2005

A. Stephanson, Manifest Destiny. American Expansion and the Empire of Right, Farrar, Straus and Giroux, New York 1995, trad. it. Destino manifesto. L'espansionismo americano e l'impero del Bene, Feltrinelli, Milano 2004

È noto come gli interventi militari, politici, diplomatici nonché economici degli Stati Uniti nella vita di altri paesi siano accompagnati dall'autoconvincimento degli stessi USA di essere la nazione eletta per la rigenerazione del mondo. Antonio Gambino (L'imperialismo dei diritti umani, Editori Riuniti, Roma 2001) ricorda che sia per il presidente Wilson sia per i suoi successori l'eccezionalità del loro paese e quindi il diritto di rivendicare per esso una posizione unica sulla scena internazionale, è un dato incontestabile. Ma anche i semplici cittadini degli Stati Uniti sono in maggioranza convinti, pare, di far parte di una società diversa e migliore di tutte le altre. E questo è sicuramente «un dato corposo, impossibile da ignorare» (Gambino p. 107). Talvolta la condizione di eccezionalità data dal considerarsi diversi e migliori è riconosciuta anche da occhi esterni che condividono il giudizio che gli Stati Uniti non «pensino di essere» bensì «siano» diversi e migliori, riconoscendone l'eccezionalismo nello «spirito del nomadismo, nella felice convivenza (sic) del Melting Pot, nella nascita dalla molteplicità» e imputandogli come unico vero errore l'«eccesso di democrazia».

Una delle manifestazioni dell'eccezionalismo americano - che altro non è che il mito nazionalista fondativo della nazione, come noi abbiamo Romolo e Remo e gli svizzeri Guglielmo Tell - è il concetto di «destino manifesto», cui è dedicato questo brillante e intelligente studio di Anders Stephanson. Il libro è stato originariamente pubblicato nel 1995, ma sembra scritto stamattina, e in ogni caso è attualizzato dalla postfazione dell'autore all'edizione italiana.

L'espressione «destino manifesto» - spiega Stephanson, professore di storia alla Columbia University di origini svedesi, fu coniata nel 1845 per giustificare l'espansione territoriale degli Stati Uniti sul continente americano e il genocidio degli indiani che la accompagnò. In realtà l'idea è di gran lunga precedente, giacché risale all'autoidentificazione dei Puritani col popolo eletto del Vecchio Testamento, portatore della luce divina e interprete della vera civiltà contro il Male della vecchia Europa. Nell'ideologia del destino manifesto i coloni erano indicati come il popolo predestinato a prendere possesso delle terre del continente americano in nome di varie ipotesi e teorie esposte da Stephanson, una delle quali, di epoca settecentesca e di chiara impronta fisiocratica, predicava la superiorità dell'agricoltura nei confronti del nomadismo (dato e non concesso che gli Indiani d'America fossero nomadi). Ora, il dovere morale di far fruttare la terra comporta il diritto dei coltivatori ad espropriarla a chi si limita a farvi pascolare il bestiame, perché gli indiani non hanno un vero diritto di proprietà sulle terre dove risiedono.

La ricerca di Anders Stephanson studia l'espressione del nazionalismo americano nel suo attribuirsi un ruolo non solamente profetico ma anche universale a guida dell'umanità. L'A. procede concentrando l'attenzione su due periodi storici caratterizzati da espansionismo territoriale e corrispondenti ad altrettanti capitoli del libro: gli anni '40 dell'Ottocento, con la conquista di metà del territorio messicano; e il periodo tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, con l'acquisizione dei possedimenti coloniali d'oltremare, tra cui la famigerata baia di Guantanamo. L'analisi storica è preceduta e seguita da considerazioni teoriche, tra le quali la più rilevante mi è parsa la seguente: che il concetto di «destino manifesto» non sia la causa per la quale gli Stati Uniti aggredirono il Messico o attaccano l'Iraq. Che sia però una giustificazione, anzi la principale giustificazione con la quale essi interpretano il loro ruolo nel mondo. Si tratta purtroppo di una giustificazione non soltanto adottata dalla retorica dei discorsi presidenziali, come si vedrà, ma anche diffusa nel senso comune, nonostante la presenza di critiche e scetticismi (cfr. Stephanson p. 137). Insomma, come se noi continuassimo a credere di essere un popolo di navigatori, di santi e di eroi guidati dall'uomo della provvidenza.

