2014

La sovranità come “funzione” dello Stato. Una critica di Alfredo Codacci-Pisanelli al dogmatismo volontaristico

Gian Paolo Trifone



Abstract - Secondo la teoria di A. Codacci-Pisanelli, la sovranità, lungi da un criterio volontaristico, risulta manifestazione potestativa dello Stato-persona a cui fa capo. In questa misura, essa è funzionale ad uno 'scopo' ordinamentale ed è sottoposta ai limiti imposti dal diritto pubblico. Tale impostazione ha anche un impatto sulla riqualificazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, in una dimensione organica.


Abstract - According to the theory of A. Codacci-Pisanelli, sovereignty, far from a voluntary policy, results as a potestative manifestation of the State-person to which it belongs. To this extent, it is functional to a 'purpose' and it’s subject to the limits imposed by public law. This approach has also an impact on the redevelopment of the legislative, executive, and judiciary powers in an organic dimension.


La pubblicazione di un saggio sulla sovranità – in riferimento ad un contesto nazionale e ad un periodo storico definiti – non sembri inappropriata in una Rivista di filosofia e storia del diritto internazionale.

Se il diritto internazionale, tradizionalmente, parte dall’assunto groziano per cui, in ogni paradigma relazionale, l’esperienza umana si muove secondo regole generali, in prospettiva di una «sistemazione delle condotte»1, la sovranità è la «razionalizzazione giuridica» del potere inteso come criterio gerarchizzante2, dunque ordinante delle diverse funzioni nell’ambito dello Stato, che del sistema giuridico internazionale è struttura primaria. In via principiale, la ricerca dell’ordine in seno ad una comunità giuridicamente determinata riguarda entrambe le organizzazioni, sia pure con le opportune connotazioni.

Questo scritto contribuisce a mettere in risalto l’esigenza della legittimazione dell’autorità tra Otto e Novecento, per cercare dove veramente risiede «quel potere ultimo di decisione, che, nel momento in cui acquistò consapevolezza di sé, si definì sovrano»3.

Nel 1891, i Tipi T. Nistri e C. di Pisa danno alle stampe Il dogma della sovranità popolare4 di Alfredo Codacci-Pisanelli5. Si tratta del testo letto dal giuspubblicista in occasione dell’inaugurazione di quell’anno accademico presso l’Ateneo pisano che, come di consuetudine, affidava la prolusione al più giovane dei docenti incardinati.

La formazione culturale di Codacci-Pisanelli è di indirizzo germanista6; il principio che ispira la sua opera è quello giusformalistico; Pietro Chimienti lo annovera tra gli aderenti all’indirizzo scientifico orlandiano insieme, fra gli altri, ad Arangio Ruiz, Brusa, Brondi, Cammeo, Donati, Forti, Santi Romano. Su Vittorio Emanuele Orlando ed il ‘metodo giuridico’ non è il caso di soffermarsi7. Resta solo opportuno, in questa sede, il richiamo al concetto di «presenza storica concreta dello Stato giuridico» che, con Orlando, diventa il «nucleo fondamentale di quella realtà giuridica che era ritenuta capace di vincolare la stessa soggettività del potere politico», la quale - come è stato autorevolmente osservato - diventa «razionalmente agente secondo modalità giuridicamente calcolabili»8.

Codacci-Pisanelli si allinea su tali posizioni, tra coloro i quali sostengono che «se […] diritto costituzionale e politica non vanno confusi, è pur vero che questa gravita accanto a quello e fornisce la spiegazione di alcuni rapporti e fenomeni della vita dell’ordinamento statuale». Il primo tra i meriti del giurista deve ritenersi la «comprensione storica». Il giovane giuspubblicista fiorentino è dell’idea per cui «il diritto pubblico vive bensì accanto alla politica ma non deve essere politica». Pertanto, l’indagine scientifica non dovrebbe tendere alla giustificazione di alcune «situazioni storiche e politiche», a supporto di esse9.

Il medesimo orientamento emerge anche da un’altra prolusione, che il giurista aveva tenuto qualche anno prima presso l’Università di Pavia. Affrontando, da un lato, la distinzione tra diritto amministrativo e diritto costituzionale, e tra diritto amministrativo e scienza dell’amministrazione dall’altro, egli concludeva che si tratta di parti del medesimo diritto pubblico, nel cui ambito il diritto costituzionale costituisce l’ordinamento fondamentale e il diritto amministrativo «la disciplina che studia l’insieme organico delle norme, delle leggi, degli atti e delle istituzioni che mirano ad ordinare le funzioni dello Stato, politicamente già costituito»10. In questa prospettiva, la politica è fattore caratterizzante del diritto pubblico; ma quest’ultimo vive nella sua espressione come tecnica ordinamentale, che non deve rischiare di essere confusa col suo elemento sostanziale, pena l’incomprensione della «struttura giuridica degli istituti»11.

Storicizzare equivale a collocare il fenomeno giuridico nel suo precipuo contesto, contro ogni astrattismo. Rimane dunque, nel giurista fiorentino, sempre viva l’attenzione per i “fatti”, secondo un angolo di osservazione realistico continuamente rimarcato nel corso della sua trattazione sulla sovranità popolare.

Il lavoro di Alfredo Codacci-Pisanelli si colloca all’interno di un più ampio progetto di revisione del concetto di sovranità da parte dei giuristi formalisti12, che mette su un piano secondario la accezione filosofico-politica a favore del «momento dell’effettivo potere e del suo esercizio»13 quale espressione della «capacità giuridica» dello Stato, secondo il principio per cui la capacità giuridica di un soggetto «comprende tutti i diritti di esso»14. Diversamente dalla dottrina costituzionalistica - che vede la sovranità in capo alla nazione «quale ente collettivo di ragione esprimente principi universali, i quali rinviavano alla personalità umana»15; la realistica - che interpreta la sovranità come mero dato di fatto16; e la sociologica - che muove dalla società quale plesso organico17, la dottrina formalistica considera la sovranità «originaria esplicazione della personalità dello Stato nella sua capacità di comandare autocraticamente entro un dato territorio»18. Se la sovranità può dirsi sottoposta a dei limiti19, essi sono «giuridici» nella misura in cui sono imposti dallo Stato a sé stesso. Limiti sociali e politici non sono effettivamente concepibili dal momento che il «comando assoluto» dello Stato «è la forma politica della sua stessa convivenza». In questo senso, lo Stato vive attraverso il suo diritto, che del primo è dichiarazione imperativa, «sempre accompagnata da una serie di regole a mezzo delle quali, in caso di controllo o di controversia, si possa pervenire ad un comando obbligatorio, sicché il circolo si richiude sempre con una manifestazione di volontà assoluta»20. Si potrebbe addirittura rappresentare un “volontarismo istituzionale”, per cui la sovranità consisterebbe nell’«esercizio supremo di volere da parte dello Stato per il raggiungimento dei propri scopi, produttivo di conseguenze coattive sui sudditi», seppure nei «limiti delle facoltà giuridiche spettanti allo Stato, in base al diritto esistente». Quello che emerge, in buona forma, è la prospettiva soggettivistica che attribuisce allo Stato in via esclusiva l’esercizio dell’imperium attraverso l’atto amministrativo. Fino a configurare una vera e propria “onnipotenza” dello Stato medesimo: «la sovranità è quella somma facoltà di volere dello Stato, fatto attivo per il raggiungimento dei propri interessi, protetta e riconosciuta decisiva dal diritto obiettivo, secondo la quale lo Stato può volere e raggiungere coattivamente ciò che vuole»21.

Da parte sua, nel fissare il concetto di sovranità, Codacci-Pisanelli ne esclude ogni connotato personalistico. Non appartenendo ad un soggetto o ad un organo particolare dello Stato, la sovranità diventa una “funzione” attinente all’organizzazione dello Stato stesso22. Più precisamente, essa viene ravvisata in un «complesso di facoltà e diritti […] designati come potestà di organizzazione, di comando e di divieto»23, risultando una «manifestazione», da parte di organi diversi e assumente forme differenti, volgente «in più direzioni e sfere che variano col mutare dei fini pubblici». Se il criterio della sovranità non coincide più con quello tradizionale di “potere” di tipo verticistico, viene scartata automaticamente l’opzione del legislativo come potere supremo. In una dimensione organica, «il decreto governativo e la sentenza giudiziaria sono, come la legge, manifestazioni della sovranità, in quanto contengono comandi o divieti ai quali coloro cui sono rivolti debbono uniformarsi»24.

