2016
N. Chomsky, I. Pappé, Palestina
e
Israele: che fare?, a cura di Frank Barat, Fazi Editore, Roma
2015. ISBN 978-88-7625-800-8.
Recensione
di Claudia
Terranova
Giunti alla conclusione che era urgente pensare ad un
seguito, gli autori di Ultima fermata a Gaza (Ponte alle
Grazie, 2010) con il recente Palestina e Israele: che fare? ritornano
a distanza di cinque anni con un un’analisi risoluta nel dibattito
intellettuale sulla questione palestinese. Se il volume del 2010 può
considerarsi una lucida ricostruzione per chiunque voglia comprendere
il conflitto arabo-israeliano e i vari scenari di pace, questo saggio
del 2015, scritto mentre Israele “bombardava indiscriminatamente un
milione e ottocentomila palestinesi” (p. 16) con l’operazione “Margine
di protezione”, ha il merito di decostruire con spietato realismo la retorica
ufficiale del conflitto. Quest’ultima, secondo gli autori, trascura
deliberatamente un punto cruciale della questione israelo-palestinese,
un punto che, se coerentemente analizzato, può fare luce su una guerra
che viene presentata ufficialmente al mondo come uno scontro tra
“barbarie” e “civiltà”. Le tesi esposte nel testo – pur con la
diversità di vedute che emerge con chiarezza – si incentrano sulla
necessità di “un cambio di rotta” in grado non solo di smascherare
l’ipocrisia del lessico israeliano e dei suoi fedeli alleati, ma anche
di mettere a nudo gli attuali sistemi di diffusione delle informazioni.
Fin dalle prime pagine si intuisce che il messaggio di fondo è un
invito rivolto a tutti gli attivisti e ai movimenti di lotta per la
giustizia sociale affinché non indugino oltre su una questione che è
diventata ormai globale.
Per comprendere pienamente quella che, nell’introduzione
al saggio, Frank Barat definisce “epitome del male nel mondo”, è
necessario un nuovo criterio teso ad analizzare la realtà, piuttosto
che ignorarla. Un nuovo discorso e quindi un “nuovo approccio” alla
questione palestinese che non escluda il passato poiché, rimuovere
questo o ignorarlo, come sottolineano Noam Chomsky e Ilan Pappé, non
consente di cogliere il filo rosso che percorre l’intera questione
palestinese e il nesso fondamentale tra gli eventi e i loro tragici
effetti. Il viaggio a ritroso nella storia è dunque necessario perché
non solo dischiude gli scenari attuali, ma serve, come ribadiscono gli
autori, a comprendere meglio la natura del conflitto e la percezione
negativa che gli israeliani e gran parte dell’opinione mondiale nutrono
nei confronti dei palestinesi. Serve a comprendere che la radice del
terrorismo che non nasce dal nulla è l’unica strategia difensiva di chi
è stato privato della casa, della terra, della libertà e della propria
dignità. Lasciarsi alle spalle il passato e rivolgere il monito a
guardare avanti è, per Pappé come per Chomsky, l’arma che sfoderano i
potenti – tra questi “Barack Obama, il più etico dei presidenti al
mondo” (p. 176) – per “continuare a fare ciò che si è sempre fatto” (p.
60). Obliare il passato significa non solo tralasciare il futuro, ma
accettare la “posizione monolitica di chi gestisce il cosiddetto
processo di pace” (p. 59) procedendo, di fatto, ad una ostinata
rimozione dello stesso dal dibattito. Secondo il giudizio degli autori,
per la Palestina e per i palestinesi il passato non è così remoto,
risale, infatti, al “1948: la Nakba (‘la catastrofe’)” (p. 14),
nella quale affondano le radici le stimmate del presente. È proprio da
qui, da questa data, che la nuova narrazione deve partire se non si
vuole condannare all’oblio un’intera popolazione. Poiché ciò che è
accaduto ai palestinesi dal 1948 in poi deve definirsi, come rimarcano
gli autori, “non più una tragedia o perfino una catastrofe” ma un
crimine (p. 37) che non può restare impunito. Sulla scia di Edward
Said, Pappé è convinto che il movimento sionista sin dalle origini si è
posto come obiettivo la cancellazione del popolo palestinese, obiettivo
quest’ultimo che si è tradotto nel tempo in una sistematica strategia
politica.
