2006

K. Thomas, G. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, Diabasis, Reggio Emilia 2005, pp. 210

Con questa agile antologia il lettore italiano ha ora a disposizione un utile strumento per avvicinarsi ad una teoria dalla storia tutta americana, profondamente connessa alla realtà multirazziale degli Stati Uniti d'America, al suo passato schiavista e segregazionista, ma il cui interesse può senz'altro andare al di là di quella specifica tradizione giuridica. La scuola della Critical Race Theory raccoglie oggi, negli Stati Uniti d'America, un numero significativo di giuristi, storici e scienziati sociali, svolge regolarmente conferenze e workshops e ha prodotto alcuni importanti volumi antologici (tra i quali v., in particolare: Richard Delgado, a c. di, Critical Race Theory: The Cutting Edge, 1995 e Kimberlè Crenshaw, Neil Gotanda, Gary Peller, e Kendall Thomas (a c. di), Critical Race Theory: The Key Writings That Formed The Movement, 1996); ha, insomma, un'identità scientificamente riconosciuta e riconoscibile, nonostante la sua origine recente.

La Critical Race Theory nasce, infatti, ufficialmente nel 1989 (durante una conferenza tenutasi a Madison, nel Wisconsin) da una costola dei Critical Legal Studies, a cui non ha mancato di rivolgere critiche di un certo rilievo - come emerge dal saggio di Kimberlé Williams Crenshaw, Legittimazione e mutamento nelle norme contro la discriminazione, pp. 111-125. Secondo la CRT, i CLS hanno concentrato la loro attenzione sulla distruzione dell'ideologia giuridica dominante, senza prendere in considerazione il ruolo egemonico del razzismo; essi, inoltre, "hanno trascurato il ruolo trasformativo offerto dal liberalismo": "L'ideologia giuridica liberale - scrive Crenshaw - può senz'altro funzionare in modo mistificante, ma rimane tuttavia ospitale verso alcune aspirazioni che sono centrali per le rivendicazioni dei neri; essa può anche svolgere un'importante funzione quando si affronti l'esperienza dell'esclusione e dell'oppressione" (p. 121). Al contrario dei CLS, la CRT non intende abbandonare del tutto il discorso sui diritti, al quale riconosce un persistente valore trasformativo ed emancipativo in un contesto di subordinazione razziale.

Se il distacco dai CLS e l'etichetta CRT maturano alla fine degli anni Ottanta, le origini di questa scuola di pensiero, o almeno di alcuni tra i suoi più importanti esponenti (come Derrick A. Bell), affondano senz'altro nel contesto culturale e politico degli anni Settanta. La sentenza Brown v. Board of Education of Topeka (1954) e le vittorie ottenute con le battaglie per i diritti civili negli anni Sessanta sembravano incapaci di produrre trasformazioni reali e incisive: la realtà dei neri continuava ad essere caratterizzata da una situazione di segregazione de facto. E' in quel contesto e di fronte alle difficoltà di ottenere pieno riconoscimento dei diritti conquistati, che comincia ad essere sentita l'esigenza di un approccio nuovo allo studio del rapporto tra diritto, potere e razza, un approccio che, com'è naturale, in un sistema di common law, dove ha un ruolo fondamentale l'istituto della revisione costituzionale delle leggi, doveva trovare un oggetto privilegiato nel diritto prodotto dalle sentenze delle corti. La prospettiva della CRT - come sottolinea Kendall Thomas, in Legge, razza e diritti: Critical Race Theory e politica del diritto negli Stati Uniti (pp. 179-202) - ha posto in discussione tanto l'idea della separazione tra politica e diritto nella storia americana, quanto l'idea di un diritto e di una politica che si sono sforzati di essere all'altezza di un ideale razionale e deliberativo: per la CRT il diritto è stato spesso lo strumento di un potere razzista, volto a mantenere saldamente il predominio razziale dei bianchi (cfr. pp. 179-183).