Affermata la centralità dell’organizzazione, la sovranità risulta da una «coordinazione non di poteri, ma di autorità spesso cooperanti e talora controllantisi nell’esercizio delle attribuzioni, non in base a uno schema prestabilito, ma secondo i fatti e i bisogni pratici»25. Codacci-Pisanelli è perentorio nell’escludere una gerarchia tra legislativo, esecutivo e giudiziario. Il diritto pubblico, nell’atto di regolare l’esercizio della «potestà sovrana», pone in essere un “sistema” ordinamentale, per cui vincola «non meno le autorità che i cittadini, con norme certe, sicure e stabili». All’interno di tale sistema vanno definiti i “fini” da perseguire, che costituiscono «la parte più stabile del potere sovrano» e per la cui realizzazione è previsto un esercizio in certa misura elastico delle diverse competenze, sebbene entro “limiti” prestabiliti dalle leggi fondamentali26.

Che poi certe limitazioni siano realmente efficaci, è motivo di discussione. Giorgio Arcoleo – in consonanza con Codacci-Pisanelli sulla unicità della sovranità «nella sua essenza» e sulla diversità di aspetti relativi al suo esercizio, «pur serbando identico principio e scopo» - sostiene che ciascun potere ha «rispetto all’altro, un rapporto di autonomia, in quanto ha esistenza propria: - di coordinazione, in quanto concorre al medesimo scopo di attuare la sovranità dello Stato: - di sindacato, in quanto può vigilare e resistere agli abusi ed eccessi dell’altro potere»27. E tuttavia lo sviluppo delle attività statali ha ben presto complicato i rapporti tra le funzioni legislativa, esecutiva e giudiziaria. Pertanto, nella prospettiva di un coordinamento tra l’esercizio della sovranità dello Stato e la tutela della libertà dei cittadini, il costituzionalista distingue potere e diritto, «attribuendo un carattere obbligatorio al diritto, facoltativo al potere». Perché detta «facoltà discrezionale» non diventi «arbitraria», il potere dev’essere «compreso in una sfera d’azione», ovverosia regolato da una norma, che lo renda legittimo. Senonché, a tale «analogia di rapporto col diritto» rischia di sfuggire il governo, per la sua natura politica di «forza imperante, che trova la sua ragion d’essere nella necessità di una direzione e di un comando». Una legittimazione di fatto, insomma: «presumendosi come strumento della vita stessa dello Stato, [detto potere] assume nella iniziativa e nei mezzi una parvenza di legittimità, che gli sgombra la via e costringe il funzionario ad eseguire, i cittadini ad obbedire»28. Va aggiunto che tale discorso, portato alle estreme conseguenze, non escluderebbe neanche la natura “politica” della legge come espressione della volontà popolare.

Come si pone Codacci-Pisanelli di fronte al suddetto «rapporto di differenza tra diritto e potere»29 ? Secondo lui, la sovranità è allo stesso tempo forma ed espressione dello “Stato-persona” - le cui manifestazioni ed effetti «ci fan certi della sua non materiale, ma pur reale, esistenza» - e consta di due elementi: quello stabile, costituito dalla norma «più o meno precisa»; e quello mutevole «rappresentato dall’energia, più o meno libera, dell’autorità chiamata ad agire». In questo senso, la definizione di Orlando, per cui la sovranità è affermazione della personalità dello Stato come capacità di volere30, è esemplare. In ogni caso, garante del sistema è il «diritto nazionale» nella sua vocazione “ordinante”. Esso «vincola il parlamento come ogni altra autorità quando governa o controlla e lo vincola anche quando legifera; poiché le nuove leggi debbono coordinarsi a quelle esistenti». È questo principio della coordinazione, insomma, che costituisce i limiti sostanziali del potere politico lato sensu. Contro la sua pretesa onnipotenza, esiste un argine prestabilito anche rispetto alla carta costituzionale, che, peraltro, è flessibile e dunque modificabile per legge ordinaria. Se quest’ultima non mina le fondamenta dell’ordinamento è perché il parlamento riconosce il suo ruolo all’interno di una costituzione innanzitutto materiale: «nessun parlamento, che capisca il suo ufficio, imprenderà mai ad un tratto la demolizione di un intero sistema giuridico vigente per ricostruirlo di pianta; né farà leggi contrarie ad altre in vigore, delle quali non s’abbia in vista la riforma»31.

Quanto al governo, come già accennato, esso non è mero esecutore «d’un indefinito e indefinibile volere altrui», ma si presenta come un’autorità il cui esercizio non si arresta alla pedissequa applicazione delle leggi. Queste, tuttavia, ne definiscono la sfera di azione; in caso di eccedenze, il governo è sottoposto a sindacato giudiziario, amministrativo e parlamentare, secondo un preciso sistema di controlli. Ciò che conta è che «le norme restano semplici limiti al di là dei quali non è lecito andare; ma entro i quali rimane, tuttavia, una più o meno ampia sfera discrezionale. Ond’è che la determinazione della volontà politica non si esaurisce nella determinazione delle regole». È la vita stessa, secondo Codacci-Pisanelli, a presentarsi refrattaria agli schemi prestabiliti, e il diritto deve adeguarsi al suo processo dinamico. Se quindi «la relazione tra la legge e il governo ha più il carattere negativo di limitazione che quello positivo di determinazione», ciò avviene in varia misura in ciascun settore: «in ogni ramo e in ogni grado dell’amministrazione le norme lasciano una maggiore o minore libertà d’azione». A ben vedere, sostiene il giuspubblicista, anche l’operato dei «più umili agenti» si presenta «non come mera esecuzione di un ordine generale o speciale»; l’esercizio di una funzione, insomma, implica una certa elasticità relativamente al fatto che è compiuta da uomini in riferimento a esigenze concrete: «ricercare le cautele che ne assicurino il corretto esercizio sarà il compito d’ogni pubblicista»32. Nel negare «potere» agli organi legislativo, esecutivo e giudiziario, il giurista fiorentino non è isolato: la sovranità non spetta «a qualche organo particolarmente [bensì] allo Stato nella sua piena personalità»33. Il principio è ampiamente condiviso: «l’unità dello Stato importa che il potere supremo è uno, come una è la sovranità»; quello che si scinde è il suo «esercizio», attraverso «il complesso delle svariate funzioni»34.

Si tratta di riconoscere l’immanenza del diritto nazionale di fronte alla contingenza del provvedimento normativo; ovvero, che «il diritto debba considerarsi come avente un’esistenza indipendente e superiore all’organo che nella esplicazione concreta della sovranità è destinato alla dichiarazione del diritto»35. La sovranità – come anche è stato di recente osservato36 – non può essere oggetto di disposizioni attraverso un privato atto di autorità, bensì si svolge «secondo la volontà dello Stato, manifestata nella legge»37. La sublimazione del soggetto politico nell’ente giuridico si compie dal momento che «gli atti della sovranità conservano piena efficacia, anche quando venga meno la persona del principe che li ha emanati […], perché essi sono atti dello Stato persona collettiva»38. E dunque, supporre che il diritto esista per legge è da reputarsi «un errore costituzionalmente inammissibile»; mentre è vero il contrario: «che la legge esiste per il diritto»39.

Alla luce delle precedenti osservazioni, il popolo viene addirittura esautorato da ogni esercizio politico: esso è considerato mero «destinatario» della sovranità, poi che viene «assunto nell’organizzazione dello Stato». E persino dopo il passaggio al «regime democratico», la natura istituzionale rimane immutata, sicché il popolo, una volta «ammesso» all’esercizio della sovranità, prende a sua volta «la posizione di organo dello Stato»40. Ciò per dire che il potere politico è soltanto una particolare conformazione dell’ente giuridico cui fa capo.

Nondimeno secondo un indirizzo sociologico, la sovranità dello Stato è la «determinazione dell’ordine giuridico»41, tanto da riguardare il momento organizzativo della compagine sociale in forma di mera concessione. Essa «non è un diritto»42, ma si esprime attraverso il diritto in termini di «organizzazione della costrizione sociale»43. In questa visuale, quello che emerge è l’inevitabile «rapporto di forza» tra «il potere sovrano e i suoi subordinati», al di fuori del quale è vano ragionare di volontarismo democratico. Anche la democrazia – e persino il socialismo -, come sistema ordinamentale, rientrerebbe nella «necessità oggettiva» del «momento di signorìa», pena «l’anarchismo che negando nella sua forma stessa l’ordine giuridico, [e che] vorrebbe quell’elemento evitare, non può costituire il principio di nessuna organizzazione sociale»44. Per sintetizzare, ogni diritto ed ogni potere risultano come «permessi» dallo Stato. Ciò, peraltro, esclude qualsiasi digressione in merito alla presunta autonomia dei poteri legislativo ed esecutivo. Ancora una volta, solo lo Stato ha «reale autonomia perché solo questo ha sovranità»45.

