2016
U. Curi, I
figli di Ares. Guerra infinita e terrorismo, Castelvecchi, Lit
edizioni, Roma 2016, ISBN 978-88-6944-560-6.
Recensione
di Claudia
Terranova
È triste doverlo constatare, ma tre sono per Umberto Curi le
parole che sintetizzano meglio quale sia stata – e continui ampiamente
ad essere – la risposta prevalente all’ondata terroristica che, dall’11
settembre 2001 fino agli attacchi del 13 novembre 2015 nel cuore di
Parigi, ha sconvolto l’Occidente: opportunismo, retorica,
superficialità. La debolezza di questa triade interpretativa è
avvalorata dal fatto che tra le due date simbolo della furia
terroristica nulla è cambiato. La stessa affermazione «Niente sarà più
come prima» (p. 7), pronunciata con enfasi all’indomani dell’11
settembre, forse più come un auspicio che come una previsione, “risulta
sostanzialmente smentita dal succedersi degli avvenimenti” (p. 7) e
ancor più dall’interpretazione che di questi è stata offerta, come
sostiene l’autore, dalla “pseudocultura dominante”. Le dense analisi
esposte in questo libro tentano non solo di smascherare l’impasse
interpretativa del fenomeno terroristico, ma cercano di esaminare
coerentemente quale sia la situazione attuale e quali le azioni
concrete da attuare affinché l’umanità possa venir fuori dall’incubo in
cui è piombata.
Nell’ampia e illuminante introduzione al saggio l’autore punta
il dito contro la “povertà culturale della risposta al terrorismo” (p.
8) che dietro l’opportunismo, la retorica e la superficialità non ha
saputo – o forse non ha voluto – cogliere la radice di tanti problemi
di straordinaria complessità “la cui origine affonda molto indietro nel
tempo” (p. 9). Dall’11 settembre 2001 al 13 novembre 2015 il repertorio
delle risposte che si è sviluppato può, secondo Curi, facilmente
sintetizzarsi in questo modo: l’opportunismo, di chi, “pur di
raggranellare qualche consenso elettorale in più” (p. 7), ha fatto
credere, mentendo sapendo di mentire, che il problema si potesse
risolvere completamente con una rapida azione militare accendendo così
“l’interruttore della guerra” (p. 7). La retorica, quella
dominante soprattutto dei media che sull’onda del sensazionalismo e
facendo leva sull’emotività si muove nell’ossessiva ricerca di qualche
scoop da fornire all’opinione pubblica piuttosto che “contribuire ad
un’adeguata comprensione della situazione” (p. 8). Ed infine la superficialità
di alcune analisi che, riproducendo “acriticamente luoghi comuni,
stereotipi, scorciatoie” (p. 8), ha impedito di far progredire la
ricerca sulle motivazioni e le cause reali del fenomeno.
A queste tre – inescusabili – miserie culturali, prosegue
Curi, si deve aggiungere inoltre il non meno condannabile vizio “della
pigrizia intellettuale” (p. 9), inadatto a cogliere, in uno scenario
ormai globalizzato, quella relazione tra terrorismo, emigrazione e
distribuzione delle risorse a livello planetario che costituiscono un
orizzonte unico che va compreso nella sua interezza. E lo stesso
dicasi, denuncia l’autore, della “malafede”, o qualcosa che “molto
assomiglia ad essa” (p. 11), nel non riconoscere lo stretto legame tra
“un ordine economico internazionale profondamente squilibrato e il
grande fenomeno macropolitico dei flussi migratori” (p. 12). L’attuale
distinzione – considerata da Curi moralmente odiosa e persino
discriminante – tra “migranti economici” e “richiedenti asilo politico”
(p. 12) non solo è scientificamente infondata, in quanto entrambi figli
del sottosviluppo e della povertà imposta, ma va semmai interpretata
come l’esito ineluttabile delle logiche predatorie dell’Occidente, “la
risacca dell’onda lunga di una politica miope, arrogante e persino
spietata, quale è stata quella adottata dall’Europa e dagli Stati
Uniti, nei confronti del Nordafrica e del Medio Oriente, lungo tutto il
Novecento” (p. 12). In questo desolante quadro non si possono
trascurare le storture e gli squilibri messi in atto
dall’internazionalizzazione dei processi economici sviluppatisi dopo il
crollo del muro di Berlino che, sull’onda di un’imperante anarchia,
hanno incredibilmente accresciuto il divario fra i paesi ricchi e
quelli poveri. Che il reddito annuale di alcuni singoli individui
occidentali, tra cui Bill Gates, superi il prodotto interno lordo di
tanti stati popolati da milioni di persone, è un dato che non può
essere annoverato come “mera curiosità statistica” (p.10) per
prestigiose riviste economiche, ma è il segno, sottolinea Curi di una
“stridente anomalia nella distribuzione delle risorse” (p. 11) che non
si configura solo come l’indice di una palese ingiustizia ma come
“l’espressione di uno stato di belligeranza” (p. 11). È pur vero, si
chiarisce nel libro, che tra l’asimmetria economica e il sorgere dei
focolai bellici dell’ultimo trentennio non ci sia una necessaria
relazione meccanica, ma è “ugualmente arbitrario, e del tutto
fuorviante, sostenere che possa essere ‘pacifico’ un mondo in cui 4/5
della popolazione dispongano di poco più di 1/5 delle risorse, mentre
il restante 1/5 della popolazione mondiale può usufruire dei 4/5 delle
risorse – economiche, monetarie, energetiche, alimentari – disponibili”
(p.11).