Uno dei contributi fondamentali della CRT è stato una rilettura della storia costituzionale e politica degli Stati Uniti d'America incentrata sulla categoria di razza. Tale reinterpretazione della storia americana ha consentito di mettere in luce - come evidenzia in particolare il saggio di Cheryl I. Harris, La bianchezza come proprietà, pp. 85-109 - le dinamiche di costruzione sociale e giuridica della razza e la centralità che la nozione di "bianchezza" ha avuto nella definizione dell'identità nazionale. Attraverso la classificazione giuridica della "bianchezza" (whiteness), come qualcosa di legato al sangue, le corti hanno a lungo tracciato confini fissi, immutabili, oggettivi e neutri, in quanto considerati biologicamente determinati, tra la razza nera e la razza bianca. Non bastava essere bianchi d'aspetto, o essere riconosciuti come bianchi, in alcuni casi anche una sola goccia di sangue nero comprometteva la possibilità di essere considerati bianchi dalla legge, in altri era richiesta una preponderanza di sangue bianco. Decidere chi poteva essere incluso tra i bianchi era cruciale, visti i privilegi giuridici, economici e sociali che la bianchezza portava con sé: la whiteness era la "proprietà" necessaria per divenire cittadini della repubblica americana.

In La convergenza degli interessi e i diritti civili in America (pp. 11-24), Derrick A. Bell, jr., uno dei padri fondatori della Critical Race Theory, espone un'altra componente essenziale di quest'approccio allo studio del diritto: il realismo. Bell è convinto che il razzismo sia un tratto profondo e forse incancellabile della cultura americana, un tratto destinato a ricomparire periodicamente ogni qualvolta i bianchi possono permettersi di perseguire i loro interessi senza tener conto dell'interesse dei neri. La storica sentenza Brown v. Board of Education of Topeka, con la quale la corte Warren sconfisse il principio separate but equal, enunciato con la sentenza Plessy v. Ferguson (1891), secondo Bell, non è stata una vittoria ottenuta in nome del riconoscimento dei bisogni dei neri, né in nome degli ideali di giustizia. Quella sentenza si spiega, piuttosto, secondo Bell, sulla base di una momentanea convergenza d'interessi: in piena guerra fredda, nella lotta ideologica tra USA e URSS, la segregazione scolastica dei neri era un elemento difficilmente giustificabile per un paese che si faceva promotore dei diritti umani nel mondo. L'imbarazzo degli Stati Uniti nel 1954, d'altra parte, era grande non solo sul piano internazionale ma anche sul piano interno: da poco si era conclusa la II guerra mondiale, nella quale fondamentale era stato il contributo dei soldati di colore. Se l'opportunità aveva deciso delle sorti del caso Brown, la stessa logica opportunistica, secondo Bell, aveva successivamente suggerito alle corti un'applicazione blanda di quel precedente e una maggiore attenzione per un'autonomia scolastica che nei fatti dava ai comitati scolastici locali la possibilità di lasciare inalterata una realtà di segregazione e discriminazione nei confronti dei neri.

Il realismo ha consentito agli autori della CRT di rileggere la storia costituzionale americana dissolvendone alcuni dei miti fondativi, primo tra i quali - come abbiamo detto - quello della color-blind constitution, un mito che - come sottolinea Neil Gotanda, esponente degli Asian Crits, in La nostra costituzione è cieca rispetto al colore: una critica, pp. 27-70 - è servito a conservare "i vantaggi sociali, economici e politici che i bianchi hanno rispetto agli altri americani" (p. 27). Attraverso il ricorso ad alcune delle sentenze più note della corte suprema americana, Gotanda mostra i diversi usi che del concetto di razza sono stati fatti nel diritto americano. La sentenza Dred Scott v. Ferguson (1857), nella quale il giudice Roger Taney sostenne che per la costituzione i neri non avevano alcun diritto di adire le vie legali, perché la "razza africana negra era stata considerata [...] così inferiore, da non avere alcun diritto che l'uomo bianco fosse vincolato a rispettare", illustra un uso del concetto di razza come status. La sentenza Plessy v. Ferguson, con la quale fu sancito il regime della segregazione raziale fa un uso formale del concetto di razza: "Chiudendo gli occhi innanzi alla storia, la Corte ritenne che la legge sulla segregazione non dicesse nulla sullo status dei blacks; la Corte anzi sostenne che la legge era razzialmente 'neutrale'" (p. 41). Nella sentenza Brown v. Board of Education of Topeka abbiamo un esempio importante dell'uso storico della categoria di razza. In quella sentenza i giudici, infatti, hanno cercato di far emergere come per il black la razza sia stata fonte di oppressione: con quella sentenza la corte tentò di mettersi dal punto di vista delle vittime della discriminazione razziale e di considerare gli effetti negativi che la segregazione produceva nella mente e nell'animo dei bambini neri (cfr. anche Kendall Thomas, ivi, p. 196). La distinzione tra uso formale e uso storico del concetto di razza, come sottolinea Gotanda, è molto importante per comprendere le attuali divisioni tra sostenitori e oppositori delle politiche affermative. Oppositori delle affermative actions, come i giudici della Corte Suprema Antonin Scalia e Clarens Thomas, hanno sostenuto, richiamandosi implicitamente ad una concezione formale della razza, che le politiche compensatorie dovrebbero essere dichiarate incostituzionali sulla base della norma della color-blindness, in quanto configurano una forma di perpetuazione della discriminazione razziale. Per contro, autori come Ronald Dworkin o Amy Gutmann, partendo da una concezione storica del concetto di razza, hanno potuto argomentare in favore di tali politiche e della loro compatibilità con il principio dell'equal protection of the laws.