Ma la sociologia ammette diversi punti di osservazione: pur stabilito che «come non vi ha Stato senza diritto, così non vi è diritto senza Stato», la «norma» può ben diventare misura del «rapporto armonico» tra gli scopi dei singoli e gli scopi comuni: in quest’ottica, la «moltitudine vivente in un dato territorio» non potrebbe esistere se non «ordinata a vita comune»46, nella concezione che riconosce una specifica comunità in relazione allo «spirito di popolo», ossia «un determinato carattere del popolo, diverso dallo spirito e carattere degli individui, di cui è solo la risultante armonica»47. Pertanto, quando si fa riferimento alla «vita vissuta dalle singole forze individuali e sociali esistenti nel seno di uno Stato» in relazione all’esplicazione della sovranità, essa va intesa quale «vita unitaria, complessiva», che è quella propria delle società umane organizzate giuridicamente48. Senza vulnerare l’assioma che «la sovranità compete allo Stato» come potere «astrattamente, in principio, illimitato»49. Ne consegue che tra Stato e diritto non c’è un elemento primario rispetto all’altro, ma necessaria coincidenza: «lo Stato è organo del diritto, il diritto è una delle funzioni, la funzione specifica dello Stato». In quest’altra prospettiva, l’elemento autoritativo non è più determinante: «lo Stato non può essere trasformato in un animale, né ridotto a un mero rapporto di comando e di ubbidienza»50. Il diritto è riconosciuto spontaneamente da parte dei consociati in forza del «principio di autorità politica, o Sovranità propriamente detta», che spetta esclusivamente allo Stato quale «mezzo alla conservazione sociale»51.

Codacci-Pisanelli non è indifferente a certe suggestioni, ma tiene distinta la sovranità come «concetto giuridico formale», per cui essa «non è illimitata, come non è indivisibile, né indelegabile». Il diritto pubblico, nella sua dimensione razionale, la limita e la ripartisce in ragione degli obiettivi sostanziali dello Stato. Il che, si torni a dire, non esclude il campo di esame sociologico, che tende a stabilire «quali elementi sociali si fanno, nei diversi casi, valere in quella forma giuridica che è lo Stato»; né quello politico, che ricerca «per un dato paese il miglior modo di distribuzione della sovranità»52. Ad ogni buon conto, l’indagine giuridica conduce alla negazione della concentrazione del potere ed alla distribuzione delle facoltà a diverse autorità coordinate tra loro.

In questa visuale, la sovranità popolare è valutata in senso critico. Già Orlando aveva evidenziato l’errore di «intendere il rapporto fra popolo e Stato come rapporto fra un soggetto portatore di volontà e un mezzo funzionale alla realizzazione di questa»53 . Giudicando il diritto pubblico «nel modo stesso che il diritto privato, come un complesso di principi giuridici sistematicamente considerati», il fondamento della sovranità come diritto dello Stato «non potrà essere sostanzialmente diverso dal generale fondamento di ogni diritto»; secondo tale schema, la fonte del diritto sovrano ha certamente a che fare col popolo, ma non nel senso “rousseauviano” del complesso dei singoli individui. Analogamente, anche per la dottrina organicistica «una volta che gl’individui non solo esistono, ma altresì coesistono, e debbono necessariamente coesistere per la forza di attrazione che li raggruppa nel corpo sociale, non può l’individuo essere la fonte della sovranità»54. Siamo a un punto di convergenza: la «coscienza collettiva del popolo» qualifica l’«indole giuridica» del diritto di uno Stato, secondo i suoi «precedenti storici»55.

È invece il richiamo alla costituzione formale come «più alta espressione della volontà generale» a diventare fuorviante, laddove riporta la sovranità in capo al «corpo sociale» incarnato nella nazione56. Il rischio è di confondere la nozione giuridica della capacità statuale col suo contenuto politico, quest’ultimo espresso dalla volontà popolare attraverso la rappresentanza. Il popolo è soggetto politico mutevole; lo Stato è persona giuridica immanente. Ma «la sovranità, in quanto esplica la capacità dello Stato, non può derivare che da un concetto giuridico, il quale si può legare ad una persona morale, non mai al popolo, che in nessun tempo e in nessuna parte del mondo ha potuto e potrà mai assumere personalità ai fini del diritto»57.

Bisogna aggiungere che il tentativo di Codacci-Pisanelli è piuttosto quello di chiudere definitivamente la discussione ideologico-politica e ripartire dal presupposto giuridico: essendo la presenza dello Stato ineccepibile, il problema del suo fondamento non ha più ragione di porsi58. Il che, per converso, si può dire anche del diritto: «ove si guardi alla natura del diritto come funzione, e funzione essenziale, dello Stato, esso non appare che come una manifestazione di volontà dello Stato stesso […]. Ed è perfettamente indifferente per costruire la teorica di questa manifestazione di volontà, una volta formatasi, il considerarla volontà necessaria o volontà libera»59. Stato e popolo non possono coincidere nella titolarità del potere sovrano, perché questo è un insieme di manifestazioni giuridicamente configurabili60. Il principio democratico, dunque, deve essere analizzato a partire dal significato di “potere del popolo”, al di là di posizioni ideologiche61.

Muovendo dall’osservazione della democrazia come forma di governo praticabile, Codacci-Pisanelli si interroga sulla compatibilità delle istanze della sovranità popolare con i principi alla base dell’«ordine obiettivo»62; in altre parole: «se sia possibile dare seguito a quelle istanze mediante i pilastri concettuali delle costituzioni»63, oppure se il “sistema giuridico-politico”, per come impostato, non impedisca la realizzazione di quelle istanze.

La supposizione della «volontà» popolare mette in discussione il concetto di sovranità come funzione e, di conseguenza, destabilizza la forma-Stato, dato il principio per cui l’unica configurabile nello «Stato moderno libero» è la volontà «del popolo ordinato ad unità, e che come tale si distingue dalle individualità dei suoi membri, è indipendente da essi, si contrappone ad essi e su di essi si manifesta come potere»; che è potere legittimo in quanto «trova il suo riconoscimento e la sua norma nell’ordine giuridico esistente nello Stato»64. Nella misura in cui lo Stato è comunità necessaria, nel senso che l’uomo non può fare a meno di viverci, quest’ultimo non può nemmeno sottrarsi al suo potere di imperio, che è originario, cioè non derivato «da altra forza o volontà superiore o precedente». Il che esclude, da parte del popolo, qualsiasi decisione di aderirvi o meno65.

Ma pur volendo fermarsi alla prospettiva del buon governo, l’elemento quantitativo già di per sé si presenta come fomite di disordine e tendente all’anarchia. Ciò che Codacci-Pisanelli trova pericoloso è il passaggio dall’assolutizzazione del soggetto collettivo “Stato” al soggetto collettivo “popolo”, quest’ultimo incondizionabile e quindi dispotico. La prima vittima della sovranità popolare è, infatti, la libertà, una volta messo in crisi lo spazio politico come insieme di relazioni ordinate a sistema. Se, insomma, la sovranità non è l’attributo di un organo, ma la connotazione dell’organismo nella sua complessità, riferirla a un soggetto particolare aprirebbe la strada al dispotismo. Come il Nostro osserva a proposito di Rousseau e dell’illimitatezza della sovranità66: «quando il popolo sovrano si riunisce, ogni legge tace, ogni altra potestà cessa. Allorché appare il creatore e padrone, la creatura ed il servo si tirin di canto»67.

Come detto, il giuspubblicista fiorentino identifica società e Stato nelle coordinate dell’organizzazione giuridica; al contrario, la volontà popolare non può accettare regole e limiti, essendo sottoposta unicamente a sé stessa: «se avesse una norma qualsiasi da rispettare, l’assemblea non rappresenterebbe più tutto il volere dello Stato e quindi non sarebbe più sovrana»68. Per tale motivo egli non può condividere le teorie giusnaturaliste: «l’ipotesi dello stato di natura e del contratto si rivela falsa e funesta. Falsa, poiché, contro ogni esperienza, eleva a causa unica dei fenomeni politici la volontà degli individui»; ma l’aspetto peggiore è l’instabilità a cui questa idea conduce, «perché fatale conseguenza di essa […] è che un popolo possa e debba considerarsi sempre allo stato di natura; cioè autorizzato ad infrangere, da un momento all’altro, e senza rispettare nulla, quell’ordine giuridico che è condizione indispensabile del benessere, e del progresso sociale»69.