Nella nozione di destino manifesto convergono, come s'è visto, il protestantismo apocalittico come pure le antiche nozioni bibliche, riattualizzate dalla Riforma, sul ruolo di predestinato redentore della Terra promessa assegnato al popolo eletto da Dio. Come ben sintetizza Stephanson, siamo di fronte a un caso di destino provvidenziale rivelato. Dove all'idea del destino provvidenzialistico si attacca pure quella della translatio imperii [democratici], che afferma che la prerogativa di custodi della libertà e della democrazia è trasferita dalle mani dell'Europa, dove è nata (anche se Clinton sembra ignorarlo quando definisce gli USA la più antica democrazia del mondo) in quelle, non più disposte a mollarla, dei nipotini di Washington. Oltre a ciò, il mito nazionalista fondativo viene arricchito dal topos che vuole che libertà e movimento, dinamismo, trasformazione, progresso e democrazia siano prerogative dei popoli europei (poi per traslazione, appunto, cristiani, anglosassoni, occidentali) mentre i paesi «asiatici» (non cristiani, islamici e orientali) sono caratterizzati da attitudine alla servitù, passiva accettazione del dispotismo e della teocrazia, staticità, immobilità e assenza di storia (luoghi comuni ultimamente divulgati con impegno dai lividi pamphlet antiislamici di Oriana Fallaci).

Il fervore millenarista e il ruolo profetico degli Stati Uniti sfruttati nella fase dell'espansionismo territoriale non si fermarono davanti alla fine geografica del continente e della guerra contro gli indiani. Nel periodo della «guerra fredda» andarono a incarnarsi - continua Stephanson - nella lotta contro l'Impero del Male rappresentato questa volta dal comunismo, come nel periodo attuale, di «guerra al terrorismo», confluiscono nella lotta contro la personificazione del Male data dagli «stati canaglia» islamici e no, e dal terrorismo generico, quello deterritorializzato, che sta ovunque e da nessuna parte, e che offre il destro all'amministrazione statunitense per proclamare il proprio «diritto di ingerenza» che si traduce nell'interventismo illimitato e nel non tener conto delle norme legali internazionali. Stephanson individua e mette bene in rilievo la contrapposizione manichea di natura fondamentalista della lotta tra Bene e Male dove, se il bene sono gli USA, il Male è tutto ciò che in qualche modo ne ostacola l'affermazione, all'esterno e pure all'interno. Da questo delirio nazionalistico non sono immuni neppure i presidenti democratici. Basta leggere i Discorsi inaugurali di Bill Clinton (per cui cfr. Andrea Navoni e Diego Angelo Bertozzi, L'Ideologia dell'Impero della Libertà) per rendersi conto che anch'egli condivideva o almeno diceva di condividere l'idea della missione degli USA a condurre il mondo intero alla democrazia, magari coi bombardamenti, come quelli Nato sul Kosovo della primavera del 1999.

Vorrei concludere mostrando come l'analisi di Stephanson aiuti a comprendere ulteriori conseguenze della dottrina dell'eccezionalismo e del destino manifesto. Per esempio, la pratica di non permettere che militari americani colpevoli di crimini avvenuti all'estero siano giudicati dai tribunali del luogo in cui il crimine è stato commesso (vedi la strage della funivia del Cermis o quella di giovani bagnanti giapponesi, causata dall'emersione improvvisa di un sottomarino americano su una spiaggia pubblica), ma vengano sottoposti a giudizio (e assolti) da corti americane. Oppure il rifiuto degli USA di partecipare a tribunali internazionali. Infine, l'arrogarsi il diritto all'interventismo, di non sottostare ai provvedimenti dell'ONU, di violare, come a Guantanamo e ad Abu Ghraib, i diritti di uomini che proprio uomini non sono perché non vengono da un paese «eccezionale». Concludo prendendo a prestito dal libro di Stephanson le parole di un critico della dottrina del «destino manifesto», il senatore Pettigrew, che nel 1898 scrisse:

Sempre, nella storia..., il «destino manifesto» è stato l'assassino di esseri umani. Ha commesso crimini, ha contribuito all'oppressione e alle ingiuste sofferenze degli abitanti del mondo... Il «destino manifesto» ha consentito ai forti di rapinare i deboli e ha ridotto i deboli in schiavitù ... Il «destino manifesto» ha sempre spinto le repubbliche ad andare a conquistare le razze più deboli, sottomettendo i loro popoli alla schiavitù, imponendo tasse contro la loro volontà e infliggendo governi a loro odiosi. Il «destino manifesto» è semplicemente il grido del più forte per giustificare il saccheggio del più debole.

Francesca Rigotti