
all’eliminazione del presupposto necessario di ogni costruzione
giuridica del diritto statuale» (I presupposti giuridici del diritto
costituzionale e il rapporto fra lo Stato e il cittadino, Genova,
Tip. R. Istituto sordo-muti, 1898, pp. 99 e 102).
21
L. Raggi, La teoria della sovranità. Contributo storico e
ricostruttivo alla dogmatica del diritto pubblico, Genova, A.
Donath, 1908, p. 257.
22
Sugli
schemi di rappresentazione della sovranità nella giuspubblicistica
otto-novecentesca a partire dai poli, rispettivamente, sociale e
statuale, cfr. P. Costa, Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi
nella cultura giuridica italiana fra Ottocento e Novecento,
Milano, Giuffrè, 1986, p. 238 ss. e Id., “Il modello giuridico della
sovranità: considerazioni di metodo ed ipotesi di ricerca”, Filosofia
politica, 1, (1991), p. 51 ss.; A. Carrino (a cura di), Sovranità
e Costituzione nella crisi dello Stato moderno, Torino,
Giappichelli, 1998.
23
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 60.
24
Ibid., p. 7.
25
Ibid., pp. 42-43.
26
È dentro i
limiti segnati da queste norme che può e deve svolgersi così l’autorità
pubblica, come la libertà sociale, poiché le norme mirano a un duplice
intento. Comandando o vietando ai cittadini, sotto sanzioni assicuranti
l’ubbidienza, degli atti determinati, esse danno forza ed efficacia
all’autorità. E tracciando a questa dei limiti che non può varcare,
tutelano la libertà della sfera d’azione, riconosciuta ad ogni
individuo e ad ogni personalità vivente nello Stato» (Ibid., p.
57).
27
G. Arcoleo, Diritto costituzionale, cit., p. 89.
28
Ibid., p. 92.
29
L’espressione è sempre di Arcoleo, ivi.
30
V.E. Orlando, Introduzione al Primo trattato completo di diritto
amministrativo italiano, I, Milano, Società Editrice Libraria,
1900, p. 22.
31
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 59.
32
Ibid., pp. 41-42. Nel saggio “Legge e regolamento” (Napoli
1888, ora in Id., Scritti di diritto pubblico,
cit., p. 3-74), Codacci-Pisanelli aveva già sostenuto la teoria della
«differenza formale ed identità sostanziale tra legge e regolamento»
(p. 35). In quest’opera il giurista aveva anche definito i lineamenti
della teoria dello Stato come persona giuridica titolare della
sovranità, manifestantesi nell’attività degli organi di governo, la
quale non può ridursi «ad una mera esecuzione di norme», data la
varietà di situazioni particolari e la complessità dell’ente. In base a
tali asserzioni, veniva infine confutato il concetto di sovranità
popolare e la sua filiazione nella «meccanica tripartizione dei poteri»
(cfr. G. Cianferotti, Storia della letteratura amministrativistica
italiana, cit., pp. 687-690).
33
L. Minguzzi, “Alcune osservazioni sul concetto di sovranità”, Archivio
di diritto pubblico, 2 (1892), p. 39.
34
F.P. Contuzzi, Manuale di diritto costituzionale, Torino,
Unione tipografico-editrice, 1895, p. 145 e passim,
p. 148 ss. Nonché E. Presutti: «solo alcune funzioni possono delegarsi
ad appositi organi […]. Per quanto ampi siano i poteri di
costringimento attribuitigli, nessun organo dello Stato è sovrano: la
sovranità compete unicamente allo Stato» (Istituzioni, cit., p.
24).
35
A. Longo, “Della consuetudine come fonte del diritto pubblico
(costituzionale e amministrativo)”, Archivio di diritto pubblico,
2 (1892), 2, p. 252.
36
A. Luongo, Lo “Stato moderno” in trasformazione. Momenti del
pensiero giuridico italiano del primo Novecento, Torino,
Giappichelli, 2013, p. 89 ss.
37
D. Donati, “La persona reale dello Stato”, Rivista di diritto
pubblico e della pubblica amministrazione: la giustizia amministrativa,
(1921), p. 22.
38
Ivi.
39
A. Longo, “Della consuetudine”, cit., p. 253.
40
D. Donati, “La persona”, cit., p. 22.
41
A. Bartolomei, Lineamenti di una teoria del giusto e del diritto
con riguardo delle quistioni metodologiche odierne, Roma, F.lli
Bocca, 1901,
42
Cfr. E. Presutti, Istituzioni, cit., p. 28.
43
A. Bartolomei, Lineamenti, cit., p. 182 ss.
44
Ivi.
45
Ivi.