A parere di Codacci-Pisanelli, i principi giusnaturalisti sono talmente astratti che i loro stessi teorici sono talvolta costretti a ridimensionarli. Riferendosi a Grozio, il nostro giurista non lo fa così irresponsabile da non accorgersi che fondare lo Stato sulla sola volontà dei consociati «ferisce ogni ordinamento politico». Ma, nel tentativo di salvare il salvabile, il filosofo olandese diventa incoerente, laddove giustifica l’assoggettamento del popolo a un principe e nega l’opzione della ribellione; fino a ritenere plausibile che il consenso del popolo al contratto possa essere «tacito o presunto», a dispetto dell’affermazione per cui «il patto di una generazione non può vincolare in alcun modo le successive»70.

In ogni caso, il giurista confuta il dogmatismo fin dalle sue origini. In risposta alla domanda: «a chi spetti e d’onde venga la potestà sovrana», sono analizzate tre teorie: la teocratica, la democratica e la giuridico-politica.

Partendo dalla prima, Codacci-Pisanelli compie una ricognizione che dai tempi più remoti, attraverso la dottrina medievale “delle due spade”, fino alla scuola teologica dopo la Rivoluzione francese, presenta il dato comune per cui chi governa «riannodandosi personalmente al cielo, acquista prestigio e incute timore ai suoi sudditi; i quali tanto più volentieri s’acquetano all’altrui dominio, quanto più ne reputano alta e misteriosa la causa»71. Il vizio, insomma, è quello di confondere la «vita religiosa» con la «vita civile» - ossia occultare il principio della laicizzazione del diritto consistente nella liberazione da ogni crisma non soltanto sacro, ma più ampiamente ideologico - ponendo a giustificazione dell’ordinamento «la rivelazione» e, per l’appunto, il «dogma».

Capovolto il punto di osservazione, si tratta del medesimo strumento di legittimazione della teoria democratica attraverso il concetto di “sovranità popolare”, che, rispetto all’epoca moderna, trova – a detta di Codacci-Pisanelli – la sua origine nella lotta tra papato e impero72. Sia dai guelfi, sostenitori dell’origine immediata del potere papale da Dio; sia dai ghibellini, per cui «viene direttamente da Dio anche la spada temporale, in nulla, perciò, all’altra inferiore»73, il popolo era sempre chiamato a testimone dell’autorità dell’una o dell’altra parte74. Ma, realisticamente, il concetto di “popolo” è mal formulabile75, ammesso che non si faccia riferimento alle masse, sempre strumentalizzate da parte di fazioni politiche che, facendo appello al “diritto” che quelle avevano di giudicarle, cercavano di delegittimarsi a vicenda.

Allo stesso modo, in seguito alla riforma, i protestanti avrebbero stabilito che «la comunanza dei cristiani avesse, per diritto divino, una potestà suprema nelle questioni religiose, e riconoscendo così una specie di sovranità popolare in fatto di fede, estese presto, appena la lotta lo richiese, questo principio anche alla sfera politica»76, inducendo i cattolici a fare altrettanto. Di conseguenza, il diritto di sollevare il “tiranno”, per non aver rispettato il suo dovere di governare secondo il mandato divino quale custode della sovranità in vece del popolo, diventava un principio «sempre asserito e non mai dimostrato», a beneficio di chi se ne sapesse servire. Per tutti i casi descritti, il problema è comune. Trasferire la sovranità dal sistema istituzionale a titolari del tutto imprecisati può condurre solo alla sovversione: «il concetto di sovranità, per natura sua necessariamente giuridico-politico, diventa un non senso […] quand’è scompaginato da quel fatto dell’organizzazione politica che lo determina»77.

Insomma, l’affermazione per cui «l’idea democratica è tenuta a battesimo dalla teocratica»78 può essere smentita dall’osservazione realistica per cui il governo, inteso come attività pratica, verrebbe addirittura «prima della legislazione, concepita come complesso di norme che regolano o limitano quell’attività». Soprattutto, la legislazione non va confusa con la sovranità per quanto già osservato, ossia che al legislatore spetterebbe soltanto «una delle funzioni sovrane»79, non potendo l’assemblea popolare dettare all’esecutivo regole o disposizioni talmente esaurienti da richiederne semplicemente l’applicazione.

Né sarebbe sostenibile la legittimazione della democrazia secondo la «legge naturale» per cui potrebbe esistere un popolo senza principe, ma non un principe senza popolo80. Un’altra astrazione, dato che manca l’idea del popolo come «grandezza costituente»81. Ma anche una volta fissato il concetto di popolo come corpo rappresentativo ed il rapporto di legittimazione tra esso e la costituzione82, ci si sarebbe trovati comunque in presenza di un dualismo tra il rappresentato e il rappresentante, tale da «impedire al cittadino una effettiva partecipazione al potere»83.

Se invece si ragionasse in termini di democrazia diretta, la sublimazione dell’idea democratica condurrebbe al cesarismo. Esempi recenti si ricavano dai plebisciti napoleonici: «gli antitirannici citano […] gli imperatori bizantini con quella stessa ingenuità con cui i democratici d’oggi citano più fondatamente gli ultimi due imperatori francesi. E chi più e meglio dei cesari, antichi e moderni, potrebbe fare l’apologia di questo comodo e eterno istrumento di tirannide?»84. Il bersaglio è ancora Rousseau; come accennato, il forte individualismo che il ginevrino sostiene si trasforma inevitabilmente nel dispotismo della maggioranza, complicando, invece che risolvendo, il rapporto tra potere e libertà. A riguardo, anche Grasso: «la barriera che il diritto naturale aveva innalzato contro la volontà assoluta del monarca, e che dal campo delle dottrine era stata tradotta nel campo dei fatti in legge solenne colle dichiarazioni dei diritti dell’uomo, veniva abbattuta virtualmente coll’assoluto impero riconosciuto alla volontà della massa dei cittadini o della maggioranza di essi»85. Ciò, non ostante Rousseau avesse avuto il merito di considerare il legame tra i cittadini nello Stato, anziché come un rapporto di soggezione, come un «vinculum juris», ossia nei termini di un rapporto giuridico. E tuttavia, questa grande intuizione ha subito sofferto il «difetto logico» di stimare quel vinculum juris come «anteriore allo Stato, e quindi anche al diritto»86. Mentre invece tali ultimi due lemmi sono inseparabili, com’è vieppiù evidente in rapporto ai diritti soggettivi: «formato uno Stato, costituito il diritto, riconosciuto l’uomo come soggetto possibile di diritti, la volontà del singolo ha efficacia giuridica ed obbligante, in quanto alla espressione di essa lo Stato e il diritto connettono determinati effetti, che si ottengono coll’esercizio di un’azione»87. La conclusione è che la libertà dell’individuo, al di fuori dello Stato, è inconcepibile; essa è possibile solo nei termini di una libertà giuridica, entro i limiti tracciati dal diritto dello Stato.

Anche per il suddetto motivo, il popolo, come totalità indifferenziata dei cittadini, risulta una grandezza ideale che occorre rappresentare88. Con buona pace di Rousseau, che partendo dall’indelegabilità del potere sovrano mette in discussione il sistema parlamentare89, per cui «il proposito di secondare le tendenze degli elettori non è e non può essere sempre il solo impulso determinante» da parte degli eletti. Secondo una posizione analoga, Luigi Rossi avrebbe accusato Rousseau di «anarchia feudale», conseguentemente alla assurda pretesa per cui «l’obbedienza politica da[rebbe] diritto [ai cittadini] di richiedere come controprestazione da parte dello Stato, che esso si modelli e governi secondo la volontà individuale»90. Contrario al principio della rappresentanza secondo mandato imperativo, Rossi ravvisa nel filosofo la contraddizione fondamentale della delega della sovranità da parte del popolo a favore di fiduciari. Sullo stesso tono, Codacci-Pisanelli: la componente elettiva del Parlamento non porta avanti gli interessi di una parte, seppure maggioritaria, ma pone in essere «una rappresentanza complessiva della società»91.