Sostituire il paradigma della guerra con quello della pulizia
etnica significa quindi per gli autori non solo confrontarsi
moralmente e politicamente con questo crimine del tutto obliato nella
memoria collettiva mondiale, ma è il primo passo da compiere – anche se
doloroso – affinché la pace possa radicarsi in quelle terre dilaniate
dal conflitto e la costruzione di un futuro migliore non rimanga una
vana utopia. La nuova narrazione dovrà pertanto denunciare la natura
colonialista del sionismo e bollare Israele come “uno Stato razzista”
(p. 191).Tale denuncia è funzionale sia “per modificare la prospettiva
e la percezione a livello internazionale” (p. 67), quanto per gettare
una nuova luce sull’espansione ebraica in Israele che si configura come
una “versione moderna dell’ideologia e della retorica colonialista del
XIX secolo” (p. 68) alla quale è strettamente legata l’espulsione e lo
sterminio della popolazione indigena. Ciò che rende Israele una realtà
diversa dalle precedenti società coloniali insediative che attualmente
fanno i conti con i crimini del passato, lo dimostra il fatto che
“l’espropriazione è ancora in atto” (p. 67). Nella nuova versione di
colonialismo insediativo, il concetto di Stato ebraico, denunciano con
forza gli autori, “è un’anomalia che non ha eguali nel mondo moderno”
(p. 70). È un concetto che “serve a Israele per far tacere le critiche
allo Stato e alla sua ideologia” (p. 71), che assume ogni giorno di più
i contorni di un’ideologia razzista fondata sul suprematismo e
l’esclusivismo ebraico. Non si spiegherebbero perciò i divieti che pone
Israele ai rifugiati circa il ritorno nelle proprie terre. A questo
proposito gli autori si soffermano sui metodi tesi a “impedire, per
legge o con la forza, la commemorazione della Nakba e finanche
il suo riconoscimento” (p. 82), a ridurre Gaza nella più grande
prigione mai vista prima nella storia, fino a concepire la popolazione
indigena come non umana.
Diventa urgente, quindi, affinché la “la macchina di
distruzione sul territorio” (p.144) possa essere fermata, confrontarsi
anche con la “vecchia ortodossia pacifista” nel tentativo di elaborare
un nuovo linguaggio e dunque una nuova narrazione sul futuro della
Palestina. Nel contributo Le vecchie e le nuove conversazioni
che, come puntualizza Barat, è il “fiore all’occhiello del libro”, tale
da evidenziarne l’attualità in quanto “colma le lacune e apre il
dibattito al mondo” (p. 16), Pappé suggerisce a tutto il fronte
attivista e pacifista una ‘rivoluzione semantica’ che crei un nuovo
vocabolario teorico in grado di sostituirne gradualmente il vecchio e i
cui lemmi potranno “sviscerare il discorso dominante, sia di chi è al
potere sia del movimento di solidarietà alla Palestina” (p. 25). Il
nuovo vocabolario metterà “in discussione non soltanto le forze
egemoniche ma anche le convinzioni di molti palestinesi e dei
sostenitori più convinti della causa palestinese” (p. 24). Uno tra i
miti che la rivoluzione semantica dovrà sfatare è quella “fiducia quasi
religiosa nella soluzione a due Stati” (p. 25) che l’ortodossia
pacifista, in tutta buona fede, ha sempre auspicato quale unico
“obiettivo realistico da raggiungere con l’aiuto della diplomazia
internazionale” (p. 25). Sfugge ai più però, sottolinea Pappé, che il
linguaggio dominante – ribadito ad oltranza dall’industria mediatica
che giustifica questi crimini inserendoli in un orizzonte di strategia
difensiva – nasce “dagli ambienti delle scienze politiche americane e
serve a conformarsi alle posizioni degli Stati Uniti” (p. 26), fedeli
alleati di Israele. Espressioni quali: “processo di pace”, “conflitto
israelo-palestinese”, “negoziati”, “soluzione a due Stati” (p. 26), che
Pappé definisce come una versione contemporanea di 1984 di
George Orwell, sono orpelli destinati a mantenere lo status quo.
Per quanto caldeggiata dal fronte pacifista tradizionale in Israele,
dalle organizzazioni sioniste liberali di tutto il mondo e perfino
dalla sinistra europea, la posizione ortodossa, secondo Pappé, va però
sempre più perdendo terreno nella maggioranza degli attivisti.
Quest’ultimi, forti dell’ascesa del movimento BDS (Boicottaggio,
Disinvestimento e Sanzioni), del crescente interesse e consenso per la
soluzione “ad uno Stato multietnico” e del formarsi in Israele di un
esiguo fronte pacifista antisionista, cercano una nuova soluzione e “un
cambio di rotta paradigmatico per il movimento di solidarietà” (p. 29).