Di fronte a tali contraddizioni, è illusorio, esorta l’autore,
pensare di poter fronteggiare “i problemi attualmente sul tappeto
separando, nell’analisi e nelle iniziative, ciò che nella realtà si
presenta come unito indissolubilmente” (p. 13). Solo un approccio
razionale, scevro da ogni retorica dominante, potrà contribuire ad
un’adeguata comprensione dell’orizzonte attuale. Un approccio che
consideri l’inscindibile connessione tra guerra permanente,
sproporzionata distribuzione delle risorse e flussi migratori non una
semplice interpretazione tra le tante ma una realtà di fatto
incontestabile senza la quale “la comprensione del presente e la pur
prudente previsione del futuro diventano impossibili” (p. 11). Si fa
allora urgente ristabilire lo stretto legame tra variabili solitamente
ritenute distinte affinché due fenomeni – quali lo sviluppo e la
distribuzione della ricchezza a livello planetario da una parte e il
propagarsi della conflittualità in ogni luogo dall’altra – consentano
di fare luce sulla trasformazione della guerra e sulla specificità di
una “peculiare tecnica di combattimento che è il terrorismo” (p. 14).
Nessuna analisi del fenomeno può considerarsi ‘scientificamente valida’
se esclude dalla riflessione i mutamenti che, dagli albori della
modernità fino alla soglia del terzo millennio, si sono avvicendati
nella morfologia della guerra.
Nei tre capitoli che si susseguono in apertura del saggio,
Il tempo della guerra, La guerra come stato e Alle
radici della guerra infinita, l’autore sulla scia delle riflessioni
di Thomas Hobbes e Carl Schmitt, traccia un approfondito excursus sulla
guerra evidenziando come le sue trasformazioni ne abbiano mutato fino
“ai limiti del capovolgimento” (p.14) il suo statuto originario
“dominante fino allo scoppio del primo conflitto mondiale” (p. 14).
Dalle analisi si comprende chiaramente come la guerra da evento
che si colloca entro determinate categorie temporali, con il suo inizio
e la sua fine – quali unico principio di individuazione – si sia
trasformata nell’orizzonte attuale in stato e quindi da
emergenza temporanea in condizione permanente. Se fino al ventesimo
secolo la guerra è stata un “affare” di eserciti costituiti
esclusivamente da specialisti del conflitto armato e di battaglie nelle
quali la popolazione civile non veniva coinvolta, con la Grande Guerra
lo scenario muta radicalmente e il numero delle vittime civili si fa
spropositato superando la soglia dei cinque milioni di persone tra cui
donne e bambini. Avendo perso con il primo conflitto mondiale i suoi
connotati, di guerra ‘classica’, ‘en forme’, limitata e spazializzata,
nel secondo conflitto mondiale la guerra subisce ancor più un netto e
impressionante capovolgimento: si fa ‘totale’ e con l’impiego delle
forze aeree assurge al ruolo di un’eccellente fabbrica di morte
collettiva che, ponendo fine alla distinzione tra civili e militari,
persegue come unico scopo la criminalizzazione, la disumanizzazione e
la distruzione dell’avversario.
