2006

A. Shachar, Multicultural Jurisdictions. Cultural Differences and Women's Rights, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 193, ISBN 0 521 776740

Il desiderio di rispettare le identità etniche, religiose e culturali di gruppi minoritari ha ispirato, a livello teorico e pratico, misure volte a riconoscere alle diverse culture una particolare autonomia in materie fondamentali per mantenere il loro nomos (secondo la definizione di Robert Cover, ripresa da Shachar), ovvero quell'universo normativo culturalmente specifico attraverso il quale si costruisce e si riproduce nel tempo l'identità collettiva di un gruppo (cfr. p. 2). I compromessi tra Stato e culture minoritarie richiesti dalle politiche multiculturali sollevano, tuttavia, un paradosso, il paradox of multicultural vulnerability: la protezione di diritti riconosciuti ai nomoi groups in materie controverse può tramutarsi in un peggioramento delle condizioni dei membri più deboli all'interno del gruppo minoritario, quali le donne e i minori. "Insomma - scrive Shachar - le stesse misure che sembrano attraenti in una prospettiva inter-gruppo possono operare sistematicamente a svantaggio di certi membri del gruppo da una prospettiva intragruppo" (p. 3). Per alcuni, questo paradosso non può essere sciolto; si deve abbandonare del tutto la prospettiva multiculturale e ritornare ad una visione universalista ed egualitaria della cittadinanza. Shachar non è d'accordo. Secondo quest'avvocatessa di origine israeliana, a lungo vissuta nella multietnica, multireligiosa e multinazionale Gerusalemme, una strada diversa è immaginabile: si tratta di trovare una forma di condivisione dell'autorità, ovvero per una forma di joint governance: "Lo si può fare - scrive Shachar - immaginando un'architettura totalmente nuova per dividere e condividere l'autorità all'interno dello Stato multiculturale, che incoraggi una forma di governo costituita dal dialogo tra diversi centri di potere non monopolistici, piuttosto che un'imposizione da parte di uno Stato o di un gruppo di funzionari «onnicompetenti»" (p. 88).

L'apporto di teorie quali quelle di Taylor, Young e Kymlicka, responsabili della giustificazione sul piano filosofico-politico del trend volto alla ricerca di soluzioni di compromesso incentrate sui gruppi, è stato carente in relazione al problema della posizione dell'individuo all'interno del gruppo; questione che appare particolarmente grave nel caso in cui lo Stato, per lasciare ampia autonomia decisionale ai gruppi minoritari, fa concessioni in un'area cruciale come quella della famiglia. In questi casi per le donne si pone un dilemma: o rimanere legate all'identità culturale del gruppo sacrificando i propri diritti, o vedere riconosciuti i propri diritti rinunciando alla propria identità etnica. Di fronte a questo dilemma, Susan Moller Okin sostiene con forza il bisogno di riuniversalizzare la cittadinanza: è necessario un liberalismo interventista che ponga fine al potere dei gruppi tradizionali sulle donne e i bambini. Per Kukathas, invece, il multiculturalismo ha dei costi inevitabili e di questo si può soltanto prendere atto. In sintesi, osserva Shachar: "Mentre i sostenitori dell'opzione per la «riuniversalizzazione della cittadinanza» sostengono che sarebbe meglio per i membri dei gruppi a rischio se le culture minoritarie si estinguessero, i proponenti dell'argomento dei «costi inevitabili» raggiungono la conclusione opposta: le tradizioni dei gruppi minoritari dovrebbero essere rispettate negando ad altri il diritto di intervenire nelle loro pratiche" (p. 71).

Dove aver proceduto ad una mappatura dei problemi e delle risposte finora formulate a livello teorico, Shachar compie un'interessante incursione sul terreno politico-istituzionale, analizzando le politiche volte a rispondere alle esigenze poste da particolari gruppi religiosi sperimentate in diversi paesi democratici: Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, India, Kenya e Israele. I modelli istituzionali esistenti ripropongono la stessa alternativa presentata a livello teorico da Okin e Kukathas: paesi come Francia e Germania hanno adottato un modello secolare nel quale conta solo l'identità di cittadino (i matrimoni religiosi, per esempio, non hanno valore sul piano giuridico); stati quali Kenya, Israele e India hanno adottato, invece, un modello religioso particolarista, che ha come effetto una diversificazione nel godimento di alcune fondamentali garanzie giuridiche. Sul piano costituzionale le donne israeliane, indiane e keniane godono degli stessi diritti di cittadinanza degli uomini, ma nella pratica i loro diritti fondamentali possono essere condizionati dalle tradizioni giuridiche familiari del loro gruppo etnico di appartenenza. In questi casi, "la conservazione delle distinzioni culturali dei gruppi normativi (nomoi groups) mediante compromessi multiculturali impone spesso costi pesanti all'interno del gruppo, che sono allocati in modo sproporzionato così da compromettere lo status di cittadinanza di certe sottosezioni del gruppo [...]" (p. 81).

Gli inconvenienti che soluzioni di particolarismo etnico o religioso possono comportare sono illustrati efficacemente nel libro attraverso l'esperienza di due donne: Julia Martinez, una pellerossa della riserva di Santa Clara (New Mexico), e Shah Bano, un'anziana donna indiana.