Il nuovo paradigma, il cui lessico si muove su tre diverse direttrici –
passato, presente e futuro – offre, secondo gli autori, all’opinione
pubblica mondiale non solo una diversa lettura della situazione
attuale, ma propone una differente prospettiva per il futuro. La nuova
narrazione che “sarà probabilmente bollata come antisemita dagli
israeliani” (p. 33), scorge nel passato lo stretto legame tra sionismo
e colonialismo e l’inevitabile parallelismo tra la Palestina e il
Sudafrica che, con le dovute differenze, qualifica lo stato di Israele
come uno Stato razzista e segregazionista che, al fine di realizzare
“il sogno di purezza etnica” (p. 41), deve disumanizzare le sue vittime.
Gli autori sono convinti che mettendo al centro del
problema l’espressione ‘pulizia etnica’, il nuovo vocabolario
dell’attivismo costringerà la comunità internazionale a confrontarsi
anche con l’idea di giustizia e con il fondamentale diritto degli
espulsi di ritornare nella propria terra, diritto del tutto ignorato
nei processi di pace. Se colonialismo, segregazionismo e pulizia etnica
sono i termini con i quali il nuovo linguaggio degli attivisti può
costituire l’impalcatura sulla quale si reggono il passato e il
presente della questione israelo-palestinese, occorre che il
vocabolario del futuro sia forgiato con termini quali:
“decolonizzazione”, “cambio di regime”, e, come insiste Pappé,
“soluzione a uno Stato” (p. 43). Questi concetti, nell’ottica risoluta
degli autori, avranno il compito di smascherare “l’immoralità e la
disonestà di molti illustri politici e politologi israeliani e
filoisraeliani occidentali” che asseriscono la natura democratica dello
Stato ebraico (p.47). Da qui l’obbligo di elaborare “l’interpretazione
sionista della partizione e, di recente, quella sionista liberale del
processo di Oslo” (p. 47), come una grande impostura che ha
legittimato, dal 1947 al 1993 sull’80 percento della Palestina,
l’imposizione dello Stato ebraico, razzista e segregazionista. Troppi
crimini, segnalano Chomsky e Pappé, sono stati commessi finora in nome
di quella realtà ingannevole a cui l’Occidente dà il nome di “proposta
di pace”. Ma nell’era di internet, “della stampa alternativa, della
mobilitazione della società civile, dell’impegno sempre maggiore delle
ONG” (p. 189), non è più tanto facile mettere in scena la farsa della
pace che la dice lunga “sull’universo morale e intellettuale degli
Stati Uniti e di tutto l’Occidente” (p. 155).
Scevro da ogni romanticismo, il
nuovo fronte dell’attivismo, come auspica senza esitazione Chomsky,
dovrà mettere in discussione l’ideologia e la validità etica dello
Stato ebraico, “fare pressione sugli USA perché interrompano il loro
ostracismo unilaterale verso l’accordo diplomatico” (p.128) e sostenere
una soluzione che restituisca dignità alle vittime e ai carnefici. Fare
in modo che il chimerico processo di pace “che ha creato vantaggi a
tutti coloro che vi partecipano” (p. 48) trasformando la Cisgiordania
in una prigione a cielo aperto e la striscia Gaza in “un carcere di
massima sicurezza” (p.188) gestiti da Israele, lasci il posto ad una
soluzione che non sia quella del Grande Israele, “un’entità mostruosa
in cui rimarranno pochissimi palestinesi” (p. 132). Se per Chomsky –
che non crede affatto nella realizzazione dello Stato unico – la
soluzione a due Stati può essere ancora un’ipotesi valida purché
ricalchi modelli “come il piano di Ginevra” (p. 125), per Pappé
sostenere la soluzione ad uno Stato “significa portare avanti
un’attività di militanza che convinca tutti a immaginare l’intera area
come un’unica terra e l’intera popolazione come un unico popolo”
(p.128). Utilizzando il titolo di una canzone di Cat Stevens, Peace
Train, che per Pappé riassume con slancio fiducioso tutto ciò che
ha sempre sognato, la pace è un treno che ci porterà tutti verso una
destinazione migliore e non un treno che travolge tutti nella sua corsa
verso la pace, quella dell’orizzonte attuale. Emerge con chiarezza che
il compito non sarà facile e richiederà ancora tempi lunghi, ma come
suggerisce Frank Barat, curatore del testo, “siamo tanti. Trionferemo.”
(p. 17)