A segnare un ulteriore e in certo senso definitivo passaggio
nel processo di trasformazione della morfologia della guerra, sono
stati per Curi i conflitti che la politica estera degli Stati Uniti di
G.W. Bush – compendiata nel documento sulla National Security
Strategy del 2002, in nome della sicurezza ma anche della
democrazia e della libertà – ha prodotto in Afganistan contro Al Qaeda
e in Iraq contro Saddam Hussein.
Dall’11 settembre 2001 il lessico della strategia difensiva
statunitense arricchisce la guerra di nuovi termini trasformandone
profondamente l’orizzonte concettuale “mediante l’eliminazione di
categorie temporalmente definite e la loro sostituzione con espressioni
che alludono alla permanenza stabile della condizione bellica” (p. 38).
Preventive war, Enduring Fredoom, Infinite
Justice e Infinite war, non sono semplici sottigliezze
linguistiche, sottolinea Curi, ma “l’asse principale della nuova
strategia americana” (p. 39) che concepisce la guerra come stato
e non come evento isolato, con una visione durevole piuttosto
che circoscritta nel tempo e come “modalità permanente di rapporto non
solo con gli ‘Stati canaglia’, ma con chiunque minacci la leadership a
stelle e strisce sul mondo intero” (p. 39). All’inizio del terzo
millennio la guerra perde così il suo ruolo di opposizione estrema,
limitata nel tempo e nello spazio, e diventa piuttosto “una prospettiva
stabile”, una condizione permanente destinata non a combattere il
terrorismo ma a impedire, secondo le riflessioni dell’autore, “che
possano essere lesi o limitati i diritti considerati acquisiti e
intangibili di coloro che vivono nel mondo occidentale” (p. 42). La
convinzione di matrice bushiana secondo la quale il tenore di
vita degli abitanti più privilegiati del pianeta (un quinto della
popolazione mondiale), “non è negoziabile” (p. 41), costituisce
di per sé “la prima e più importante dichiarazione di guerra nei
confronti del resto della popolazione mondiale” (p. 41).
Sarebbe opportuno a questo punto, illustra Curi, soffermarsi
sulle condizioni economiche delle regioni interessate dai conflitti.
Poiché il vero problema che sta alla base dei conflitti che
imperversano sul pianeta non è semplicemente di natura politica – o
religiosa – come spesso viene strumentalmente divulgato dai media
occidentali ma è, secondo l’autore, strettamente connesso con lo
scenario economico globale dischiusosi dopo il crollo del Muro la cui
scomparsa ha fatto emergere nonché esasperare le contraddizioni
precedentemente celate o tenute a freno. Non è illogico pensare che “il
fatto che un singolo individuo disponga di un patrimonio superiore al
Prodotto Interno Lordo di più Stati messi insieme, non abbia
conseguenze, sia pure indirette, sulle condizioni di pace e di guerra”
(p. 46). Non è certo un mistero che l’ineguale distribuzione della
ricchezze sia la principale responsabile della malnutrizione e della
fame nel mondo che, malgrado le promesse fatte dai 189 capi di Stato e
di governo in occasione del Vertice del Millennio presso le Nazioni
Unite del 2000, non è stata ancora dimezzata. La povertà scrive Curi
sulla scorta dei rapporti della FAO: “incide ancora molto negativamente
per quanto riguarda la mortalità infantile, l’accesso dei bambini
all’istruzione scolastica, la disponibilità di acqua potabile, le
condizioni sanitarie di vita” (p. 57). E se attualmente un “bambino
americano consuma come 442 etiopi” (p. 50) è perché la ‘non
negoziabilità del livello di vita degli americani’, implicita nella
cosiddetta “dottrina Bush”, lungi dall’essere un’altra “cosa rispetto
alla parola d’ordine della guerra infinita” (p. 61) ne
costituisce invece per Curi “il presupposto e la fondazione”
(p.61), l’unica possibilità per realizzarla. Ne consegue dunque che
l’unico strumento per consolidare e mantenere lo status quo,
sia uno stato di guerra permanente che impedisca
qualsiasi riformulazione dei rapporti economici e “delle gerarchie
politiche vigenti sul piano internazionale” (p. 62). La guerra nella
nuova accezione di guerra infinita non è che l’altra faccia di un
quadro mondiale deprimente fatto di fame, povertà, anafalbetizzazione,
malattie e morte. Quale alternativa dunque alla “strategia nota come Enduring
Freedom” (p. 62) che può paradossalmente definirsi ‘ingiustizia
infinita’? Il monito dell’autore è chiaro: “moltiplicare gli sforzi per
realizzare una differente distribuzione delle risorse a livello
planetario” (p. 62) senza alcuna imposizione e “dunque anche andando a
toccare l’intangibile, negoziando ciò che è dichiarato non negoziabile
– il tenore di vita dei cittadini americani” (p. 62).