46
G. Grasso, I presupposti, cit., p. 122.
47
F.P. Contuzzi, Manuale, cit., p. 136.
48
Beninteso:
«quella società a base territoriale, munita di appositi organi, che ha
sugl’individui e sui gruppi sociali, anche se a base territoriale, che
esistono sul suo territorio, un potere di costringimento astrattamente
illimitato. Questo potere di costringimento astrattamente illimitato si
chiama sovranità» (E. Presutti, Istituzioni, cit., pp. 17).
49
Ivi.
50
G. Grasso, I presupposti, cit., p. 122 ss.
51
F.P. Contuzzi, Manuale, cit., p. 137.
52
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 63.
53
V.E. Orlando, “Del fondamento giuridico della rappresentanza politica”,
in Id., Diritto pubblico generale, Scritti vari (1881-1940),
Milano, Giuffrè, 1954.
54
F.P. Contuzzi, Manuale, cit., p. 138.
55
Cfr. D. Quaglioni, Ordine, cit., p. 13.
56
Nel caso di Contuzzi, gli artt. 1 delle rispettive costituzioni
francesi del 1791 e del 1848 (cfr. op. cit., pp. 139-140).
57
G. Arangio Ruiz, Istituzioni, cit., p. 24.
58
Estremizzando, L. Minguzzi parla di «tautologia», laddove la sovranità,
essendo insita nella nozione di Stato, è «un concetto di cui non vi è
necessità logica», dato che «essere Stato ed affermarsi come persona
giuridica sono una cosa sola; quindi la sovranità non è distinta, ma
incarnata nell’idea dello Stato» (“Alcune osservazioni”, cit., pp. 38 e
42).
59
F. Cammeo, “Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo
del diritto amministrativo”, in V.E. Orlando (a cura di), Primo
trattato completo di diritto amministrativo italiano, III, Milano,
Società Editrice Libraria, 1901, pp. 13-14.
60
Sul punto anche L. Minguzzi, “Alcune osservazioni”, p. 26; G. Arcoleo, Diritto
costituzionale, cit., p. 77 ss.; G. Arangio Ruiz, Istituzioni,
cit., p. 22.
61
Che pure
sono quelle del liberale antiegualitario ma incline alle riforme
sociali, come dimostrato nel corso della sua successiva carriera
politica. Cfr. A. Sandulli, op. cit.
62
Prendo in
prestito l’espressione di Maurizio Fioravanti che, riferendosi
all’interpretazione orlandiana di Savigny, formula il concetto di
costituzione materiale come ordine obiettivo che è dato
nell’esperienza: «è proprio quell’ordine a conferire alla legge, che di
esso medesimo è espressione, la sua forza sovrana» (“La crisi dello
Statoliberale di diritto”, Ars interpretandi, Annuario di
ermeneutica giuridica, Roma, Carocci, XVI, (2011), p. 84).
63
G. Duso, “Per una critica della democrazia”, in L. Bazzicalupo e R.
Esposito (a cura di), Politica della vita, Roma-Bari, Laterza,
2003, p. 57.
64
O. Ranelletti, Principii di diritto amministrativo, I, Napoli,
L. Pierro, 1912, p. 119.
65
«Lo Stato
adunque, come la società, non può trovare il suo fondamento e la sua
giustificazione nella libera, cosciente volontà individuale di assenso
alla sua formazione o al suo perdurare. Il contratto, come prodotto
libero, cosciente e contingente della volontà individuale, non può
essere posto all’origine dello Stato, per spiegarne o giustificarne la
formazione» (Ibid., p. 130).
66
J.J. Rousseau, Il contratto sociale (Amsterdam 1762), Milano,
RCS Libri, 2010, Lib. II, Cap. 4, p. 31 ss.
67
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 56.
68
Ivi.
69
Ibid., p. 26.
70
Ibid., pp. 28-29. Sul punto, A. Cavanna, Storia del
diritto moderno in Europa, Milano, Giuffrè, 1982, p. 325 ss; D.
Quaglioni, La giustizia nel Medioevo e nella prima Età Moderna,
Bologna, Mulino, 2004, p. 100 ss.; L. Nocentini, “Autonomia della
ragione e diritto (La comunità politica)”, Bollettino telematico di
filosofia politica, <http://btfp.sp.unipi.it/dida/nocent/index.htm>.
71
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 8.
72
Sulla teorica gregoriana dell’unicità della ecclesia
sotto il pontefice, e della funzione temporale come commessa; nonché
sulla legittimazione del potere imperiale da parte dei legisti, E.
Crosa, Il principio della sovranità popolare dal Medioevo alla
Rivoluzione francese, Milano Torino Roma, F.lli Bocca, 1915, p. 10
ss.