Fin qui le affinità. Le opinioni dei due giuristi finiscono invece per divergere a proposito della posizione del Parlamento: “cerniera” tra Stato e popolo, secondo Rossi, che riconosce la sovranità in capo all’Assemblea rappresentativa92; mentre Codacci-Pisanelli, a sua volta contrario alle idee di delega e di mandato, attribuisce alla Camera una mera funzione all’interno dello Stato sovrano, secondo un principio condiviso, peraltro, anche da giuristi non proprio in linea con la corrente formalista. Il ‘realista’ Chimienti parte dalla osservazione dell’istituto rappresentativo «in rapporto con l’azione degli altri organi costituzionali della sovranità dello Stato»93, ritenendo opportuna la «ricostruzione giuridica» della rappresentanza, cioè non sociologica o politica; si tratti però di «ricerca giuridica che non si perda e svanisca in un vuoto schematico di formule, avulso affatto da ogni contatto con la realtà»94. Attenzione per l’elemento sociale, dunque, ma nella consapevolezza della «tendenza costante della società ad avvicinarsi allo Stato»95. Tutto sommato non lontano dalle conclusioni di Codacci-Pisanelli, Chimienti considera le rappresentanze «organi costituzionali dello Stato, con funzioni di Stato». In altri termini, la funzione del Parlamento è una delle manifestazioni della sovranità, che rimane espressione della suprema istituzione: «non contrasta con il nostro concetto di sovranità, la formazione di un organo dello Stato in seno alla società, il quale si affermi in collaborazione con gli altri organi della sovranità»96.

Ciò detto, a non venir messo in discussione è il principio della rappresentanza dei capaci. Secondo Chimienti, la rappresentanza, “politica” «dal punto di vista della formazione o composizione dell’organo medesimo», entra nel campo del diritto «come scelta di capaci, e come tale è regolata e disciplinata dal Diritto costituzionale»97; Rossi ne fa un fatto di misura e di gerarchia, per cui l’elezione «sia proporzionata secondo le diverse classi […] ma non ugualmente, bensì secondo il vario grado di intelligenza, di cultura, di moralità»98. Infine, per Codacci-Pisanelli «l’elezione politica non è una delegazione, ma una funzione di scelta; mercé la quale coloro cui si riconosce capacità o facoltà di scegliere, cioè gli elettori, designano quelli ritenuti più capaci e quindi più atti a legiferare»99. Il che appare come espressione di una gerarchia naturale in seno alla società. Entro questi termini, non si esclude che la gestione della cosa pubblica possa essere approvata «dai più»; ma è impossibile una deliberazione comune, se non in maniera tale che «uno o più la propongono e gli altri, unanimi o a maggioranza, vi consentono»100.

Ad ogni buon conto, quello che viene posto in risalto è ancora e sempre l’errore di identificare potere legislativo e potere sovrano, attribuito anche a Montesquieu, la cui teoria dei poteri101, secondo Codacci-Pisanelli, è una «filiazione storica» della sovranità popolare. Alla ricerca di una garanzia della libertà politica come assolutamente negativa, la divisione delle funzioni pubbliche riduce lo Stato a un «congegno», provocandone lo «smembramento». Quale il nesso tra separazione dei poteri e sovranità popolare? Codacci-Pisanelli fa riferimento a due criteri di distinzione; il primo, tra regola e applicazione; il secondo, tra volontà e azione, che risultano speculari, allorché regola e volontà da una parte - applicazione a azione dall’altra, hanno significati analoghi. A rigore del primo binomio, il potere legislativo – consistente nell’emanazione delle norme – è rappresentativo della volontà, mentre al governo – applicazione, quindi azione – spetterebbe la mera funzione di esecuzione di essa. Pertanto, rispettivamente al sintagma “volontà sovrana”, solo il legislativo potrebbe definirsi potere. Se non che – afferma Codacci-Pisanelli – «la determinazione della volontà politica non si esaurisce nella determinazione delle regole». In questa prospettiva, è più opportuno riferirsi alla distinzione tra i due aspetti materiale e formale degli atti di sovranità, espressa anche da Cammeo: «se una separazione meccanica ed assoluta delle tre funzioni in tre organi non è desiderabile, né possibile, […] è certo che, nello Stato costituzionale, a ciascun organo è attribuita in prevalenza una determinata funzione alla quale gli altri due subordinatamente cooperano»102. Una separazione della volontà dall’azione è improbabile in ragione della componente discrezionale che ogni funzione, all’interno del sistema, opportunamente mantiene. Pertanto, «ogni atto dello stato può essere considerato sotto un duplice aspetto: sotto l’aspetto formale e subbiettivo che dir si voglia, dell’organo da cui è emanato: sotto l’aspetto materiale ed obbiettivo del suo contenuto intrinseco, rispondente ad una delle funzioni dello Stato sopra distinte»103. Infatti, un regime in cui al popolo spettasse la suprema – quindi incontrollata – determinazione «delle norme più minute» paralizzerebbe l’azione giudiziaria, costringendola alla pedissequa applicazione del dettato normativo; ma contemporaneamente le lascerebbe arbitrio assoluto in caso di lacune, ossia «tutto ciò su cui, pur non essendovi regole da applicare, o avendosi norme insufficienti, si dovesse in via particolare statuire»104. In altre parole, «alla male intesa ed eccessiva teoria della sovranità popolare in tanto si fa colpa di costruire un regime antigiuridico ed antiliberale, in quanto in base ad essa si pretendono accentrare ad un solo organo (popolo o suoi rappresentanti diretti) le tre funzioni»105. Tecnicamente, identificare la sovranità popolare con l’organo legislativo condurrebbe a confondere la sovranità originaria – ossia «in sé stessa […] concepita come la fonte di tutti i poteri pubblici, la sintesi di tutti i diritti dello Stato»106 - e la sovranità derivata – «considerata nella sua attuazione», vale a dire «l’autorità concreta che questi poteri esercita, o, con più corretta espressione, gli organi che della sovranità sono investiti»107. Ma anche da una prospettiva “organicistica”, le conclusioni sono analoghe: sostenere la primazia del Parlamento significherebbe «sovrapporre un organo dello Stato al sistema di cui è parte», il che ne farebbe «un insieme instabile, contingente e provvisorio di rapporti giuridici»; mentre invece si è al cospetto di un «sistema giuridico determinato e fisso, nel quale ciascuna parte ha la propria ragione d’essere»108.

È oltremodo inappropriato, da parte di Montesquieu, l’esempio del sistema ordinamentale inglese a sostegno delle sue teorie. Lungi da una divisione rigida, «il parlamento inglese partecipava alla statuizione di singoli provvedimenti e il governo dettava anch’esso da solo delle norme nei limiti del diritto nazionale. In Inghilterra non s’era pur anco avuta, come mai s’ebbe neanche poi, quella divisione della giurisdizione civile e penale dall’amministrazione, che sul continente era già da un pezzo avviata»109. Il diritto inglese è eminentemente «fattuale», modellato sui bisogni reali del Paese e improntato al bilanciamento delle funzioni, piuttosto che alla divisione dei poteri110. Ma soprattutto, custodito da un re la cui funzione di veto, malintesa da chi ne rileva la sola efficacia negativa, consiste nel garantire la forma di governo equilibrata nel rispetto dei limiti costituzionali: il che concerne la maggior parte delle leggi, votate ad iniziativa del governo, «che ne presenta i progetti e ne accetta le modificazioni sulla base degli accordi presi con la corona»; nonché i progetti di iniziativa parlamentare, che richiedono il vaglio dell’esecutivo in accordo col re. Dunque, «il re non può, nei casi ordinari, negare il suo assenso a ciò che si fa e si vota sapendo già, per mezzo dei suoi ministri, che egli vi consente». Per non dire delle crisi di governo, la cui soluzione spetta sempre al Capo dello Stato. In definitiva, conclude Codacci-Pisanelli, anche per quanto concerne il sistema di gabinetto, «il principio fondamentale dello Stato libero moderno resta quello che nessun atto acquista incondizionato valore di legge e virtù di alterare il diritto nazionale senza il consenso di tutte le parti costituenti l’autorità legislativa» e, in primis - in Inghilterra come in Italia - al «re in Parlamento»111.

Addivenendo alle conclusioni, cura principale di Codacci-Pisanelli è la stabilità del diritto pubblico nazionale. Quella che il popolo sovrano non può garantire, anzi minaccia di sovvertire, perché, «se avesse una norma da rispettare […] non sarebbe più sovrano». L’arbitrio governativo, come quello individuale, hanno bisogno di argini: «l’individuo, il collegio o l’assemblea chiamati a governare, finché hanno una regola da seguire o un limite da rispettare, non possono, facilmente e impunemente, sostituire il proprio capriccio a quello che dev’essere nel dato caso il potere sovrano», che non consiste nel volere del giudice, né è l’effetto della norma, che da sola rimarrebbe astratta e inefficace: «quell’atto è dello Stato e il volere sovrano in questo […] consta»112.










