2005

P. Sloterdijk, Die letzte Kugel. Zu einer philosophischen Geschichte der terrestrischen Globalisierung, da Sphären II. Globen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 2001, trad. it. L'ultima sfera, Carocci, Roma 2002, pp. 181, ISBN 88-430-2169-9

Peter Sloterdijk è scrittore gagliardo, ironico e diretto. In Italia sono apparse le sue opere più importanti: Critica della ragion cinica (Garzanti 1992), e questo L'ultima sfera, per Carocci, nel 2002, ad un anno dall'uscita in Germania, traduzione del secondo dei tre volumi dell'opera originale. Sloterdijk è autore nuovo e vecchio: vecchio perchè è continuatore di un indirizzo filosofico che prende avvio da Foucault e dal suo uso del concetto nietzschiano di genealogia (ursprung) applicato alla storia; nuovo invece perché se ne fa interprete originale in un momento in cui apparentemente il pensiero del margine e la cultura minore sono arrivati al culmine della loro egemonia, paradossalmente rovesciando senso e finalità di categorie nate per aprire nuovi spazi e di cui invece si è appropriata la dittatura del pensiero unico.

Chiari emergono dalla lettura i problemi e gli scopi del volume: come costruire una grammatica filosofica della modernità che non conceda nulla alla unilateralità e violenza concettuale del pensiero liberista? E, conseguentemente, come portare all'eccesso i presupposti storico-concettuali della modernità, estremizzandoli al punto da renderli armi contro le loro stesse pretese totalizzanti di dominio? Sia chiaro, Sloterdijk in realtà non parla mai dei suoi avversari teorici, solo leggendo in controluce le sue parole si comprende contro chi è scritto questo volume: la tradizione ecumenica umanistica; la "falsa coscienza" redentrice cattolica, l'imperialismo progressista liberal-liberista e, coerentemente, la pesante e astratta dialettica marxista.

Sloterdijk predispone un articolato dispositivo tattico per aggredire le posizioni dell'avversario. La critica morale che rivolge implicitamente ai suoi avversari, come di solito sono quelle che si riferiscono ad una eterogenesi dei fini, è un espediente per forzarne le difese, per far breccia nelle sue palizzate. Una volta istallatosi all'interno del presidio nemico, comincia la sua opera di distruzione e nello stesso tempo di occupazione di spazi teorici, ricostruendo passaggio dopo passaggio l'affermazione della globalizzazione che, più che fenomeno contemporaneo, si identifica con la modernità. Assistiamo così a un mutamento decisivo nella scansione e organizzazione dello spazio, i cui simboli divengono l'oceano ed il navigare, secondo vettori di movimento: linee, direzioni, stasi e ripartenze, mete: l'oriente diviene il principio regolatore di un mondo che per la prima volta si evidenzia totale (e da qui l'uso del mappamondo) e nello stesso tempo locale (e quindi l'importanza delle cartine). Un mondo in cui più che la stasi della presenza, è la molteplicità degli attraversamenti che scopre panorami e realtà stratificate. Il sogno diviene il corollario necessario della "apertura ad oriente", l'immagine accompagna, qualifica e stimola il viaggio. L'immagine, la fascinazione fantasmatica, sono iscindibili dal progetto di conquista da cui nasce la globalizzazione, che spinge avventurieri a procacciare affari e fortuna in nuove terre. Nulla di nobile c'è nella "scoperta" dell'America di Colombo o nelle esplorazioni di Magellano. Nulla di "elevato" o scentificamente puro c'è nella nascita della scienza cartografica o nelle scoperte che seguiranno. La logica della scoperta è già di per sè una tattica di conquista che porta il segno della guerra. Pizzarro e Cortes, sono l'espressione compiuta della antropologia della globalizzazione: imprendiori-guerrieri che pianificano le tappe delle loro esplorazioni sul mero calcolo dei guadagni, e che non mettono le stragi neanche nel conto dei costi. Per questo la globalizzazione suona della liquidità e orizzontalità non tanto, o non solo, degli oceani, quanto del denaro. I luoghi, le geografie, le cartografie e i personaggi divengono i sintagmi di una nuova grammatica filosofica, sicuramente debitrice di Deleuze e Foucault, il cui testo è formato dai processi e dalle forze che attraversano - e colonizzano - lo spazio.

Sloterdijk, lavorando abilmente con il registro del paradosso e dell'ironia, strappa così la storia della modernità globalizzata alle altezze del progresso e dell'ecumene per abbassarla alla materialità della conquista dello spazio-mondo. La lettura di categorie prettamente moderne muta così radicalmente: la democrazia occidentale, che ora si rivela efficace istituzione di conquista; il cattolicesimo, che con taglio anarchico Sloterdijk legge come oppio degli oppressi; il razionalismo illuminato e laico europeo, potente strumento concettuale, filosofico, di riduzione della molteplicità ad unico principio. E in controluce traspare il salto concettuale che è contenuto centrale dell'opera: il decentramento del pensiero, possibilità di contatto con esperienze e storicità molteplici. Fare del pensiero un esperienza di relazione non definita e in costante costruzione, e quindi giocare fino in fondo il legame tra pensiero e storia, è il tentativo di una critica credibile alla crisi indotta dalla modernità. Il recupero indiretto della differenza culturale, della diversità dei luoghi e degli sguardi non è un'operazione di relativismo postmoderno, come purtroppo troppo spesso accade, ma è schierarsi a fianco di coloro che sono annichiliti dal desiderio di conquista totalizzante e guerresca della globalizzazione, praticando un pensiero che, sentendosi parte piuttosto che tutto, prende posizione.

Aldo Pardi