Lo stretto legame tra iniqua distribuzione della ricchezza e
perenne conflittualità, illustrato ampiamente nei primi tre capitoli, è
un tema presente anche nelle riflessioni sulla pace e sulla guerra di
Kant e Freud. Non è un caso infatti che nel quarto capitolo del saggio,
Tre ipotesi di pace, l’autore si soffermi su alcune
intuizioni esposte nel Progetto kantiano del 1795 Per la
pace perpetua. In un aspetto, infatti, – per Curi generalmente
trascurato – Kant “offre un solido fondamento di carattere politico e
giuridico a quella che, diversamente, potrebbe configurarsi come mera
predicazione in favore della pace” (p. 76). Sostenere come afferma il
filosofo di Königsberg “che la violazione di un diritto commessa in una
parte del mondo viene sentita in tutte le altri parti” (p. 72),
significa per Curi che “senza giustizia nessuna pace è possibile”
(p. 76) perché fino a quando a livello planetario regneranno gli
squilibri, le distorsioni e le ingiustizie, la pace resterà
un’illusione. Di grande rilievo, anche per la sua cogente attualità, è
un altro aspetto della proposta kantiana riconducibile per l’autore al
tema dell’ospitalità vista da Kantnon in termini di mera
filantropia, ma di diritto. L’obbligo kantiano di un’attiva ospitalità
verso gli stranieri congiunta alla rinuncia di atteggiamenti predatori
nelle visite ai paesi altrui, rappresentano per Curi, non semplici
imperativi etici, ma “fattori fondanti di un nuovo ordine
internazionale almeno parzialmente libero dal persistere delle guerre”
(p. 77). Pur profondamente diverse tra loro, le analisi sulla guerra e
le proposte di pace enunciate da Kant e Freud condividono tuttavia un
motivo dominante in quanto entrambe “riconducono la possibilità della
pace ad un contesto più ampio e comprensivo, alla modificazione
dell’ordine economico e giuridico internazionale” (p.85). Non
diversamente da Kant che, sulla scia di Hobbes ritiene la guerra
ineliminabile dall’orizzonte umano, Freud ribadisce, la sua impossibile
sopprimibilità “fintanto che le condizioni di vita dei popoli saranno
tanto diverse” (p. 77).
Che cosa quindi è attualmente possibile contrapporre – ammesso
che ciò sia possibile secondo gli interrogativi di Curi – alla
trasformazione della guerra in “perenne belligeranza”? (p. 86) E “quali
parole possono contraddire quelle che hanno fatto della
guerra, già di per sé terribile come evento, uno stato ancora
più spaventoso”? (p. 86). A questi interrogativi non è giunta fino ad
oggi una risposta dalla politica, e in particolare dalla politica
dell’Unione Europea incapace secondo Curi di “esprimere una propria
autonoma prospettiva” rispetto a quella promossa dall’amministrazione
americana. L’unica risposta, come monito da non disattendere, si
individua nelle parole di Papa Wojtyla che, alla vigilia dell’attacco
americano contro l’Iraq nell’aprile 2003, traccia anche se abbozzato un
sentiero per la pace entro quale il digiuno si configura come
l’orizzonte si senso per un vero cammino di pace, di solidarietà e di
condivisione. Parole che non appartengono alla politica, ma all’ambito
di quello che Curi definisce della profezia. Non adeguatamente
valorizzato, neppure dal variegato orizzonte pacifista, il messaggio
del Papa che invita al digiuno è un dato di capitale importanza perché
quel monito “altro non è se non la disposizione a rinegoziare il tenore
di vita dei cittadini dell’Occidente” (p.87). Quelle parole, continua
Curi, che “prefigurano una soluzione esattamente opposta a quella
immaginata da Bush” (p. 87) sono però cadute nel vuoto e rimaste
inascoltate dalla comunità internazionale. A distanza di dodici anni
riprenderanno vigore nelle durissime espressioni di Papa Francesco che
apostrofando come “Maledetti” e “delinquenti” (p. 89) i trafficanti
d’armi, condanna senza appello tutti coloro che operano la guerra. Alla
luce di queste analisi appare chiaro che l’unica prospettiva alla
guerra permanente sia quella di tradurre in politica l’appello
del pontefice, facendo “sì che la pace non sia soltanto un nome, ma
diventi essa la continuazione della politica con altri mezzi” (p. 90).