1 I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’Età moderna, Torino, Giappichelli, 2002, p. 162.

2 D. Quaglioni, La sovranità, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 4.

3 N. Matteucci, voce “Sovranità” in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, Roma, Istituto Geografico De Agostini, 3, 2006, p. 469.

4 Successivamente in A. Codacci-Pisanelli, Scritti di diritto pubblico, Città di Castello, Tip. Lapi, 1900, p. 122 ss.

5 Sulla vita e le opere del giurista e politico fiorentino, le voci “Codacci-Pisanelli, Alfredo”, a cura di A. Sandulli, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), Bologna, I, Il Mulino, pp. 556 – 557 e “Codacci-Pisanelli, Alfredo”, a cura di F. Socrate, in Dizionario biografico degli italiani Treccani, 26 (1982), <http://www.treccani.it/enciclopedia/alfredo-codacci-pisanelli_(Dizionario-Biografico)/>.

6 Ossia «delle prime affermazioni del modello pandettistico che al principio del nuovo secolo diverrà comune a tutte le branche del diritto, della prevalenza nella didattica dell’indirizzo teorico e scientifico su quello professionale, della nascita dei nuovi saperi specialistici disciplinari e delle nuove figure di professori universitari ‘alla tedesca’, istituzionalmente dediti all’attività di ricerca all’interno delle Università» (G. Cianferotti, Storia della letteratura amministrativistica italiana, I, Milano, Giuffrè, 1998, p. 685 ss.).

7 Mi sia consentito rinviare a G.P. Trifone, Il diritto al cospetto della politica. Miceli, Rossi, Siotto Pintòr e la crisi della rappresentanza liberale, Napoli, ESI, 2010, p. 18 ss. Su V.E. Orlando la bibliografia è vastissima. Mi limito a citare A. Volpicelli, “Vittorio Emanuele Orlando”, Nuovi studi di diritto, economia e politica, 1, (1927-28); G. Cianferotti, Il pensiero di V.E. Orlando e la giuspubblicistica italiana fra Ottocento e Novecento, Milano, Giuffrè, 1980; A. Mazzacane, I giuristi e la crisi dello stato liberale in Italia fra otto e novecento, Napoli, Jovene, 1986; L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1999; M. Fioravanti, La vicenda intellettuale del giovane Orlando (1881-1897), Firenze, Eurografica, 1979; Id., “Popolo e Stato negli scritti giovanili di Vittorio Emanuele Orlando”, in Id., La scienza del diritto pubblico. Dottrine dello Stato e della Costituzione tra Otto e Novecento, I, Milano, Giuffrè, 2001; A. Schiavone, Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1990; D. Quaglioni, “Ordine giuridico e ordine politico in Vittorio Emanuele Orlando”, Le carte e la storia, 1 (2007), pp. 17-26.

8 M. Fioravanti, “La scienza italiana del diritto pubblico”, Ius Commune, X (1983), Frankfurt am Main, V. Klostermann, p. 223.

9 Errore che veniva imputato ad alcuni giuristi tedeschi coevi, come Paul Laband, il quale «sostiene tesi politiche nell’interesse dell’equilibrio delle forze tradizionali dei componenti l’impero creato nel 1870, anche quando, come i legisti medievali, la sua tecnica e l’arte sua di giurista sono al servizio della politica di Bismarck» (P. Chimienti, “Le istituzioni politiche ed il diritto costituzionale”, in Id., Saggi, Diritto costituzionale e politica, Napoli, Perrella, I, 1914, pp. V ss. e 78).

10 A. Codacci-Pisanelli, Come il diritto amministrativo si distingua dal costituzionale e cosa sia la scienza dell’amministrazione, Pavia, L. Vallardi, 1887. Cfr. anche A. Sandulli, op. cit., p. 556.

11 G. Cianferotti, Il pensiero di V.E. Orlando, cit., p. 272.

12 Il passaggio dalla dottrina italiana del 1848 – cosiddetta di fondazione costituzionale e improntata ai principi di «libertà e Stato» - agli anni della scuola ‘orlandiana’ – impegnata nella riconsiderazione della «libertà dello Stato» -, è messo in evidenza da L. Borsi, Nazione democrazia Stato. Zanichelli e Arangio-Ruiz, Milano, Giuffrè, 2009, p. 399 ss.

13 A. Majorana, Il sistema dello Stato giuridico, Roma, Loescher, 1889, p. 123.

14 «Così la sovranità, affermazione della capacità giuridica dello Stato, comprende tutti i diritti pubblici o, con espressione sintetica, essa stessa è il diritto dello Stato» (V.E. Orlando, Principi di diritto costituzionale, Firenze, Barbera, 1889, p. 59).

15 L. Borsi, Nazione, cit., p. 291. È il caso di menzionare almeno A. Brunialti (“Il diritto costituzionale e la politica nella scienza delle istituzioni”, in Id. (ed.), Biblioteca di Scienze Politiche e Amministrative, sr. II, vol. VII, pt. I, torino 1896, pp. 3-990, e vol. VII, pt. II, torino 1900, pp. 1-1025), F.P. Contuzzi (Trattato di diritto costituzionale. Manuale ad uso degli studenti delle università e degli Istituti superiori e degli aspiranti alle Carriere amministrativa e giudiziaria, Torino, Unione Tipografico-editrice, 1895, p. 138 ss.), G. Arcoleo (Diritto costituzionale, Napoli, Jovene, 1907, p. 89 ss.).

16 Cfr. tra gli altri, M. Siotto Pintòr, I capisaldi della dottrina dello Stato, Roma, F.lli Bocca, 1901; Id., “Per la concezione realistica della norma giuridica”, Università degli Studi in Perugia. Annali della Facoltà di Giurisprudenza, 4 (1906), pp. 133-159; A. Ferracciu, “Il Diritto costituzionale e le sue zone grigie”, Università degli Studi in Perugia. Annali della Facoltà di Giurisprudenza, 3 (1905), pp. 83-126; U. Forti, Il realismo nel diritto pubblico. A proposito di un libro recente, Camerino, Tip. Savini, 1903 (con riferimento al volume di Leon Duguit L’Etat, le droit objectif et la loi positive del 1901).

17 Cfr. V. Miceli, La forza obbligatoria della consuetudine considerata nelle sue basi sociologiche e giuridiche, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1899; Id., Il saggio di una nuova teoria della sovranità, Firenze, Loescher, 1884-87; A. Bartolomei, “Diritto pubblico e teoria della conoscenza, II, Per la determinazione giuridica dello Stato”, Università degli Studi in Perugia. Annali della Facoltà di Giurisprudenza, 1 (1903), pp. 169-186; F. Racioppi, Forme di Stato e forme di governo, Firenze, Società Ed. Dante Alighieri, 1898.

18 G. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto costituzionale italiano, Roma, F.lli Bocca, 1913, p. 17.

19 Ma c’è anche chi, come E. Presutti, non esita a sostenere la illimitatezza della sovranità, in quanto non configurabile come un diritto; al contrario, diritti sono quelli in capo agli organi dello Stato, perché «facoltà limitate da norme giuridiche» (Istituzioni di diritto amministrativo. Parte generale, Napoli, Tocco, 1904, p. 28).

20 G. Arangio Ruiz, Istituzioni, cit., p. 21. Si tratta evidentemente della recezione delle teorie di Gerber (Grundzuge des deutschen Staatsrechts, Lipsia, Tauchnitz, 1865). Una critica al giurista tedesco arriva da parte di G. Grasso: «lo Stato avendo una capacità di volere tutta sua, consistente nella facoltà di comandare, ossia di manifestare, per l’adempimento dei compiti suoi, una volontà obbligante tutto il popolo, Gerber trovava in questo contenuto della volontà statuale il carattere specifico e differenziale della personalità dello Stato di fronte alle persone giuridiche del diritto privato». Ma «se non vediamo che un soggetto, lo Stato, e dei sudditi oggetti della sua dominazione, questo sarà un fatto, non un diritto. E siccome l’essere persona vuol dire essere soggetto di diritti e non solo portatore ed arbitro di una forza – così il disconoscimento della personalità dei cittadini nel campo del diritto pubblico conduce al diniego della personalità dello Stato, cioè all’eliminazione del presupposto necessario di ogni costruzione giuridica del diritto statuale» (I presupposti giuridici del diritto costituzionale e il rapporto fra lo Stato e il cittadino, Genova, Tip. R. Istituto sordo-muti, 1898, pp. 99 e 102).