Il governo degli Stati Uniti riconosce agli amerindi della riserva di Santa Clara un'ampia autonomia nell'ambito della legislazione volta a conservare e salvaguardare le loro tradizioni etniche, religiose e linguistiche. La tribù stabilisce i criteri di appartenenza alla propria comunità ed esclude che possano essere riconosciuti come membri di diritto i figli di donne indiane sposate al di fuori della tribù stessa. Julia Martinez, una pellerossa puro sangue, nel 1941 sposa uno straniero e da lui ha dei figli, che educa i all'interno della riserva indiana, secondo le usanze e la lingua tradizionale. I figli di Julia, tuttavia, sulla base delle regole di appartenenza fissate dalla tribù, sono esclusi da tutti i diritti di assistenza sanitaria, educazione e abitazione riconosciuti agli altri pellerossa, e alla morte della madre rischiano di essere costretti ad allontanarsi dalla riserva. Nel 1970 Julia e la figlia Audrey decidono di fare appello allo Stato. Dopo un lungo iter giudiziario nel 1978 con la sentenza Santa Clara Pueblo v. Martinez, 436 US 49 (1978), la famiglia Martinez perde la propria battaglia legale (cfr. pp. 18-19); la sentenza, infatti, conferma l'autonomia legislativa garantita dagli Stati Uniti d'America alla tribù pueblo al fine di conservare la propria identità e cultura.

Un'analoga tensione tra diritti individuali e diritti culturali specifici è illustrato da Shah Bano, una anziana donna indiana vittima del diritto di famiglia islamico. Shah Bano, a settantre anni, priva di mezzi di sostentamento, viene lasciata dal marito, che, dopo quarantatre anni di matrimonio, ottiene unilateralmente il divorzio, concedendole solo tre mesi di alimenti come previsto dal diritto di famiglia islamico. Shah Bano decide di rivolgersi al tribunale di Stato indiano per vedersi riconosciuto il diritto agli alimenti; dopo una lunga battaglia legale, nel 1985 la corte suprema indiana le dà ragione con una discussa sentenza. La storia però non finisce lì: la minoranza conservatrice musulmana del paese vede in quella sentenza un atto egemonico della maggioranza indù e, a un anno di distanza, riesce a far votare in parlamento una legge che nei fatti priva le donne indiane di religione islamica del diritto di appellarsi alle corti statali per ottenere da parte del coniuge divorziato il rispetto di alcuni fondamentali obblighi, come l'obbligo al mantenimento della ex-moglie nel caso in cui essa sia priva di propri mezzi di sostentamento. In seguito all'emanazione del Muslim Women's (protection of rights of divorce) Act (1986), Sha Bano e le altre donne indiane di religione islamica si sono così trovate di fronte a una scelta tragica: "your culture or your rights"; una scelta in cui, considerati i costi umani che può comportare l'abbandono del proprio gruppo etnico, raramente l'esito può consistere nel rinnegare la cultura di appartenenza (cfr. pp. 81-83).

La contrapposizione tra le due alternative secche, illustrate fin qui sia a livello teorico che a livello politico-istituzionale, secondo Shachar, dovrebbe e potrebbe essere superata. Sarebbe sufficiente immaginare per i singoli gruppi culturali un livello maggiore di garanzie esterne e insieme una loro minore capacità di applicare restrizioni interne, attraverso una divisione di poteri su questioni quali l'educazione e il diritto di famiglia tra lo Stato e i gruppi, che superi ogni forma di monopolio, e lasci agli individui chiare opzioni circa l'autorità dalla quale desiderano essere governati in determinate materie. Strumenti di opt in e opt out potrebbero consentire "agli individui di funzionare sia come cittadini con diritti protetti dallo stato", sia come membri di comunità etniche (cfr. p. 86). Il principio di joint governance formulato da Shachar rappresenta senz'altro una proposta ingegnosa. La sua applicabilità, tuttavia, non appare così semplice e scontata. Stabilendo una giurisdizione condivisa tra lo Stato e i gruppi culturali il principio di "amministrazione condivisa" o "governo congiunto" crea un'eguaglianza tra autorità le cui fonti sono molto diverse tra loro - nel caso, dei gruppi culturali si tratta, infatti, di un'autorità vaga e incerta nel tempo e nello spazio - e rischia di riprodurre - come ha osservato Seila Benhabib - una sorta di "rifeudalizzazione della legge" (Benhabib 2004, p. 171), a scapito dell'eguaglianza giuridica dei cittadini.

Brunella Casalini

Riferimenti bibliografici:

  • Sheila Benhabib, La rivendicazione dell'identità culturale. Eguaglianza e diversità nell'era globale, il Mulino, Bologna 2004 (tit. or. The Claims of Culture, 2002), pp. 164-176.
  • Geoffrey Brahm Levey, Review of: Multicultural Jurisdictions:cultural differences and women's rights, by Ayele Shachar, "Political Studies", 50, 3 (2002), p. 588.
  • Bhikhu Parekh, Review of: Multicultural Jurisdictions: cultural differences and women's rights, by Ayele Shachar, "American Political Science Review", 96, 4 (2002), pp. 811-812