Lo stretto connubio tra sperequazione nella distribuzione
delle risorse e conflittualità può considerarsi senza dubbio il leitmotiv
delle riflessioni che Curi sviluppa in questo saggio per comprendere,
con un approccio più realistico e meno romanzato, le contraddizioni, le
crisi e le derive dello scenario attuale. Anche nel quinto capitolo, Morfologia
del terrore, che chiude il saggio, l’inscindibile connessione
ritorna quale pregnante relazione che può far luce su una categoria
controversa quale è quella di terrorismo. Un termine senza dubbio
inflazionato che nel corso degli anni è stato utilizzato per definire
fenomeni fra loro “talmente differenti, da risultare in realtà perfino
incommensurabili” (p. 98). Partendo dall’analisi della radice del
terrorismo, Curi riconosce che, a differenza di quanto si possa
generalmente pensare, il terrore non è espressione del contropotere ma
“fa la sua comparsa ufficiale nel linguaggio e nella prassi della
politica moderna” (p. 97) con l’instaurazione del “Terrore” di
Robespierre e de Saint-Just. Ciò a sottolineare che sin dalle origini
“il precipitare della conflittualità nella sua forma più estremizzata e
sanguinaria avviene per iniziativa dello Stato e non contro di esso”
(p. 96). Lungi dal rappresentare una decadenza o un’attenuazione della
politica, il terrore ne costituisce un rafforzamento dal quale emerge
l’essenza intimamente bellica della stessa. Ma se il terrore anche
nelle sue varie declinazioni di lotta armata, illegalità di
massa e stragismo, come precisa Curi, per molto tempo è
stato intimamente legato al potere parlando la sua stessa lingua, il
terrorismo nel suo significato “tecnico” dalle Twin Towers al Bataclan
non può essere riconducibile alle tante manifestazioni, seppur
violente, che hanno funestato il panorama storico fino all’alba del
terzo Millennio. L’errore di fondo, secondo Curi, è quello di
considerare il terrorismo come soggetto, vale a dire come “un nemico in
carne ed ossa, con un suo esercito, una sua struttura gerarchica, un
luogo geografico nel quale risieda” (p. 105) e un suo disegno criminale
finalizzato ad annientare i valori, la civiltà e l’esistenza stessa
dell’Occidente piuttosto che un “metodo di lotta” come risposta al
processo di trasformazione nella morfologia della guerra. Quest’ultima
facendo uso delle nuove ed eccezionali opportunità messe a disposizione
dallo sviluppo tecnologico nel settore degli armamenti ha compiuto
un’autentica rivoluzione copernicana nelle modalità dello scontro che
oggi “assume la forma – almeno per una delle due ‘parti’ in conflitto,
quella occidentale – di una sorta di videogame, con un giocatore che
esegue operazioni su una consolle, provocando morti e
distruzioni al riparo da ogni pericolo. Una guerra, dunque, totalmente asimmetrica,
dalla quale è di principio esclusa l’ipotesi che, nella competizione
bellica, a soccombere sia il giocatore occidentale” (p. 17).
L’asimmetria della nuova guerra congiunta all’asimmetrica
distribuzione delle risorse a livello planetario, dovrebbe essere
sufficiente “a far intravedere quale sia il grembo che alimenta la
perpetuazione e il rafforzamento del terrorismo” (p. 111). La crescita
simbiotica del divario tra l’opulenza dei pochi e la miseria dei tanti
e la proliferazione del terrorismo internazionale, testimonia
concretamente l’inseparabilità concettuale e materiale dei due
fenomeni. Se si vuole un mondo più sicuro, conclude Curi, “è
indispensabile adoperarsi affinché esso sia pure più giusto” (p. 114) e
se si vuole la pace “ben più incisiva rispetto allo strumento della
guerra preventiva è la rimozione delle catene della miseria in cui
versano centinaia di milioni di esseri umani” (p.114).