21 L. Raggi, La teoria della sovranità. Contributo storico e ricostruttivo alla dogmatica del diritto pubblico, Genova, A. Donath, 1908, p. 257.

22 Sugli schemi di rappresentazione della sovranità nella giuspubblicistica otto-novecentesca a partire dai poli, rispettivamente, sociale e statuale, cfr. P. Costa, Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana fra Ottocento e Novecento, Milano, Giuffrè, 1986, p. 238 ss. e Id., “Il modello giuridico della sovranità: considerazioni di metodo ed ipotesi di ricerca”, Filosofia politica, 1, (1991), p. 51 ss.; A. Carrino (a cura di), Sovranità e Costituzione nella crisi dello Stato moderno, Torino, Giappichelli, 1998.

23 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 60.

24 Ibid., p. 7.

25 Ibid., pp. 42-43.

26 È dentro i limiti segnati da queste norme che può e deve svolgersi così l’autorità pubblica, come la libertà sociale, poiché le norme mirano a un duplice intento. Comandando o vietando ai cittadini, sotto sanzioni assicuranti l’ubbidienza, degli atti determinati, esse danno forza ed efficacia all’autorità. E tracciando a questa dei limiti che non può varcare, tutelano la libertà della sfera d’azione, riconosciuta ad ogni individuo e ad ogni personalità vivente nello Stato» (Ibid., p. 57).

27 G. Arcoleo, Diritto costituzionale, cit., p. 89.

28 Ibid., p. 92.

29 L’espressione è sempre di Arcoleo, ivi.

30 V.E. Orlando, Introduzione al Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, I, Milano, Società Editrice Libraria, 1900, p. 22.

31 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 59.

32 Ibid., pp. 41-42. Nel saggio “Legge e regolamento” (Napoli 1888, ora in Id., Scritti di diritto pubblico, cit., p. 3-74), Codacci-Pisanelli aveva già sostenuto la teoria della «differenza formale ed identità sostanziale tra legge e regolamento» (p. 35). In quest’opera il giurista aveva anche definito i lineamenti della teoria dello Stato come persona giuridica titolare della sovranità, manifestantesi nell’attività degli organi di governo, la quale non può ridursi «ad una mera esecuzione di norme», data la varietà di situazioni particolari e la complessità dell’ente. In base a tali asserzioni, veniva infine confutato il concetto di sovranità popolare e la sua filiazione nella «meccanica tripartizione dei poteri» (cfr. G. Cianferotti, Storia della letteratura amministrativistica italiana, cit., pp. 687-690).

33 L. Minguzzi, “Alcune osservazioni sul concetto di sovranità”, Archivio di diritto pubblico, 2 (1892), p. 39.

34 F.P. Contuzzi, Manuale di diritto costituzionale, Torino, Unione tipografico-editrice, 1895, p. 145 e passim, p. 148 ss. Nonché E. Presutti: «solo alcune funzioni possono delegarsi ad appositi organi […]. Per quanto ampi siano i poteri di costringimento attribuitigli, nessun organo dello Stato è sovrano: la sovranità compete unicamente allo Stato» (Istituzioni, cit., p. 24).

35 A. Longo, “Della consuetudine come fonte del diritto pubblico (costituzionale e amministrativo)”, Archivio di diritto pubblico, 2 (1892), 2, p. 252.

36 A. Luongo, Lo “Stato moderno” in trasformazione. Momenti del pensiero giuridico italiano del primo Novecento, Torino, Giappichelli, 2013, p. 89 ss.

37 D. Donati, “La persona reale dello Stato”, Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione: la giustizia amministrativa, (1921), p. 22.

38 Ivi.

39 A. Longo, “Della consuetudine”, cit., p. 253.

40 D. Donati, “La persona”, cit., p. 22.

41 A. Bartolomei, Lineamenti di una teoria del giusto e del diritto con riguardo delle quistioni metodologiche odierne, Roma, F.lli Bocca, 1901,

42 Cfr. E. Presutti, Istituzioni, cit., p. 28.

43 A. Bartolomei, Lineamenti, cit., p. 182 ss.

44 Ivi.

45 Ivi.

46 G. Grasso, I presupposti, cit., p. 122.

47 F.P. Contuzzi, Manuale, cit., p. 136.

48 Beninteso: «quella società a base territoriale, munita di appositi organi, che ha sugl’individui e sui gruppi sociali, anche se a base territoriale, che esistono sul suo territorio, un potere di costringimento astrattamente illimitato. Questo potere di costringimento astrattamente illimitato si chiama sovranità» (E. Presutti, Istituzioni, cit., pp. 17).

49 Ivi.

50 G. Grasso, I presupposti, cit., p. 122 ss.

51 F.P. Contuzzi, Manuale, cit., p. 137.

52 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 63.

53 V.E. Orlando, “Del fondamento giuridico della rappresentanza politica”, in Id., Diritto pubblico generale, Scritti vari (1881-1940), Milano, Giuffrè, 1954.

54 F.P. Contuzzi, Manuale, cit., p. 138.

55 Cfr. D. Quaglioni, Ordine, cit., p. 13.

56 Nel caso di Contuzzi, gli artt. 1 delle rispettive costituzioni francesi del 1791 e del 1848 (cfr. op. cit., pp. 139-140).

57 G. Arangio Ruiz, Istituzioni, cit., p. 24.

58 Estremizzando, L. Minguzzi parla di «tautologia», laddove la sovranità, essendo insita nella nozione di Stato, è «un concetto di cui non vi è necessità logica», dato che «essere Stato ed affermarsi come persona giuridica sono una cosa sola; quindi la sovranità non è distinta, ma incarnata nell’idea dello Stato» (“Alcune osservazioni”, cit., pp. 38 e 42).

59 F. Cammeo, “Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo”, in V.E. Orlando (a cura di), Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, III, Milano, Società Editrice Libraria, 1901, pp. 13-14.

60 Sul punto anche L. Minguzzi, “Alcune osservazioni”, p. 26; G. Arcoleo, Diritto costituzionale, cit., p. 77 ss.; G. Arangio Ruiz, Istituzioni, cit., p. 22.

61 Che pure sono quelle del liberale antiegualitario ma incline alle riforme sociali, come dimostrato nel corso della sua successiva carriera politica. Cfr. A. Sandulli, op. cit.

62 Prendo in prestito l’espressione di Maurizio Fioravanti che, riferendosi all’interpretazione orlandiana di Savigny, formula il concetto di costituzione materiale come ordine obiettivo che è dato nell’esperienza: «è proprio quell’ordine a conferire alla legge, che di esso medesimo è espressione, la sua forza sovrana» (“La crisi dello Statoliberale di diritto”, Ars interpretandi, Annuario di ermeneutica giuridica, Roma, Carocci, XVI, (2011), p. 84).

63 G. Duso, “Per una critica della democrazia”, in L. Bazzicalupo e R. Esposito (a cura di), Politica della vita, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 57.

64 O. Ranelletti, Principii di diritto amministrativo, I, Napoli, L. Pierro, 1912, p. 119.

65 «Lo Stato adunque, come la società, non può trovare il suo fondamento e la sua giustificazione nella libera, cosciente volontà individuale di assenso alla sua formazione o al suo perdurare. Il contratto, come prodotto libero, cosciente e contingente della volontà individuale, non può essere posto all’origine dello Stato, per spiegarne o giustificarne la formazione» (Ibid., p. 130).

66 J.J. Rousseau, Il contratto sociale (Amsterdam 1762), Milano, RCS Libri, 2010, Lib. II, Cap. 4, p. 31 ss.

67 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 56.

68 Ivi.

69 Ibid., p. 26.

70 Ibid., pp. 28-29. Sul punto, A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa, Milano, Giuffrè, 1982, p. 325 ss; D. Quaglioni, La giustizia nel Medioevo e nella prima Età Moderna, Bologna, Mulino, 2004, p. 100 ss.; L. Nocentini, “Autonomia della ragione e diritto (La comunità politica)”, Bollettino telematico di filosofia politica, <http://btfp.sp.unipi.it/dida/nocent/index.htm>.

71 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 8.

72 Sulla teorica gregoriana dell’unicità della ecclesia sotto il pontefice, e della funzione temporale come commessa; nonché sulla legittimazione del potere imperiale da parte dei legisti, E. Crosa, Il principio della sovranità popolare dal Medioevo alla Rivoluzione francese, Milano Torino Roma, F.lli Bocca, 1915, p. 10 ss.

73 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 12.