Sostenitori di un approccio color-conscious, i fautori della CRT si sono trovati uniti con le femministe radicali tanto nel sottolineare il carattere costruito del genere e della razza, quanto nella battaglia in favore delle politiche di azione affermativa, spesso descritte dai loro critici come politiche di reverse discrimination e dai loro sostenitori come politiche compensatorie. In L'azione affermativa e il mito del trattamento preferenziale (pp. 159-178), Charles Luke Harris e Uma Narayan avanzano buone ragioni per un argomento in favore delle azioni affermative incentrato sul valore dell'eguale opportunità. "Mentre l'argomento della compensazione suggerisce la metafora delle stampelle, che noi offriamo a individui resi storpi dal razzismo e dal sessismo, per aiutarli ad attraversare la strada, l'argomento dell'eguaglianza di opportunità suggerisce una differente e più appropriata metafora - lo sgombrare la strada, eliminando gli ostacoli che intralciano la via di alcune persone a causa del loro sesso, della loro razza della loro classe: affinché possano attraversare la strada da soli" (p. 160). Mediante una numerosa serie di esempi di dimiscrinazioni, inconsapevoli o meno, cui spesso sono vittime le donne e i membri di minoranze razziali quando sono sottoposti a processi di selezione in cui si tratta di stilare graduatorie di merito, gli autori di questo saggio sottolineano come le azioni affermative rappresentino non dei trattamenti preferenziali, quanto piuttosto dei tentativi di trattare con maggiore eguaglianza persone che, a causa della loro identità sessuale o razziale, secondo numerose statistiche e ricerche empiriche, sono oggetto di forme di discriminazione negativa (p. 170).

In uno degli scritti più militanti contenuti nella presente antologia, il saggio di Gerald Torres e Lani Guinier: Il canarino del minatore e la nozione di political race (pp. 127-141), tratto da un "ponderoso volume di quasi quattrocentro pagine, pubblicato dalla Harvard University Press (The Miner's Canary. Enlisting Race, Resisting Power, Transforming Democracy, 2002)", il problema della giustizia razziale è legato alle possibilità di effettivo rinnovamento della democrazia. "La razza, - scrivono Torres e Guinier - per noi, è come il canarino per il minatore" (p. 127). Quando i gas nocivi danneggiavano il fragile sistema respiratorio del canarino al punto da provocarne la morte, per il minatore era il segnale dell'urgenza di abbandonare la mineria, ormai pericolosa. La razza, come il canarino, può quindi essere strumento diagnostico dello stato di salute di una democrazia. La razza politicizzata (political race), d'altra parte, spiegano gli autori di questo saggio, può e vuole essere anche qualcosa di più: la razza intesa in senso politico, pubblico, che la ricollega "a fattori socioeconomici come l'aspettativa di vita, la salute, il risparmio, la previsione statistica del completamento di un certo ciclo di istruzione, o al contrario l'aspettativa statistica di un certo numero di anni passati in carcere - e così via" (p. 132), vuole essere attore politico, ha aspirazioni politiche. "La metafora del canarino - scrivono Torres e Guinier - cattura la connessione fra gli esclusi e le deficienze di giustizia sociale nella più ampia comunità razziale. La nozione di razza in senso politico, invece, mette a fuoco l'alleanza fra coloro che sono razzialmente neri (e che sono quindi marginalizzati) da una parte, e un movimento sociale democratico che mira alla realizzazione di un cambiamento sociale costruttivo entro la più ampia comunità politica, dall'altra" (p. 128).

Brunella Casalini