73
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 12.
74
La trasmissione di potere dal populus al princeps è un topos
di tutta la tradizione giuspubblicistica medievale. Per una esegesi dei
numerosissimi brani, E. Cortese, Il problema della sovranità nel
pensiero giuridico medievale, Roma, Bulzoni, 1966.
75
Il populus
«è la simbolizzazione non tanto di un dato reale […] quanto di un
modello quasi sovra-temporale». Esso risulta un archetipo «dentro il
linguaggio del processo valido del potere al punto di fare di quel
simbolo uno dei principali supporti della validità» (P. Costa, Iurisdictio.
Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433),
Milano, Giuffrè, 1969, pp. 227-229).
76
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma,
cit., p. 20. Per una disamina delle dottrine di Calvino, Lutero e e
Melantone ed il loro rapporto con l’evoluzione della teoria
nazionalistica degli Stati, cfr. E. Crosa, op. cit., p. 118 ss.
77
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 16.
78
Portata
avanti sin dal Trecento, con particolare riferimento a Marsilio da
Padova. Con l’asserzione per cui sovrano è il legislatore, ossia la
«universitas civium, aut eius pars valentior, quae totam universitatem
repraesentat» (R. Scholz (a cura di), Marsilius De Padua, Defensor
Pacis,
Hannover, Hansche Buchhandlung, 1932, Dictio I, XII, 3),
Codacci-Pisanelli attribuisce a Marsilio due errori fondamentali: la
delegazione di potere e la subordinazione del governo alla volontà del
popolo. Dopo aver infatti stabilito la sovranità in capo all’universitas
civium,
si afferma che il principe, a cui rimane una sorta di potere
subordinato, è «secundaria, instrumentalis, seu executiva pars». Sulla
vita e l’opera di Marsilio, tra gli altri, B. Labanca, Marsilio di
Padova riformatore politico e religioso del secolo XIV, Padova,
F.lli Salmin, 1882; F. Battaglia, Marsilio da Padova e la filosofia
politica del Medioevo, Firenze, Le Monnier, 1928; G. Capograssi,
“Intorno a Marsilio da Padova”, Rivista internazionale di Filosofia
del Diritto, X, (1930); A. Passerin d’Entrèves, “Rileggendo il Defensor
Pacis”, Rivista storica Italiana, LI, (1934); A. Checchini
e N. Bobbio (a cura di), Marsilio da Padova. Studi raccolti nel VI
centenario della morte, Padova, CEDAM, 1942; C. Vasoli, Introduzione
a Marsilio da Padova, Il difensore della pace, Torino, UTET, 1960.
79
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., pp. 17-19.
80
Secondo la lex regia de imperio, la potestas suprema
viene concessa dal populus al princeps che, solo in
virtù di tale attribuzione, può attribuire vigorem a quod
ei placuit (Ibid., p. 23). Per Pietro Costa, che si
riferisce al contesto imperator-lex regia secondo i passi del Corpus
iuris (D. I, 4, I, C. I, 17, I, 7, Inst. I, 2, 6), qui il populus
funziona da strumento di validazione, ossia «di attribuzione
all’imperatore della pienezza dei poteri»; insomma: «il populus
è, di per sé, un simbolo di legittimazione», ma «nessuno dubitava che
il processo di potere valido discendesse dall’imperatore e soltanto da
lui» (Iurisdictio, cit., p. 191 ss.).
81
A ben vedere, il concetto di populus come universitas e
non come «bellua multorum capitum» è presente in Buchanan, Boucher e
nelle Vindiciae contra tyrannos, mentre in Althusius il
concetto federativo è espressamente formulato in chiave
anti-individualistica (cfr. E. Crosa, op. cit.,
p. 131 ss.). Di fatto, nella sua critica ai monarcomachi,
Codacci-Pisanelli non mette in discussione la mancanza del concetto di
collettività, quanto la sua indeterminatezza. Su tale problema, G.
Duso, “Per una critica”, cit., pp. 61 ss. e Id., (a cura di), Il
potere. Per la storia della filosofia politica moderna,
Roma, Carocci, 1999 (in particolare, i saggi dell’A. “Il governo e
l’ordine delle consociazioni: la Politica di Althusius”, pp. 77-95 e
“Rivoluzione e costituzione del potere”, pp. 203-213).
82
Quale
insieme di regole per la gestione dello spazio comune e degli equilibri
che ne risultano, prima ancora che in forma scritta (cfr. M.
Fioravanti, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze
attuali, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 9 ss.).