74 La trasmissione di potere dal populus al princeps è un topos di tutta la tradizione giuspubblicistica medievale. Per una esegesi dei numerosissimi brani, E. Cortese, Il problema della sovranità nel pensiero giuridico medievale, Roma, Bulzoni, 1966.

75 Il populus «è la simbolizzazione non tanto di un dato reale […] quanto di un modello quasi sovra-temporale». Esso risulta un archetipo «dentro il linguaggio del processo valido del potere al punto di fare di quel simbolo uno dei principali supporti della validità» (P. Costa, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), Milano, Giuffrè, 1969, pp. 227-229).

76 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 20. Per una disamina delle dottrine di Calvino, Lutero e e Melantone ed il loro rapporto con l’evoluzione della teoria nazionalistica degli Stati, cfr. E. Crosa, op. cit., p. 118 ss.

77 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 16.

78 Portata avanti sin dal Trecento, con particolare riferimento a Marsilio da Padova. Con l’asserzione per cui sovrano è il legislatore, ossia la «universitas civium, aut eius pars valentior, quae totam universitatem repraesentat» (R. Scholz (a cura di), Marsilius De Padua, Defensor Pacis, Hannover, Hansche Buchhandlung, 1932, Dictio I, XII, 3), Codacci-Pisanelli attribuisce a Marsilio due errori fondamentali: la delegazione di potere e la subordinazione del governo alla volontà del popolo. Dopo aver infatti stabilito la sovranità in capo all’universitas civium, si afferma che il principe, a cui rimane una sorta di potere subordinato, è «secundaria, instrumentalis, seu executiva pars». Sulla vita e l’opera di Marsilio, tra gli altri, B. Labanca, Marsilio di Padova riformatore politico e religioso del secolo XIV, Padova, F.lli Salmin, 1882; F. Battaglia, Marsilio da Padova e la filosofia politica del Medioevo, Firenze, Le Monnier, 1928; G. Capograssi, “Intorno a Marsilio da Padova”, Rivista internazionale di Filosofia del Diritto, X, (1930); A. Passerin d’Entrèves, “Rileggendo il Defensor Pacis”, Rivista storica Italiana, LI, (1934); A. Checchini e N. Bobbio (a cura di), Marsilio da Padova. Studi raccolti nel VI centenario della morte, Padova, CEDAM, 1942; C. Vasoli, Introduzione a Marsilio da Padova, Il difensore della pace, Torino, UTET, 1960.

79 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., pp. 17-19.

80 Secondo la lex regia de imperio, la potestas suprema viene concessa dal populus al princeps che, solo in virtù di tale attribuzione, può attribuire vigorem a quod ei placuit (Ibid., p. 23). Per Pietro Costa, che si riferisce al contesto imperator-lex regia secondo i passi del Corpus iuris (D. I, 4, I, C. I, 17, I, 7, Inst. I, 2, 6), qui il populus funziona da strumento di validazione, ossia «di attribuzione all’imperatore della pienezza dei poteri»; insomma: «il populus è, di per sé, un simbolo di legittimazione», ma «nessuno dubitava che il processo di potere valido discendesse dall’imperatore e soltanto da lui» (Iurisdictio, cit., p. 191 ss.).

81 A ben vedere, il concetto di populus come universitas e non come «bellua multorum capitum» è presente in Buchanan, Boucher e nelle Vindiciae contra tyrannos, mentre in Althusius il concetto federativo è espressamente formulato in chiave anti-individualistica (cfr. E. Crosa, op. cit., p. 131 ss.). Di fatto, nella sua critica ai monarcomachi, Codacci-Pisanelli non mette in discussione la mancanza del concetto di collettività, quanto la sua indeterminatezza. Su tale problema, G. Duso, “Per una critica”, cit., pp. 61 ss. e Id., (a cura di), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Roma, Carocci, 1999 (in particolare, i saggi dell’A. “Il governo e l’ordine delle consociazioni: la Politica di Althusius”, pp. 77-95 e “Rivoluzione e costituzione del potere”, pp. 203-213).

82 Quale insieme di regole per la gestione dello spazio comune e degli equilibri che ne risultano, prima ancora che in forma scritta (cfr. M. Fioravanti, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 9 ss.).

83 «La rappresentanza infatti, che con la nascita delle costituzioni moderne è legata strettamente all’elezione […], non realizza, come spesso si immagina, una trasmissione di volontà […]. Piuttosto una forma di autorizzazione del rappresentante a esprimere la volontà comune che si fa legge […]. Tale fondazione dal basso è funzionale al fatto che la volontà del soggetto collettivo è espressa dall’alto e senza rapporto con il concreto essere dei cittadini» (G. Duso, “Per una critica”, cit., pp. 61-62).

84 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 22.

85 G. Grasso, I presupposti giuridici, cit., p. 48.

86 Ibid., p. 45.

87 Ibid., p. 46.

88 Sul bipolarismo sovranità/rappresentazione, P. Viola, “Seminario su rappresentare il sovrano e il popolo nell’Europa moderna”, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, XIX, 4, serie III, Pisa 1989.

89 J.J. Rousseau, op. cit., Lib. III, cap. 15, p. 89 ss.

90 L. Rossi, Introduzione ai principi generali della rappresentanza politica, Bologna, Fava e Garagnani, 1894, p. 20.

91 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 54.

92 Cfr. G.P. Trifone, Il diritto, cit., p. 124 ss.

93 P. Chimienti, “Il principio rappresentativo nel Diritto costituzionale moderno”, in Id., Saggi. Diritto costituzionale e politica, Napoli, F. Perrella, 1915, p. 208.

94 Ibid., p. 207.

95 Ibid., p. 209.

96 Ibid., p. 223.

97 Ivi.

98 L. Rossi, I Principi fondamentali della rappresentanza politica, I. Il rapporto rappresentativo, Bologna, Fava e Garagnani, 1894, p. 120.

99 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 54. L. Rossi, Introduzione, cit., p. 32 ss. Su un confronto tra Rossi e Majorana a proposito della rappresentanza dei capaci, G.P. Trifone, Il diritto, cit., p. 133 ss.

100 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 55.

101 Cfr. C. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi (a cura di S. Cotta), I, Torino, UTET, 1956, p. 66 ss. Sul tema, S. Mastellone, Storia della democrazia in Europa. Dal XVIII al XX secolo, Torino, UTET, 2010, p. 5 ss. e N. Bobbio, “Introduzione” in ivi, p. XI.

102 F. Cammeo, Della manifestazione, cit., in cui peraltro è fatto riferimento a Codacci-Pisanelli, “Legge e regolamento”, cit., p. 1 ss.

103 Ivi.

104 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., pp. 34-40. Dalla legge 30 ventoso anno XII, art. 7, sul metodo dell’esegesi per evitare «come aveva sostenuto Maleville, di abbandonarsi all’arbitrio de giudici per un’infinità di questioni»; al ripensamento dei giuristi ottocenteschi sul mito della completezza dei codici in riferimento all’ufficio del giudice di far fronte alle situazioni giuridiche continuamente emergenti, il dibattito è proficuo di suggestioni. Cfr., tra tutti, U. Petronio, La lotta per la codificazione, Torino, Giappichelli, 2002, p. 124 ss. e P. Grossi, Introduzione al Novecento giuridico, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 14 ss. (Sul pensiero di Grossi, mi sia consentito rinviare a G.P. Trifone, “Pluralismo e fattualità. Il contributo di Paolo Grossi”, in A. Tucci (a cura di), Disaggregazioni. Forme e spazi di governance, Milano – Udine, Mimesis, 2013, pp. 109-120).

105 F. Cammeo, Della manifestazione, cit., p. 11. Sulla teoria della separazione dei poteri limitata, in ordine alla formazione dei diritti subbiettivi pubblici, cfr. S. Romano, “La teoria dei diritti pubblici subbiettivi”, in V.E. Orlando, Primo trattato, cit., I, pp. 118 e 162.

106 A. Longo, “Della consuetudine”, cit., p. 246.

107 Ibid., p. 247.

108 L. Minguzzi, “Alcune osservazioni”, cit., pp. 45-46.

109 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 42.

110 Sul profilo costituzionale del diritto anglosassone la bibliografia è vastissima. Mi limito a Ch. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno (1947), Bologna, Mulino, 1990; M. Fioravanti, Stato e Costituzione, Torino, Giappichelli, 1999, p. 119 ss.; L. D’Avack, Costituzione e rivoluzione. La controversia sulla sovranità legale nell’Inghilterra del ‘600, Milano, Giuffrè, 2000.

111 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., pp. 30-31.

112 Ibid., pp. 57-58.