83
«La
rappresentanza infatti, che con la nascita delle costituzioni moderne è
legata strettamente all’elezione […], non realizza, come spesso si
immagina, una trasmissione di volontà […]. Piuttosto una forma
di autorizzazione del rappresentante a esprimere la volontà
comune che si fa legge […]. Tale fondazione dal basso è
funzionale al fatto che la volontà del soggetto collettivo è espressa dall’alto
e senza rapporto con il concreto essere dei cittadini» (G. Duso, “Per
una critica”, cit., pp. 61-62).
84
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 22.
85
G. Grasso, I presupposti giuridici, cit., p. 48.
86
Ibid., p. 45.
87
Ibid., p. 46.
88
Sul bipolarismo sovranità/rappresentazione, P. Viola, “Seminario su
rappresentare il sovrano e il popolo nell’Europa moderna”, Annali
della Scuola Normale Superiore di Pisa, XIX, 4, serie III, Pisa
1989.
89
J.J. Rousseau, op. cit., Lib. III, cap. 15, p. 89 ss.
90
L. Rossi, Introduzione ai principi generali della rappresentanza
politica, Bologna, Fava e Garagnani, 1894, p. 20.
91
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 54.
92
Cfr. G.P. Trifone, Il diritto, cit., p. 124 ss.
93
P. Chimienti, “Il principio rappresentativo nel Diritto costituzionale
moderno”, in Id., Saggi. Diritto costituzionale e politica,
Napoli, F. Perrella, 1915, p. 208.
94
Ibid., p. 207.
95
Ibid., p. 209.
96
Ibid., p. 223.
97
Ivi.
98
L. Rossi, I Principi fondamentali della rappresentanza politica,
I. Il rapporto rappresentativo, Bologna, Fava e Garagnani, 1894,
p. 120.
99
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 54. L. Rossi, Introduzione,
cit., p. 32 ss. Su un confronto tra Rossi e Majorana a proposito della
rappresentanza dei capaci, G.P. Trifone, Il diritto, cit., p.
133 ss.
100
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 55.
101
Cfr. C. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi (a cura di S.
Cotta), I, Torino, UTET, 1956, p. 66 ss. Sul tema, S. Mastellone, Storia
della democrazia in Europa. Dal XVIII al XX secolo, Torino, UTET,
2010, p. 5 ss. e N. Bobbio, “Introduzione” in ivi, p. XI.
102
F. Cammeo, Della manifestazione, cit., in cui peraltro è fatto
riferimento a Codacci-Pisanelli, “Legge e regolamento”, cit., p. 1 ss.
103
Ivi.
104
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma,
cit., pp. 34-40. Dalla legge 30 ventoso anno XII, art. 7, sul metodo
dell’esegesi per evitare «come aveva sostenuto Maleville, di
abbandonarsi all’arbitrio de giudici per un’infinità di questioni»; al
ripensamento dei giuristi ottocenteschi sul mito della completezza dei
codici in riferimento all’ufficio del giudice di far fronte alle
situazioni giuridiche continuamente emergenti, il dibattito è proficuo
di suggestioni. Cfr., tra tutti, U. Petronio, La lotta per la
codificazione, Torino, Giappichelli, 2002, p. 124 ss. e P. Grossi, Introduzione
al Novecento giuridico,
Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 14 ss. (Sul pensiero di Grossi, mi sia
consentito rinviare a G.P. Trifone, “Pluralismo e fattualità. Il
contributo di Paolo Grossi”, in A. Tucci (a cura di), Disaggregazioni.
Forme e spazi di governance, Milano – Udine, Mimesis, 2013, pp.
109-120).
105
F. Cammeo, Della manifestazione,
cit., p. 11. Sulla teoria della separazione dei poteri limitata, in
ordine alla formazione dei diritti subbiettivi pubblici, cfr. S.
Romano, “La teoria dei diritti pubblici subbiettivi”, in V.E. Orlando, Primo
trattato, cit., I, pp. 118 e 162.
106
A. Longo, “Della consuetudine”, cit., p. 246.
107
Ibid., p. 247.
108
L. Minguzzi, “Alcune osservazioni”, cit., pp. 45-46.
109
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 42.
110
Sul profilo costituzionale del diritto anglosassone la bibliografia è
vastissima. Mi limito a Ch. McIlwain, Costituzionalismo antico e
moderno (1947), Bologna, Mulino, 1990; M. Fioravanti, Stato e
Costituzione, Torino, Giappichelli, 1999, p. 119 ss.; L. D’Avack, Costituzione
e rivoluzione. La controversia sulla sovranità legale nell’Inghilterra
del ‘600, Milano, Giuffrè, 2000.
111
A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., pp. 30-31.
112
Ibid., pp. 57-58.